Tatiana non riusciva a non pensare alla medaglia. Non riusciva a non pensare a Orbeli. Prese un giorno libero, il primo, e con Anthony si recò alla Pennsylvania Station, dove acquistò un biglietto per Washington e partì alla volta del Ministero della Giustizia degli Stati Uniti, in Pennsylvania Avenue. Dopo quattro ore di andirivieni tra l’Ufficio per il riesame dell’immigrazione, l’Ufficio immigrazione e naturalizzazione, l’Ufficio nazionale centrale e l’Interpol, finalmente un funzionario le disse che si trovava nell’edificio sbagliato e che doveva andare al Dipartimento di Stato in C Street. Tatiana si fermò in un bar per mangiare una zuppa e, con la carta delle razioni, prese anche un panino con il bacon. Continuava a meravigliarsi di poter mangiare piatti così deliziosi in un Paese in guerra.
Al Dipartimento di Stato si trascinò dall’Ufficio per gli affari europei a quello del popolo, dei rifugiati e dell’emigrazione e infine trovò l’Ufficio per gli affari consolari da dove, nonostante la stanchezza e il figlioletto stravolto, non si sarebbe mossa finché la segretaria non l’avesse messa in contatto con un addetto all’espatrio dagli Stati Uniti.
Fu così che conobbe Sam Gulotta.
Sam, un uomo dall’aspetto atletico sulla trentina, aveva capelli ricci e castani. Più che un sottosegretario agli affari consolari le sembrò un insegnante di educazione fisica e in effetti non aveva tutti i torti, perché lui le confidò che di pomeriggio, e durante i campi estivi, allenava la squadra di baseball del figlio. Tamburellando con le dita sulla scrivania di legno ingombra di scartoffie, Sam si protese verso di lei e chiese: “Qual è il problema?”
Tatiana fece un profondo respiro, si strinse al seno Anthony e rispose: “Qui?”
“E dove, allora? A cena? Qui, certo.” Sorrise. Non fu brusco, ma erano le cinque di giovedì.
“Signor Gulotta, quando io ero in Unione Sovietica ho conosciuto e sposato un uomo venuto a Mosca da ragazzo. Credo che era ancora cittadino americano.”
“Davvero?” chiese Gulotta. “Che ci fa negli Stati Uniti? E qual è il suo nome?”
“Mi chiamo Jane Barrington”, rispose Tatiana mostrandogli il certificato di residenza. “Ho residenza permanente in Stati Uniti. Ho cittadinanza. Ma mio marito... come posso spiegare?” Fece un profondo respiro e gli raccontò tutto, partendo da Alexander e finendo con il certificato di morte della Croce Rossa e la fuga con il dottor Sayers dall’Unione Sovietica.
Gulotta ascoltò in silenzio e infine disse: “Mi sta chiedendo troppo, Jane Barrington”.
“Lo so. Ho bisogno di suo aiuto. Voglio scoprire che cosa è successo a mio marito”, rispose lei con un filo di voce.
“Sa già quello che gli è successo. Ha il certificato di morte.”
Come spiegargli la faccenda della medaglia al valore? Gulotta non avrebbe capito. E chi avrebbe potuto capire? Come spiegargli di Orbeli?
“Forse non lo è.”
“Signora Barrington, ha molte più informazioni lei di quante ne abbia io.”
Come spiegare a un americano l’esistenza dei battaglioni penali? Tatiana ci provò.
“Signora Barrington, mi scusi se la interrompo”, disse Gulotta. “Quali battaglioni penali? Quali alti ufficiali? Ha il certificato di morte. Suo marito, chiunque fosse, non è stato arrestato. È annegato. È al di fuori della mia giurisdizione.”
“Signor Gulotta, io non credo che è annegato. Penso che certificato è falso e che lui è stato arrestato e forse ora è in uno di quei battaglioni.”
“Perché lo pensa?”
Quello Tatiana non poteva proprio spiegarlo. Non ci provò nemmeno. “Per circostanze previste...”
“Previste?” Gulotta non riuscì a reprimere un sorriso.
“Io...”
“Vuol dire impreviste?”
“Sì.” Tatiana arrossì. “Il mio inglese... sto ancora imparando...”
“È molto brava. La prego, continui.”
