Tatiana accettò l’invito a cena di Edward, mentre Vikki si sarebbe presa cura di Anthony. Indossò una gonna blu e un maglione beige di lana merino ma, nonostante l’insistenza di Vikki, rifiutò di sciogliersi i capelli, che lasciò legati in una lunga treccia, né si truccò. Dopo aver infilato il cappotto ed essersi avvolta nella sciarpa, si sedette sul divano e aspettò con Anthony in braccio e un libro in mano.
“Che cosa ti preoccupa?” le chiese Vikki, che si agitava intorno a loro con una pila di giornali. “Vai sempre a pranzo con lui. Cambia solo il nome del pasto.”
“E l’orario.”
“Già, anche quello.”
Tatiana non aggiunse altro, fingendosi interessata al libro di Anthony.
Edward arrivò: era elegantissimo e Vikki si complimentò con lui. Anche Tatiana lo trovò bello. Edward era piuttosto alto, magro e compassato. Stava bene sia con l’abito sia con il camice da dottore. Aveva occhi seri, gentili. Insieme a lui, Tatiana si sentiva al contempo a suo agio e a disagio.
Edward la portò da Sardi’s, sulla Quarantaquattresima Strada. Tatiana ordinò un cocktail di gamberetti e una bistecca, seguita da torta al cioccolato e caffè.
Dopo un iniziale e imbarazzante silenzio, gli fece mille domande e ascoltò le risposte. Gli chiese di medicina e chirurgia, dei feriti, dei moribondi e dei malati, gli chiese degli ospedali in cui aveva lavorato e perché avesse deciso di diventare medico, se la sua scelta avesse ancora un significato per lui. Gli chiese dove fosse andato in America, e quale posto gli fosse piaciuto di più. Lo guardò dritto negli occhi e rise sempre al momento giusto.
E a un certo punto tra la torta e il caffè, mentre annuiva e ascoltava, la testa appena piegata da un lato, Tatiana si immaginò seduta a un tavolo, proprio come in quel momento, solo che il tavolo era più lungo e loro erano più vecchi e intorno al tavolo c’erano i loro figli, anzi le loro figlie.
Sussultò e chiese l’ora al cameriere. “Le dieci? Mio Dio, è tardissimo. Devo tornare da Anthony. Sono stata molto bene, grazie.”
Alquanto confuso, Edward la riaccompagnò a casa in taxi.
Per tutto il tragitto, Tatiana guardò fuori dal finestrino. Verso la Ventitreesima, Edward disse: “Come hai fatto a sopportarmi? Devo essere stato piuttosto noioso, ho parlato solo di me stesso”.
“Niente affatto”, replicò Tatiana. “È stato molto interessante. Come sai, adoro ascoltare.”
“La prossima volta parleremo di te.”
“Io sono noiosa. Non ho niente da raccontare.”
“Ora che vivi qui da un paio d’anni, che cosa ti piace dell’America?”
“La gente”, rispose lei senza esitare.
Edward rise. “Ma, Tania, tutti quelli che conosci sono immigrati!”
Lei annuì. “Veri americani. Sono a New York per le ragioni giuste. New York è grande città.”
“Che altro ti piace? Qual è la cosa che preferisci?”
“Il bacon”, disse lei. “Credo che mi piacciano le comodità. Tutto ciò che americani fanno, producono, creano, serve a rendere un po’ più facile la vita. Mi piace. Musica è piacevole, vestiti sono comodi. Coperte non pizzicano. Latte è dietro l’angolo. Anche pane. Scarpe vanno comode. Sedie sono morbide. Si sta bene, qui.” Guardò fuori dal finestrino mentre attraversavano la Quattordicesima. “Si dà tutto per scontato”, aggiunse piano.
Il taxi accostò davanti al suo palazzo. “Bene...” disse Tatiana.
“Tania”, replicò Edward con voce commossa, tendendole la mano.
Lei gli si avvicinò, gli posò un bacio sulla guancia e disse: “Grazie per la magnifica serata”, e scese in tutta fretta dal taxi.
“Ci vediamo lunedì”, disse Edward, ma lei era già nel portone, aperto all’istante e con deferenza da Diego della Romania.
Tania, Tania.
Lo sento che mi chiama.
Mi volto e lo vedo, ancora vivo, che chiama il mio nome.
Tania, Tania.
