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SACHSENHAUSEN, GIUGNO 1946

Martin voleva dare inizio alla missione il giorno seguente, ma Tatiana si oppose. Sarebbero andati subito. Sarebbero saliti a bordo della jeep e partiti all’istante.

Martin aveva mille ragioni per attendere fino al giorno dopo. Il telegramma di Stepanov non era ancora arrivato al campo. Voleva aspettare i rinforzi della Croce Rossa e partire in convoglio, come era successo per il campo di Buchenwald dopo la fine della guerra. Avrebbero avuto più sostegno. Sarebbero passati prima dagli ospedali di Berlino per controllare che non avessero bisogno di aiuto. E poi il governatore li aveva invitati a pranzo per presentare loro i generali dei Marines americani di stanza a Berlino. Mentre lo ascoltava, Tatiana preparò dei panini e riportò i loro effetti personali nella jeep. Poi prese le chiavi dalle mani di Martin, aprì le portiere, indicò il volante e chiese: “Parli pure, ma lo faccia in viaggio. Guido io o guida lei?”

“Infermiera! Ha ascoltato almeno una parola di quello che le ho detto?”

“Ho ascoltato con molta attenzione. Ha detto di avere fame e io le ho preparato dei panini. Ha detto di voler conoscere un generale, e incontrerà il comandante del più grosso campo di concentramento tedesco tra un’oretta, se faremo in fretta e senza perderci.” Sachsenhausen si trovava a trentacinque chilometri a nord di Berlino.

“Dobbiamo contattare la Croce Rossa di Amburgo.”

“Lo farà il governatore Bishop. È tutto a posto. Dobbiamo solo andare. Subito.”

Salirono sulla jeep.

“Da dove dovremmo cominciare?” chiese Martin corrucciato, gettando la spugna. “Sembra che Sachsenhausen abbia un centinaio di campi minori. Cominceremo da quelli. Mi faccia vedere la cartina. Sono piccoli, faremo alla svelta.”

“Dipende da ciò che troveremo”, replicò Tatiana. “Secondo me, dovremmo andare direttamente a Sachsenhausen.” Non gli diede la cartina.

“Mmm, non sono d’accordo”, la contraddisse il dottore. “Secondo le istruzioni a Sachsenhausen ci sono dodicimila prigionieri. Non abbiamo kit a sufficienza.”

“Ce li procureremo.”

“Che senso ha? Perché non aspettare di averne di più?”

“Quanto ancora vuole aspettare prima di aiutare i moribondi, dottor Flanagan? Non troppo, vero?”

“Ci aspettano da mesi, potranno aspettare un altro paio di giorni, no?”

“Non credo proprio, no.”

 

Evgenij Brestov, il comandante del campo, fu sorpreso, anzi, letteralmente scioccato, di trovarseli dietro la porta. “Siete venuti a ispezionare il mio... cosa?” domandò a Tatiana in russo. Non volle nessuna credenziale, l’uniforme era sufficiente. Brestov era sovrappeso, sporco e trasandato e senza dubbio alcolizzato.

“Siamo venuti a curare i malati. Il comandante di Berlino non l’ha contattata?” Tatiana era l’unica in grado di parlare con lui.

“Dove ha imparato il russo?” le chiese il comandante.

“In un’università americana”, rispose Tatiana. “Ma non sono molto brava.”

“Al contrario, il suo russo è eccellente.”

Brestov li condusse negli uffici, dove trovò un telegramma di Stepanov con su scritto “Urgente”.

“Se è urgente”, sbraitò, “perché nessuno me l’ha portato?” Poi, rivolto a Tatiana, disse: “Non capisco tutta questa urgenza proprio ora che le cose vanno bene. Stiamo rispettando le nuove regole. Anche se, a mio avviso, ce ne sono troppe. Di regole, intendo. Ci chiedono l’impossibile e poi si lamentano se non facciamo come piace a loro”.

“Capisco, dev’essere molto difficile.”

Lui annuì con vigore. “Difficilissimo. Le guardie non hanno esperienza. Come possono gestire dei soldati tedeschi addestrati a uccidere? Ha visto l’incisione sui cancelli del campo, ‘Il lavoro rende liberi’? Pensavo che i crucchi avrebbero fatto la loro parte.”

“Forse sanno che non è così.”

“Può darsi. Stiamo discutendo con loro. Lo sarà di certo, se continuano a disobbedire.”

“E allora chi lavora?”

Dapprima Brestov tacque. “Be’, dunque...” disse poi, cambiando argomento. “Voglio presentarvi il mio sovrintendente, il tenente Ivan Karolič. Si occupa della supervisione delle attività dei campi.”

“C’è un posto in cui la nostra jeep è al sicuro?”

“Al sicuro? No. La parcheggi davanti a casa mia e la chiuda a chiave.”

Tatiana lanciò un’occhiata al viale alberato e vide che la casa del comandante era a parecchie centinaia di metri dalla guardiola del campo. “Non potremmo parcheggiarla all’interno? Altrimenti è troppo faticoso trasportare i kit. Quanti prigionieri avete? Dodicimila?”

“Più o meno.”

“Di più o di meno?”

“Di più.”

“Quanti di più?”

“Quattromila.”

“Sedicimila prigionieri!” Poi, in tono più controllato, Tatiana aggiunse: “Credevo che il campo potesse ospitarne solo dodicimila. Avete costruito nuovi alloggi?”

“No, li abbiamo stipati nei sessanta che c’erano. Non possiamo costruire nuovi alloggi per loro. Tutto il legname tedesco viene mandato in Unione Sovietica per ricostruire le nostre città.”

“Capisco. Possiamo parcheggiare all’interno dei cancelli?”

“Va bene. Che cosa avete nella jeep?”

“Medicinali per i malati. Prosciutto in scatola, latte in polvere, mele e coperte di lana.”

“I malati guariranno. E poi mangiano fin troppo. È estate e le coperte non servono. Avete qualcosa da bere?” tossì. “Oltre al latte in polvere?”

“Sì, comandante!” disse Tatiana lanciando un’occhiata a Martin. Prese Brestov sottobraccio e lo condusse alla jeep. “Ho proprio ciò che le serve.” Brestov le strappò di mano la bottiglia di vodka.

Imbarazzato, Martin guidò la jeep all’interno dei cancelli e la parcheggiò alla destra della guardiola. “Il campo ha l’aria di una base militare”, sussurrò a Tatiana. “È ben costruito.”

“Mmm”, commentò lei. “Scommetto che quando lo gestivano i tedeschi era tenuto meglio. Guardi.”

Aveva ragione. I muri degli edifici erano sbrecciati, l’erba non era tagliata, le assi di legno per le finestre rotte erano sparse per terra. Il ferro, arrugginito, aveva la tipica aria trascurata sovietica.

“Sa”, disse Brestov, “e traduca per i suoi amici, che questo era un campo modello? Qui venivano addestrate le ss.”

“Sì”, rispose Tatiana. “I tedeschi sanno come costruire i campi.”

“Ben gli sta, cazzo, e mi scusi il linguaggio”, replicò Brestov. “Ora stanno marcendo tutti nei loro campi modello.”

Tatiana fissò con aria seria il comandante, che tossì per l’imbarazzo. “Dov’è il suo sovrintendente?”

Brestov presentò loro il tenente Karolič e li lasciò con lui. Karolič era un uomo alto e pulito che aveva l’aria di amare la buona tavola. Pur essendo piuttosto giovane, era flaccido come chi mangia lardo da troppo tempo. Aveva mani ben curate, notò Tatiana mentre gli stringeva la destra. Come poteva, così in ordine e lindo, gestire un campo pieno di uomini malati e sporchi? Gli chiese di fare un giro.

Il campo era molto grande e, benché fosse tenuto male, la struttura originaria, più ampia alla base e più stretta sul fondo, rendeva facile sparare ai prigionieri dalla guardiola fino alla punta estrema, a quattrocento metri circa. Le camerate, erette in tre semicerchi concentrici di fronte alla guardiola, erano occupate per lo più da soldati e civili tedeschi.

Le impiccagioni si svolgevano solitamente in mezzo al primo semicerchio, forse dopo l’appello del mattino. “Dove alloggiano gli ufficiali?” chiese Tatiana mentre si dirigevano verso l’infermeria.

“Oh, loro...” Karolič s’interruppe. “Nella ex caserma degli alleati.”

“Dov’è?”

“Al di là del perimetro, sul retro del campo.”

“Tenente Karolič, gli ufficiali tedeschi sono curati al punto da non aver bisogno del nostro aiuto?”

“No, non credo.”

“Allora andiamo a visitarli.”

Karolič tossì. “Credo che ci siano anche dei russi.”

“D’accordo.”

“In realtà è un problema farvi entrare lì.”

“Perché? Aiuteremo anche loro. Tenente, forse mi ha fraintesa. Noi siamo qui per sfamare e assistere i prigionieri. Il medico è venuto a curare i malati. Perché non cominciamo subito? Accompagni il dottor Flanagan e l’infermiera Davenport in infermeria e li lasci lavorare mentre io la seguirò negli alloggi e mi occuperò dei prigionieri. Partiamo dagli ufficiali, che ne dice?”

Karolič la fissò sbigottito. “Il comandante mi ha detto che voleva... pranzare.” Incespicò nelle sue stesse parole. “Ho avvisato la cucina di prepararvi qualcosa di speciale. Volete fare un riposino, nel pomeriggio? Il comandante vi ha messo a disposizione delle stanze molto confortevoli.”

“Grazie, tenente, ma mangeremo e riposeremo dopo il lavoro. Ora andiamo.”

“Che cosa è in grado di fare senza il dottore?”

“Quasi tutto, a meno che non serva un intervento al cervello. Ma francamente dubito che il nostro medico sia in grado di effettuarlo.”

Tatiana era troppo tesa per sorridere. “So fare tutto ciò che riguarda malati e feriti. So mettere i punti, lavare e bendare le ferite, iniettare sangue e morfina, diagnosticare, eliminare i pidocchi, abbassare la febbre, rasare la testa per impedire ulteriori problemi.” Diede un colpetto alla borsa. “Qui ho tutto ciò che mi serve. E, comunque, la jeep è piena di scorte.”

Karolič borbottò qualcosa di incomprensibile e mormorò che non c’era bisogno di sangue né di morfina, che quello era solo un campo di internamento.

“Non è morto mai nessuno nei vostri campi?”

“Le persone muoiono, infermiera”, rispose Karolič sprezzante. “È naturale. E non sempre è possibile salvarle, vero?”

Tatiana batté le palpebre. Non rispose e pensò a tutti quelli che aveva cercato invano di aiutare.

“Tania”, sussurrò Martin, “il comandante ci ha invitati a pranzo, no?”

“Sì”, confermò lei tirando su la borsa. “Ma io gli ho detto che abbiamo già mangiato.” Lo guardò dritto negli occhi e chiese: “Dottor Flanagan, abbiamo già mangiato, vero?”

Lui balbettò qualcosa.

“Bene. Vada in infermeria con Penny. Io inizierò dagli alloggi degli ufficiali.”

Poiché Tatiana era l’unico ponte tra le due culture, i due Paesi e le due lingue, era lei il capo. Martin e Penny le ubbidirono.

Tatiana si diresse verso la jeep con Karolič e aprì i portelli posteriori. Rimase a fissare i kit di pronto soccorso, i pacchi di cibo e le mele, cercando di sollevare la sua parte. Si voltò per un istante, perché non voleva che lui notasse la sua paura. Per guadagnare un po’ di tempo e restare sola un attimo, gli chiese: “Ha per caso un aiutante? Credo che avremo bisogno di una persona in più e magari anche di una carriola”. Dopo una pausa, aggiunse: “Per trasportare i kit e le mele”.

“Li porto io”, rispose Karolič.

A quel punto Tatiana si voltò. Era più calma, aveva riacquistato il controllo. “E chi porterà il mitra, tenente?” Rimasero in silenzio per qualche istante, l’uno di fronte all’altra, finché Tatiana non fu certa che l’uomo avesse compreso il significato di quanto gli aveva detto.

A disagio, Karolič arrossì. “Gli uomini sono a posto, infermiera. Non la infastidiranno.”

“Tenente, non dubito neanche un istante del fatto che in un’altra vita molti di loro fossero uomini perbene, ma sono qui da tre mesi, e da tre anni assisto i prigionieri di guerra tedeschi in America. Non mi faccio illusioni e non trovo appropriato che un’infermiera brandisca un’arma per difendersi, non crede?”

“Ha proprio ragione.” Il russo non riuscì a guardarla negli occhi. Le chiese di aspettare e andò a cercare l’assistente, un sergente. Insieme, impilarono in modo alquanto precario una cassa di mele e trenta kit su una carriola barcollante e si diressero verso gli alloggi degli ufficiali.

Il sergente aspettò all’esterno con i kit. Trascinando con una mano la cassa di mele, Tatiana percorse i primi due alloggi al braccio di Karolič. Suo malgrado, si rese conto che se avesse visto Alexander su una di quelle anguste e sporche brande, una attaccata all’altra, non sarebbe riuscita a nascondere l’emozione. Ispezionò con lo sguardo i letti a castello, offrì agli uomini una mela ciascuno e proseguì. Se dormivano, li toccava e rimboccava loro le coperte. Ascoltava le loro richieste, le loro celie e il suono della loro voce. Presto finì le mele. Non aprì mai la borsa.

“Che ne pensa?” chiese Karolič quando uscirono.

“Che ne penso? Che è terribile”, rispose Tatiana inalando l’aria fresca. “Ma almeno sono tutti vivi.”

“Ma se non si è neppure fermata a controllarli!”

“Tenente”, disse Tatiana, “le farò avere un rapporto dettagliato quando avremo ispezionato tutti gli alloggi. Per ora sto valutando la situazione: per alcuni casi basterò io, altri invece richiedono immediate cure da parte del dottor Flanagan. Ma ho un mio metodo per capirlo. Intuisco dall’odore se un uomo è malato e che cos’ha, chi è vivo e chi è moribondo. Lo intuisco dalla temperatura corporea e dal colore del viso. Lo intuisco anche dalla voce. Se mi chiamano gridando in tedesco, come quegli uomini, o mi tendono la mano, non stanno troppo male. Quando non si muovono, o peggio, quando mi seguono con lo sguardo ma non emettono suono, allora mi preoccupo. Gli uomini che ho appena visto sono vivi. Dica al sergente di dare loro un kit medico ciascuno. Avanti con il prossimo.”

Esaminarono altri due alloggi. Lì la situazione era peggiore. Coprì due uomini e disse a Karolič che andavano portati fuori e sepolti. Cinque avevano la febbre altissima. Diciassette avevano ferite aperte. Lì, Tatiana dovette sostare più a lungo e medicarli. Presto esaurì le garze e dovette tornare alla jeep per prenderne altre. Al ritorno, si fermò in infermeria e chiese a Penny e al dottor Flanagan di seguirla. “La situazione è peggiore di quanto pensassi”, li informò.

“Non come qui. Gli uomini stanno morendo di dissenteria”, rispose il dottor Flanagan.

“Già, e l’infezione si diffonde negli alloggi”, precisò Tatiana. “Venite a dare un’occhiata.”

“Qualche segno di tifo?”

“Finora no, anche se alcuni hanno la febbre, ma ho ispezionato solo quattro alloggi.”

“Quattro! Quanti sono in tutto?”

“Sessanta.”

“Oh, infermiera Barrington!”

“Dottore, facciamo in fretta. In ogni alloggio ci sono centotrentaquattro letti a castello, vale a dire duecentosessantotto uomini. Che cosa si aspettava di trovare?”

“Non finiremo mai.”

“Questo è lo spirito giusto”, commentò Tatiana.

I prigionieri di uno degli alloggi erano in cortile. Quelli di un altro sotto la doccia.

Dopo aver esaminato l’alloggio numero undici, Martin si asciugò il viso e disse: “Dica a Carol-itch o come si chiama che tutti gli uomini sani di quell’alloggio moriranno di difterite se non vengono mandati subito in infermeria”.

Nell’alloggio numero tredici, il tedesco a cui Tatiana stava fasciando il braccio all’improvviso si sollevò sulla branda e le cadde addosso. Dapprima Tatiana pensò che si trattasse di un incidente, ma poi lui la immobilizzò a terra e cominciò a strofinarsi su di lei. Karolič cercò di fermarlo, ma l’uomo non mollò la presa né nessun altro prigioniero intervenne. Il tenente fu costretto a colpirgli con forza la testa con il calcio dello Spagin e solo allora l’uomo perse i sensi e si fermò.

Karolič aiutò Tatiana ad alzarsi. “Mi dispiace. Ci occuperemo noi di lui.”

Ansimando, lei si scrollò la polvere di dosso, prese la borsa e disse: “Non importa. Andiamo via”. Non finì neppure di fasciare il suo aggressore.

Quando uscirono dall’alloggio numero quindici erano le otto. Karolič, Martin e Penny dissero di volersi fermare. Tatiana, invece, voleva continuare. Aveva sentito parlare russo solo negli ultimi due alloggi, che ispezionò con estrema cura. Rimboccò a tutti le coperte, consegnò i kit di pronto soccorso e le mele e parlò con alcuni di loro. Di Alexander nessuna traccia.

Scuotendo la testa, Karolič, Martin e Penny ribadirono di non farcela più. Avrebbero ricominciato il mattino dopo. Tatiana non poteva continuare senza di loro, non poteva entrare da sola nelle camerate. Con riluttanza li seguì a casa del comandante, dove si lavarono e si cambiarono. Penny prese un’altra dose di penicillina. A cena incontrarono Brestov e Karolič.

“Che cosa pensa il medico, infermiera?” chiese Brestov. “Com’è la situazione?”

“Piuttosto grave”, rispose Tatiana, senza neppure tradurre la domanda, vedendo che Martin e Penny si stavano ingozzando di cibo. “Le condizioni di salute dei suoi prigionieri sono pessime. Le dirò io qual è il problema peggiore: sono sporchi. Hanno la pelle coperta di croste e squame. Le docce funzionano? La lavanderia funziona?”

“Certamente”, rispose Brestov irritato.

“Allora non funzionano come dovrebbero. Se tenesse i suoi prigionieri puliti e all’asciutto si eviterebbe la metà di quello che succede. Un po’ di disinfettante nei bagni non farebbe male.”

“Se si alzano e camminano non stanno così male. Fanno gli esercizi in cortile e mangiano tre volte al giorno.”

“Che cosa date loro da mangiare?”

“Non siamo in villeggiatura, infermiera Barrington. Mangiano quello che c’è.”

Tatiana guardò la bistecca nel piatto di Brestov.

“E cioè farinata al mattino, brodo a pranzo e patate a cena?” gli chiese.

“Anche pane”, rispose il comandante. “E a volte zuppa di pollo.”

“Non sono puliti né nutriti a sufficienza, e i letti sono troppo vicini. Quegli alloggi sono vere e proprie incubatrici di malattie e, nel caso creda che tutto quanto non abbia niente a che fare con lei, sappia che anche i suoi uomini, dovendoli sorvegliare, si stanno ammalando. Si ricordi che la difterite è contagiosa, la febbre tifica da cibo avariato è contagiosa, il tifo è contagioso...”

“Un momento, non abbiamo casi di tifo!”

“Non ancora”, replicò calma Tatiana. “Ma i prigionieri hanno i pidocchi e le zecche e i capelli troppo lunghi. Quando prenderanno il tifo, i suoi uomini dovranno continuare a sorvegliarli.”

