42

NEW YORK, GENNAIO 1946

Il primo dell’anno, con l’occhio ancora gonfio e dei colori dell’arcobaleno, Tatiana andò come al solito a pattinare sul ghiaccio in Central Park con Vikki e Anthony.

Sulla via del ritorno, mentre camminavano verso la Cinquantanovesima per prendere l’autobus, si sentì osservata da Vikki.

“Che cos’hai da guardare?”

L’amica non rispose.

“Che c’è?”

“Abbiamo superato tre cabine telefoniche.”

“E allora?”

“Non mi chiedi di badare ad Anthony per qualche minuto per correre a fare la solita telefonata?”

Tatiana fissò la Fifth Avenue.

“No”, rispose. “Credi che a Edward vada di uscire ancora con me?”

Vikki sorrise raggiante. “Credo che sarà al settimo cielo.”

 

Nella mensa dell’ospedale Tatiana ed Edward mangiavano zuppa e sandwich al tonno. Lei adorava il tonno con maionese, lattuga e pomodori. Non l’aveva mai mangiato, prima di arrivare in America. E neanche la lattuga.

“Tania, ti hanno fatto un occhio nero di recente?”

Era un medico, non gli sfuggiva niente. Meglio ricordarselo. “Ho inciampato e sono caduta. Non è niente. Ehi”, aggiunse allegra, prendendogli la mano. “Pare che Il romanzo di Mildred sia un capolavoro. Ti va di andare a vederlo?”

“Certo. Quando?”

“Che ne dici di venerdì sera? Vieni a casa mia dopo il lavoro. Mangiamo qualcosa e poi andiamo.”

Edward ci pensò su. “Vuoi che venga a casa tua di sera?” si stupì.

“Sì.”

Osservò la mano di Tatiana sulla sua e poi la guardò negli occhi. “Dev’esserci qualcosa di molto grave, sotto. Che cos’è? Hai scoperto che ti restano solo cinque giorni di vita?”

“No”, rispose Tatiana. “Ho scoperto che mi restano settant’anni.”

 

Il giorno seguente, mentre Tatiana si trovava nell’infermeria di Ellis a riempire i moduli per un rifugiato polacco, un’altra infermiera entrò e le sussurrò: “Fuori c’è una persona che vuole vederti”.

Senza sollevare gli occhi dal foglio, Tatiana chiese: “Chi?”

“Non l’ho mai visto. Dice di essere del Dipartimento di Stato.”

Tatiana alzò di scatto la testa.

Nel corridoio l’aspettava un elegante Sam Gulotta.

“Ciao, Tatiana”, la salutò. “Come stai? Hai passato un bel primo dell’anno?”

“Sto bene, grazie, e tu?” rispose lei senza riuscire ad aggiungere altro e allungando appena la mano, nella speranza che Sam non lo notasse, per appoggiarsi alla parete alle sue spalle.

“Mi aspettavo la tua telefonata.”

Tatiana scrollò le spalle. “Non volevo infastidirti. Sei stato molto paziente con me, in questi anni...”

Sam guardò il corridoio. “C’è un posto in cui possiamo parlare?”

Uscirono e si sedettero su una panchina accanto alle altalene dove Anthony era solito giocare.

“Speravo che mi chiamassi”, disse Sam.

“Che è successo?” domandò lei. “Mi stanno ancora cercando?”

Lui scosse la testa. Le dita bianche di Tatiana erano avvinghiate alla panchina. Per fortuna, il freddo avrebbe giustificato il battito dei denti.

“Che c’è?” sussurrò. “Hai qualche informazione per me? È morto?”

“Ho delle informazioni. È in corso un’inchiesta sul suo dossier. Come sempre, è finita al Ministero sbagliato, quello degli Esteri, che lo ha inoltrato all’Ufficio del popolo, dei rifugiati e dell’emigrazione. Lì hanno detto che non rientrava nella loro giurisdizione e l’hanno mandato al Ministero della Giustizia e all’Ufficio esecutivo per il riesame dell’immigrazione.” Sam scosse la testa. “Qualcuno dovrebbe spiegargli la differenza tra immigrazione ed emigrazione...”