Mi volto, devo voltarmi e lui è lì, con l’uniforme e il fucile a tracolla, che mi corre incontro senza fiato.
Ancora così giovane.
Perché lo sento così chiaramente?
Perché la sua voce è un’eco nella testa?
Nel petto.
Nelle braccia e nelle dita, nel cuore che batte appena, nell’alito del mio respiro freddo?
Perché è così forte, assordante?
Di notte regna il silenzio.
Ma di giorno, tra la gente...
Cammino, sempre piano, mi siedo, sempre immobile, e lo sento chiamare il mio nome.
Tania, Tania...
Perché lo sento?
Non mi disse di ascoltare il vento stellare, di notte?
Sarò io, sussurrò, che ti chiamo.
A Lazarevo.
E allora perché adesso URLA?
Sono qui, Shura! Smettila di chiamarmi.
Non vado da nessuna parte.
Tania, Tania...
Una domenica pomeriggio, fredda e assolata, un’imbacuccata Tatiana, con Vikki e Anthony, usciva come al solito dal mercato su Second Avenue. Vikki chiacchierava, Tatiana l’ascoltava e stringeva le spalle di Anthony. Quel giorno lui voleva spingere il passeggino... nelle caviglie dei passanti. Vikki portava la spesa e non si faceva sfuggire occasione per lamentarsi dell’ingiustizia.
“Mi spieghi perché ti rifiuti di uscire di nuovo con Edward?”
“Non mi rifiuto”, rispose Tatiana con dolcezza. “Gli ho detto che ho bisogno di un po’ di tempo, di riassestarmi. Ma continuiamo a pranzare insieme.”
“Pranzare un corno. Non è come cenare, no? Edward sa riconoscere un benservito.”
“Non è un benservito. Solo un... servito... più tardi.”
Vikki aveva già cambiato argomento. “Tania, so che stasera vuoi il bacon, pane e bacon, ma stavo pensando che forse potresti fare qualcos’altro. Che ne dici di spaghetti e polpette?”
“Di che cosa sono fatti gli spaghetti?”
“Che ne so?”
“No, spaghetti sono fatti con farina.”
“Allora?”
“Polpette sono fatte di carne.”
“Allora?”
Tatiana non rispose. A metà dell’isolato successivo vide un’alta sagoma maschile. Strinse forte la manina di Anthony e scrutò tra la gente. Second Avenue era affollata e Tatiana piegò il capo, poi fece tre passi a destra e infine accelerò.
“Allora?”
“Cammina più in fretta. Mi scusi”, disse alle persone davanti a loro. “Mi scusi.”
“Che hai da correre? Tania! Non hai risposto alla mia domanda.”
“Domanda?”
“Allora? Era questa la mia domanda. Allora?”
“Anche spaghetti e polpette sono pane e carne. Mi scusi”, ripeté Tatiana alle persone davanti a sé, costringendo il figlio a correre più di quanto le gambette gli permettessero. “Su, piccolo, non perdiamo tempo.” Ma non guardava Anthony né Vikki né i passanti che scansava con il passeggino. A nessuno andava di farsi colpire le caviglie da una russa aggressiva, persino in un quartiere russo... soprattutto in un quartiere russo. Tatiana sentì commenti piuttosto scortesi nella sua lingua. “Presto, Vikki, presto.”
Prese in braccio Anthony, spinse il passeggino nelle mani già piene dell’amica e disse: “Devo...” Ma s’interruppe e cominciò a correre. Non poteva più attendere. Scese in mezzo alla strada e corse lungo il marciapiede, cercando di raggiungere due uomini a un isolato di distanza. Senza fiato, a furia di chiamarli, non sapeva cosa fare. Ansimante, con il cuore che le martellava nel petto, li raggiunse al semaforo e prima di parlare – non ce la faceva – posò la mano libera, quella con cui non reggeva Anthony, sul braccio del più alto e tentò di dire: Alexander? senza però riuscirci.
L’uomo era anche robusto. Tatiana tenne la mano sul suo braccio abbastanza a lungo da indurlo a voltarsi. Vide che lo fissava e le sorrise. Notando il suo sguardo, Tatiana avvampò e ritirò la mano, ma ormai era troppo tardi.
“Sì, dolcezza?” disse. “Che posso fare per te?”