Nell’angolo, appoggiata all’ampia scrivania sotto le luci fluorescenti, una donna sovrappeso di mezza età le lanciò un’occhiataccia di malcelata disapprovazione. “Signor Gulotta”, proseguì Tatiana, “è la persona giusta con cui parlare? Forse devo rivolgermi a qualcun altro?”
“Non so se sono la persona giusta.” La guardò male anche lui. “Dal momento che non so perché sia qui. Potrei essere la persona sbagliata, ma il mio superiore è già andato via. Mi dica cosa vuole.”
“Voglio che scopre cos’è successo a mio marito.”
“Tutto qui?” chiese lui ironico.
“Sì, tutto qui”, rispose Tatiana, tutt’altro che ironica.
“Vediamo che cosa posso fare. La prossima settimana le va bene?”
A quelle parole, le fu tutto chiaro. “Signor Gulotta...”
Lui unì le mani. “Mi ascolti. Non credo proprio di essere la persona giusta. Non credo che in tutto il Ministero, anzi, in tutto il governo, ci sia una persona che possa aiutarla. Mi ripeta il nome di suo marito.”
“Alexander Barrington.”
“Non l’ho mai sentito.”
“Lavorava per il Dipartimento di Stato nel 1930? Fu allora che lui e sua famiglia emigrarono.”
“No, all’epoca andavo ancora all’università. Ma non è questo il punto.”
“Le ho detto...”
“Già, le circostanze previste.”
Tatiana si voltò e stava per andarsene quando Gulotta l’afferrò per il braccio. Aveva girato intorno alla scrivania ed era accanto a lei. “Aspetti, non vada via. Ora dobbiamo chiudere. Perché non ritorna di mattina?”
“Signor Gulotta, ho preso treno da New York stamattina alle cinque. Ho soltanto questi due giorni liberi, giovedì e venerdì. Ho passato tutto il giorno tra Dipartimento di Stato e Ministero di Giustizia. Lei è la prima persona con cui riesco a parlare. Ora vado alla Casa Bianca.”
“Credo che il nostro presidente abbia da fare. C’è stato uno sbarco in Normandia. Ho sentito dire che c’è una guerra in corso.”
“Sì”, replicò Tatiana. “Sono stata infermiera in quella guerra e lo sono ancora. Sovietici non possono aiutarla? Sono nostri alleati, adesso. In fondo, deve solo chiedere qualche informazione.” Strinse forte le mani sull’impugnatura del passeggino di Anthony.
Sam Gulotta la fissava.
Tatiana si sarebbe potuta arrendere, ma Sam aveva gli occhi buoni. Occhi che ascoltano, che vedono, che sentono. “Controlli suo dossier”, proseguì. “Avrete di certo un dossier sulle persone emigrate in Unione Sovietica. Quante saranno? Controlli il suo. Forse lì c’è qualcosa. Vedrà... era solo un ragazzo quando lasciò l’America.”
Sam emise un sospiro d’incredulità, a metà tra una risatina e un gemito. “D’accordo, mettiamo che io controlli il dossier e scopra che lasciò l’America da ragazzo. Allora? Questo lei lo sa già.”
“Forse troverà qualcos’altro. Unione Sovietica e Stati Uniti comunicano, no? Forse scoprirà quello che gli è successo davvero.”
“Che cosa vuole che trovi di più attendibile di un certificato di morte?” Gulotta borbottò e poi, ad alta voce, disse: “Va bene. Mettiamo che, per miracolo, io scopra che suo marito è vivo. Allora?”
“Se dice così, mi fa preoccupare”, rispose Tatiana.
Sam sospirò. “Torni domattina alle dieci. Cercherò di rintracciare il suo dossier. In che anno partì la sua famiglia?”
“Dicembre 1930”, rispose Tatiana con un sorriso.
Si fermò con Anthony in un alberghetto in C Street, vicino al Dipartimento di Stato. Prenotare la stanza fu gradevole. Nessuna trepidazione, nessun rifiuto né alcuna richiesta di documenti. Voleva una stanza, pagò tre dollari ed ebbe una bella camera con bagno. Facile. Non la guardarono due volte neppure dopo aver notato l’accento russo.
Il mattino dopo Tatiana arrivò al Ministero prima delle nove e rimase per un’ora su una panca a giocare con le dita di Antony che, seduto sul suo grembo, guardava le figure di un libro. Alle dieci meno un quarto Gulotta uscì dal suo ufficio e le fece segno di seguirlo all’interno. “Si sieda, signora Barrington”, le disse. Davanti a lui c’era un dossier spesso più di venti centimetri. Per un po’, forse un minuto, non aggiunse altro. Posò le mani sul dossier, con gli occhi fissi sulla copertina. Poi emise un profondo sospiro. “In che rapporti ha detto di essere con Alexander Barrington?”