Brestov rimase in silenzio per un istante, con un pezzo di bistecca infilzato nella forchetta a mezz’aria. Poi disse: “Be’, almeno non li sta mangiando vivi la sifilide”. Gettò la testa all’indietro e scoppiò a ridere.

Tatiana si alzò da tavola. “Si sbaglia, comandante. Abbiamo trovato sessantaquattro uomini con la sifilide, diciassette dei quali in stato avanzato.”

“È impossibile”, replicò lui.

“Sta di fatto che ce l’hanno. Tra l’altro i suoi connazionali, i prigionieri sovietici, sono in condizioni peggiori dei tedeschi, se è possibile. La ringrazio molto per la piacevole serata. A domani.”

“Non vogliamo che gli uomini siano troppo sani”, replicò Brestov dopo aver mandato giù un lungo sorso di vodka, “vero, infermiera Barrington? La salute li rende meno... disposti a collaborare.”

Tatiana continuò a camminare.

Il mattino dopo si alzò alle cinque, ma tutti gli altri dormivano, perciò rimase con le mani in mano fino alle sei.

Gli altri si prepararono con calma, fecero colazione e finalmente ripresero l’ispezione degli ultimi cinque alloggi degli ufficiali.

“Tutto bene?” le chiese Karolič con un sorriso cordiale. Aveva il colletto dell’uniforme inamidato, i capelli ben curati e pettinati all’indietro. Era fuori luogo.

“Sì, grazie”, rispose Tatiana.

“È stato chiuso in cella per quello che le ha fatto.”

“Chi? Ah, lui. Non importa.”

“Le succede spesso?”

“No.”

Lui annuì. “Il suo russo è eccellente.”

“Grazie. È molto gentile.”

Distribuirono i kit e le mele, curarono quello che poterono e portarono i casi contagiosi fuori dalle camerate. Tatiana passò tra i letti dell’infermeria. Alexander non era nemmeno lì.

“Le condizioni dei sovietici mi sorprendono”, disse Martin quando uscirono per una pausa. Siccome pioveva, si ripararono sotto una tenda per una boccata d’aria.

“Perché?” domandò Tatiana.

“Non lo so. Credevo che li avrebbero trattati meglio dei tedeschi.”

“Come mai? I sovietici non sono sotto gli occhi della comunità internazionale. È solo una questione d’immagine. Gli ufficiali russi stanno per essere trasferiti nei campi di lavoro dell’Unione Sovietica. Che cosa crede che li aspetti, lì?” Tremò al solo pensiero. “Almeno qui è estate.”

Nell’alloggio numero diciannove, mentre era china su una branda intenta a pulire una vecchia bruciatura con acido borico, Tatiana sentì alle sue spalle una voce e una risata familiare. Voltò la testa, scrutò la fila e vide il tenente Ouspenskij, conosciuto all’ospedale di Morozovo, che la fissava. Distolse immediatamente lo sguardo e ritornò al suo paziente, ma il cuore cominciò a batterle all’impazzata. Aspettò che la chiamasse e dicesse: “Infermiera Metanova, come mai è qui?”

Ma non lo fece. Quando ebbe finito e si raddrizzò per uscire, Ouspenskij disse in russo: “Infermiera, infermiera, guardi qui”.

Tatiana si voltò lentamente e notò il suo sorriso esaltato. “Ho un sacco di problemini e sono certo che solo lei può sistemarli... visto che è un’infermiera. Perché non si avvicina e non mi aiuta?”

Il trucco e i capelli tinti avevano funzionato: non l’aveva riconosciuta. Tatiana radunò le sue cose e richiuse la borsa. “A me sembra perfettamente sano.”

“Ma non mi ha toccato la fronte. Non mi ha toccato il cuore. Non mi ha toccato la pancia. Non mi ha toccato il...”

“Sono una professionista. Anche da lontano vedo che sta bene.”

Lui rise di gusto e poi, sempre con il sorriso sulle labbra, disse: “Perché lei mi è così familiare? Parla benissimo il russo. Mi ripete il suo nome?”

Tatiana chiese a Penny di dargli un kit e un pacco di cibo e fuggì in tutta fretta. Quanto ci avrebbe messo Ouspenskij a collegare il volto di lei ai suoi ricordi?

Nell’ultimo alloggio Tatiana procedette sempre più lentamente. Indugiava e sostava accanto a ogni letto, arrivò persino a chiacchierare con alcuni uomini, lentamente. Se Ouspenskij era lì, non doveva esserci anche Alexander? Ma anche l’alloggio venti si dimostrò infruttuoso. Duecentosessantotto prigionieri, nessuno dei quali era Alexander. Sessanta alloggi, cinquemila uomini. Di Alexander nessun traccia. C’era ancora il resto del campo da ispezionare, ma Tatiana non si fece illusioni. Alexander doveva stare con i sovietici, non con i civili tedeschi. Inoltre, glielo aveva detto Karolič, tutti i sovietici stavano insieme. Il campo non aveva l’aria di voler mescolare prigionieri tedeschi e russi. In passato erano scoppiati violenti scontri dal niente.

Quando uscirono, Tatiana si allontanò dagli altri per qualche minuto e raggiunse il filo spinato che separava le unità abitative dal cimitero. Era un giugno piovoso. Dall’alba cadeva una pioggerellina sottile. Rimase sotto l’acqua con i pantaloni e la casacca sporchi, i capelli neri che sbucavano dal cappello, stringendosi fra le braccia mentre osservava immobile le cunette senza segni né croci.

Karolič la raggiunse. “Tutto bene?” chiese.

Con un sospiro addolorato, Tatiana si voltò verso di lui. “Tenente, dove avete sepolto i prigionieri che sono morti ieri negli alloggi?”

“Non sono ancora stati sepolti.”

“Dove li avete portati?”

“Per il momento si trovano in cantina, accanto alla sala autopsie.”

Senza neanche sapere come, Tatiana chiese: “Posso vedere l’obitorio, per favore?”

Karolič rise. “Certo. Crede che i morti non stiano ricevendo cure adeguate?”

Martin e Penny tornarono in infermeria e Tatiana segui il tenente. La sala autopsie era un piccolo bunker piastrellato di bianco con varie brande per i cadaveri collocate in alto.

“Dov’è la cantina?”

“Li facciamo scivolare in cantina per di qua”, indicò Karolič.

In fondo alla stanza Tatiana vide un lungo piano inclinato di metallo che s’inabissava nelle tenebre per circa sei metri. Restò in silenzio sul bordo dello scivolo per qualche istante. “Come fate”, chiese con voce esitante, “come fate a trasportare i corpi in superficie?”

“Di solito non lo facciamo. La cantina è collegata alla fornace del crematorio.” Karolič fece una smorfia. “I tedeschi hanno pensato proprio a tutto.”

Tatiana restò a fissare le tenebre. Poi si voltò e uscì all’aperto.

“Ho bisogno di un paio di minuti, tenente, le spiace? Vado a sedermi su quella panchina.” Si sforzò di sorridere. “Sarà un po’ più facile, quando i sovietici verranno trasferiti, no? Avrete più spazio.”

“Sì.” Con la mano Karolič fece un cenno sprezzante. “Ne arrivano sempre di nuovi. Non finiscono mai. Ma la panchina è bagnata.”

Lei vi si lasciò cadere. Dopo un po’, il tenente chiese: “Si sente bene? Vuole che la lasci sola?”

“Le dispiace? Solo per qualche minuto.”

Le bruciava lo stomaco. Ecco come si sentiva. Le sembrava di bruciare all’interno, lentamente. Chissà se sarebbe mai stata meglio, se si sarebbe sentita così vecchia per eternità.

Ma forse nell’eternità sarebbe stata per sempre giovane.

Sarebbe rimasta giovane, con l’abito bianco con le rose rosse indosso e i capelli d’oro fino alla vita?

A notte fonda avrebbe passeggiato nel Giardino d’Estate, lungo il sentiero costeggiato di sculture spettrali sull’attenti, e si sarebbe messa a correre con i capelli svolazzanti e il sorriso sulle labbra.

Nell’eternità, avrebbe corso per sempre.

Tatiana pensò ai ponti di Leningrado e alla statua del Cavaliere di bronzo, di fronte alla cattedrale di Sant’Isacco con la sua arcata, le sue balaustre, le cancellate consunte della cupola. Lì un tempo era stata con lui, in un’altra vita, e insieme avevano scrutato la notte cupa aspettando che li inghiottisse. E così era stato.

Restò seduta, incredula.

Avvertì che qualcosa dentro di lei stava finendo.

Pioveva e non se n’era accorta? Tatiana desiderava solo distendersi sulla panchina, sotto la pioggia.

E così fece.

 

“Infermiera Barrington?”

Quando aprì gli occhi, vide Karolič. Il tenente l’aiutò ad alzarsi. “Se non si sente bene, sarò lieto di accompagnarla nel suo alloggio, così potrà riposarsi. Potremo ispezionare la prigione e il resto degli alloggi un’altra volta. Non c’è fretta.”

Tatiana si raddrizzò. “No”, disse. “Andiamo subito nella prigione. Ci sono molti uomini?”

“È suddivisa in tre ali, due delle quali sono chiuse, ma quella operativa è mezza piena”, rispose lui secco. “Non fanno che infrangere le regole. Disobbediscono, non si presentano all’appello... Ce n’è uno che ha cercato di fuggire diciassette volte. Non impara mai.”

La prigione aveva un solo ingresso, piantonato da una guardia seduta su una sedia con il mitra appoggiato al muro. L’uomo stava facendo un solitario a carte.

“Come va, oggi, caporale Perdov?”

“Tutto tranquillo”, rispose il caporale alzandosi per il saluto. Sorrise a Tatiana, ma lei non ricambiò.

La prigione era un lungo corridoio, col pavimento coperto di polvere, su cui si affacciavano le celle. Esaminarono le prime cinque.

“Quanti prigionieri tenete così?” domandò Tatiana.

“Una trentina”, la informò Karolič.

Nella sesta cella l’uomo era sul punto di svenire e Tatiana gli fece annusare dei sali per rianimarlo. Karolič si era allontanato per aprire la porta della numero sette. Il prigioniero della sei si riprese. Tatiana gli diede da bere e ritornò in corridoio.

Dall’interno della cella numero sette sentì il tenente dire in tono beffardo: “Come sta il mio prigioniero preferito, stamattina?”

“Vaffanculo”, fu la risposta.

A Tatiana tremarono le ginocchia.

Si avvicinò alla soglia e sbirciò all’interno. La cella era lunga e stretta e vi si accedeva con un gradino. Sulla paglia, sotto la finestrella che non illuminava affatto il pavimento, a circa sei metri da lei c’era Alexander.

Il silenzio si abbatté sulla cella. Si abbatté sul suo viso e sulle sue spalle. Le mancò il fiato, il bruciore cessò e anche il cuore si fermò. Fissò l’uomo in ceppi con la barba lunga, un paio di pantaloni scuri e una camicia sporca di sangue. Lasciò cadere la borsa e si portò la mano alla bocca per soffocare un singulto atroce.

“Lo so, infermiera. Questo è il peggiore”, disse Karolič. “Non siamo fieri di lui, ma non possiamo farci niente.”

 

Quando la porta si aprì e la luce filtrò all’interno, Alexander dormiva. O meglio, credeva di dormire. Aveva gli occhi chiusi e stava sognando. Erano due giorni che non mangiava: detestava il cibo che gli veniva lasciato per terra, quasi fosse un cane. Ma pensava di mangiarlo presto.

Era molto in collera con se stesso. L’ultimo tentativo di fuga non era andato in porto per un pelo. L’inserviente che portava le scorte di medicinali in infermeria era vestito con abiti civili ed era libero di entrare e uscire dal campo. Bastava un suo semplice cenno della mano che le sentinelle, senza neppure guardarlo, gli aprivano i cancelli. Che cosa c’era di più facile? Alexander, che era stato in infermeria per tre settimane con le costole rotte, aveva stordito l’inserviente, lo aveva chiuso in un armadio dopo avergli tolto i vestiti e si era avviato verso la guardiola, dove aveva fatto un cenno alle guardie. Una di loro gli aveva aperto i cancelli. Non lo aveva neppure guardato.

Lui aveva ringraziato con la mano e si era incamminato.

Perché proprio in quel momento Karolič era uscito dal casotto verde, alla sinistra dei cancelli? Dopo avergli dato un’occhiata, lo aveva riconosciuto e aveva urlato alle sentinelle.

Ora, tre giorni dopo, insanguinato e sfinito, con gli occhi chiusi, stava sognando di nuotare sotto il sole, con l’acqua fresca sulla pelle.

Sognava di essere pulito, di non aver sete. Sognava l’estate. Era così buio, nella cella. Sognava di trovare un angolino di ordine nel caos infinito che il suo mondo gli aveva mostrato. Sognava...

Attraverso le sbarre sentì delle voci. La serratura scattò e la porta si aprì. Con gli occhi socchiusi Alexander vide Karolič. Il dannato Karolič! Come si divertiva a ricordargli il suo recente fiasco! Dopo il solito scambio di battute sulla soglia comparve l’ombra di un’infermiera minuta. Alexander si era appena destato da un sogno e per un istante la sagoma gli sembrò quasi... Non ci vedeva bene, e d’altronde non aveva creduto di vederla fin troppe volte? Non riusciva a liberarsi da quella persecuzione.

Ma poi lei ansimò e Alexander sentì la sua voce e... benché avesse i capelli diversi la voce era la sua, l’aveva udita distintamente. Cercò di scorgere il suo viso, si sforzò, tentò di mettersi a sedere, ma non riuscì a muoversi. Lei avanzò di un passo. Dio, sembrava proprio Tatiana!

Alexander scosse la testa, credette di avere le allucinazioni, di vederla nei boschi con il costume da bagno a pois e quegli occhi distanti che lo perseguitavano ogni notte, ogni giorno. Sollevò le braccia per quanto le catene lo permettessero, le alzò come in preghiera. Visione, questa volta confortami, non affliggermi più.

Alexander scosse la testa e batté le palpebre più volte. La sto immaginando, pensò. Ho immaginato così a lungo il suo aspetto, il suono della sua voce. È un’apparizione, proprio come mio padre, come mia madre; ora chiuderò gli occhi e lei svanirà... come sempre. Batté le palpebre ancora e ancora. Cercò di scacciare la lunga ombra della sua vita senza lei ma lei rimase sempre lì, con gli occhi lucenti e le labbra rosee.

Quando sentì Karolič parlare con lei si rese conto che quel bastardo non poteva averla immaginata.

Rimasero a guardarsi senza proferire parola, mentre nei loro occhi colmi di sofferenza e rimpianto scorrevano minuti, ore, mesi e anni, il moto dei continenti e le fosse oceaniche.

La falce del dolore si abbatté sui loro volti afflitti.

Tatiana inciampò sul gradino e per poco non cadde. S’inginocchiò accanto ad Alexander e fece quello che credeva non avrebbe più fatto nella sua vita.

Lo toccò.

Lui aveva del sangue raggrumato sui capelli e sul viso ed era incatenato. La guardò senza parlare.

“Infermiera Barrington, questo è il prigioniero che ha tentato di fuggire diciassette volte. Non li trattiamo tutti così, ma lui si è dimostrato assolutamente incorreggibile e irrecuperabile.”

“Tenente Karolič...” disse Tatiana con voce roca. Prima che potesse continuare, sentì Alexander gemere. “Tenente”, ripeté in tono più pacato, mentre tremava talmente forte da temere che Karolič non solo lo notasse ma si insospettisse. Lui, però, non si accorse di nulla. La cella era illuminata solo dalla debole luce proveniente dal corridoio. “Temo di aver lasciato la borsa nella cella numero sei. Potrebbe andare a prenderla?”

Non appena il tenente voltò le spalle, Tatiana sussurrò in un soffio: “Shura...”.

Alexander gemette.

Tatiana gli toccò il braccio tremante, si avvicinò e, proprio mentre Karolič tornava, gli posò entrambe le mani sul volto.

“Come sta?” domandò il tenente. “Eccole la borsa. Ci sono un sacco di tubetti di dentifricio. Perché li porta nella borsa medica?”

“Non è dentifricio”, spiegò Tatiana ritraendo le mani con enorme sforzo. “È morfina.” Sarebbe riuscita a parlare come se nulla fosse, seduta così vicino a suo marito, incapace di posare le mani su di lui? No, non incapace. “Che cosa gli è successo?” domandò, toccandogli il torace. Il cuore di Alexander martellava sotto il palmo della sua mano. Seduta accanto a lui, con le lacrime che le scorrevano sul viso, disse: “Ha una ferita alla testa che non è stata curata. Mi servono acqua e sapone, e anche un rasoio. Lo laverò e lo fascerò. Ma prima vorrei dargli da bere. Le dispiace passarmi la borraccia?”

Immobile, Alexander rimase appoggiato al muro con gli occhi fissi su Tatiana, che riusciva a stento a guardarlo mentre gli avvicinava la borraccia alle labbra. Lui piegò la testa di lato e bevve. A Tatiana tremavano le mani e le cadde la borraccia. Il tenente se ne accorse. Alexander se ne accorse. Lei la raccolse e lui bevve tutta l’acqua.

“Sta bene, infermiera?” le chiese Karolič. “È troppo, per lei, vederlo in questo stato? Non mi sembra tagliata per questo lavoro. Mi sembra molto... fragile.”

Senza neanche rispondergli, Tatiana disse: “Tenente, può procurarmi dell’acqua preferibilmente calda per la ferita alla testa, un sapone e uno shampoo antiparassitario? E può andare a prendere un kit dalla jeep?”

“Sì, ma mi aspetti fuori. Non può restare qui da sola con il prigioniero. Si ricorda quello che le è successo ieri? Non è affatto al sicuro.”

“È incatenato. Non si preoccupi. Vada, per favore, e faccia in fretta. Ci sono molti altri prigionieri.” La sua mano era su Alexander.

Non appena Karolič fu uscito, Tatiana gli premette la fronte contro la testa. “Dio, non può essere vero”, gli sussurrò. “Non puoi essere tu. Sono morta e tu mi aspetti sull’altra sponda della vita.”

“Ti ho aspettato sull’altra sponda della vita”, disse lui, tremando.

Tatiana era china su di lui. Alexander aveva gli occhi chiusi.

Rimasero così, immobili e in silenzio.

Lei emise un gemito. Non riusciva a parlare, non fu in grado di trovare neanche una parola, neanche una, sebbene avesse pensato libri interi, avesse urlato, pianto e inveito contro il destino avverso, avesse sofferto e, nel suo dolore, fosse stata in collera, si fosse sentita persa. Mentre premeva il viso sulla testa scura e insanguinata di Alexander, non riusciva a trovare neanche una parola per salutarlo. Gemiti, sì. Singhiozzi afflitti, sì. Non un silenzio assoluto, ma nessuna parola.

“No”, disse Alexander. “Ti prego.”

In ginocchio accanto a lui, attraverso labbra che si schiusero appena, lei sussurrò: “Oh, Shura...” E poi si portò le mani tremanti sul viso e pianse.

“Forza, Tania, su.”

Piegata su se stessa, con il volto coperto, Tatiana respirò profondamente e si sforzò di calmarsi.

“Come sei stata, Tania?” le chiese Alexander con voce rotta.

“Bene.” Posò le mani su quelle incatenate di lui, che le strinse le dita. Le sue mani scure e rovinate erano ancora forti, erano ancora le mani eroiche di Alexander.

“Che mi dici del...” Non riuscì a finire la frase. “Del... bambino?”

“Sì, abbiamo un figlio.”

“Un figlio.” Alexander espirò. “Come lo hai chiamato?”