Tatiana indietreggiò di un passo. Dimenticò l’inglese e cominciò a farfugliare qualcosa in russo. Poi passò a una lingua ibrida che neppure lei riconobbe. “Mi scusi, credevo che fosse un altro posto, cioè un’altra persona...”
“Per te, sarò quello che vuoi. Chi vuoi che sia, dolcezza?”
Vikki la raggiunse con il passeggino e le borse della spesa, rossa in viso e tutta scarmigliata. “Tania! Che cosa credi di...” Alla vista dei due uomini, però, s’interruppe e sorrise.
Quello più alto fece le presentazioni: si chiamava Jeb, e il suo amico Vincent.
Jeb aveva i capelli scuri, ma il viso era completamente diverso. Era il viso di Jeb. Non quello del marito di Tatiana. Ciononostante, quella domenica pomeriggio, così vicina a lui, che la guardava con occhi sorridenti, Tatiana provò una punta di desiderio. Un alito di desiderio.
Qualche minuto dopo, mentre si allontanavano, Vikki disse: “Tania, perché passi dalla carestia all’abbondanza? Ignori gli uomini per anni e poi abbatti le vecchiette per strada per inseguirne uno. Che cosa ti succede?”
Il giorno dopo Jeb telefonò.
“Sei matta?” le disse Vikki. “Gli hai dato il nostro numero? Non sai neppure dov’è stato.”
“Invece lo so”, rispose Tatiana. “In Giappone. Era marinaio.”
“Non capisco. Non lo conosci affatto. Sono due anni che cerco di farti uscire con Edward...”
“Vikki, non voglio che Edward sia il mio salvagente. È troppo buono per meritarselo.”
“Sono certa che lui non la pensa così. Vuoi che lo sia Jeb?”
“Non lo so.”
“Be’, io non lo trovo adatto a te”, dichiarò secca. “Non mi è piaciuto il modo in cui ti guardava. Non riesco a credere che, fra tutti gli uomini, tu abbia scelto proprio quello che non mi piace.”
“Ti piacerà.”
Ma non fu così. Tatiana si vergognava troppo della sua attrazione per Jeb per uscire sola con lui, perciò lo invitò a cena a casa.
“Che cosa gli preparerai? Uova e bacon? Un panino con bacon, insalata e pomodori? Oppure cavolo stufato... con bacon?”
“Cavolo stufato mi sembra ottima idea. Cavolo stufato e pane.”
Jeb andò a cena da loro. Vikki non sparì in camera sua nemmeno un istante e Anthony rimase tra i piedi tutta la sera. Alla fine Jeb se ne andò.
“Non mi è piaciuto il modo in cui ti guardava fin dal primo momento e ora mi piace anche meno”, dichiarò Vikki. “Non lo trovi arrogante?”
“Cosa?”
“Ti interrompeva ogni volta che aprivi bocca, non l’hai notato? Ha sempre il sorriso sulle labbra, quel furfante. E non dirmi che non hai notato come ha ignorato tuo figlio!”
“Come poteva ignorarlo? Grazie a te, Anthony ha passato l’intera serata sotto il tavolo!”
“Non credi che tuo figlio meriti un uomo migliore di Jeb?”
“Sì”, rispose Tatiana. “Ma lui non è qui. Che cosa dovrei fare?”
“Edward è migliore di Jeb”, ribatté Vikki.
“Allora perché non ci esci tu? È disponibile.”
“Non credere che non ci abbia provato!” disse Vikki. “Ma lui non è interessato a me.”
Vikki aveva ragione sul conto di Jeb. Era possessivo e arrogante.
Ma Tatiana non poteva farci niente: desiderava le sue forti braccia intorno a sé.
Pensò ad Alexander. In quella fantasia, creò per sé l’inferno come solo i veri masochisti sanno fare, la mantide maschio che striscia verso la femmina pur sapendo che, non appena lei avrà finito con lui, gli staccherà la testa e lo divorerà. Eppure continua a strisciare, a occhi chiusi, a cuore stretto, striscia verso i cancelli della vita e della morte e ringrazia Dio di essere vivo.
“Tania, mi perdonerai quando morirò?”
“Ti perdonerò tutto.”
Un paio di settimane prima di Natale, quando Tatiana andò a prendere Anthony da Isabella, la donna la fece sedere, le offrì una tazza di tè e disse: “Che cos’hai, Tatiana?”
“Niente.”
Isabella la scrutò.
Tatiana si guardò le mani. “Vorrei che aver fede fosse più facile.”