“Sam”, fu tutto ciò che Tatiana riuscì a dire.

“Sì. Cercavo solo di spiegarti la burocrazia del nostro governo. Tutto si muove secondo ere geologiche. Ti illustro l’oggetto dell’indagine: è piuttosto semplice. Un soldato americano, un certo Paul Markey della 273a divisione, l’estate scorsa ha contattato il Dipartimento di Stato chiedendo informazioni su un americano di nome Alexander Barrington.”

Tatiana oscillò e sprofondò nella panchina.

Rimase a lungo in silenzio.

“Tania?”

“Sì?” Con una voce che non era la sua, Tatiana domandò: “Sam, chi è il soldato Markey?”

“Viene da Des Moines, Iowa, ha ventun anni e da tre è nell’esercito. Una settimana fa ho chiamato casa sua e ho parlato con la madre.” Sam abbassò la testa. “È tornato l’estate scorsa dall’Europa dopo il congedo. Immagino che l’indagine sia partita allora. Temo di avere brutte notizie. A ottobre si è tolto la vita.”

Tatiana inspirò e batté le palpebre. “Mi dispiace, ma... cioè, chi è Paul Markey? Dove si trovava?”

“A parte l’indagine, che ha richiesto per telefono, non so niente di lui.”

“Con chi ha parlato?”

“Con una donna di nome Linda Clark.”

“È possibile parlare con lei?”

“L’ho già fatto. È lei che mi ha riferito la conversazione.”

Tatiana trattenne il fiato.

“Paul Markey le ha detto che quando il suo reggimento ha liberato il castello di Colditz – una fortezza usata come campo durante la guerra – il 16 aprile 1945, tra le centinaia di ufficiali alleati c’erano anche alcuni ufficiali sovietici... cinque o sei. Uno di loro si è avvicinato a Markey e gli ha chiesto aiuto con un impeccabile accento inglese. Gli ha detto di essere un americano di nome Alexander Barrington e gli ha chiesto di verificare la sua storia e di aiutarlo.”

Tatiana cominciò a piangere. Le tremavano le spalle e le lacrime le scorrevano fra le dita con cui si era coperta il viso. Sam le posò una mano sulla schiena e l’accarezzò dolcemente.

Qualche minuto dopo, lei si calmò. “Sapevo che mi aveva mentito. Lo sapevo”, sussurrò. “Lo sentivo. Non ne avevo le prove, ma lo sentivo.”

“E il certificato di morte?”

“È falso.” Respirò ed emise un gemito di dolore. “Perché lasciassi l’Unione Sovietica. Com’è finito a Colditz da Leningrado?”

“Te l’ho già detto. È stato messo in un battaglione penale. Quando l’esercito russo ha scacciato i tedeschi dall’Unione Sovietica, lui era con il suo battaglione. Poi è finito nel campo di prigionia di Colditz. Vuoi che ti riferisca quello che Markey ha detto a Linda Clark?”

“Sì”, rispose Tatiana con un singhiozzo. “Che cosa è successo agli uomini che sono stati liberati?”

“Sono tornati tutti a casa, tranne i sovietici. Markey ha detto che la mattina dopo la liberazione, il 17 aprile, un convoglio russo è entrato a Colditz per prelevare gli ufficiali sovietici, compreso quell’uomo.”

“E dove li hanno portati?”

“Markey non lo sapeva. Ha detto a Linda Clark di essere tornato negli Stati Uniti in estate e di aver telefonato per curiosità. A ottobre, l’Ufficio per gli affari consolari lo ha contattato per informarlo che in effetti Alexander Barrington era nato negli Stati Uniti, ma dal 1930 risiedeva in Unione Sovietica. La madre di Markey mi ha detto che tre giorni dopo il figlio si è tolto la vita.”

Prima di replicare, Tatiana cercò di controllare la voce. “Che razza di liberazione è questa?” disse infine. “Gli americani hanno liberato Colditz. Perché non sono stati liberati anche i sovietici? Perché il giorno dopo erano ancora lì?”