“Anthony Alexander. Anthony.”

Gli si riempirono gli occhi di lacrime e voltò la testa.

Tatiana lo fissò scuotendo il capo, aprendo e chiudendo la bocca. “Sei proprio tu?” sussurrò. “Prima che mi commuova, dimmi che sei tu.”

“Prima?” Disse lui, e annuì. “Sono io.”

Era molto più deperito di come l’avesse mai visto, persino durante il terribile assedio di Leningrado. Tatiana gli accarezzò la barba. “Alexander...” Un battito di ciglia. La guancia non era rasata. Schiuma sulle sue guance. E lei gli reggeva lo specchio tra i seni. Un battito di ciglia. Gli passò le dita sulle labbra e lui gliele baciò. “Tania”, disse Alexander. “Come sei bella.”

“Che cosa ti è successo? Ti hanno arrestato?”

“Sì.”

“Fammi indovinare. Sapevi che saresti stato arrestato...” Si fermò. “Non so come, ma tu sapevi che saresti stato arrestato e ti sei finto morto per farmi fuggire dalla Russia. Sayers ti ha aiutato.”

“Sayers mi ha aiutato. Non mi sono finto morto. Credevo che la mia morte fosse imminente. Non volevo che restassi lì a vedermi morire. Sapevo che solo così saresti partita.”

Parlavano in fretta, temendo che Karolič tornasse da un momento all’altro.

“Stepanov ti ha aiutato?” gli chiese.

“Sì.”

“È a Berlino.”

“Lo so. È venuto a trovarmi qualche mese fa.”

“Come hai fatto a convincere Sayers... ? Non importa.” Non riusciva a spostarsi, ad allontanarsi da lui. Non riusciva neppure a respirare. “Credi che fosse ciò che volevo? Che volessi abbandonarti?”

Lui scosse la testa e rispose: “Certo che no”.

“Non sarei mai partita.”

“Lo sapevo fin troppo bene.”

Lei smise di toccarlo e si guardò le mani. “Tu e il tuo impossibile ego”, disse. “Leningrado, Morozovo, Lazarevo. Hai sempre creduto di sapere quale fosse la cosa migliore da fare.”

“Ah”, esclamò lui. “Allora Lazarevo è esistita?”

“Come?” chiese lei confusa. “Ti ho detto che ti avrei aspettato e sai che l’avrei fatto.”

“Come quando mi hai detto che non avresti lasciato Lazarevo? Saresti rimasta lì senza di me”, disse Alexander. “Sono stato condannato a venticinque anni di lavori forzati.”

Tatiana sussultò.

“Tania, perché non mi guardi?” le chiese esitante. “Perché tieni gli occhi bassi?”

“Perché ho paura”, sussurrò. “Ho molta paura.”

“Anch’io”, disse Alexander. “Ti prego, guardami. Ho bisogno dei tuoi occhi su di me.”

Lei sollevò lo sguardo mentre le lacrime le scorrevano sulle guance.

Smisero di parlare. Lei era curva sotto il peso del suo dolore.

“Grazie”, sussurrò poi, “per essere rimasto vivo, soldato.”

“Non c’è di che”, sussurrò lui.

 

Quando sentì il rumore della porta esterna che si apriva e si richiudeva, Tatiana si allontanò da lui e si asciugò in fretta il viso. Il mascara si era sciolto. Alexander chiuse gli occhi.

Karolič entrò nella cella con un secchio e le garze.

“Cominciamo pure, tenente. Però avrei bisogno che lo liberasse. Ha polsi e caviglie scorticati dalle manette. Devo pulirglieli e bendarli, altrimenti si infetteranno, sempre che non sia già successo.”

Karolič estrasse la chiave e impugnò il mitra. “Lei non conosce quest’uomo, infermiera Barrington. Non proverei troppa compassione per lui, se fossi in lei.”

“Provo compassione per tutti gli afflitti”, replicò lei.

“È tutta colpa sua.”

I modi affabili di Karolič sparivano del tutto in presenza di Alexander. Il tenente fu freddo e rude quando lo liberò dalle catene, che fece cadere sulla paglia. “Come mai usate il ferro? Perché invece non usate il cuoio? Ha lo stesso scopo ma almeno non nuoce al prigioniero.”

Karolič rise. “Infermiera, è ovvio che non è stata attenta. Non siamo stati noi a usare il ferro: sono stati i tedeschi. Questo è ciò che ci hanno lasciato. E comunque, questo qui rosicchierebbe il cuoio in tre ore.”

Tatiana sospirò. “Almeno cambiamogli la paglia, una volta finito.”

Karolič scrollò le spalle e si sedette contro il muro, sulla paglia pulita, con le gambe allungate e il mitra in mano. “Una mossa falsa, Belov, e sai cosa succederà?”

Alexander non rispose.

Tatiana si inginocchiò accanto a lui. “Avanti”, disse. “Lasci che la pulisca, d’accordo?”

“D’accordo.”

“Pieghi la testa all’indietro, così sarà più facile lavarle i capelli.”

Alexander ubbidì.

“Che cosa gli è successo, tenente?” domandò Tatiana, mentre con una mano cingeva il collo di Alexander per sorreggergli la testa, che sfiorava appena la sua uniforme e il suo seno. Con un asciugamano, lei gli puliva i capelli sporchi di sangue. Li aveva lunghi come la barba. “Lo rado e gli taglio i capelli, e le ricordo che dovreste tenere i vostri prigionieri con i capelli corti, non potete lasciarglieli crescere così e non permettere loro di lavarli. Non parlo solo di lui, ma di tutti gli uomini.”

“Perché lo guarda in quel modo?” chiese all’improvviso Karolič.

“In quale modo?” domandò Tatiana calma.

“Non saprei.”

“Sono molto stanca. Ha ragione lei. È davvero troppo, per me.”

“Allora lo lasci stare. Torniamo a casa e ceniamo”, le disse sorridendole. “Ieri non ha bevuto neanche un po’. Il vino è molto buono.”

“No, voglio finire qui.” Gli tagliò i capelli e gli pulì la ferita, un taglio al di sopra dell’orecchio da cui il sangue era colato giù sul collo e sulla camicia, seccandosi. Da quanto tempo era lì? Aveva il viso gonfio, lividi sotto gli occhi, sotto la mandibola. Lo avevano picchiato? Nonostante l’oscurità, Tatiana riuscì a scorgere il nero del sangue e il bianco della camicia, il nero dei capelli e degli occhi. Era molto che non si rasava, che non si lavava, che non veniva toccato. Giaceva tra le sue braccia, con gli occhi chiusi, e respirava a stento. Solo il cuore pulsava. Alexander giaceva tra le sue braccia immobile, confortato, suo, sollevato, timoroso. Tatiana avvertì tutte quelle sensazioni, dentro di lui e dentro se stessa, e desiderò così disperatamente chinarsi sul marito, dirgli qualcosa, che per lo sforzo di restare composta si morse il labbro con una tale forza da farlo sanguinare proprio sul viso di Alexander.

“Infermiera, sta sanguinando!”

Alexander batté le palpebre e alzò lo sguardo su di lei.

“Non è niente.” Tatiana si leccò il sangue dalla bocca e immerse l’asciugamano nell’acqua fredda. “Mi racconti che cosa gli è successo.” Sollevò la mano e si sistemò i capelli sotto la cuffia.

“A lui?” ridacchiò Karolič. “È con noi da agosto. All’inizio si comportava molto bene, lavorava sodo, tagliava il legname, era tranquillo – un prigioniero modello, un lavoratore instancabile – ed è stato ampiamente ricompensato. Avremmo voluto averne di più come lui. Purtroppo, però, da novembre ha tentato di fuggire ogni volta che lo liberavamo da qui e lo rimandavamo negli alloggi. Pensa di essere in albergo, di poter andare e venire a suo piacimento. Dopo diciassette tentativi falliti, avrebbe dovuto imparare. E invece non è così.”

“Vaffanculo”, disse Alexander.

“Quell’uomo non sa come ci si comporta davanti a una signora. Pazienza.” Poi, a voce bassa, Karolič aggiunse: “Tanto non resterà qui a lungo”.

“No?” Tatiana gli stava pulendo i polsi e, durante l’operazione, gli fece cadere due forcine sul palmo e glielo richiuse.

Karolič scosse la testa. “No, domani, insieme ad altri mille prigionieri, partirà per Kolyma.” Ridendo, colpì Alexander al torace con la bocca del mitra. “Prova a fuggire da lì.”

“Per favore, non lo provochi”, disse Tatiana mentre gli radeva la barba. “Perché non indossa l’uniforme dei prigionieri?”

“I vestiti che ha addosso li ha rubati all’inserviente dell’infermeria. Quando lo abbiamo preso, lo abbiamo gettato qui dentro così com’era. Penso che questa cella gli piaccia. Non fa che tornarci.”

“Perché sanguina? Perché ha tutti questi lividi? È stato picchiato?”

“Infermiera, ma allora non mi ha sentito. Diciassette volte! Picchiato? È fortunato a essere ancora vivo. E se il tizio di ieri avesse tentato di usarle violenza per diciassette volte? Quanto avrebbe aspettato prima di averne abbastanza e picchiarlo a morte?”

Tatiana guardò Alexander, che era scuro in volto.

“Infermiera, si sta sporcando la sua bella uniforme bianca”, disse Karolič con disgusto. “Lasci stare. Non gliene frega niente di essere rasato. Non è abituato a questo trattamento, né se lo merita.”

Tatiana lo lasciò andare. Alexander aveva i polsi puliti e bendati, i capelli corti e lavati, la ferita disinfettata e coperta con una garza. Gli aveva anche sciacquato la bocca con sulfamidico e acqua ossigenata, Doveva controllare il resto, per accertarsi che non avesse le costole rotte.

“Quest’uomo ha un grado?”

“Non più”, rispose Karolič.

“Qual era il suo grado?”

“Un tempo era maggiore. Degradato a capitano.”

“Capitano, come vanno le costole? Crede che siano rotte?” chiese Tatiana.

“Non sono un medico”, rispose Alexander. “Non lo so. Forse.”

Tatiana gli sbottonò la camicia e gliela aprì. Gli posò la mano sulla gola e la fece correre fino alle costole, sussurrando: “Fa male? Fa male?” Lui non rispose. Non disse niente né aprì gli occhi. Rimase immobile, con le mani lungo i fianchi, respirando appena.

Aveva il corpo sporco e livido. Le costole erano a posto, perché quando gliele toccò lui non reagì. Potrebbe essere voluto, pensò Tatiana – in fondo non aveva battuto ciglio neppure quando gli aveva medicato la ferita alla testa –, ma decise di lasciar perdere.

Passò alle caviglie, gli aprì i ceppi e gli lavò i piedi nell’acqua insaponata. Le caviglie erano gonfie e scorticate. Era difficile vedere al buio.

“Di recente si è rotto le costole o si è slogato le caviglie?”

“È possibile, non saprei. Non intrattengo molti rapporti con lui.”

Karolič rimase seduto. Si accese una sigaretta e si godette lo spettacolo.

“Vuole fumare, infermiera Barrington? Queste sigarette sono molto buone.”

“Non grazie, tenente, non fumo. Forse va al suo prigioniero?”

Karolič rise e colpì Alexander con lo stivale. “Ai prigionieri rinchiusi in cella non è concesso il privilegio di fumare, non è vero Belov?” Aspirò una lunga boccata e gliela soffiò in faccia.

Tatiana si alzò. “Tenente, la smetta di provocare il prigioniero davanti a me. Ho finito. Andiamo.”

Alexander emise un gemito avvilito.

Mentre Tatiana raccoglieva le sue cose, Karolič gli immobilizzò polsi e caviglie.

“Da quanto tempo non gli date da mangiare?” chiese lei.

“Gli diamo da mangiare”, rispose brusco il tenente, “più di quanto si meriti.”

“Come mangia? Gli togliete le manette?”

“Quelle non gliele togliamo più. Gli mettiamo la roba per terra, lui striscia, si piega e mangia.”

“Non ha mangiato. Non vede in che stato è? Quello è il suo piatto? Non è stato lui a mangiare ma i topi. Se lasciate il cibo a terra per giorni e giorni, loro sanno dove trovarlo. Sa che i topi trasmettono il colera? La Croce Rossa Internazionale è qui per accertarsi che questi abusi non si verifichino. Portiamo fuori la paglia vecchia e infiliamogli sotto quella pulita.”

Dopo averlo fatto, Karolič raccolse da terra il piatto sporco. “Più tardi gli porteranno altro cibo.”

Tatiana guardò Alexander, disteso con gli occhi chiusi e i pugni stretti sulla pancia. Avrebbe voluto dirgli che sarebbe tornata, ma non voleva che il tenente sentisse la sua voce malferma.

“Non se ne vada”, disse lui, senza aprire gli occhi.

“Torneremo più tardi a vedere come sta”, rispose timidamente Tatiana, ringraziando il cielo che lui avesse le mani immobilizzate, perché altrimenti non l’avrebbe lasciata andare.

 

Fuori dalla prigione la luce grigia del giorno l’accecò. Mentre era intenta a riunire le sue cose Karolič le chiese se volesse pranzare e Tatiana rifiutò con la scusa di dover contare le scorte rimaste. Gli disse di andare avanti senza di lei; l’avrebbe raggiunto al più presto.

La prigione si trovava alla destra della guardiola, vicino a dove avevano parcheggiato la jeep. Una delle due sentinelle di guardia sul tetto la salutò con la mano. Tatiana aprì la macchina e ispezionò l’interno. Un quarto dello spazio era ancora occupato dalle provviste, dalle mele e da alcuni pacchi di cibo. Aveva pochi minuti per pensare. Rimase immobile e poi caricò la carriola con sessanta kit e si avviò all’alloggio più vicino. Entrare tutta sola in un alloggio con duecentosessantasei uomini era il sintomo di quanto fosse disperata. Tuttavia, non era una sciocca. Appese al manico della carriola la borsa da infermiera e s’infilò nella cintura la P.38, in modo che tutti potessero vederla.

Consegnò a ciascuno un kit, promise che sarebbe tornata con il dottore e andò in fretta a prendere altri kit, sempre di più, sempre di corsa. Quando raggiunse la casa del comandante, tutti avevano finito di pranzare. Dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua, essersi cambiata e ritoccata il trucco, prese da parte Martin e Penny e disse loro: “Credo che dovremmo andare a Berlino per procurarci altri kit. Non ne abbiamo più e scarseggiano anche penicillina e garze. Se partiamo stasera, domani saremo di ritorno”.

“Siamo appena arrivati e vuoi già tornare? È davvero volubile, non trovi Martin?” disse Penny strizzandogli l’occhio.

“Volubile è dir poco”, commentò lui. “Le avevo detto che non saremmo dovuti venire in un posto come questo senza l’adeguato sostegno.”

Tatiana gli diede una pacca sulla spalla. “E aveva proprio ragione, dottor Flanagan”, concordò. “Ma abbiamo esaminato cinquemila uomini tra ieri e oggi: mi sembra un ottimo risultato.”

Decisero di partire la sera stessa alle otto, anche se il medico era piuttosto restio a guidare di notte lungo strade sconosciute. Mentre Penny e Martin ispezionavano con Karolič gli alloggi dei civili tedeschi dove Tatiana era appena stata, lei disse di voler controllare il resto dei carcerati. Quando il tenente si offrì di accompagnarla, Tatiana disse: “L’infermiera Davenport e il dottor Flanagan hanno più bisogno di lei. I carcerati sono i più sicuri, lo sa bene. Dopotutto non possono toccarmi, e poi c’è il caporale Perdov con me. Gli chiederò di seguirmi.”

Riluttante, Karolič si allontanò con Penny e Martin e Tatiana corse nella cucina del comandante e chiese un piatto con salsicce, patate, pane, burro e arance. “Non ho mangiato, sto morendo di fame”, disse risoluta. Prese anche una caraffa d’acqua e si versò un bicchiere di vodka, nel quale mise un sedativo.

Varcata la porta della prigione, sorrise al caporale Perdov e lui ricambiò. “Caporale, sono venuta a portare il pranzo al prigioniero della cella numero sette. Ne ho già parlato con il tenente Karolič. Sono tre giorni che non mangia.”

“Vuole che lo liberi?”

“Mi faccia prima vedere se è necessario.”

“Ehi”, disse Perdov guardando il vassoio. “Per caso in quel bicchiere c’è qualcosa di speciale?”

“In effetti sì”, rispose Tatiana sorridendo. “Ma non credo sia il caso di darlo al prigioniero, no?”

“Assolutamente no!”

“Proprio come pensavo. Perché non lo beve lei?”

Perdov tracannò la vodka tutto d’un fiato sotto gli occhi compiaciuti di Tatiana. “Molto bene. Più tardi, quando tornerò con la cena, magari porterò al prigioniero un altro bicchiere”, gli disse con una strizzatina d’occhio.

“Va bene”, replicò lui, “ma la prossima volta non sia così tirata.” E ruttò.

“Vedrò cosa posso fare. Può aprirmi la cella, per favore?”

Alexander stava dormendo in posizione seduta.

“Credo che stia sprecando il suo tempo”, borbottò Perdov. “Questo qui non si merita le attenzioni di un’infermiera. Non ci metta troppo, d’accordo?”

Il caporale lasciò la porta aperta e tornò alla sua sedia; Tatiana scese il gradino e si avvicinò ad Alexander. Posò a terra il vassoio, s’inginocchiò accanto a lui e gli sussurrò: “Shura...”

Lui aprì gli occhi e lei gli cinse il collo con le braccia e si strinse a lui, premendo la testa contro la sua. Mentre lo stringeva più forte che poteva, di tanto in tanto gli sussurrava: “Shura... Shura...”

“Più forte, Tania, stringimi più forte.”

Lo tenne stretto a sé. “Come sono le serrature?”

Alexander gliele mostrò: erano aperte. Aveva i polsi liberi. “Che cosa hai fatto ai capelli?”

“Li ho tinti. Tieni le mani nelle manette. Perdov potrebbe entrare da un momento all’altro.”

“Sei già entrata in confidenza con la guardia? Perché li hai tinti?”

“Non volevo farmi riconoscere. Ho già visto Nikolaj Ouspenskij.”

“Sta’ molto attenta a lui”, disse Alexander fissandola. “Come Dimitri, è un nemico. Avvicinati.”

Tatiana si avvicinò.

“Che ne è stato delle tue lentiggini?” le sussurrò.

“Le ho coperte con il trucco. Ci sono ancora.”

Si baciarono. Si baciarono come tanto tempo prima, come avevano fatto nei boschi di Luga, come se fosse la loro prima estate insieme, come avevano fatto a Sant’Isacco, sotto la luna e le stelle. Si baciarono come se fossero a Lazarevo, come due sconosciuti. Si baciarono come se lei gli avesse appena detto che voleva portarlo via dalla Russia, china su di lui nell’ospedale di Morozovo. Si baciarono come se non si vedessero da anni. Si baciarono come se stessero insieme da molti anni.

Quel bacio cancellò Orbeli e Dimitri, cancellò la guerra e il comunismo, l’America e la Russia. Cancellò ogni cosa, lasciando dietro di sé solo ciò che restava: frammenti di Tania e Shura.

Alexander liberò le mani dalle catene e Tatiana si allontanò da lui e scosse la testa. “No, no! Può entrare da un momento all’altro, e allora sarebbe la fine.”

Lui le accarezzò il viso e poi, con riluttanza, rimise i polsi nelle manette aperte. “Il trucco non nasconde la cicatrice che hai sulla guancia. Dove te la sei fatta? In Finlandia?”