“Fede in cosa?”
“Nella vita, in me stessa. In quello che è giusto fare.” Non voglio dimenticarlo, voleva aggiungere.
“Mia cara, stai facendo ciò che è giusto”, disse Isabella. “Ciò che fanno tutte le donne dopo la morte del marito. Vanno avanti e hanno fede nella vita.”
“E se lui non fosse morto?” sussurrò Tatiana. “Ho bisogno di prove per aver fede.”
Isabella replicò: “Ma, tesoro, non credi che non si chiamerebbe più fede, se avessi le prove?”
Tatiana non rispose.
“Stringi i denti e va’ avanti”, aggiunse Isabella, “proprio come stai facendo.”
“Cara Isabella”, disse Tatiana, “come ben sai sono regina di denti stretti. Ma ogni giorno diventa più difficile.” Detesto ogni giorno che mi allontana da lui, pensava intanto.
“Ed è proprio allora che la fede serve di più: quando intorno c’è solo buio.” Isabella la guardò pensosa. “Tesoro, non va meglio, ora? Eri così triste quando sei arrivata a New York. Stai meglio?”
“Sì, Isabella”, rispose Tatiana. Da fuori, la sua vita era migliorata. Ma dentro c’era ancora la sua dannata medaglia al valore. E il dannato Orbeli.
“Ti sentiresti meglio se avessi altre prove oltre al certificato di morte?”
Tatiana non rispose. Che cosa poteva dire?
“Prega che sia morto, cara. Prega che riposi in pace, che non sia più tormentato. Non sta soffrendo. È libero. È il tuo angelo custode, si prende cura di te.”
“Isabella”, mormorò Tatiana. “Non dirmi che è morto perché, se ci credessi, sarebbe più difficile per me andare avanti... sapendo che con un solo proiettile potrei raggiungerlo.”
“Pensa che se tu morissi lasceresti orfano tuo figlio...” replicò Isabella.
“Be’, lui è morto e ha lasciato orfano suo figlio.”
“Se ti aiuta, allora credilo ancora vivo.”
“Se è ancora vivo, come posso andare avanti con la mia vita?” Emise un gemito talmente doloroso che Isabella impallidì e allontanò la sedia da quella di Tatiana.
“Oh, Tania”, sussurrò poi. “Vorrei tanto aiutarti. Che cosa posso fare?”
Tatiana si alzò. “Non puoi fare niente.” Poi chiamò Anthony e raccolse la borsa dal pavimento. “Dev’essere bello vedere le cose così chiaramente. Perché no? Tu stai ancora con Travis. Per te aver fede è facile. Hai la prova vivente proprio qui.”
“Anche tu... eccola”, ribatté Isabella indicando Anthony, che uscì dal suo nascondiglio, saltò fra le braccia della madre e disse: “Mamma, voglio ggelatto per cena”.
“D’accordo, tesoro”, rispose Tatiana.
E fu così.
“Mamma, perché Timothy ha il papà e perché Ricky ha il papà e anche Sean ha il papà?”
“Tesoro, che cosa vuoi sapere?” Stavano andando alla scuola vicino al Battery Park. Per Anthony, era la seconda settimana all’asilo. Tatiana era decisa a fargli conoscere dei coetanei. Pensava che il figlio passasse troppo tempo con gli adulti. Soprattutto con Isabella. La sua fronte cominciava ad assumere un cipiglio da vecchio saggio che non le piaceva. Parlava troppo bene, era troppo pensieroso, troppo serio per essere un bambino di due anni e mezzo.
E ora quella domanda.
“Perché io non ho il papà?”
“Amore, tu hai papà. Solo che lui non è qui. Proprio come papà di Mickey, papà di Bobby e anche papà di Phil. Loro papà non sono qui e loro mamme si prendono cura di loro. Tu sei fortunato. Tu hai mamma, Vikki e Isabella...”
“Mamma, quando tornerà papà? Il papà di Ricky è tornato. La mattina lo accompagna a scuola.”
Tatiana fissò davanti a sé.
“Ricky ha chiesto che il papà tornasse per Natale. Forse posso farlo anch’io.”
“Forse”, sussurrò Tatiana.
“La guerra è finita”, disse Anthony. “Perché non torna a casa, se la guerra è finita?” Davanti alla scuola, non permise alla madre di baciarlo né di accompagnarlo all’interno. Raddrizzò le spalle, corrugò la fronte seria ed entrò da solo, portando con sé il cestino del pranzo.