“Sono sua moglie”, rispose Tatiana con un fil di voce.
“Jane Barrington?”
“Sì.”
“Jane Barrington era il nome della madre di Alexander.”
“Lo so. Per questo l’ho preso. Non sono madre di Alexander”, rispose Tatiana guardandolo con diffidenza, mentre lui la scrutava con altrettanta diffidenza. “Ho preso suo nome per uscire da Unione Sovietica.” Cercò di intuire che cosa lo preoccupasse. “Che cosa teme? Che io comunista?”
“Qual è il suo vero nome?”
“Tatiana.”
“Tatiana come? Qual era il suo cognome russo?”
“Tatiana Metanova.”
Sam Gulotta la fissò per quelle che le sembrarono ore. La mani, strette attorno al dossier, non si rilassarono neppure quando chiese: “Posso chiamarla Tatiana?”
“Certo.”
“Ha detto di essere uscita dall’Unione Sovietica come infermiera della Croce Rossa?”
“Sì.”
“Bene, bene. È stata molto fortunata.”
“Sì.” Tatiana abbassò lo sguardo e si fissò le mani.
“La Croce Rossa non esiste più in Unione Sovietica. Verboten. Proibita. Qualche mese fa, il Dipartimento di Stato americano ha chiesto di poter mandare medici della Croce Rossa negli ospedali sovietici e nei campi dei prigionieri di guerra, ma il ministro degli Esteri Molotov si è rifiutato. È sorprendente che lei sia riuscita a fuggire.” Gulotta la guardò con rinnovata sorpresa e lei ebbe l’impulso di abbassare gli occhi ancora una volta.
“Tatiana, permetta che le racconti di Alexander Barrington e dei suoi genitori. Lasciarono gli Stati Uniti nel 1930. Harold e Jane Barrington erano comunisti convinti e cercarono asilo volontario in Unione Sovietica malgrado le nostre numerose richieste di non farlo. Non potevamo garantire loro la sicurezza. Nonostante le sue attività sovversive in patria, Harold Barrington era pur sempre un cittadino americano e noi eravamo responsabili per lui e per la sua famiglia. Sa quante volte fu arrestato? Trentadue. Secondo i nostri archivi il figlio fu arrestato con lui tre volte. Per ben due estati ha trascorso le vacanze in un centro di detenzione minorile, perché i suoi genitori erano in galera e preferivano che il figlio passasse l’estate lì piuttosto che con i parenti...”
“Quali parenti?” lo interruppe Tatiana.
“Harold aveva una sorella, Esther Barrington.”
Alexander gliene aveva parlato soltanto una volta, di sfuggita. Tatiana trovò irritante il tono sommesso di Gulotta, quasi che lui soppesasse le parole per non confessarle le terribili notizie.
“Che significa tutto questo?” gli domandò. “Cosa vuole dirmi?”
“Mi lasci finire. È vero, il figlio non rifiutò la cittadinanza americana, ma i genitori lo fecero, consegnando i loro passaporti nel 1933, anche se la nostra ambasciata a Mosca cercò di dissuaderli. Nel 1936 la madre di Alexander tornò all’ambasciata affinché concedesse asilo al figlio.”
“Lo so. Quel viaggio costò la vita a lei e al marito, e sarebbe morto anche Alexander se non fosse fuggito durante trasferimento verso prigione.”
“Proprio così”, confermò Gulotta. “Ma è qui che finisce la nostra giurisdizione su di lui. Quando fuggì, era già cittadino sovietico.”
“Lui non voleva. Entrò nell’esercito.”
“Si arruolò come volontario?”
“Sì, negli ufficiali. Ma tutti i ragazzi sovietici devono presentarsi alla leva, a sedici anni. Perciò lo fece anche lui.”
Sam era meditabondo. “Allora è diventato cittadino sovietico quando si è arruolato.”
“Sì.”
“Nel 1936 le autorità russe ci chiesero aiuto per trovare Alexander Barrington. Dissero che era un criminale e un fuggiasco e che noi non avevamo più alcun diritto di garantirgli l’espatrio, se mai fosse venuto a chiedercelo. Anzi, il trattato internazionale c’imponeva di consegnarlo nelle loro mani.” Gulotta s’interruppe. “I sovietici ci pregarono di avvisarli immediatamente se Alexander Barrington ci avesse chiesto asilo, poiché era un cittadino russo e un criminale politico sfuggito alla giustizia.”