“Te lo racconterò dopo, se avremo tempo. Ora devi mangiare e mi devi ascoltare.”

“Non ho fame. Mi dici come diavolo hai fatto a trovarmi?”

“Devi mangiare perché hai bisogno di energie”, disse lei avvicinandogli alla bocca un cucchiaio di salsiccia e patate. “Hai lasciato qualche traccia, in questo mondo.”

Contrariamente a quanto aveva detto, Alexander mangiò con avidità. Lei lo guardò senza parlare.

“Shura... abbiamo pochi secondi. Mi ascolti?”

“Perché questa situazione mi sembra così familiare?” le disse. “Esponimi un altro dei tuoi piani, Tatiasha. Come sta nostro figlio?”

“Sta bene. È un bambino grande, intelligente e bellissimo.”

“Non mi hai neanche detto dove vivi.”

“Non abbiamo tempo. Vivo a New York. Mi ascolti?”

Alexander aveva la bocca piena di pane e annuì. “Come si chiama l’uomo che ti ha aggredita?”

“Non ho intenzione di dirtelo.”

“E invece me lo dici. Come si chiama?”

“No.”

“Tania. Come si chiama?”

“Grammer Kerault. È austriaco.”

“Lo conosco.” I suoi occhi erano gelidi. “È ancora vivo? Sta morendo di cancro allo stomaco. Non gli frega più di niente.” Quando la guardò si addolcì. “Come pensi di tirarmi fuori di qui?” sussurrò.

Tatiana si chinò su di lui. Si baciarono appassionatamente. “Tesoro”, sussurrò, “so che hai paura.”

“No, ti prego. Non voglio altro cibo. Non voglio bere né fumare. Voglio solo... resta seduta accanto a me per un po’, Tania. Stringiti a me per un istante, fammi capire che sono vero.”

Si strinse a lui.

“Dove sono le nostre fedi?”

Tatiana estrasse la cordicella dalla casacca. “Fino a quando non le porteremo di nuovo”, sussurrò, e all’improvviso si allontanò da lui.

Perdov comparve sulla soglia. “Tutto bene, infermiera? È qui da un po’. Vuole che lo liberi?”

“No, grazie, non è necessario, caporale”, rispose Tatiana, infilandosi gli anelli nella casacca e dando ad Alexander l’ultima cucchiaiata di patate. “Ha i polsi molto rovinati. Ho quasi finito. Un minuto.”

“Lanci un urlo se ha bisogno di me.” Sorrise e scomparve.

“Sei venuta con un convoglio?” le chiese Alexander.

“Siamo in tre su una jeep della Croce Rossa. Io, un’altra infermiera e un medico. Devi salire sulla jeep.”

“Domani Stalin verrà a prendermi per riportarmi in Unione Sovietica.”

“Stalin arriverà in ritardo, amore”, disse Tatiana. “Io sono venuta oggi. Partiamo stasera alle otto in punto. Verrò a prenderti alle sette con Karolič, quindi sta’ pronto. Ti porterò la cena e tu mangerai davanti a lui, lentamente. Ci servono venti minuti perché il sedativo faccia effetto su Perdov.”

“Faresti bene a dargliene una quantità enorme.”

“Spropositata.”

Alexander smise di masticare e la guardò.

“Cosa mediti? Di farmi salire sulla jeep e portarmi a Berlino?”

“Qualcosa del genere...”

Lui la fissò a lungo e poi scosse la testa. “Stai sottovalutando i sovietici. Quanto dista Berlino?”

“Ventidue miglia, cioè trentacinque chilometri.”

Alexander si concesse un debole sorriso. “Non c’è bisogno di fare la conversione, Tania.”

Anche Tatiana sorrise.

“Ci sono posti di blocco?”

“Sì, cinque.”

“E che mi dici dei tuoi due colleghi?”

“Di che ti preoccupi? Tra un’ora saremo tutti nel settore americano, sani e salvi. Sta’ tranquillo.”

Alexander la guardò incredulo e cupo. “Ti dico io come andrà. La vostra jeep verrà fermata dopo venti minuti. Sarai fortunata se riuscirai a uscire da Oranienburg prima che vengano a prendere me, te e il tuo valoroso equipaggio.” Scosse la testa. “Non ci sto.”

“Di che stai parlando?” disse Tatiana senza fiato. “Come faranno a scoprirlo? Se ne accorgeranno dopo qualche ora, quando noi saremo già a Berlino.”

Alexander scosse di nuovo la testa. “Tania, non sai quello che dici.”

“Allora ce ne andremo prima, se vuoi”, replicò lei. “Ce ne andremo... quando vorrai.”

“Mi troveranno prima di partire. Le guardie ispezioneranno la jeep.”

“Non lo faranno. Uscirai travestito da Karolič, mi accompagnerai fuori dai cancelli e poi salirai a bordo e ti nasconderai nello scomparto delle stampelle e delle lettighe. Non sanno che esiste.”

“E dove sono le stampelle e le lettighe?”

“Ad Amburgo. Usciremo e Martin e Penny ci porteranno a Berlino senza neanche accorgersi di te.”

Perdov ricomparve sulla soglia. Era un po’ instabile, perciò si aggrappò alla porta. “Infermiera? Il tempo è scaduto.”

“Arrivo!” Tatiana si alzò. Qualcuno chiamò il caporale, che si avviò barcollando lungo il corridoio.

Avevano una miriade di dettagli da passare in rassegna, ma non c’era tempo. Tatiana estrasse dalla borsa la Colt 1911 e due caricatori. “Nella jeep ce ne sono molti di più”, annunciò, nascondendo il revolver nella paglia sotto Alexander. “Quando saremo per strada busserò due volte e tu farai rumore in modo che io possa far fermare la jeep.”

“E poi?”

“E poi? C’è un portello sul tetto. Ci arrampicheremo e salteremo giù.”

“In corsa?”

“Sì.” Dopo una pausa, Tatiana aggiunse: “Oppure facciamo a modo mio e torniamo a Berlino”.

Dapprima Alexander non replicò, poi disse: “Non è all’altezza del tuo ultimo piano, Tania. E quello è fallito”.

“Questo sì, che è lo spirito giusto! Ci vediamo alle sette. Fatti trovare pronto”, disse Tatiana salutandolo. “Oh capitano, mio capitano.”

 

A cena con Brestov e Karolič, Tatiana finse di mangiare e di ascoltare i battibecchi scherzosi tra Penny e Martin. Riuscì persino a sorridere. Perché? Non lo sapeva neanche lei. Per salvarlo.

Si trattenne dal guardare l’orologio, ma non riuscì a staccare gli occhi dal polso di Martin fino a quando non si rese conto che il suo sguardo insistente metteva a disagio il dottore. Si scusò con tutti e andò a fare i bagagli. Anche Penny si scusò e, poiché aveva già preparato le sue cose, andò a controllare l’alloggio diciannove, dove c’era un uomo a cui voleva dire addio. Erano le sei. Per quindici minuti, Tatiana si tormentò nella sua stanza, esaminando la cartina dell’area tra Oranienburg e Berlino. Non riusciva a placare il suo cuore inquieto.

Alle sei e venti caricò la jeep con la sua roba e tornò nella cucina del comandante per farsi preparare la cena di Alexander. Alle sei e quarantacinque riempì un bicchiere di vodka e sedativo e, con la borsa in spalla, prese il vassoio e andò a cercare Karolič.

 

Alle sei e cinquantacinque Penny superò il letto di Nikolaj Ouspenskij, nell’alloggio diciannove.

“Ehi, infermiera, dov’è il resto dell’equipe?” le urlò in russo. “Dov’è la sua piccola collega?”

“Meno male che non capisco niente di quello che dici”, replicò Penny in inglese con un sorriso, senza fermarsi.

Ouspenskij si lasciò cadere sulla branda. Penny gli riportò alla mente l’immagine dell’altra infermiera, quella minuta con i capelli neri. L’aveva dimenticata, ma qualcosa di lei l’aveva colpito. Perché gli sembrava così familiare? E perché quella familiarità lo assillava?

 

“Tenente, mi accompagna?” chiese Tatiana con un sorriso. “Comincia a farsi tardi. Voglio portare la cena al prigioniero della cella numero sette, ma non mi va di andarci da sola. Poi le dò un passaggio con la jeep a casa del comandante e prelevo l’infermiera Davenport e il dottor Flanagan.”

Karolič l’accompagnò di buon grado lungo il sentiero alberato. Sembrava lusingato.

“È un’ottima infermiera”, le disse. “Non dovrebbe preoccuparsi troppo dei prigionieri. Mi creda, non fa bene al suo lavoro.”

“Non lo dica a me, tenente”, replicò Tatiana accelerando.

“Può chiamarmi Ivan, se le fa piacere.” Tossì.

“Per ora continuiamo con tenente”, replicò lei, andando ancora più in fretta.

Erano le sette quando entrarono nel corridoio della prigione. Era tutto tranquillo. Perdov si alzò per fare il saluto e Tatiana gli strizzò l’occhio indicandogli il bicchiere di vodka. Il caporale ricambiò l’occhiolino. Karolič passò per primo, seguito da Tatiana, che con un cenno del capo avvicinò il vassoio a Perdov. L’uomo afferrò il bicchiere, lo svuotò e lo rimise a posto. Karolič stava aprendo la porta della cella numero sette. “Viene, infermiera?”

“Arrivo, tenente.”

Alexander era disteso su un fianco.

Karolič entrò e si sedette sulla paglia con uno sbadiglio. Era alle spalle di Alexander e gli puntava contro il mitra che teneva in grembo.

“Faccia in fretta, infermiera. Vorrei staccare, per oggi. Il guaio di questo lavoro è che comincia presto, finisce tardi e sembra non terminare mai.”

“La capisco perfettamente.” Tatiana appoggiò il vassoio a terra e finse di controllare Alexander. “Non ha un bell’aspetto”, disse guardando le caviglie. “Temo che abbia una brutta infezione.”

Karolič scosse la testa con indifferenza. “Da morto avrebbe un aspetto anche peggiore, non crede?” Si accese una sigaretta.

“Capitano, vuole qualcosa per il dolore?”

“Sì, grazie”, rispose Alexander.

“Prima o dopo cena?”

“Dopo.”

Si voltò sulla schiena e Tatiana lo imboccò. Alexander mangiò in fretta e poi gemette, rotolandosi sul fianco. “Mi fa male la testa. Può darmi subito quella cosa per il dolore?”

“Le do un po’ di morfina.”

Alexander rimase sul fianco. Aprì gli occhi e guardò fisso Tatiana. Aveva la schiena rivolta a Karolič e le mani davanti a sé... e impugnava la Colt 1911.

“Da quanto tempo è arruolato nell’Armata Rossa, tenente?” chiese Tatiana aprendo la borsa, da cui estrasse tre tubicini ognuno con mezza dose di morfina.

“Da dodici anni, ormai”, rispose lui. “E lei da quanto tempo è infermiera?”

“Da qualche anno”, replicò Tania armeggiando con l’ago e il cappuccio. Le tremavano le mani a portare a termine un’operazione che sapeva fare a occhi chiusi. “Ho lavorato con i prigionieri di guerra tedeschi a New York.” Doveva preparare tutte e tre le siringhe e non era ancora riuscita a staccare il cappuccio della prima.

“Davvero? Qualche fuga?”

“No. Anzi, sì. Una: un tizio ha colpito un medico e ha preso il traghetto.”

“Che cosa gli è successo? L’hanno preso?”

“Sì”, rispose Tatiana passando tra lui e Alexander e inginocchiandosi. Reggeva le tre siringhe con la destra. “È stato catturato sei mesi dopo nel New Jersey.” Rise, ma la risata suonava falsa. “Voleva fuggire nel New Jersey.”

“Che cos’è il New Jersey? E perché gli dà tutta quella morfina? Una dose non è sufficiente?”

“È un uomo robusto”, rispose Tatiana. “Ha bisogno di una dose massiccia.”

“L’ultima cosa che ci serve è un morfinomane. Crede che lo renderà più malleabile?”

In quel momento dal corridoio giunse un tonfo, come di qualcosa che cade pesantemente. Karolič voltò la testa verso la porta e afferrò il mitra.

“Ora!” disse Alexander.

Senza indugiare, Tatiana allontanò il mitra dal grembo del tenente con la mano sinistra e gli iniettò la morfina nella coscia con la destra, forandogli i pantaloni e la pelle. Karolič spalancò la bocca e si divincolò, colpendo Tatiana in faccia con l’avambraccio mentre con l’altra mano cercava il mitra. Ma Alexander era già in piedi dietro di lei e la spinse da parte. Allontanò il mitra con il piede e colpì con violenza Karolič sulla testa con il calcio della Colt. La testa del tenente si aprì come un melone. Il tutto era durato non più di quattro secondi.

“Ti faccio vedere io, se sono più malleabile”, borbottò Alexander colpendolo più volte con il piede nudo.

“Presto, Shura, spoglialo prima che sporchi gli abiti di sangue.”

Karolič sanguinava abbondantemente.

Alexander gli tolse l’uniforme e si svestì in fretta. Nel frattempo Tatiana, un po’ stordita per il colpo, sbirciò dalla porta per controllare Perdov. Il caporale era caduto dalla sedia e dormiva sul pavimento.

Alexander vestì Karolič con i propri abiti sporchi e gli ammanettò polsi e caviglie. Poi indossò gli stivali e il berretto, imbracciò lo Spagin e comparve in corridoio con l’uniforme. “Ha la mia taglia”, disse. “È solo un po’ più basso e più grosso, il bastardo.”

Sollevò Perdov da terra e lo rimise a sedere, ma il caporale continuava a cadere. Infine riuscì a metterlo dritto, con la testa piegata in avanti.

“Ci ha messo meno di venti minuti”, osservò.

“Lo so. Ho deciso di dargli una dose extra.”

“Bene. Quanta morfina hai iniettato a Karolič?” le domandò Alexander.

“Una dose e mezzo, ma credo che sarà la testa rotta a tenerlo buono.”

Alexander si mise in spalla il mitra e armò la Colt che aveva in mano. “Dov’è la jeep?”

“A cinquanta metri da qui, di fronte alla porta della prigione. Quando ci saremo arrivati, guarda le sentinelle sul tetto della guardiola e salutale. È quello che Karolič fa ogni volta che passiamo. Ci apre i cancelli di persona con il suo passe-partout. È mancino. Potresti...”

Alexander si passò la chiave dalla destra alla sinistra. “Va bene. Per me è meglio. Sparo con la destra. Sei pronta? Cammina davanti a te o dietro?”

“Accanto. E non mi apre la portiera. Si limita a salutarli e poi sale sulla jeep.”

“Chi guida?”

“Io.”

Prima che Tatiana aprisse la porta, lui le posò la mano con la pistola sulla spalla. “Ascoltami”, mormorò. “Sali sulla jeep più in fretta che puoi e avvia il motore. Se qualcosa va storto ucciderò le guardie, ma ho bisogno che tu sia pronta a partire.”

Lei annuì.

“Tania...”

“Sì?”

“So che ti piace fare a modo tuo, ma è meglio che ci sia un solo capo, cioè io. Se siamo in due moriremo. Chiaro?”

“Chiaro. Il capo sei tu.”

Alexander aprì la porta e uscirono. Era buio e faceva freddo. Lui attraversò a lunghe falcate il cortile illuminato e Tatiana riusciva a stento a stargli dietro. Sotto gli occhi delle sentinelle, Alexander raggiunse i cancelli, quelli con l’insegna “Il lavoro rende liberi”, aprì la serratura, li spalancò e tornò alla jeep. Tatiana era già all’interno con il motore acceso. Anzi, la vettura si mosse prima ancora che lui fosse salito a bordo.

Alexander sollevò lo sguardo verso le sentinelle, sorrise e le salutò. Loro ricambiarono.

Con la jeep, Tatiana lo portò fuori da Sachsenhausen lungo il sentiero alberato che conduceva alla casa del comandante. A metà strada tra la guardiola e la casa, Tatiana fermò il mezzo fra gli alberi. Uscirono, corsero ai portelli posteriori e lei li aprì, saltò su e sollevò la botola del lungo scomparto. All’improvviso, guardando Alexander accanto a lei, temette che non ci entrasse. Aveva dimenticato quanto fosse alto.

Anche lui sembrò temere la stessa cosa, perché guardò la fessura, poi Tatiana e disse: “Meno male che non mangio da sei mesi”.

“Sì”, replicò lei tirando fuori lo zainetto con le armi. “Entra, presto. Quando saremo lontani, busserò e tu penserai a qualcosa.”

“Tania, me lo ricordo. Non c’è bisogno di ripetermelo. Sono tue queste due borse?”

“Sì, più quello zaino.”

“Armi? Munizioni? Un coltello, una fune?”

“Sì, sì.”

“C’è una torcia?”

“Sì, è nello scomparto.”

Lui la prese.

“Dentro.”

Alexander ci entrò a fatica e Tatiana chiuse la botola.

“Mi senti?”

“Sì”, rispose lui con voce attutita. Aprì la botola dall’interno. “Ma bussa forte, così riuscirò a sentirti sul rumore del motore. Che ora è?”

“Le sette e quaranta.”

“Falli montare in fretta e parti.”

“Subito.”

Prima di salire a bordo, Tatiana si sporse sulla strada e vomitò.

 

“Non capisco che fretta c’è”, disse Penny con voce lamentosa. “Sono stanca e ho bevuto un po’. Perché non dormiamo qui e partiamo domani?”

“Perché per domani dobbiamo essere di nuovo qui”, rispose Tatiana spingendola verso la jeep. “Dottor Flanagan, viene?”

“Sì, arrivo. Volevo solo accertarmi di non aver dimenticato niente.”

“Anche se fosse, torneremo domani.”

“È vero. Andiamo a salutare il comandante?”

“Non credo sia necessario”, disse Tatiana con la massima tranquillità. Avrebbe voluto urlare. “Io l’ho già salutato e comunque lo rivedremo domani.”

Uscirono e sistemarono i bagagli nel retro.

“Dov’è la tua roba, Tania?” le chiese Penny.

Lei gliela indicò.

“Ne ha un bel po’”, commentò Martin. “Sembrerebbe che sia aumentata.”

“Non si sa mai che cosa può servire in viaggi come questo. Vuole che guidi io? Sono lucida. Non ho bevuto affatto.”

“Volentieri”, disse Martin scivolando sul sedile del passeggero. “Sa trovare la strada, al buio?”

“Prima ho segnato la rotta sulla cartina per facilitarle il compito. Arriviamo fino a Oranienburg e poi svoltiamo a sinistra.”

“Va bene.” Martin chiuse gli occhi. “Andiamo.”

Tatiana partì dalla casa del comandante e guidò piano nelle tenebre, poi accelerò. Voleva a tutti i costi allontanarsi il più velocemente possibile dal Campo Speciale numero 7.

 

Alle otto meno cinque Nikolaj Ouspenskij aprì gli occhi e cominciò a gridare. Saltò giù dal letto e, dimenando le mani come un matto, corse verso la guardia in piedi accanto alla porta dell’alloggio.

“Devo vedere il comandante!” urlò. “Devo vederlo subito! È una questione molto urgente, mi creda, urgentissima!”

“Calmo”, disse la guardia senza scomporsi spingendolo indietro. “Che cosa c’è di tanto urgente, così all’improvviso?”

“Uno dei prigionieri sta per fuggire! Dica al comandante Brestov che il capitano Alexander Belov sta per fuggire!”

“Di che stai parlando? Belov? Quello che è incatenato in cella d’isolamento in attesa del treno?”