Le quattro fasi del dolore. Prima c’era stato lo choc. Poi il rifiuto. Che durò fino a quella mattina. Durante la giornata, fu la volta della fase seguente. L’ira. Quando sarebbe arrivata la rassegnazione?
No, niente rassegnazione. Avrebbe optato per il sollievo. Quando sarebbe sopraggiunto il sollievo?
Era in collera con lui. Alexander sapeva bene che lei non voleva vivere senza di lui. Sapeva che non le interessava. Pensava forse che sarebbe stata meglio in America, tra apparecchi postbellici, radio e la promessa di una televisione, di quanto non sarebbe stata in un gulag?
Un momento. E Anthony? Il bambino non era uno spettro. Era vero, sarebbe cresciuto nell’indifferenza. Che cosa ne sarebbe stato di lui?
Scrutò l’acqua del porto. Che aspetto a tuffarmi e nuotare, nuotare come l’ultimo pesce dell’oceano verso l’inverno e acque più fredde? Nuoterei sempre più piano e poi mi fermerei e forse, sull’altra sponda della vita, lo troverei ad aspettarmi con la mano tesa, che mi chiede: perché ci hai messo così tanto a venire da me, Tatia? Ti aspetto da sempre.
Si allontanò dal bordo del traghetto. No. Sull’altra sponda mi sta guardando, scuote la testa e mi dice: Tania, pensa ad Anthony, è un figlio perfetto. Sei fortunata a poterlo toccare. Quanto vorrei poterlo fare anch’io. Ovunque io sia... sappi che è quello che penso. Quanto vorrei poter toccare mio figlio.
Si chiuse in se stessa, nello spazio in cui viveva la vera Tatiana Metanova. Entrò, chiuse la porta e si sedette sul pavimento con lo zaino nero. In quella stanza non ci sono Anthony, Isabella, Vikki, Edward, Jeb. Ci sono solo Tania e Shura che nuotano nel Kama, fanno a gara a chi afferra per primo un pesce persico con le mani. Alexander vince sempre. È veloce come un lampo e ci vede bene sott’acqua.
Ci sono solo Tania e Shura. Lei gli insegna a fare la pastella per le frittelle ma lui non guarda, perché fissa lei, e lei gli dice: “Shura, quante volte devo spiegartelo?” E lui mormora: “Questa è solo la terza, secondo i miei calcoli. Non posso farci niente. Sei molto interessante, quando cucini”.
“Shura...”
Ma è troppo tardi. La pastella viene messa da parte.
Tatiana sbatte con forza la porta di quella dannata stanza. La odia. Vorrebbe averla bruciata a Stoccolma. Tutto il resto era finito in cenere, perché quella no?
Anthony aveva bisogno della madre. Non poteva restare orfano, né in America né in Unione Sovietica, La madre non poteva abbandonarlo. Quel bambino dolcissimo, con le mani appiccicose di gelato, la bocca che sapeva di cioccolata e i capelli scuri. Tatiana soffriva ogni volta che li guardava, ogni volta che toccava quei capelli scuri.
“Shura, lascia che ti lavi i capelli”, dice sedendosi a terra e ammirando la radura.
“Tania, sono puliti. Li abbiamo lavati stamattina.”
“Dai, ti prego. Andiamo a nuotare. Lascia che te li lavi.”
“Va bene. Solo se laviamo anche...”
“Puoi fare tutto quello che vuoi. Vieni con me.”
Soffriva ogni volta che guardava il figlio.
Quella notte, Tatiana uscì sulla scala antincendio, senza cappotto né cappello, e si sedette in silenzio a respirare l’aria fredda dell’oceano. Aveva un profumo buonissimo. New York... era la seconda città più bella del pianeta.