Tatiana si alzò.
“Appartiene a loro”, concluse Gulotta. “Non a noi. Non possiamo aiutarla.”
“Grazie per aiuto”, disse Tatiana con voce tremante, stringendo l’impugnatura del passeggino. “Scusi per aver fatto perdere tempo.”
Anche Gulotta si alzò. “I nostri rapporti con l’Unione Sovietica sono stabili perché combattiamo dalla stessa parte. Ma la diffidenza è reciproca. Che cosa accadrà a guerra finita?”
“Non lo so”, rispose Tatiana. “Che cosa accadrà a guerra finita?”
“Aspetti”, disse Gulotta, girando intorno alla scrivania, fermandosi davanti alla porta dell’ufficio e aprendogliela.
“Devo andare, ora”, riuscì a mormorare lei. “Devo prendere il treno.”
“Aspetti”, ripeté lui porgendole la mano. “Si sieda un momento.”
“Non mi va di sedermi.”
“Mi ascolti”, disse Gulotta facendole segno di accomodarsi. Tatiana fu lieta di potersi sedere. “C’è un’altra cosa...” Si sedette sulla sedia accanto a lei e Anthony gli afferrò la gamba. Lui sorrise. “Si è risposata?”
“Certo che no”, rispose lei debolmente.
Gulotta guardò il bambino.
“È suo figlio”, annunciò Tatiana.
Gulotta rimase in silenzio per un po’. “Non parli di Alexander Barrington con nessuno. Non vada al Ministero della Giustizia né all’Ufficio immigrazione di Boston o di New York. Non cerchi i suoi parenti.”
“Perché?”
“Né oggi, né domani né l’anno prossimo, non si fidi mai di loro. La strada per l’inferno è lastricata dalle migliori intenzioni. Non è il caso che facciano indagini sul conto di suo marito. Se contattassi i sovietici per avere informazioni su Alexander Barrington, sarebbero tutt’altro che accomodanti. Se chiedessi loro gli spostamenti di Alexander Belov, il vero nome di Alexander Barrington, e lui fosse ancora vivo, le autorità sovietiche lo troverebbero.”
“Lo so meglio di quanto lei crede”, replicò Tatiana abbassando gli occhi sul figlio.
“Ha detto di avere la residenza qui?”
Tatiana annuì.
“Cerchi di ottenere la cittadinanza al più presto. Suo figlio è cittadino americano o...”
“È americano.”
“Molto bene.” Si schiarì la voce. “C’è un’altra cosa...”
Tatiana rimase in attesa.
“Secondo il dossier, l’anno scorso, nel marzo del 1943, le autorità sovietiche hanno contattato il Dipartimento di Stato per via di una loro cittadina, una certa Tatiana Metanova, ricercata per spionaggio, diserzione e tradimento e sospettata di essere fuggita in Occidente. Ci hanno mandato un telegramma in cui chiedevano se Tatiana Metanova avesse chiesto asilo agli Stati Uniti o se avesse indagato sul marito, un certo Alexander Belov sospettato di essere Alexander Barrington. Sembra che Tatiana Metanova non abbia rinunciato alla cittadinanza sovietica. L’anno scorso abbiamo risposto che la donna non ci aveva contattato e loro ci hanno chiesto di avvisarli nel caso in cui l’avesse fatto e di negarle lo status di rifugiata.”
Tatiana e Sam restarono a lungo in silenzio. Infine lui le chiese: “Una certa Tatiana Metanova ha fatto domande su un certo Alexander Barrington?”
E lei, in un soffio, rispose: “No”.
Sam annuì. “Proprio così. Non ho niente da aggiungere al dossier.”
“No”, sospirò Tatiana. Sentì la mano di lui sulla schiena che la confortava con lievi colpetti.
“Mi lasci il suo indirizzo, così potrei farle avere notizie, se ne arrivassero. Ma capisce che...”
“Capisco tutto”, sussurrò Tatiana.
“Forse questa dannata guerra finirà e finirà anche quello che sta succedendo in Unione Sovietica. Se le acque si calmeranno, potremo fare qualche indagine. Sarà più facile, dopo la guerra.”