“Sì, una delle infermiere della Croce Rossa non è americana. È sua moglie, una russa, e lo sta aiutando a fuggire!”

 

Tatiana guidò per uno, due, tre minuti. Il tempo e lo spazio all’improvviso si fermarono. Non poteva andare più veloce né far scorrere più in fretta il tempo per prepararsi alla mossa seguente. Non ricordava se ci fosse un posto di blocco a Oranienburg né sapeva se fosse il caso di rischiare. Era possibile per il Campo Speciale comunicare con il posto di blocco? Avevano un telefono? E se qualcuno fosse entrato nella cella? E se Karolič si fosse riavuto e avesse cominciato a gridare? E se Perdov fosse caduto dalla sedia e fosse rinvenuto per la botta? E se, e se, e se.

“Tania, stiamo parlando con lei. Ha sentito?” disse Martin.

“No, mi scusi. Che c’è?”

Raggiunsero Oranienburg e svoltarono a sinistra su una strada asfaltata. Non appena si furono lasciati alle spalle le luci fioche della cittadina, Tatiana bussò due volte con le nocche. Penny e Martin stavano chiacchierando e non se ne accorsero.

 

Ouspenskij fu portato al cospetto di Brestov alle otto e un quarto.

“Che succede?” chiese il comandante, alticcio e sorridente. “Chi starebbe cercando di fuggire?”

“Alexander Belov, signore. L’infermiera della Croce Rossa è sua moglie.”

“Quale delle due?”

“Quella con i capelli neri.”

“Credevo che li avessero entrambe... neri.”

Ouspenskij digrignò i denti e disse: “Quella bassa”.

“Erano basse tutte e due.”

“Quella magra! È un’infermiera russa di nome Tatiana Metanova ed è fuggita dall’Unione Sovietica qualche anno fa.”

“E sarebbe tornata per lui?”

“Sì.”

“Come avrebbe fatto a sapere che lui era qui?”

“Questo non lo so, ma signore...”

Brestov rise e scrollò le spalle. “Dov’è Karolič?” chiese poi alla guardia che sostava presso la porta della sua abitazione. “Gli chieda di unirsi a noi.”

“Non lo vedo da un po’, signore.”

“Allora vada a cercarlo.”

“Perché non parla con l’infermiera?” disse Ouspenskij. “È sua moglie. Perché non parla con lei?”

“Lo farò domani, prigioniero.”

“Domani sarà troppo tardi!” Ouspenskij per poco non strillò.

“Be’, stasera non è possibile. Sono partiti.”

Senza fiato, Nikolaj chiese: “Partiti per dove?”

“Per Berlino. Hanno finito le scorte. Torneranno domani. Le parleremo quando torna.”

Ouspenskij fece un passo indietro. “Signore, non credo che tornerà.”

“È naturale che tornerà.”

“Sì. Ma anche se detesto le scommesse, scommetto che Alexander Belov non è più sotto la sua custodia.”

“Non so di che cosa parli”, disse Brestov strofinandosi la testa. “Belov è chiuso in cella. Appena Karolič arriva andremo da lui.”

“Chiami i posti di blocco sulla strada”, suggerì Ouspenskij. “Gli dica di fermare la jeep finché non è sicuro che Belov sia qui.”

“Non farò un bel niente finché non arriva il mio tenente.” Quando cercò di alzarsi, Brestov fece cadere le scartoffie dalla scrivania. “Inoltre quell’infermiera mi piace. Non la credo capace di quello che dici.”

“Allora controlli il suo prigioniero”, disse Ouspenskij. “Se per caso avessi ragione, potrebbe mettere una buona parola per me con Mosca? Dovrei essere trasferito domani. Che ne pensa di una commutazione?” Azzardò un sorriso supplichevole.

“Non fasciamoci la testa prima che si sia rotta, d’accordo?”

Aspettarono Karolič.

 

I portelli posteriori urtarono con violenza le fiancate della jeep e qualcosa cadde con un tonfo sordo.

“Gesù, cos’è stato?” esclamò Penny. “Tania, hai investito un cane?”

Si fermarono, scesero sulla strada deserta e raggiunsero il retro della vettura. I portelli erano spalancati e loro li guardarono senza parlare.

“Che diavolo è successo?”

“Devo aver dimenticato di chiuderli a chiave”, rispose Tatiana. Diede un’occhiata all’interno: il suo zaino era sparito.

“Sì, ma che cosa hai investito?”

“Niente.”

“Allora cos’è stato quel rumore?”

Tatiana si voltò e, a una ventina di metri da loro, vide una forma voluminosa per terra. Le corse incontro.

Era il suo zaino.

“È caduto il tuo zaino?”

“Forse ci siamo imbattuti in un dosso. Tutto il resto è a posto.”

“Allora ripartiamo”, disse Martin. “Non ha senso gingillarsi su una strada buia.”

“Ha ragione”, replicò Tatiana correndo sul ciglio della strada e fingendo di vomitare. Le diedero un po’ d’acqua per sciacquarsi la bocca e restarono solleciti al suo fianco. “Mi dispiace. Non mi sento molto bene. Martin, le va di guidare? Io mi sdraio per un po’ nel retro.”

“Certo, certo.”

L’aiutarono a salire e, prima che Martin chiudesse i portelli, Tatiana guardò entrambi con affetto. “Grazie di cuore per tutto.”

“Sta’ tranquilla”, disse Penny.

Martin richiuse con cura i portelli e andò a sedersi al volante. Tatiana aprì la botola e, mentre Alexander la guardava, la jeep ripartì.

Il dottore guidava con prudenza, a non più di trenta chilometri orari. Non era a suo agio, su quella strada buia e sconosciuta.

Le chiacchiere smorzate della cabina anteriore filtravano dal riquadro di vetro; Alexander uscì dallo scomparto e tirò fuori il mitra di Karolič.

“Avresti dovuto lasciare lo zaino per strada”, le sussurrò piano. “Ora dovremo lanciarlo, e non sarà facile ritrovarlo.”

“Lo troveremo.”

“Forse dovremmo lasciarlo qui.”

“Ci sono tutte le nostre cose. Dobbiamo prendere anche quelli.” Gli indicò lo zainetto e la borsa.

“No. Possiamo portarne solo uno.”

“Nello zaino ci sono pistole, granate, un revolver e le munizioni.”

“Ah.”

Sulle punte, Alexander cercò di aprire il portello del tetto.

“Esco prima io”, sussurrò. “Tu mi passerai i bagagli, io li lancerò fuori e poi ti tirerò su.”

Dopo che ebbe lanciato lo zaino, la borsa e le armi, la tirò su, e Tatiana fu sul punto di ripensarci. Il pendio le sembrò un pozzo senza fondo, ma in un’oretta di viaggio confortevole sarebbero arrivati nel settore francese.

Aveva i capelli scompigliati dal vento e sentiva a stento le parole di Alexander. Ma lo sentì con chiarezza quando annunciò: “Adesso, Tania. Salta più lontano che puoi e atterra nell’erba. Io vado”.

Alexander non perse tempo. Un attimo prima era rannicchiato con lo zainetto delle munizioni in spalla e un attimo dopo era sparito. Era saltato giù e lei non lo vide più.

Tatiana trattenne il fiato, s’irrigidì, prese lo slanciò e saltò. Cadde malamente, ma finì sull’erba e nei cespugli e rotolò sul sottobosco. Aveva piovuto e il terreno era soffice e fangoso. Dopo essersi arrampicata sul ciglio della strada, notò che la jeep non si era fermata e procedeva lungo la strada. Sentì una trafittura di dolore, ma non c’era tempo per controllare dove si fosse fatta male. Cominciò a correre giù per il pendio e di tanto in tanto si fermava e sussurrava: “Alexander? Alexander?”

 

Erano le otto e trenta e Karolič non si trovava. La guardia lo riferì al comandante, per niente in ansia, e Brestov gli ordinò di riportare Ouspenskij al suo alloggio. “Ce ne occuperemo domattina, compagno Ouspenskij.”

“Non può controllare la cella di Belov, comandante? Tanto per essere certi. Ci vorranno due minuti. Possiamo dare un’occhiata alla prigione mentre mi accompagnate al mio alloggio.”

Brestov scrollò le spalle. “Va bene, caporale, si fermi pure alla prigione, se vuole.”

Ouspenskij e la guardia ritornarono alla guardiola.

“Loro hanno visto Karolič?” chiese Nikolaj indicando le sentinelle.

“Sì, l’hanno visto salire a bordo della jeep con l’infermiera della Croce Rossa e dirigersi verso la casa del comandante quarantacinque minuti fa.”

“Ma lui non è a casa del comandante.”

“Non significa niente.”

La guardia aprì la porta della prigione e percorse il corridoio. Perdov era disteso sul pavimento, privo di sensi. Puzzava di vodka. “Fantastico”, borbottò il caporale. “Sei una sentinella eccezionale, Perdov.” Gli prese la chiave e andò ad aprire la cella numero sette.

Dalla soglia, videro sulla paglia un uomo incatenato che indossava una camicia bianca insanguinata e un paio di pantaloni scuri. Aveva la testa piegata all’indietro ed era immobile.

“Allora?” domandò la guardia. “Soddisfatto?”

Ouspenskij si avvicinò all’uomo e lo guardò in faccia. Poi si voltò e disse: “Sì, sono soddisfatto. Venga a vedere con i suoi occhi”.

La guardia scese nella cella e, senza proferire parola, fissò gli occhi spalancati di Ivan Karolič.

 

“Tania!” lo sentì chiamare.

“Dove sei?”

“Qui, vieni.”

Lei gli corse incontro. Alexander l’aspettava tra gli alberi con tutti i suoi bagagli. In mano reggeva la borsa da infermiera. Tatiana avrebbe voluto abbracciarlo, ma Alexander aveva troppa roba.

“Ce la fai a portare le munizioni e la borsa? Io prendo il resto. Che cosa hai messo qui, sassi?”

“Cibo. Aspetta. Ho dei vestiti per te. Quando li avrai indossati, sarà più leggero.”

“Prima vorrei lavarmi, poi mi cambierò. Vieni.” Alexander accese la torcia e la condusse giù per il pendio, verso il fiume.

“Che fiume è questo?”

“L’Havel.”

“Dove arriva?”

“Fino a Berlino, ma scorre parallelo alla strada.”

“Peccato.” Alexander cominciò a spogliarsi. “Non vedevo l’ora di togliermi l’uniforme di quel bastardo. Era solo un tenente. Hai un sapone? Ti sei fatta male?”

“No”, rispose Tatiana, con la testa pesante, porgendogli il sapone.

Nudo, Alexander entrò in acqua e lei, seduta sulla sponda, gli faceva luce con la torcia.

“Spegnila”, le disse. “La vedranno da lontano, con queste tenebre.”

Avrebbe voluto guardarlo, ma spense la torcia e ascoltò gli spruzzi prodotti dalle sue abluzioni.

Si svestì anche lei, ma invece di entrare in acqua indossò gli abiti color verde oliva, i pantaloni di tela, una maglietta bianca pulita e la casacca.

Era in piedi di fronte alla sua sagoma scura nel fiume, mentre lui era di fronte a lei e al pendio che portava alla strada. All’improvviso Alexander si fermò. Si sentiva solo il suo respiro.

“Tatiana”, disse.

Non c’era bisogno che aggiungesse altro. Quando si voltò, Tatiana sapeva già quello che avrebbe visto: fari violenti che si avvicinavano veloci, il rombo di un motore sempre più vicino, le urla degli uomini e il latrato dei cani.

“Come hanno fatto a scoprirlo così presto?” sussurrò.

Gli porse gli abiti e Alexander si vestì in fretta e indossò gli stivali di Karolič, perché erano gli unici che aveva (“Non potevo pensare a tutto”, disse lei).

“Dobbiamo sbrigarci. I pastori tedeschi ci troveranno. I sovietici stanno raccogliendo i frutti della superiorità della macchina bellica di Hitler.”

“Ma ci hanno superato.”

“Sì, e dove credi che stiano andando?” le chiese lui.

“Verso la jeep.”

“Noi siamo nella jeep?”

“Dove possiamo andare?” gli domandò. “Siamo intrappolati tra il fiume e la strada. Ci fiuteranno.”

“Sì, i cani ci troveranno. È una sera ventosa.”

“Attraversiamo il fiume e dirigiamoci verso ovest.”

“Dov’è il guado più vicino?”

“Non ne ho idea. Non ricordo la cartina”, rispose Tatiana. “Dovrebbe essercene uno a otto chilometri più a sud. Attraversiamo il fiume qui e poi andiamo verso ovest, dalla parte opposta di Berlino. Poi andremo a sud e risaliremo da est fino al settore britannico.”

“Dov’è quello americano?”

“A sud. Ma i quattro settori della città non hanno recinzioni, perciò prima lasciamo il territorio occupato dai sovietici meglio è.”

“Credi?” disse lui. “Il fiume non è poi così profondo, sarà due metri e mezzo.”

Tatiana era già in biancheria intima. “Va bene. Raggiungiamo l’altra sponda. Andiamo.”

“Non possiamo nuotare entrambi”, osservò lui. “Se le armi e le munizioni si bagnano, non serviranno a niente finché non si asciugano.” Si guardarono in silenzio. “Monta su”, la spronò togliendosi in fretta gli abiti che si era appena messo. “Io nuoterò e tu porterai i bagagli.”

Tatiana gli salì sulle spalle. Il contatto con la sua schiena nuda le provocò un dolore intimo, una sensazione di familiarità e di perdita del passato – non temporanea, ma permanente – che la fece gemere. Alexander fraintese e disse: “Ehi”, e Tatiana strinse tra i denti la cinghia dello zaino per non scoppiare a piangere.

Reggendo Tatiana, che a sua volta portava gli zaini e il mitra, Alexander entrò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il fiume era meno della metà del Kama. L’aveva notato anche lui? Non ne era sicura, ma di una cosa era certa: Alexander aveva qualche problema. Ebbe la sensazione che stesse sprofondando. Cercava di restare eretto, ma non riusciva a parlare. Tatiana sentiva solo le bollicine prodotte dal suo respiro. Quando raggiunsero la sponda opposta, Alexander si sdraiò a terra ansante. Tatiana gli si sedette accanto e si tolse lo zaino dalle spalle. “Sei stato bravissimo”, gli disse. “È stato faticoso?”

“No, ma...” Si tirò su. “Sei mesi in cella farebbero quest’effetto a chiunque.”

“Riposiamoci. Sdraiati un po’.” Gli toccò la gamba e lo guardò.

“Hai un asciugamano? Presto.”

Ne aveva uno piccolo. “Tania”, disse Alexander asciugandosi in fretta. “Stai sottovalutando la situazione. Cosa credi che faranno quando fermeranno la jeep e i tuoi colleghi apriranno i portelli e scopriranno che non ci sei? Credi che finirà lì? Colti di sorpresa e ignari di avere qualcosa da nascondere, diranno: ‘L’abbiamo vista in fondo alla strada’. E condurranno le guardie nel punto in cui siamo entrati in acqua. In quaranta secondi un mezzo blindato guadagnerà l’altra sponda. Dieci uomini, due cani, dieci mitra, dieci pistole. Possiamo andare, adesso? Mettiamo tra noi e loro quanta più distanza possiamo. Per caso hai una bussola, una cartina?”

“Pensi che le autorità sovietiche creeranno loro dei problemi?”

Alexander non rispose subito. “Non credo”, disse infine. “Non gli conviene mettere in piazza i loro loschi affari. Li interrogheranno, ma non faranno mosse false con cittadini americani. Muoviamoci.”

Si asciugarono alla bell’e meglio, si rivestirono e corsero nel bosco.

 

Procedettero senza una meta precisa per quelli che a Tatiana sembrarono decine di chilometri. Davanti, con il coltello, Alexander si apriva un varco tra il fogliame. Lei lo seguiva con tenacia. Quando la strada era sgombra correvano, ma il fitto sottobosco li costringeva spesso a rallentare la marcia. Alexander accendeva la torcia per pochi secondi per illuminare il bosco e poi la spegneva. Di tanto in tanto, si fermava a controllare che non ci fossero rumori prima di procedere. Tatiana voleva fermarsi per una sosta. Aveva le gambe pesanti. Per fortuna, Alexander rallentò e le chiese: “Sei stanca?”

“Sì. Possiamo fermarci?”

Dopo aver controllato la cartina, rispose: “Va bene. Siamo molto più a ovest di quanto si aspettino e non abbastanza a sud. Ci siamo spostati lateralmente.”

“Ma non ci siamo avvicinati a Berlino.”

“No, non molto. Ma ci siamo allontanati da loro, e per il momento è meglio così.” Dopo aver richiuso la cartina le chiese: “Hai una tenda?”

“Ho un trench. Potremmo ripararci con quello, ma preferirei cercare un fienile. Il terreno è umido.”

“D’accordo, cerchiamolo. Sarà più caldo e più asciutto. Dovrebbero esserci delle fattorie, al di là del bosco.”

“Quindi dobbiamo camminare ancora un po’?”

Lui la tirò su e la strinse a sé. “Sì. C’è ancora un po’ di strada.”

Procedettero molto lentamente nel bosco.

“Alexander, è mezzanotte. Quanti chilometri abbiamo fatto?”

“Cinque. Un altro chilometro e raggiungeremo i campi.”

Tatiana gli nascose la paura che aveva in quel bosco crepitante. Una volta gli aveva raccontato di essersi persa in una foresta, da piccola. Ma, in fondo, Alexander era ferito e in fin di vita, perciò non poteva ricordare che gli aveva descritto quell’esperienza come la più tremenda di tutta la sua esistenza.

Raggiunsero il campo. La notte era limpida e Tatiana riuscì a scorgere la sagoma di un silo lontano.

“Attraversiamo il campo”, suggerì.

Ma fecero il giro largo. Alexander non si fidava più dei campi.

Il fienile si trovava a un centinaio di metri dalla fattoria. Alexander forzò la serratura e le fece segno di entrare. Un cavallo emise un debole nitrito di sorpresa. L’interno era caldo e odorava di fieno, concime e latte di mucca. Erano odori familiari, proprio come quelli di Luga. Ancora una volta, Tatiana fu percorsa dalla fitta di dolore per la perdita. Tutto quello che l’America era quasi riuscita a farle dimenticare stava riaffiorando grazie a lui.

Alexander sistemò la scala per raggiungere il soppalco del fienile, al di sopra delle mucche, e aiutò Tatiana a salire.

Una volta su, lei si sedette su una balla.

Estrasse dallo zaino la borraccia, bevve un sorso d’acqua e poi la offrì ad Alexander. Dopo aver bevuto, lui le chiese: “Hai qualcos’altro, là dentro?”

Con un sorriso, Tatiana frugò all’interno ed estrasse un pacchetto di Marlboro.

“Ah, sigarette americane”, esclamò lui. Ne tirò fuori una e la accese. Ne fumò tre senza dire una parola mentre lei lo guardava distesa sul fieno. Ben presto, però, le si chiusero gli occhi.

Quando li riaprì, Alexander la fissava in silenzio con un’espressione talmente commossa che, con un gemito, Tatiana si avvicinò a lui carponi. Si rannicchiò tra le sue forti braccia, si aggrappò a lui e lo sentì sussurrare: “Ssst, ssst”.

Non parlarono. Stare di nuovo tra le braccia di Alexander, annusarne il profumo, ascoltare il suo respiro, la sua voce...

“Ssst, ssst”, continuava a sussurrare lui stringendola a sé. Le tolse il cappello, la retina, le forcine e lasciò ricadere i lunghi capelli neri.