New York, che ogni giorno pulsava come se fosse il cuore del mondo. Niente oscurità, di notte. I palazzi erano illuminati come fuochi d’artificio perenni. Non c’era strada che non brulicasse di gente, né viale in cui gli uomini non sedessero in cima ai pali telefonici o elettrici o scavassero buche per espandere, sistemare nuovi tubi, appendere nuovi fili, ampliare la ferrovia sopraelevata. Il costante rumore metallico della costruzione, ogni giorno dalle sette del mattino, insieme alle sirene e agli autobus, ai clacson e ai taxi. I supermercati erano pieni di merce, i bar di ciambelle, i ristoranti di bacon, i negozi di libri, dischi e macchine fotografiche Polaroid, la musica filtrava ogni sera dai bar e dai locali e gli amanti, anche loro sotto gli alberi, sulle panchine, amanti in uniforme, in vestito, in camice da dottore e con scarpe da infermiera. E in Central Park, dove andavano ogni fine settimana, su ogni filo d’erba c’era una famiglia. Nel lago c’erano centinaia di barche, di giorno.
E poi c’era la notte.
Nell’oceano, con il braccio teso verso Dio, c’era la Statua della Libertà e sulla scala antincendio Tatiana. La notte del primo dell’anno, la notte di Natale, la notte del 23 giugno, la notte del 13 marzo, Tatiana sedeva sulla scala antincendio verso le tre e ascoltava, ascoltava l’oceano per sentire il respiro di un uomo.
I tizzoni ardenti si stanno spegnendo. Lui è esausto. Non è solo esausto, ma addormentato. E sempre su di lei. È sfinito e, spossato, le ha fatto qualche coccola poi si è addormentato. Lei non cerca neppure di spostarlo. È pesante, che gioia. È su di lei, così vicino. Tatiana riesce a sentire il suo profumo e gli bacia i capelli umidi e la guancia ruvida. Gli accarezza le braccia. Per lei è peccaminoso amare così tanto le sue braccia muscolose. “Shura”, sussurra. “Mi senti, soldato?”
Non dorme e lo culla a lungo, lo ascolta respirare; i ceppi nel camino diventano cenere. Tatiana sente il rumore della pioggia, fuori, e il vento tra i salici, mentre dentro l’aria è calda, dolce, accogliente. Ascolta il suo respiro felice. Quando dorme, Alexander è ancora felice. Non è assillato da brutti sogni, dalla tristezza. Quando dorme, non è tormentato. Respira. Sereno. Soddisfatto. Vivo.
La cosa più difficile era andare avanti. Ogni mattina Tatiana portava il figlio all’asilo e poi andava a Ellis a curare gli immigrati. Tatiana sperava che il vento del porto le parlasse, ma non udiva niente, sperava che il Dio di Alexander le parlasse, ma anche lui taceva.
Non era della sua vita che si lamentava. In fondo, lei aveva tutto ciò che serviva ad andare avanti.
L’inizio non era stato facile, ma perché il presente era persino più avvilente? In superficie c’era così tanto, ma sotto quella superficie Tatiana sentiva che si stava ambientando come se, come se...
Chiudeva gli occhi e immaginava una vita...
Senza di lui.
Immaginava di dimenticarlo.
La guerra era finita.
La Russia era finita.
Leningrado era finita.
E anche Tatiana e Alexander erano finiti.
Un tempo aveva avuto tutto, ma ormai conosceva le parole per ottundere i sensi. Parole inglesi, un nome nuovo e, ad avvolgerla come una calda coperta, una nuova vita in una sorprendente, smodata e vibrante America. Un’identità nuova di zecca in un immenso Paese dorato. Dio aveva cercato di renderle più facile la vita senza Alexander. Ti dono tutto questo, le disse Dio. Ti dono la libertà e il sole ogni giorno, il calore, il conforto. Ti dono le estati a Sheep Meadow e a Coney Island, ti dono Vikki, la tua amica del cuore, Anthony, il tuo figlio adorabile, Edward, nel caso in cui tu voglia di nuovo l’amore. Ti dono la giovinezza e la bellezza, nel caso in cui tu voglia essere amata da qualcuno che non sia Edward. Ti dono New York nel suo momento di gloria. Ti dono le stagioni e il Natale! Il baseball, i balli, le strade asfaltate, il frigorifero, un’auto, un terreno in Arizona. Ti dono tutto questo. Ti chiedo soltanto di dimenticarlo.
A capo chino, Tatiana acconsentì.
Passò un’altra settimana, piena di lavoro, di persone nei cui occhi vedeva quanto significasse per loro, piena di Edward, nei cui occhi vedeva quanto significasse per lui, e piena di Vikki, della benedetta, impossibile Vikki. Nei suoi occhi Tatiana vedeva costantemente quanto significasse per lei. Andarono al cinema e agli spettacoli di Broadway, frequentarono le lezioni di infermieristica all’università. Tatiana indossò tacchi alti e un bel vestito e andò da Ricardo’s, e fu lì che capì di aver vissuto un’altra settimana come avrebbe dovuto, come se Alexander stesse finalmente diventando... distante.