Sam non rispose.

Tatiana sollevò lo sguardo e si asciugò il viso. “Sam?”

“Che c’è?”

“Credevo di averti fatto domanda retorica, ma dal tuo silenzio immagino che ci sia risposta.”

Lui non parlò.

“Sam!”

“Perché fai così? Che cosa vuoi?” Sospirò lui. “Va bene. Questo è quello che ho sentito. Non posso confermarlo né smentirlo, ma al Dipartimento di Stato, e soprattutto al Ministero della Difesa, gira voce che agli americani è stato ordinato di trattenere lì gli ufficiali e i rifugiati sovietici finché non fosse arrivata l’Armata Rossa a prenderli.”

“Perché?”

“Non lo so.”

“Da dove arrivava quest’ordine?”

“Da alti ranghi.”

“Quanto alti?”

Sam restò in silenzio per qualche istante. “I massimi”, disse infine.

 

Quella sera Tatiana tornò a casa e annunciò: “Vikki, dobbiamo fare un viaggetto”.

Vikki si lasciò cadere sul divano. “Oh, no! Ogni volta che dici viaggetto mi porti incredibilmente lontano. Dove andiamo questa volta?”

“In Iowa. Povero Edward. Temo di dover rimandare il nostro appuntamento.”

“Iowa? No, mi rifiuto. Vacci da sola. Io non vengo e non viene neanche Anthony. Ci rifiutiamo. Mi hai sentita?”

 

Affacciata al finestrino del treno Vikki stava dicendo ad Anthony: “Guarda com’è bello, qui. Ci sono tanti campi. Che cosa credi che coltivino in questi campi, Anthony?”

“Grano”, rispose lui. “Mais.”

Vikki guardò Tatiana, che fingeva di essere immersa in un libro. “Anthony, come fai a saperlo?”

“Me l’ha detto la mamma. Campi di grano, campi di mais.”

“Oh.”

Tatiana sorrise.

La città di Des Moines sorgeva tra quei campi. A gennaio, nell’Iowa faceva molto freddo. Vikki non se l’aspettava. “Perché pensavo che qui facesse caldo? Perché la considerano un’area soggetta a siccità. Come può esserci siccità a queste temperature polari?”

“Non si riferiscono all’inverno, Vikki”, spiegò Tatiana abbottonandosi il cappotto. “Su, prendiamo un taxi.”

“Tu e i tuoi taxi. Questa persona ci aspetta?”

“Le ho scritto.”

“E lei ti ha risposto?”

“Non proprio.”

“Non proprio? Esiste una via di mezzo in questi casi? Ti ha scritto o non ti ha scritto?”

“So che l’avrebbe fatto, ma noi siamo partite così presto che non ne ha avuto il tempo.”

“Capisco. Quindi stiamo per piombare, senza invito, nella fattoria di una vedova che ha appena perso il figlio?”

 

La piccola fattoria dei Markey si trovava alla periferia di Des Moines. Il silo vicino era coperto da cumuli di neve e dava l’impressione di non essere usato da tempo. La porta di casa fu aperta da una donna esile e pallida che però sorrise e disse: “Tatiana? Entra. Ti aspettavo. Sono Mary Markey. Lui è tuo figlio? Anthony, vieni con me”. E gli tese la mano. “Ho appena fatto dei muffin di mais, aiutami a servirli. Ti piacciono i muffin di mais?”

Vikki e Tatiana li seguirono in cucina mentre Vikki sussurrava: “Come diavolo fai?”

“Prego?”

“Come fai a piombare in casa di estranei e a farti accogliere come se ti conoscessero da una vita?”