“Dopo quale guerra?” chiese Tatiana senza sollevare lo sguardo. “La contatto io, così non scrive mio indirizzo. E comunque può trovarmi all’ospedale di Ellis Island. Non ho ancora un indirizzo vero. Non abito...” S’interruppe. Aveva i denti e la mandibola serrati e non riuscì neppure a tendere la mano a Sam Gulotta. Avrebbe voluto, ma non ci riuscì.
“L’aiuterei, se potessi. Non sono un nemico”, disse lui piano.
“No”, replicò Tatiana passandogli accanto e uscendo dall’ufficio. “Ma a quanto pare io sì.”
Tatiana prese due settimane di ferie per una “necessaria vacanza”. Tentò di convincere Vikki ad accompagnarla, ma l’amica si stava destreggiando tra due medici e un musicista cieco e non poteva proprio allontanarsi.
“Non ho intenzione di fare nessun viaggio a sorpresa in treno. Dove credi di andare?”
“Anthony vuole vedere il Grand Canyon.”
“Anthony ha un anno! Vorrebbe vedere sua madre cercarsi un appartamento e un nuovo marito, non necessariamente in quest’ordine.”
“No, solo il Grand Canyon.”
“Mi avevi detto che avremmo cercato un appartamento.”
“Vieni con noi e forse lo cercherò al ritorno.”
“Sei proprio una bugiarda.”
Tatiana rise. “Vikki, io sto bene qui a Ellis.”
“È questo il problema. Tu non stai bene qui a Ellis. Sei sola, vivi in una stanza con tuo figlio, dividi un bagno comune. Sei in America, perdio! Affitta un appartamento. È così che fanno gli americani.”
“Tu non hai un appartamento.”
“Per l’amor del cielo! Io ho una casa.”
“Anch’io.”
“Tu hai deciso di non cercarti un posto tutto tuo. Perché così non puoi innamorarti di nessuno.”
“Non mi serve una scusa per non innamorarmi.”
“Quando comincerai a comportarti come una ragazza? Credi forse che se lui fosse vivo ti sarebbe fedele? Non ti aspetterebbe, da’ retta a me. In questo istante, ci starebbe dando dentro a più non posso.”
“Vikki, come puoi credere di sapere così tanto quando non sai un bel niente?”
“Perché conosco gli uomini. Sono tutti uguali. E non provare a dirmi che il tuo è diverso. È un soldato. I soldati sono peggio dei musicisti.”
“Dei musicisti?”
“Lascia perdere.”
“Basta conversazione. Non mi va di parlare. Ho dei pazienti. Devo andare alla Croce Rossa. Ti ho detto che Croce Rossa americana mi ha assunta part-time? Hanno bisogno di gente. Dovresti far domanda.”
“Ricorda le mie parole. Ci sta dando dentro a più non posso. Proprio come dovresti fare tu.”
“Tania?” Lo sente respirare alle sue spalle. È buio, non riesce a vedere niente, anzi, sembra addormentata. “Tatia? Stai dormendo?”
“Non più”, risponde lei voltandosi. Riesce a sentire l’odore del suo respiro, vodka mista a sigarette, tè, bicarbonato di sodio e acqua ossigenata, e poi sente il profumo del suo sapone, l’odore di Alexander. Solleva la mano e gli tocca le labbra. “Shura, che cos’hai, caro? Non riesci a dormire? Non hai mai avuto problemi d’insonnia.”
“Senti che rumore, fuori? C’è un temporale. Se domattina è sereno, andremo a pescare presto.”
“Va bene. Svegliami, soldato. Svegliami e io ti seguirò.”
Nel buio, lui trova la fronte di lei e ci preme le labbra. Lei si rannicchia contro il suo petto. Chiude gli occhi, o forse sono già chiusi?
“Oggi è stata una bella giornata, non è vero Tatia?”
“Certo, tesoro. Ogni giorno è perfetto, come una luna di miele.” Sorride nel buio.
Lui la stringe a sé. “Tania, mi perdonerai quando morirò?”
“Sì.”
“Mi perdonerai quando andrò in prigione?”
“Sì.”
“Mi perdonerai...”
“Ti perdonerò tutto.”
Distesi al buio si stringono forte. “È un giorno perfetto”, sussurra lui. “Ma provo tanto dolore.”
“No”, dice Tania, abbracciandolo stretto. “Non è dolore, Shura: è amore.”