La polvere stellare si posò. Ma ogni mattina Tatiana prendeva il traghetto per Ellis e, mentre attraversava le acque del porto, vedeva una sola cosa.
Non un secondo, un terzo, un quarto, un quinto amore. Niente musicisti, Ricardo’s, Vikki, Jeb, felicità. Vedeva gli occhi di Alexander, che le mostravano quanto avesse significato per lui. Ogni giorno di oblio, di mancanza, era un’altra giornata in cui gli occhi di Alexander le dicevano quanto avesse significato per lui.
L’America, New York, l’Arizona, la fine della guerra, la febbrile ricostruzione, il boom demografico, i balli, i suoi tacchi alti, il rossetto sulle labbra... quanto lei avesse significato...
Per lui.
Che cosa avrebbe avuto, se avesse significato di meno? Niente. Avrebbe avuto l’Unione Sovietica. Il Quinto Soviet, due stanze rettangolari e un passaporto per viaggiare solo in Patria, magari una dacia dove passare l’estate, per il figlio. Sarebbe stata per sempre la quinta della fila, intenta a tirarsi il cappello imbottito sulle orecchie nella tormenta.
Ogni giorno in cui dimenticava era un’altra giornata di rimorso. Come puoi dimenticarmi, pensava che Alexander le dicesse, quando sono stato io a darti tutto questo? Come puoi dimenticarmi così in fretta, quando ho pagato per te con la mia stessa vita?
In fretta?
Cominciava a stancarsi persino di se stessa. In fretta.
Sabbie mobili nella terra.
Argento vivo nell’acqua.
In fretta, in fretta, in fretta, dimenticalo per poter andare a letto con Jeb. Dimentica, Tania, per poter andare a letto con il tuo terzo, quarto, quinto amore: Alexander è morto. Evviva.
I mesi, i mesi, i mesi, i mesi.
Alexander, Alexander, Alexander, Alexander.
Tania, Tania...
Sei tu, lo so, sei lo spietato cavaliere che mi chiama, mi chiama a...
Lazarevo...
Abbiamo vissuto nell’estasi e nell’abbandono come se, persino allora, sapessimo che doveva bastarci per tutta la vita.
Vedi il nostro letto spiegazzato, la nostra lampada a cherosene? Vedi il bollitore pieno d’acqua che facevo bollire per te e il tavolo da lavoro che avevi costruito per me e per le patate che non abbiamo mai cotto, per la torta di cavolo? Vedi le sigarette che ho arrotolato per te e i vestiti che ho lavato per te e le mie mani su di te, le mie labbra su di te, il mio orecchio premuto contro il tuo petto, per ascoltare il battito del tuo cuore? Dimmi, vedi tutto questo davanti a te, intorno a te, dentro di te?
Dio ti protegga se sei vivo, implacabile Alexander.
Ma se sei il mio angelo custode non venire qui, non seguirmi fino alle montagne Superstition, non venire dove tutto intorno a me è buio, freddo. Io vivo nel deserto, guardando i venti e i fiori selvatici in primavera.
Non andare lì.
Vieni con me nel luogo in cui volo, seguimi sugli oceani, sui mari e sui fiumi che ci separano, prendi la mia mano e lascia che ti guidi giù tra gli alberi, tra gli aghi di pino, per bagnarci i piedi nel Kama mentre il sole fa capolino da dietro le vette spoglie degli Urali per prometterci un’altra giornata, una giornata in meno, ogni alba per ventinove volte, un giorno in più, un giorno in meno, per poi sparire. Vieni con me nel fiume, nuota con me fino all’altra sponda contro la corrente impetuosa. Tu nuoti preoccupato, temendo che io venga trasportata nel Mar Caspio. Io grido nuota più veloce, più veloce, e tu sorridi e nuoti più veloce, guardandomi. Sei sempre più avanti, con il viso luminoso rivolto verso di me. Vieni lì con me per un’altra mattina, un altro falò, un’altra sigaretta, un’altra nuotata, un altro sorriso, un altro, un altro, un altro, alskär in quell’eternità che chiamiamo Lazarevo, mio Alexander.