Erano cresciuti moltissimo, le arrivavano quasi al sedere, e lui vi fece scorrere le mani. “Ho gli occhi chiusi”, sussurrò, “e sono di nuovo biondi.”

Dal modo in cui la toccava, Alexander sembrava cieco: la stringeva con una forza incontenibile, che non aveva tanto a che fare con l’amore o la passione, quanto piuttosto con entrambi o forse con nessuno dei due. Il suo abbraccio era un’esplosione di angoscia, amaro sollievo e paura.

Forse Alexander avrebbe voluto dire di più, ma non riusciva e rimase seduto sulla paglia a gambe divaricate. Tatiana era inginocchiata davanti a lui, accoccolata fra le sue braccia, e di tanto in tanto lo sentiva sussurrare: “Ssst, ssst...”

Non per lei, ma per se stesso.

Stringendola, Alexander la fece distendere sulla paglia e l’avvolse con le membra frementi, mentre Tatiana respirava a stento e, con il corpo scosso dalle lacrime, non sapeva come placare l’emozione che la sconvolgeva.

Alexander la baciò senza emettere alcun suono. Non sapevano come comportarsi: dovevano spogliarsi? Rimanere vestiti? Non importava. Lei non poteva muoversi, né lo voleva. Alexander le posò le labbra sul collo, sulle clavicole, e la strinse così forte che Tatiana, con la bocca socchiusa, avrebbe voluto sussurrare il suo nome, gemere. Le lacrime continuavano a scorrerle sulle tempie. Non la penetrò: la squarciò. Lei lo consumò, aprì la bocca in un urlo muto e con le mani si aggrappò alla sua schiena e lo attirò a sé. Tra i sussurri di dolore e le lacrime di desiderio, ebbe la sensazione che Alexander, in quel completo abbandono, facesse l’amore con lei come se fosse trattenuto dalla croce a cui era ancora inchiodato.

La teneva stretta e si muoveva con una furia incessante, con un’intensità tale che Tatiana avvertì la sua coscienza arrendersi a...

“Shura, ti prego...” disse con il solo movimento delle labbra.

Ma era impossibile. E lo sapeva. Non voleva che fosse altrimenti. Non poteva essere altrimenti.

Quando per Alexander arrivò infine il momento del sollievo, Tatiana perse temporaneamente la ragione e le sue grida filtrarono dal fienile e raggiunsero il fiume, la sorgente, il cielo.

Lui restò su di lei senza muoversi, senza staccarsi. Il suo corpo tremava ancora e lei lo attirò a sé. Non poteva essere più vicino di così. Lei lo strinse forte... e poi...

“Ssst, ssst.”

Non era Alexander.

Era Tatiana.

Si addormentarono.

Non avevano ancora parlato.

Quando si svegliò, Tatiana lo sentì dentro di lei.

Quella notte, nonostante la complicità degli dei, non fu abbastanza lunga.

Dopo aver disteso il trench sul fieno, si spogliarono entrambi. Nelle tenebre silenziose Tatiana pianse. Pianse quando allungò la mano e, senza fiato, lo toccò ancora una volta, pianse quando lui fu dentro di lei, e quando la baciò; pianse mentre l’accarezzava e la massaggiava, mentre la penetrava; pianse mentre la bocca di Alexander si posava sul suo corpo e lei posava la sua su di lui, lo stringeva, straziata dai singhiozzi e dai gemiti. Pianse anche quando, con suo enorme sollievo, si sciolse con lui, e avvertì la fame di Alexander, il suo bisogno, il suo dolore e la sua impotenza, bruciò e si sciolse di nuovo. “Oh, Shura”, gli sussurrò nel collo.

“Le lacrime non sono la reazione che speravo”, sussurrò Alexander.

Ancora una volta, Tatiana fu fatta prigioniera e liberata, bruciò e si sciolse per Alexander, nelle mani di Alexander, e ancora una volta pianse tra i sospiri: “Oh, Shura...” Lui la penetrò ancora, ancora e ancora, e lei pianse senza sosta, mentre lui entrava e usciva, prima incalzante, poi più piano, in profondità, incessantemente.

Quando si fermò, rimase su di lei e Tatiana gli accarezzò dolcemente la schiena e la testa mentre, con i piedi, gli sfiorava i lati e il retro delle gambe. Restarono rannicchiati l’uno nell’altra. Tatiana piangeva ancora.

Con le labbra premute sulla guancia di lei, Alexander disse: “Tania, devi smetterla di piangere ogni volta che facciamo l’amore. Che cosa credi che pensi un uomo, se la moglie piange ogni volta che fa l’amore con lui?”

“Che è l’unico essere al mondo, per lei”, rispose Tatiana in lacrime. “Che è tutta la sua vita.”

“Anche per lui è così”, sussurrò Alexander stringendosi a lei. “Ma non piange.”

Era voltato dall’altra parte e Tatiana non poteva guardarlo in faccia.

Poi si girò e le baciò il seno, il ventre, e poi si spinse più giù, e la sfiorò con la bocca, questa volta dolcemente, e lei venne di nuovo, dolcemente, e il suo pianto si fece più lieve, quasi una carezza.

“’Chi riesce a trovare una donna virtuosa?’” disse lui con voce profonda, tenendola stretta. “’Il suo valore supera di gran lunga i rubini. Dategli una bevanda forte, perché è pronto a morire. Fatelo bere, lasciate che dimentichi la sua povertà.’” La voce di Alexander divenne roca. “’Che non ricordi più la sua miseria.’”

“‘Ora mi alzerò’”, sussurrò Tatiana, “’e vagherò per le strade della città in cerca del mio amato: l’ho trovato. L’ho tenuto stretto e non l’ho più lasciato andare.’”

Non c’era notte.

C’era solo il crepuscolo, mentre il grande sole del Nord scendeva oltre l’università di Leningrado davanti al Cavaliere di bronzo, davanti alla cattedrale di Sant’Isacco. Il cielo diventò azzurro, poi color lavanda, poi di nuovo rosa nel giro di minuti che non erano abbastanza lunghi. La guglia dorata della cattedrale di San Pietro e Paolo rifletté l’alba nello specchio del fiume che scorreva dal lago Ladoga, dalla povera Dasha, dalle rive di Morozovo e infuriava oltre Schlüsselburg, oltre il ghiaccio, attraverso Leningrado, sostando per riflettere la guglia dorata tra la cattedrale e i possenti olmi del Giardino d’Estate.

La notte non era abbastanza lunga.

Non abbastanza per il pavimento della stanza di Matthew Sayers, per Lisij Nos, per le paludi della Finlandia. Per Stoccolma.

Non era abbastanza lunga per la cella di Morozovo, per le dieci dosi di morfina iniettate a Leonid Slonko, per le alture di Sinjavino, per la traversata dell’Europa con Nikolaj Ouspenskij.

Per la Vistola.

E niente era abbastanza lungo per le foreste e i monti di Santa Croce.

 

“Non parlarmi più di lui”, disse Tatiana con voce afflitta. “Non ho la forza di ascoltare.”

“E io non ho la forza di raccontare.”

Dopo aver saputo di Pasha, Tatiana non riusciva a parlare né a guardarlo, distesa supina con le gambe tirate al petto, mentre Alexander l’abbracciava da dietro, le baciava la schiena e sussurrava: “Mi dispiace, Tatiasha. Mi dispiace tanto. Ho cercato di salvarlo”.

“Questo è troppo per me.”

“Anche per me.”

Tatiana emise un gemito.

“Tania, quando lui è morto ho perso la mia battaglia. Ero stanco di tentare di interpretare la volontà divina da quel delirio che era stata la morte di Pasha. Ma poi ho capito che Pasha non ce l’avrebbe fatta. Non era quello il suo destino. I sovietici possono anche risparmiarti e gettarti a Kolyma, se ti arrendi al nemico, ma se combatti per il nemico...”

“Lo so, Shura.”

“Tania, nel 1944 stavo morendo. Non puoi neanche immaginare che cosa si agitava dentro di me mentre guidavo il mio battaglione penale al di là di tutti i dannati fiumi della Polonia.”

“Io non posso immaginarlo? Alexander, non sai che cosa avrei dato per un battaglione penale.”

Lui le baciò la nuca, il collo e la pelle morbida fra le scapole. Lì, dietro al suo cuore, Alexander proseguì: “Tatia, ma tu non eri un uomo, un uomo violento con seimila caricatori e una baionetta. Avevo smesso di sentirmi un essere umano finché non ho incontrato Pasha. A Santa Croce Dio mi ha mandato Pasha perché avevo bisogno di lui più di ogni altra cosa. Credevo che saremmo fuggiti insieme per venire da te. Non avevo idea che saresti stata tu a venire da me”.

“Ci hai salvati tutti, Alexander Barrington”, sussurrò Tatiana. “La tua vita ha salvato tutti noi.”

 

Mentre Alexander dormicchiava in uno stato di semincoscienza, Tatiana, puntellata sul gomito, gli tracciava con il dito le cicatrici sotto la clavicola, sulle braccia, sulle spalle, sulle costole. Non voleva svegliarlo, ma non poteva fare a meno di toccarlo. La quantità di segni che ricoprivano il corpo di Alexander sfuggiva alla sua comprensione. Come poteva un corpo così segnato essere ancora vivo, più magro di prima, meno intero, logorato alle giunture, eppure vivo?

Tatiana lo accarezzò dolcemente, poi fece scorrere la mano giù fino agli stinchi e poi di nuovo su, fino alle braccia, dove si fermò ad accarezzarlo mentre fissava il suo viso assopito.

C’è un momento, nell’eternità, che precede la scoperta delle reciproche verità. Quel semplice momento è quello che ci spinge a vivere, quello in cui ci sentiamo sull’orlo del futuro, sull’abisso dei sentimenti proibiti, prima di sapere con certezza che abbiamo amato. Prima di sapere con certezza che abbiamo amato per sempre. Prima della morte di Dasha, della morte della mamma, della morte di Leningrado. Prima di Luga. Prima della divina Lazarevo, quando i miracoli che avevi accatastato su di me con il tuo amore e con il tuo corpo ci hanno uniti per la vita. Prima di tutto questo, tu e io abbiamo passeggiato nel Giardino d’Estate e, di tanto in tanto, il mio braccio nudo sfiorava il tuo, di tanto in tanto tu parlavi e io coglievo l’occasione per guardarti il viso e gli occhi ridenti e per immaginare – io che non ero mai stata toccata – la sensazione della tua bocca su di me. Il momento in cui mi sono innamorata di te, nel Giardino d’Estate durante le notti bianche di Leningrado, è quello che mi spinge a vivere.

 

Alexander si svegliò e la vide. “Che stai facendo?” sussurrò.

“Veglio su di te”, sussurrò lei.

Lui richiuse gli occhi e si addormentò.

 

Il mattino dopo, all’alba, il fattore entrò nel fienile per mungere le mucche. Loro rimasero nascosti sul soppalco, in silenzio, ascoltando ogni rumore, e quando il fattore uscì Tatiana si vestì e scese a mungere un po’ di latte, che raccolse nella ciotola con cui somministrava le medicine. Alexander scese con lei impugnando le pistole.

Bevvero fino a scoppiare.

“Non ti ho mai visto così magro”, osservò Tatiana. “Bevi ancora un po’ di latte. Prendilo tutto.”

Alexander ubbidì. “E tu sei più prosperosa.” Si chinò su di lei, seduta sullo sgabello. “Hai il seno più grande.”

“La maternità, immagino”, mormorò lei baciandolo. “La maternità, l’America, il cibo, non saprei.”

“Torniamo su”, suggerì Alexander con le mani tra i suoi capelli.

Una volta sul soppalco, non avevano neppure incominciato a svestirsi che sentirono il rombo di un motore. Erano le sette. Alexander sbirciò dalla finestrella in alto e vide una jeep dell’esercito e quattro ufficiali dell’Armata Rossa che parlavano con il fattore nella radura.

Si voltò verso Tatiana. “Chi c’è?” sussurrò lei.

“Tania, resta seduta contro la parete, ma non troppo lontano. Prendi l’altra P38 e le munizioni.”

“Chi c’è?”

“Sono venuti a cercarci.”

Tatiana emise uno strillo e corse alla finestra. “Oh, mio Dio, sono in quattro. Che cosa facciamo? Siamo intrappolati quassù.”

“Ssst. Forse se ne andranno.” Alexander caricò il mitra, le tre pistole e il Python. Lei li controllava dalla finestra. Il fattore aveva le mani aperte e le spalle sollevate. I soldati gli si avvicinarono, indicando la casa, i campi e per ultimo il fienile. Il fattore si fece da parte e indicò loro la strada per arrivare al fienile.

“Il revolver è a doppia o a singola azione?”

“Cosa?”

“Lascia stare.”

“A doppia azione, credo. Anzi, ne sono quasi certa”, rispose Tatiana, cercando di ricordare. “Vuoi sapere se è automatico? Sì.”

Alexander si distese dietro due balle di fieno, con il mitra e le pistole sul lato destro, e puntò il Python contro la scala. Tatiana, con le mani tremanti piene di caricatori, si sedette contro la parete alle spalle di Alexander.

Lui si voltò. “Non fiatare, Tania.”

Lei annuì.

La porta del fienile si aprì e il fattore entrò con un ufficiale. Il cuore le batteva talmente forte da assordarla. L’ufficiale parlava pochissimo tedesco mescolato al russo. Il fattore doveva avergli detto di non aver visto nessuno in giro, perché l’ufficiale urlò in russo: “Ne sei proprio certo?”

Girarono in tondo ancora un po’ e all’improvviso l’ufficiale tacque e si guardò intorno. “Fumi?” gli chiese in russo.

Nein, nein”, disse il fattore. “Ich rauche nein in der Scheune wegen Brandgefahr.”

“Be’, fuoco o non fuoco, qualcuno ha fumato nel tuo fottuto fienile!”

Tatiana si portò la mano alla bocca per non urlare.

L’ufficiale uscì di corsa e lei lo vide parlare con gli altri. Uno di loro spense il motore della jeep e tutti impugnarono i mitra.

“Shura”, sussurrò.

“Ssst”, rispose lui. “Non parlare. Non fiatare.”

Il fattore era ancora al centro del fienile quando i quattro sovietici rientrarono con le armi.

“Fuori di qui”, gli disse uno. Il fattore corse via.

“C’è qualcuno?”

Nessuna risposta.

“C’è qualcuno?”

“Non c’è nessuno”, disse un ufficiale.

“Sappiamo che sei qui, Belov”, intervenne un altro. “Vieni fuori e nessuno si farà del male.”

Alexander non rispose.

“Hai una moglie a cui pensare. Non essere egoista, non pensare solo a te. Vuoi che viva, vero?”

Tatiana sentì il lieve scricchiolio della scala.

Alexander era così immobile che gli si poteva passare accanto senza accorgersi della sua presenza. Un altro scricchiolio.

Uno degli ufficiali disse: “Se ti arrendi, a tua moglie sarà concessa l’amnistia”.

Un altro disse: “Siamo armati fino ai denti. Non puoi fuggire. Comportati in modo assennato”.

Alexander si mosse appena. Si limitò a inclinare in avanti il Python e sparò un proiettile Magnum .357 nella testa dell’ufficiale sulla scala. L’uomo cadde all’indietro in preda a uno spasmo e gli altri si chinarono per sollevare i fucili, ma non furono abbastanza veloci né riuscirono a nascondersi. Alexander puntò e fece fuoco, puntò e fece fuoco, puntò e fece fuoco. Gli uomini non ebbero il tempo di ripararsi, men che meno di sparare.

Alexander si alzò e si voltò verso Tatiana. “Andiamo”, disse senza troppe cerimonie. “Non possiamo restare qui un istante di più. Se il fattore ha il telefono, lo starà di certo usando.”

“Magari non ce l’ha”, mormorò Tatiana.

“Meglio non contarci, no? Presto.”

Tatiana radunò in fretta le sue cose mentre Alexander ricaricava il Python.

“Bell’arma, Tania”, le disse. “Anche se alcuni la temono. Sai per caso a che velocità spara?”

“L’uomo che me l’ha venduta ha parlato di quattrocentocinquanta metri al secondo.”

Alexander emise un fischio. “Che potenza. Quasi come il mio Spagin. Sei pronta?”

Diedero un’occhiata dalla finestra per accertarsi che non arrivasse nessuno e che il fattore fosse in casa e poi scesero giù dalla scala, passarono tra i cadaveri sul pavimento – Alexander si fermò a prendere dalla tasca di uno di loro un pacchetto di sigarette sovietiche – e uscirono. Dalla jeep Alexander prelevò una mitragliatrice leggera e il cinturone con i relativi proiettili. Tatiana gli chiese come avrebbe fatto a portare l’arma, corredata di cavalletto, mitra, pistole, munizioni, e lo zaino.

“Non pensare alla mia schiena”, la rassicurò lui appendendosi il cinturone al collo. “Pensa alla tua.”

“Potremmo prendere la jeep”, propose Tatiana.

“Sì, buona idea, così andremmo dritti dritti verso il prossimo posto di blocco.”

Corsero per i campi, lontano dalla fattoria, nel bosco.

Camminarono fino a mezzogiorno.

“Ci fermiamo?” chiese Tatiana. Erano nei pressi di un ruscello. “Sarai stanco. Ci rinfrescheremo e mangeremo qualcosa. Dove ci troviamo?”

“In nessun posto”, rispose Alexander fermandosi controvoglia. “A poco più di sei chilometri dalla fattoria e dall’esercito sovietico.”

“Sei chilometri a sud?” chiese lei speranzosa. “Allora siamo a soli...”

“A ovest. Non stiamo andando verso sud.”

Tatiana lo fissò. “Che significa che non stiamo andando a sud? Berlino è a sud.”

“Mmm. È lì che ci credono diretti.”

“Ma prima o poi andremo a sud, no?”

“Prima o poi sì.”

Tatiana non aggiunse altro. Si lavarono il viso e i denti. “Non darmi il tubetto di morfina”, disse Alexander.

Lei tirò fuori qualcosa da mangiare. Aveva del prosciutto in scatola, che gli porse con un sorriso. Alexander ricambiò il sorriso e disse: “Mi piace. Ma come pensi di aprirlo?”

“Viene dall’America”, gli spiegò, “sul coperchio ha un aggeggio per aprirlo.”

Aveva anche cracker e sfoglie di mela secca. Mangiarono e bevvero l’acqua del ruscello.

“Bene, andiamo”, disse Alexander alzandosi.

“Shura”, implorò lei guardandolo. “Vorrei fare un bagno. Lavarmi. Ti spiace? Non ci vorrà molto.”

Lui sospirò. “D’accordo. Io fumerò una sigaretta.”

Dopo due o tre sigarette, si svestì ed entrò nell’acqua con lei.

 

Nel bosco deserto e riparato, di primo pomeriggio, erano seduti a cavalcioni su un tronco vicino al ruscello. Tatiana, in canottiera bianca e mutandine, dava le spalle ad Alexander, che aveva solo una maglietta e con una mano le spazzolava i lunghissimi capelli bagnati, mentre con l’altra glieli accarezzava. Nessuno dei due parlava.

Poco dopo, Alexander le baciò il collo all’altezza dell’orecchio e sussurrò: “Niente più trucco sul viso, d’accordo? Voglio vedere le lentiggini”. Tatiana fece le fusa e voltò la testa verso di lui. Si guardarono per un istante e poi si baciarono. Lui lasciò cadere la spazzola e le toccò il viso, il collo e le fedi nuziali.