La vecchia cucina era linda e semplice. Si sedettero al tavolo di legno, con davanti una tazza di caffè e i muffin. Poi Vikki portò Anthony a giocare con la neve. Mary strinse la tazza e cominciò: “Tatiana, vorrei aiutarti. Da quando mi hai scritto ho cercato di ricordare quello che mio figlio mi ha detto. Cerca di capire, non lo vedevo da tre anni, e quando è tornato era molto riservato. Sia con me sia con i vecchi amici, con il mondo intero. La ragazza con cui usciva ai tempi della scuola si è sposata con un altro. Quale ragazza è disposta ad aspettare così a lungo? Perciò Paul se ne stava seduto qui oppure prendeva il furgone e andava al bar. Diceva di voler riaprire la fattoria, ma essendo morto il padre la cosa sembrava improbabile”. S’interruppe e Tatiana aspettò. “Sembrava così distante. E poi si è ucciso. C’erano troppe pistole, in giro, così mi sono rinchiusa in me stessa e gran parte di quello che mi aveva detto mi è uscito di mente.”

“Capisco. Qualunque cosa mi sarà d’aiuto.”

“So che Paul ha ricevuto quella telefonata, pochi giorni prima di morire. Non mi ha detto niente, ma è rimasto seduto al tavolo per tutto il pomeriggio. Si è rifiutato di cenare. Poi è uscito per andare a bere, è tornato e ha passato la notte fra il tavolo della cucina e la veranda sul retro. Credimi, gli ho chiesto infinite volte quale fosse il problema. Alla fine mi ha risposto: ’Mamma, quando abbiamo liberato quel castello c’era un uomo che diceva di essere americano e io non gli ho creduto. Gli ho risposto... con una battuta spiritosa. Dopo di che non l’ho più visto... e il giorno dopo l’Armata Rossa è venuta a prelevare i suoi prigionieri. Ma l’inglese perfetto di quell’uomo mi ha colpito molto. Perciò quando sono tornato ho chiamato Washington per mettermi a posto la coscienza’. A quel punto ha emesso un lamento. Poi ha continuato: ‘La telefonata che ho ricevuto oggi pomeriggio era del Dipartimento di Stato. Quell’uomo era davvero americano, ma non so perché si trovava lì’. Io ho cercato di confortarlo, dicendogli che era tornato nel suo Paese. ‘Proprio come te’, gli ho detto. Paul mi ha zittita con la mano e ha replicato: ‘Mamma, non capisci. I nostri ordini – i miei ordini – erano quelli di trattenere gli ufficiali sovietici fino all’arrivo del loro esercito’.

“’E allora?’ gli ho chiesto io.

“’Perché un esercito dovrebbe prelevare i suoi soldati? Perché non possono tornare a casa di loro spontanea volontà, proprio come abbiamo fatto noi e gli inglesi? I nostri eserciti non sono venuti a prelevarci. Ma il punto è che quell’uomo non era sovietico.’ Io non capivo. Gli ho detto che non avrebbe potuto fare niente per aiutarlo e lui mi ha risposto: ‘Questo non mi fa sentire meglio, mamma’. Mentre lui si torceva le mani, io ho aggiunto: ‘Figliolo, che cosa ha a che fare l’Unione Sovietica con te? Non sei stato tu a rimandare a casa quella gente’. E lui ha appoggiato la testa sul tavolo e ha replicato: ‘Forse avrei potuto fare qualcosa per lui’.”

Tatiana si alzò, si avvicinò a Mary e l’abbracciò. “L’ha fatto, Mary, è così.”

Mary annuì.

“Mi dispiace molto.”

“Me la caverò. Mia figlia vive qui vicino. Sono sola dalla morte di mio marito, nel ’38. Ce la farò.” Poi alzò lo sguardo. “Credi che quell’uomo fosse tuo marito?”

“Senza dubbio”, rispose Tatiana.

Sulla via del ritorno Tatiana era assorta a osservare dal finestrino del treno come la neve copriva i campi circostanti. Anthony dormiva. Dorme anche Vikki, pensò, ma all’improvviso l’amica aprì un occhio e disse: “Qual è la prossima mossa?”

Tatiana non rispose.

“Qual è la prossima mossa?” ripeté Vikki.

“Non ho tutte le rispose, Vik”, disse Tatiana. “Non lo so.”