Poi le fece inclinare la testa all’indietro e con la mano le sfiorò il seno, scese giù fino al ventre e più giù, fra le cosce. Smise di baciarla. “Togliti tutto”, le sussurrò. Tatiana si alzò, si voltò verso di lui, si spogliò e si sollevò in piedi sul tronco. Alexander le circondò i seni con le mani e, dopo averla attirata a sé, le accarezzò tutto il corpo, dalle caviglie ai capelli e poi di nuovo dai capelli alle caviglie. La fece sedere su di lui e poi, stringendola, si protese verso i capezzoli.

I gemiti dolci di Tatiana riecheggiarono nel bosco.

Senza lasciarla, Alexander si alzò, la portò fino a un masso vicino all’acqua, si sfilò la maglietta con una mano, ci si sedette su e appoggiò la schiena al masso, abbassando Tatiana su di sé. Si mosse avanti e indietro dentro di lei, molto lentamente, accompagnandone con dolcezza i movimenti. Tatiana gli afferrò la testa e gemette.

A mano a mano che il movimento si faceva più ritmato lei gemeva sempre più forte. Era stanca e non riusciva più a stare in quella posizione, perciò Alexander la sollevò e la distese sul trench. Le si inginocchiò davanti, le sollevò i fianchi e usò la bocca e le dita su di lei, ma solo per poco, troppo poco. I gemiti di lei divennero più febbrili. Fu allora che Alexander si fermò, le montò sopra e lei cominciò a gridare e gridare...

All’improvviso Tatiana si fermò. Non emise più alcun rumore, a parte i respiri corti che non riusciva a controllare. Stringendosi a lui, sussurrò: “Shura, c’è un uomo che ci sta guardando”.

Si fermò anche Alexander. “Dove?” le disse nell’orecchio, senza voltare la testa.

“Alla mia...”

“Usa l’orologio, Tania. Dimmi dov’è secondo l’orologio. Io sono nel mezzo.”

“Alle quattro e trenta.”

Alexander rimase immobile, come aveva fatto la mattina nel fienile. Tatiana emise un rumore simile al mugolio di un cucciolo.

“Ssst”, disse lui in un soffio. La P.38 era alla sua sinistra, sul trench. Alexander si sollevò appena e, in unico movimento fluido, alzò il cane della pistola, ruotò la mano e sparò tre volte. Nel bosco risuonò un grido e si sentì il tonfo di un corpo che cadde sui cespugli.

Si alzarono entrambi. Alexander s’infilò i boxer e Tatiana le mutandine. Andarono a controllare, lui con il Python e l’M1911 e lei, dietro, con le mani sui seni.

Un uomo con l’uniforme sovietica era a terra e perdeva sangue. Era stato colpito da due proiettili, uno alla spalla e l’altro al collo. Alexander allontanò da lui la pistola carica e tornò nella radura. Tatiana s’inginocchiò davanti all’uomo e gli premette la mano sulla ferita al collo.

Ma sentì la voce incredula di Alexander che la chiamava: “Che stai facendo?”

“Niente”, rispose allentandogli il colletto. “Non riesce a respirare.”

Con un grugnito gutturale, Alexander l’afferrò, la spinse via, puntò il Python e sparò due volte mirando alla testa. Tatiana urlò, cadde e, in preda al terrore, cercò di allontanarsi da lui, che la sollevò da terra ancora con il revolver in mano. Tatiana chiuse gli occhi e si dimenò con una tale forza da rischiare una crisi isterica.

“Tatiana! Che cazzo stai facendo?”

“Lasciami andare!”

“Non riesce a respirare? Lo spero bene! Ora è sicuro. Stai cercando di salvare lui o noi? Questo non è un gioco, ci sono in ballo la tua vita e la mia. Non puoi alleviargli gli ultimi istanti quando stiamo rischiando la pelle!”

“Basta, basta, lasciami andare.”

“Al diavolo!” Alexander gettò a terra le armi e si piazzò davanti a lei, che si copriva il seno con le mani tremanti. “Tania, che cosa vuoi? Perché sei venuta? Volevi lasciare nostro figlio senza madre? Non capisci che si tratta di noi o di loro? Non c’è via di mezzo. Siamo in guerra, lo capisci?”

“Ti prego... io...”

“No, non capisci affatto!” L’agguantò e la strinse forte. “Ci stava guardando, stava guardando te, forse fin dall’inizio, ha visto tutto, ha sentito tutto, e sai che cosa aspettava? Aspettava che finissi, per potermi uccidere e averti tutta per sé. E poi ti avrebbe uccisa. Non sappiamo chi è, potrebbe essere un soldato, un disertore. Ma una cosa è certa: le sue intenzioni non erano di pranzare con noi.”

“Oh, mio Dio, che cosa ti è successo?”

Alexander le prese il viso tra le mani per costringerla a guardarlo e poi la spinse via. “Chi sei tu, per giudicarmi? Sono un soldato, non un santo.” E sputò per terra.

“Non ti sto giudicando. Shura, ti prego...” sussurrò lei.

“Noi o loro, Tatiana.”

“Tu, Alexander, tu.” Barcollò e lui l’afferrò con il braccio per sostenerla, ma non la strinse a sé, non la consolò.

“Non vuoi capire? Vai a toglierti il suo sangue di dosso e rivestiti. Dobbiamo andarcene.”

In meno di dieci minuti lasciarono la radura. Con gli abiti color oliva, camminarono nel bosco senza parlare, tranne quando si fermavano a bere per poi ripartire subito. Alexander fumava. Ogni tanto rallentava per controllare che non ci fossero altri rumori oltre a quelli della campagna e poi ricominciava ad avanzare.

Evitarono i villaggi e le strade asfaltate, ma anche le fattorie. Era estate, la stagione della semina e del raccolto. Dappertutto c’erano mietitrebbiatrici, trebbiatrici, trattori e braccianti. Furono costretti a procedere lungo le recinzioni dei campi per evitare i contadini.

Attraversarono prati e boschi per sei ore e infine si diressero a sud. Tatiana desiderava fermarsi, ma Alexander non accennava a rallentare, perciò non poteva farlo neanche lei.

Quando arrivarono in prossimità di un campo di patate, Tatiana, affamata, accelerò. Alexander l’afferrò all’istante e la spinse dietro di sé. “Non camminarmi davanti, chiaro? Non sai niente di questo campo.”

“Invece tu sì?”

“Sì, perché ne ho visti a migliaia.”

“Anch’io ho già visto un campo, Alexander.”

“Minato?”

Lei non rispose subito. “È un campo di patate, non è minato.”

“E come fai a saperlo? Hai controllato con il binocolo? Hai esaminato il terreno? Ci hai strisciato su, con la baionetta davanti a te, per vedere se ci sono mine? Oppure stai pensando ai campi in cui sei cresciuta da bambina, a Luga, che non erano minati?”

“Basta, adesso”, disse lei piano.

Alexander tirò fuori il binocolo ed esaminò il terreno. Gli sembrava sicuro, ma non voleva rischiare. Aprì la cartina e la studiò attentamente per qualche istante, e poi disse: “Andiamo a sinistra. Sulla destra c’è una strada. È troppo pericoloso. I boschi, invece, sono molto fitti e si estendono per una quindicina di chilometri”.

Tatiana estrasse cinque o sei patate dal bordo del campo.

Raggiunsero il bosco al tramonto. Quando si fermarono a bere, nei pressi di un ruscello, Tatiana propose: “Perché non peschiamo qualcosa? Potresti accendere un falò e io cucinerei patate e pesce. Insomma, potremmo accamparci”. Avrebbe voluto sorridergli, ma lui aveva un’espressione torva.

“Un falò? Sei uscita di senno? Hanno fiutato il fumo della mia sigaretta in un fienile. A cosa credi che addestrino i loro cani, se non a fiutare l’odore del pesce cotto?”

“Oh, Alexander, hanno smesso di cercarci. Non sono qui.”

“No, sono laggiù.” E indicò un punto vago in lontananza. “Quando arriveranno sarà troppo tardi. Non voglio aiutarli a trovarci.”

“Quindi non ceniamo?”

“Mangeremo le patate crude.”

“Fantastico”, borbottò lei.

Mangiarono le patate crude e aprirono la penultima scatoletta di prosciutto. Se l’avesse immaginato, Tatiana ne avrebbe portate molte altre, ma chi avrebbe mai pensato che non avrebbero potuto accendere un falò per cucinare pesce e patate? Si lavarono, lui fumò e poi le chiese: “Pronta?”

“Pronta per cosa?”

“Dobbiamo andare.”

“Ti prego, basta. Sono le otto. Dobbiamo riposarci, riprenderemo domani con la luce.” Avrebbe voluto dirgli che aveva paura di camminare di notte, ma non voleva mostrargli la sua debolezza, perciò non aggiunse altro e attese che lui prendesse la decisione più giusta.

Nessuno dei due parlò.

“Procediamo fino alle dieci”, concesse infine Alexander con un sospiro. “Poi ci accamperemo.”

Tatiana rimase incollata a lui. Avrebbe voluto avere qualcuno anche alle spalle, perché era come se avvertisse una presenza. Ogni volta che Alexander si fermava ad ascoltare i rumori del bosco, lei si voltava di scatto. Quando udì un rumore – una pietra che rotolava o un ramo che colpiva qualcosa – urlò e si aggrappò a lui.

Alexander l’abbracciò e chiese: “Che c’è, Tatiasha?”

“Niente, niente.”

Allora le diede una pacca e disse: “Fermiamoci”.

Tatiana si morse il labbro per non supplicarlo di cercare un fienile, un riparo, un fossato vicino a una casa, persino un campo minato, qualsiasi cosa pur di non passare la notte nel bosco.

Con dei rami robusti e il trench, Alexander costruì un riparo e si allontanò dicendole che sarebbe tornato subito. Dopo un quarto d’ora, Tatiana andò a cercarlo e lo trovò seduto contro un tronco a fumare.

“Shura”, sussurrò. “Che stai facendo?”

“Niente. Va’ a dormire. Domani avremo una giornata lunga.”

“Vieni nel riparo.”

“È troppo piccolo. Sto bene qui.”

“Non è troppo piccolo. Dormiremo abbracciati. Vieni.” Lo tirò per il braccio e lui la respinse.

Tatiana s’inginocchiò accanto a lui, lo guardò e poi gli accarezzò il viso. “Shura...”

“Ascoltami”, disse, “devi smetterla di discutere con me. Io sono dalla tua parte. Devi permettermi di fare quello che è meglio per entrambi. Non posso ripetertelo ogni volta che ci troviamo in pericolo.”

“Lo so”, replicò lei. “Mi dispiace, ma sai che non posso farci niente. Sono fatta così.”

“Dovrai sforzarti. So che è difficile, e so anche che sei sconvolta e vorresti che fosse andata diversamente, ma devi vincere questa battaglia dentro di te. O forse non t’importa, se vincono i cattivi?” L’abbracciò.

Tatiana gli premette il viso sulla gola. “Certo che m’importa. Ci proverò, d’accordo?” sussurrò.

“Ce la farai”, replicò lui stringendola. “Farai come ti dico, non interferirai e non ti prenderai cura di quelli che vogliono ucciderci, ecco cosa farai.” Le prese il viso tra le mani. “Tania, a Morozovo ti ho lasciata andare, ma stavolta no. Questa volta vivremo insieme o moriremo insieme.”

“Sì, Alexander.”

“Sto ignorando ogni lato del mio carattere tranne quello che ci serve a uscire vivi di qui, ed è quello che farai anche tu.”

“Sì, Alexander. Vieni a dormire.”

Lui scosse la testa.

“Ti prego”, sussurrò Tatiana. “Ho paura, la notte, nel bosco.”

S’infilarono sotto il riparo, Alexander dietro di lei, e si coprirono con la coperta di cachemire. “È un regalo per te”, gli confidò Tatiana. “L’ho comprata il mio primo Natale a New York.”

“È calda e leggera”, commentò lui. “Una bella coperta. ‘Oh, Dio, fa’ piccola la vecchia coperta del cielo consumata dalle stelle, perché io mi ci possa avvolgere e starmene comodo’.

Erano fatti l’uno per l’altra. Due ciotole di metallo che entrano perfettamente l’una nell’altra, pensò Tatiana, ricordando il giorno della loro luna di miele a Lazarevo in cui lui le preparò il gelato.

“Tania”, disse Alexander, “sii franca, non ci resterò male. Volevo che tu fossi felice. Sei stata con un altro uomo?”

“No”, rispose lei, ripensando a quanto ci era andata vicino con Jeb e con Edward. “Nessuno è benedetto e ricco come te dei doni degli dei.” Tatiana sentì che Alexander era teso. “E tu?”

“No.” Dopo una pausa, aggiunse: “Anche se l’ho desiderato, per allontanare la morte”.

Tatiana chiuse gli occhi. “Sì, anch’io”, disse. “Vuoi finire quello che avevamo... cominciato?”

“No”, rispose lui.

Quando riaprì gli occhi, era ancora buio e Alexander non era più con lei. Era seduto fuori dal riparo con il mitra fra le mani.

“Che stai facendo?” gli chiese.

“Veglio su di te”, rispose lui.

Tatiana andò a prendere la coperta e gliela posò sulle spalle, quindi si distese a terra con la testa sul suo grembo. Chiuse gli occhi e dormì un sonno inquieto.

Quando si svegliò, aveva la testa sotto la coperta. Dopo averla scostata, vide che Alexander fumava e la stava guardando. Era teso come un’asse di legno.

“Che succede?” sussurrò.

“Non volevo sporcarti la testa con la cenere.”

“No, voglio dire... qualcosa non va?”

Lui distolse lo sguardo. “Non credo che ce la faremo, Tatiana”, sussurrò.

Lei lo guardò per un istante e poi chiuse gli occhi, sprofondando di più nel suo grembo. “Vivi avendo fede”, disse, “e la fede ti sarà data.”

Alexander non replicò.

Tatiana si tolse le fedi dal collo. S’infilò la più piccola all’anulare sinistro, gli prese la mano – anche se le ci volle un po’ per convincerlo a lasciare un istante il mitra – e gli infilò l’altra all’anulare. Lui le strinse la mano e poi tornò a brandire l’M1911.

“Non ti va di dormire? Resterò sveglia io.”

“No”, disse lui. “Non ci riesco.”

Tatiana gli accarezzò il braccio. “Che cosa posso fare?” Gli diede una pacca. “Posso fare qualcosa?”

“No.”

“No?” domandò lei sorpresa.

“No”, ripeté lui secco. “Non mi sento al sicuro. Non voglio abbassare la guardia neanche per un momento. Guarda che cosa stava per succedere.”

Lei si riaddormentò. All’alba, quando gli alberi diventarono azzurri, Alexander la svegliò. In silenzio, si lavarono i denti e raccolsero le loro cose. Tatiana si allontanò di qualche metro e, quando ritornò, lui le dava le spalle.

“Hai fame?” gli chiese, e, prima ancora di aver finito la frase, Alexander si voltò e le puntò contro due pistole pronte a far fuoco. Dopo un istante le abbassò e si voltò senza proferire parola.

Tatiana gli si avvicinò per vedere cosa stesse facendo: Alexander stava frugando nel suo zaino.

“Che cosa cerchi?” gli chiese.

“Non hai altre sigarette?”

“Certo. Ne ho comprati sei pacchetti.”

Dopo un attimo di esitazione, lui precisò: “Oltre a quelli”.

Anche lei esitò prima di chiedergli: “Stanotte hai fumato sei pacchetti?”

Alexander ricominciò a frugare nello zaino.

“E quello che hai preso ai sovietici?”

“Cosa?” disse Alexander.

Tatiana gli andò vicino e gli tolse dalle mani lo zaino. Cercò di togliergli anche le pistole dal cinturone, ma lui non glielo permise, allora lo abbracciò. “Shura”, sussurrò. “Marito caro, vedrai...”

“Andiamo”, disse lui ritraendosi. “Dobbiamo andare.”

Si avviarono, questa volta verso sud. Via via che avanzavano, lui le impedì di allontanarsi anche solo di un metro. Niente più nuotate, falò, prosciutto né cracker. Raccolsero dei mirtilli lungo il tragitto e s’imbatterono in un altro campo di patate.

Quella sera, Tatiana gli chiese di accendere un falò. Dopotutto, non avevano sentito alcun rumore sospetto per tutto il giorno. Lui rifiutò. Tatiana si meravigliò che avessero percorso soltanto quindici chilometri. Le sembrò che procedessero molto lentamente. Cominciò a chiedersi se, per caso, Alexander avesse timore di avvicinarsi a Berlino per qualche ragione precisa. Ma quale? “Dovremmo essere molto vicini. Non credi?”

“No. Siamo... sì, mancano solo dieci chilometri.”

“Potremmo farcela per domani.”

“No, credo che dovremmo aspettare nei boschi per un po’.”

“Aspettare nei boschi? Ma se non fai altro che camminare, non vuoi mai fermarti!”

“Fermiamoci.”

“Quando ci fermiamo, non possiamo accendere il fuoco, cucinare, mangiare, nuotare, dormire né... possiamo fare altro. Perché dovremmo aspettare nei boschi?”

“Ci stanno cercando. Non senti?”

“Cosa?”

“Loro. Tutt’intorno a noi, in lontananza, avanti e indietro, non li senti?”

Non li sentiva. “Anche se fosse, la zona nord di Berlino è estesa. Non ci cercheranno ovunque.”

“E invece sì. Dovremmo restare qui.”

Tatiana posò le mani su di lui. “Su, Alexander”, lo incitò. “Procediamo finché non siamo esausti.”

Lui si allontanò da lei e disse: “Va bene. Se è quello che vuoi, andiamo”.

Nell’ultimo tratto prima di Berlino i boschi si fecero più radi. La campagna digradò fino a diventare pianeggiante e gli alberi comparvero solo in filari a separare i campi. Avanzavano piano, e a un certo punto sostarono due ore fra i cespugli perché, all’orizzonte, Alexander vide i fari di una jeep.

Non c’erano ruscelli né posti in cui nascondersi. Lui era sempre più teso e procedeva con il mitra in mano. Tatiana non sapeva come aiutarlo. Avevano finito le sigarette.

Alle nove, mentre lui le concedeva un po’ di riposo, Tatiana chiese: “Non credi che la campagna sia tranquilla?”

“No”, rispose lui. “Tutt’altro. Intorno ai campi, in lontananza, sento continuamente jeep, voci e cani che abbaiano.”

“Io non li sento”, disse Tatiana.

“Perché dovresti?”

“E perché dovresti tu?”

“Perché li sento. Avanti, sei pronta?”

“No. Mi mostri sulla carta dove siamo?”

Con un sospiro, Alexander l’aprì e lei seguì il suo dito. “Shura, ma è fantastico! A pochi chilometri davanti a noi c’è una collina non troppo elevata... seicento metri non sono troppi, no? Seicento metri in salita, seicento metri in discesa e, dall’altra parte, ci fermeremo a pochi chilometri da Berlino. Per domani a mezzogiorno saremo nel settore americano.”

Alexander la guardò. Senza dire niente, ripiegò la cartina e riprese a camminare.

Sotto il cielo limpido e illuminato dalla luna era possibile vedere senza l’aiuto della torcia. Quando raggiunsero la sommità della collina, Tatiana credette di vedere Berlino in lontananza. “Vieni”, disse. “Facciamo di corsa gli ultimi seicento metri in discesa.”