Ma all’improvviso il mondo riacquistò un senso. Alexander non era morto nel lago.

Da qualche parte, era ancora vivo. Nel Paese più grande del mondo, che occupava più di un sesto della superficie del pianeta e a sua volta era occupato per metà da tundra e ghiacci perenni, per un quarto da steppa, per un ottavo da foreste di conifere, in parte desertiche e in parte arabili, dal lago più grande del mondo, dal mare più grande del mondo, dai confini più protetti del mondo, dall’esperimento socialista più esteso del mondo, c’era Alexander.

I sentieri di fede di Tatiana portavano tutti ad Alexander. Vivo.

Qual è la prossima mossa?

 

Non appena rientrata a casa, Tatiana chiamò subito Sam, ma lui non era riuscito a scoprire che cosa ne fosse stato dei prigionieri russi di Colditz. L’esercito sovietico non parlava, i rapporti erano gelidi e gli altri due soldati contattati da Sam, presenti con Markey alla liberazione del castello, non avevano sentito nessun prigioniero parlare inglese né Markey gli aveva detto niente.

“Contatta il Ministero della Difesa sovietico e chiedi che cosa è successo agli ufficiali russi rinchiusi a Colditz.”

“E cosa dovrei dirgli? Dove avete nascosto Alexander Barrington?”

“Stai scherzando. Sai che non puoi fare il suo nome.”

“Esatto. Non mi è permesso fare indagini sul suo conto.”

“Sam, chiama il nostro Ministero della Difesa.”

“Qualcuno in particolare?”

“Sì, uno che abbia risposte. Chiedi che cosa è successo ai sovietici rinchiusi a Colditz. Se non lo sanno, chiedi che cosa è successo agli ufficiali sovietici in Germania.”

“Tania, sai bene che cosa gli è successo!”

“Voglio sapere dove sono stati portati”, replicò lei. “E non c’è bisogno di urlare.”

“Anche se lo scoprissi, che cosa te ne faresti di quell’informazione?”

“Perché ti preoccupi per me? Fa’ la tua parte.”

Tatiana non prese altri appuntamenti con Edward.

 

Qualche giorno dopo, richiamò Sam per riferirle che un generale di divisione dell’esercito di Patton gli aveva detto che l’anno precedente i sovietici avevano riunito tutti quelli che consideravano loro cittadini per portarli in campi di transito, dove attendevano prima di essere ricondotti in Unione Sovietica.

“Quanti sono?”

“Il generale non lo sapeva. Non ha neanche azzardato un’ipotesi.”

“E tu?”

“Non ci provo nemmeno.”

“Dove si trovano questi campi di transito?”

“In tutta la Germania.”

Tatiana era pensierosa.

“Tania, di sicuro Alexander si trova in Unione Sovietica. La liberazione di Colditz è avvenuta dieci mesi fa. Ma, a parte questo, i sovietici non ci restituirebbero i loro uomini anche se glielo chiedessimo con gentilezza. Non ci ridaranno nemmeno i nostri uomini. Dei nostri soldati dispersi sul fronte russo non abbiamo ricevuto alcuna notizia.”

“Alexander è disperso”, disse Tatiana.

“No, non lo è! I sovietici sanno esattamente dove si trova!” Poi, in tono più calmo, Sam aggiunse: “Tania, hai sentito il numero dei decessi dei prigionieri sovietici? È sconcertante”.

“Sì. E ho ancora certificato di morte di cui tu ti fidavi tanto. Eri certo che fosse morto nel lago.”

“Questa situazione è anche peggio.”

“In che senso? Dobbiamo solo scoprire dov’è.”

“È in Unione Sovietica!”

“Allora trovalo in Unione Sovietica, Sam. È cittadino americano. È sotto la tua responsabilità.”

“Oh, Tatiana! Quante volte devo ripeterlo? Ha perso la cittadinanza nel 1936.”

“Non è vero. Sam, devo andare, ora. Ho dei pazienti. Ti chiamo domani.”

“Non avevo dubbi.”