Alexander si lasciò cadere a terra. “È evidente che non hai fatto caso alla guerra, a Leningrado. Non hai imparato niente da Pulkovo, da Sinjavino? Non ci muoveremo da questa collina. L’altitudine è l’unico vantaggio che abbiamo. Un modesto fattore sorpresa. Giù, li aspetteremmo a mani alzate.”

Tatiana ripensò ai tedeschi a Pulkovo e a Sinjavino. Ma si sentiva troppo esposta, sulla collina spoglia, con un unico albero e pochi cespugli. Alexander, però, decise che non si sarebbero mossi. Perciò non si mossero.

Non preparò alcun rifugio e le disse di non tirare niente fuori dallo zaino eccetto la coperta, se le serviva, così da essere pronti a correre in qualsiasi momento.

“Correre? Shura, guarda com’è silenzioso, com’è tranquillo.”

Alexander non l’ascoltava. Si era allontanato e stava trafficando. Si vedeva solo la sua sagoma. “Che fai?” gli chiese dopo averlo raggiunto.

“Sto scavando, non vedi?”

Lo osservò per qualche istante. “Che stai scavando?” gli domandò piano. “Una tomba?”

Senza neanche guardarla, lui rispose: “No, una trincea”.

Tatiana non lo capiva. Temeva che la mancanza di sigarette e la sua terribile apprensione si fossero mutate in una temporanea (ma solo temporanea, vero?) follia. Avrebbe voluto dirgli che si comportava da paranoico, ma era inutile, perciò si chinò e lo aiutò a scavare con il coltello e le mani nude finché la fossa non fu lunga a sufficienza perché lui potesse distendersi e ripararsi.

Finirono verso le due del mattino.

Si sedettero contro il tiglio, lui con la schiena appoggiata al tronco e lei nel suo grembo. Alexander si rifiutò di sdraiarsi e di separarsi dal mitra, ma a un certo punto Tatiana se lo sentì cadere addosso, con il risultato che lei si spaventò a morte, e lui saltò in piedi e la fece finire a terra.

Dopo che si furono seduti di nuovo, Tatiana cercò di dormire, ma era impossibile rilassarsi a contatto del corpo di lui, così teso.

Lo sentì dire: “Non saresti dovuta venire. Avresti dovuto lasciarmi qui. Facevi una bella vita. Ti prendevi cura di nostro figlio. Avevi un lavoro, degli amici, tante promesse, New York. La nostra storia era finita. Avresti dovuto lasciar perdere”.

Di che stai parlando? avrebbe voluto sbottare. Non pensava quello che diceva, per quanto terribili fossero le sue parole. “Se volevi che lasciassi perdere, perché hai messo Orbeli nei miei incubi?” gli domandò. “Perché mi hai dato un indizio?”

“Non ho messo Orbeli nei tuoi incubi”, replicò Alexander. “Te l’ho dato perché avessi fede.”

“No!” Tatiana si allontanò da lui con un balzo.

“Abbassa la voce”, le ricordò Alexander, senza muoversi.

In piedi, lei sussurrò: “Mi hai dato Orbeli perché fossi dannata!” Lui si arrabbiò moltissimo.

“Certo, perché era a questo che pensavo, durante i miei ultimi giorni: a come renderti la vita un inferno,” Alexander mosse lo stivale sul terreno.

“Mi hai dato Orbeli per torturarmi!” esclamò Tatiana.

“Ti ho detto di abbassare la voce!”

“Se volevi davvero che ti credessi morto, non avresti dovuto dire niente. Se volevi davvero che ti credessi morto, non avresti chiesto a Sayers di nascondere la tua dannata medaglia al valore nel mio zaino, Sapevi, sapevi che se avessi avuto un solo indizio, una sola parola, grazie a cui crederti vivo, non sarei mai riuscita a costruirmi una vita nuova. Orbeli era quella parola.”

“Volevi una parola e l’hai avuta. Non puoi tenere il piede in due staffe, Tatiana.”

“Ci eravamo giurati fedeltà reciproca e tu hai messo fine alla nostra vita con un’ignobile menzogna. Mi hai fatto stare sulle spine tutti i giorni. La tua vita e la tua morte sono stati la mia gabbia. Non sono riuscita a liberarmene. E tu lo sapevi.”

Rimasero in silenzio per un po’, mentre Tatiana cercava di calmarsi. “Il Cavaliere mi ha inseguita ogni giorno e ogni notte della mia vita, e ora tu mi dici che non sarei dovuta venire a cercarti?” Si chinò, l’afferrò e lo scosse. Alexander non protestò, non si difese, ma dopo un po’ l’allontanò da sé.

“Toglimi i vestiti”, disse. “Avvicinati, sdraiati nuda accanto e me e strappami con i denti la carne dalle ossa, proprio come nel sogno. Come hai già fatto, mangiami pezzo per pezzo, Tatiana.”

“Oh, mio Dio, Alexander”, gemette lei lasciandosi cadere a terra.

Rimasero seduti sotto il tiglio, nell’aria di giugno, dandosi le spalle. Tatiana si coprì il viso con le mani e si distese sul terreno. Lui rimase seduto, circondato dalle armi.

Passarono le ore. “Tatiana”, la chiamò piano all’improvviso, e non fu necessario che aggiungesse altro, perché li sentì anche lei. Stavano arrivando. Questa volta il rumore dei motori, le grida degli uomini e i latrati dei cani non erano lontani. Questa volta erano molto vicini.

Tatiana era sul punto di scattare in piedi, ma Alexander la trattenne con la mano senza dire una parola. “Che fai”, gli sussurrò. “Perché resti seduto? Fuggiamo! Un attimo e saremo giù.”

“E loro tra un attimo saranno in cima alla collina. Quante volte devo ripetertelo?”

“Alzati! Fuggiamo...”

“Dove? Siamo circondati da colline e campi, Credi di poter sfuggire ai pastori tedeschi?”

Continuava a trattenerla a terra. Lei smise di ansimare. “Credi che i cani ci fiuteranno?”

“Sì, ovunque andremo.”

Tatiana guardò i piedi della collina. Non riuscì a vederli, ma sentì i frenetici latrati dei cani e le urla degli uomini che li tenevano al guinzaglio e ordinavano loro di fare silenzio, in russo. Lei sapeva che abbaiavano perché erano vicini alla preda.

“Va’ nella trincea, Shura”, gli disse. “Io mi nasconderò sull’albero.”

“È meglio che ti ci leghi, allora. Ti lanceranno un lacrimogeno e non riuscirai a reggerti.”

“Va’. E lasciami il binocolo. Ti dirò quanti sono.” Lui mollò la presa e si alzarono. “Dammi anche una P.38.” Dopo una pausa, aggiunse: “Uccidiamo i cani. Senza di loro, non sapranno dove siamo”.

Finalmente Alexander sorrise. “Credi che due cani morti non li insospettiranno?”

Tatiana non ricambiò il sorriso. “Dammi anche le granate. Forse riesco a colpirli.”

“Le lancerò io. Non vorrei che staccassi la miccia troppo presto. Quando spari, sta’ attenta al rinculo. Non è troppo violento, con la P.38, ma sta’ attenta lo stesso. E anche se c’è ancora un proiettile in canna, ricaricala, se puoi. È meglio averne otto, che uno.”

Lei annuì.

“Non lasciare che si avvicinino troppo. Più lontani sono, più probabilità avremo che manchino il bersaglio.” Le diede la pistola, la fune, tutti i caricatori da 9 millimetri che c’erano nello zaino di tela e le fece segno di andare. “Ora”, disse, “e non scendere per nessuna ragione al mondo.”

“Non essere sciocco”, replicò lei. “Se c’è bisogno, scenderò. Se ti servo qui, è qui che sarò.”

“No”, ripeté Alexander. “Verrai giù quando te lo dirò io. Non posso occuparmi anche di te.”

“Shura...”

Tatiana era minuta e lui la sovrastò. “Verrai giù quando te lo dirò io, chiaro?”

“Sì”, rispose lei con un fil di voce. S’infilò la pistola nei pantaloni e alzò le braccia. Il ramo più basso era comunque troppo alto per lei, perciò Alexander la sollevò. Dopo averlo afferrato, Tatiana si arrampicò. Lui corse alla trincea, allineò tutte le armi e le munizioni, caricò la mitragliatrice che sistemò sul cavalletto e si acquattò nella fossa. Lo Spagin era al suo fianco. Aveva centocinquanta colpi.

Tatiana salì il più in alto possibile, ma il fitto fogliame del tiglio le impediva la visuale. Dopo aver spezzato qualche rametto, si sistemò a cavalcioni di un grosso ramo, vicino al tronco. Da quella posizione riusciva a vedere la campagna digradante nonostante la foschia mattutina. Le sagome degli uomini erano piccole e lontane, sparpagliate, a vari metri l’una dall’altra.

“Quanti sono?”

Tatiana controllò con il binocolo. “Una ventina.” Il cuore le martellava contro lo sterno. Non riuscì a vedere i cani, ma individuò gli uomini che li tenevano al guinzaglio, perché si muovevano più in fretta degli altri, con scatti improvvisi, come trascinati.

“Dove sono?”

Quello Tatiana non lo sapeva dire. Erano lontani, ancora molto piccoli. Alexander sarebbe stato in grado di calcolare la distanza, pensò, ma non può fare tutto lui, vederli e ucciderli. Il Python aveva un mirino molto preciso, forse avrebbe potuto vedere i cani con quello?

“Shura, riesci a vedere i cani?”

Aspettò una risposta. Lo vide sollevare il revolver, puntare e poi sentì lo scoppio di due proiettili. I latrati cessarono.

“Sì”, rispose Alexander.

Tatiana sollevò il binocolo. In lontananza, il trambusto era notevole. Gli uomini si dispersero. “Si stanno allontanando!”

Ma Alexander non l’ascoltò: balzò in piedi e aprì il fuoco. Per molti secondi, tutto quello che Tatiana sentì furono gli spari. Quando lui si fermò, si udì un sibilo e una granata esplose a un centinaio di metri da loro. Quella seguente esplose a cinquanta metri. La terza, a soli venticinque.

“Dove, Tania?” urlò Alexander, con la mitragliatrice in spalla.

Tatiana guardò nel binocolo, ma gli occhi la ingannarono. Le sembrò che gli uomini strisciassero sul terreno nelle loro uniformi scure e si avvicinassero. Strisciavano o si contorcevano?

Alcuni si alzarono. “Ce ne sono due all’una e tre alle undici”, urlò Tatiana. Alexander aprì il fuoco. All’improvviso si fermò e lanciò in aria la mitragliatrice. Che cosa era successo? Quando Tatiana lo vide prendere lo Spagin capì che aveva finito le munizioni. Ma lo Spagin aveva soltanto mezzo caricatore, trentacinque colpi circa. Dopo pochi secondi finirono anche quelli. Alexander impugnò le Colt, sparò otto volte, s’interruppe un paio di secondi, sparò altre otto volte e s’interruppe un paio di secondi. Il ritmo della guerra, pensò Tatiana desiderando chiudere gli occhi. I tre uomini alle undici all’improvviso diventarono cinque alle undici e altri quattro all’una. Alexander, rannicchiato per terra, non smise mai di sparare eccetto i due secondi che gli ci volevano per ricaricare.

Da sotto giunsero brevi spari. Erano irregolari, ma venivano nella loro direzione. Tatiana riuscì a individuare gli uomini che sparavano dalla fiammata dei mitra. Li notò anche Alexander. Ma poi le venne in mente che anche lui era ben visibile per lo stesso motivo, e gli urlò di stare a terra. Alexander tornò a pancia in giù nella trincea.

Un uomo salì sulla collina, a un centinaio di metri da loro, proprio di fronte all’albero di Tatiana.

Lei lo vide lanciare qualcosa che sibilò nell’aria, cadde molto vicino ad Alexander ed esplose, incendiando i cespugli e l’erba davanti a lui. Alexander staccò la sicura da due granate e le lanciò alla cieca, perché non vedeva niente.

Tatiana invece vedeva: caricò la pistola, mirò alla sagoma di fronte e, prima di ripensarci, sparò. Il rinculo fu violento e le fece sussultare la spalla, ma il rumore assordante fu anche peggio, perché dopo non riuscì a sentire più niente. I cespugli e l’erba davanti ad Alexander erano in fiamme.

Credette di sussurrare il nome di Alexander, ma non sentì alcun rumore uscire dalla sua bocca. Guardò nel binocolo. Il cielo era più limpido e le sagome sul terreno erano ferme. Sparò più volte. Le bombe cessarono, ma all’improvviso un mitra sparò qualche colpo verso la trincea. Tatiana individuò gli uomini, nascosti tra i cespugli a metà collina. Non potendo avvertire Alexander, la cui risposta non avrebbe comunque sentito, prese la mira e, senza neanche sapere se i proiettili avrebbero coperto la distanza di duecento metri, fece fuoco. Ancora assordata, ricaricò sei volte.

Alexander continuava a sparare. I cespugli si sarebbero comunque incendiati, dalla quantità di colpi che sparò. Tatiana era confusa. Puntò la pistola verso i piedi della collina, chiuse gli occhi e sparò, ricaricò, sparò, ricaricò finché non finì i proiettili.

Poi calò un assoluto silenzio. Quasi assoluto.

Aprì gli occhi.

“Attento alle spalle!” urlò, e Alexander rotolò fuori dalla trincea proprio nell’attimo in cui il soldato che lo aveva sorpreso da dietro sparò nella fossa. Lui lo disarmò con un calcio e lo tirò giù per terra, dove ingaggiarono un corpo a corpo. L’uomo estrasse un coltello dallo stivale e, a quella vista, Tatiana per poco non cadde dall’albero. Strappò la fune che la reggeva, si precipitò giù e attraversò di corsa la radura, diretta verso i due uomini. “Basta, basta!” urlò, alzando la pistola, e, pur sapendo di non avere più proiettili in canna, caricò. Basta? Ma se lei stessa non riusciva a sentire la propria voce, come potevano sentirla loro? L’uomo avvicinò il coltello ad Alexander, che gli teneva stretto il polso.

Dopo aver sollevato la pistola scarica, Tatiana colpì con violenza il soldato sul collo. Quello trasalì, ma il coltello restò puntato contro Alexander, che continuava a immobilizzargli il polso per evitare che glielo conficcasse nell’addome. Tatiana urlò e colpì di nuovo, ma non aveva forza a sufficienza, perciò colpì più volte, permettendo al marito di afferrare il collo del soldato e di torcerglielo con forza fino a stordirlo. Alexander lo spinse via e si rialzò, ricoperto di sangue e teso. Disse qualcosa che lei non sentì, perciò le fece segno di indietreggiare. Tatiana lasciò cadere la pistola e si allontanò, e Alexander mirò al soldato e premette il grilletto, ma non si udì nessun rumore.

La pistola è scarica, avrebbe voluto dirgli Tatiana, ma ormai lui lo sapeva. Alexander afferrò il Python, che aveva ancora qualche colpo in canna, e puntò, ma non sparò. L’uomo aveva il collo rotto. Alexander lasciò cadere il revolver, la raggiunse e l’abbracciò per calmarla.

Ansimavano entrambi. Lui era coperto di cenere nera e perdeva sangue dal braccio, dalla testa, dal torace e dalla spalla.

Le disse qualcosa, ma Tatiana non sentì.

Quindi si chinò e le sussurrò all’orecchio: “Ben fatto, Tania. Ma credevo di essere stato chiaro: non dovevi muoverti finché non te l’avessi detto io”.

Lei lo guardò per capire se stesse scherzando.

Alexander la strinse forte e mormorò: “Dobbiamo andare. Ci restano solo i proiettili del revolver”.

“Li hai uccisi tutti?” domandò lei. Non udiva la propria voce.

“Smettila di gridare. Non credo e, in ogni caso, la prossima volta manderanno cento uomini con armi più pesanti. Andiamo.”

“Aspetta, sei ferito...”

Lui le coprì la bocca con la mano. “Smettila di gridare”, le ripeté. “Tra un po’ l’udito ti tornerà. Non parlare e seguimi.”

Tatiana gli indicò il torace e Alexander si chinò scrollando le spalle. Lei strappò via la manica della camicia e, dopo aver individuato le schegge di granata, gliele estrasse dalla spalla. Una era conficcata in profondità nel deltoide. “Shura, guarda”, credette di dire.

Lui si protese verso di lei. “Afferrala con le dita e tirala via.”

Tatiana obbedì e per poco non svenne al pensiero del dolore che Alexander aveva provato. Lui fece una smorfia ma non si mosse. Tatiana gli disinfettò le ferite con un antisettico e gliele fasciò. Ci mise due minuti.

“E il viso?”

Notò che la ferita alla testa si era riaperta.

“Smettila di parlare. Sto bene, ci penseremo dopo. Ora andiamocene.” Tatiana aveva il volto sporco del sangue di lui, che l’aveva abbracciata. Non se lo pulì.

Alexander lasciò la mitragliatrice scarica e prese soltanto le pistole, il mitra e lo zaino; Tatiana prese la borsa da infermiera e corsero il più veloce possibile giù per la collina.

 

Corsero lungo i perimetri dei campi, lungo i filari di alberi e i muretti di pietra; camminarono e strisciarono per le successive due, tre ore fino a quando cominciarono a scorgere abitazioni residenziali, non più fattorie. Infine raggiunsero le prime strade e, sul fianco di un edificio a tre piani bombardato, videro un cartello bianco che diceva: “STATE ENTRANDO NEL SETTORE BRITANNICO DELLA CITTÀ DI BERLINO”.

A Tatiana era tornato l’udito. Afferrò Alexander per il braccio sano e disse: “Ci siamo quasi”.

Lui non replicò.

Dopo qualche centinaio di metri capì perché Berlino non era deserta: in strada c’erano camion e jeep, non tutti dell’esercito britannico. Un camion con la falce e il martello sul cofano sfrecciò strombazzando. Alexander la tirò in un portone e chiese: “Quanto dista il settore americano?”

“Non lo so, ma ho la pianta della città.”

Scoprirono che si trovava a cinque chilometri. Ci misero l’intera giornata per raggiungerlo. Correvano da un edificio all’altro e si fermavano nei portoni dei palazzi distrutti ad aspettare.

Quando raggiunsero il settore americano, erano le quattro del pomeriggio.

Trovarono l’ambasciata in Clayallee alle quattro e mezza, ma non riuscirono ad attraversare la strada perché davanti all’ingresso erano parcheggiate quattro jeep con la falce e il martello.

Questa volta fu Tatiana a tirare Alexander in un portone, sotto le scale, dove rimasero seduti a riprendere fiato.

“Non sono qui per noi”, disse Tatiana ottimista. “Credo si tratti di una procedura standard.”

“Certo. Non credi che li abbiano informati che stanno dando la caccia a un uomo della mia taglia e a una donna della tua?”

“Non credo”, rispose lei con voce esitante.

“Va bene. Andiamo.” Alexander si alzò.

Lei lo fermò.

“Tatiana, che hai in mente?”

“Io sono una cittadina americana. Ho il diritto di entrare nella mia ambasciata.”

“Sì, ma verrai fermata prima di poter esercitare questo diritto.”

“Ma dobbiamo pur fare qualcosa.”

Lui non replicò e Tatiana continuò a pensare, con gli occhi fissi su di lui. Alexander non era teso come prima. Era come se la battaglia lo avesse liberato. Tatiana gli accarezzò il viso. “Ehi”, disse porgendogli la mano. “Tirati su. La guerra non è ancora finita, soldato. Vieni.”

“Dove?”

“A casa del governatore. Non è troppo distante da qui.”

Quando arrivarono al quartier generale del comando americano, Tatiana si nascose in un edificio sul marciapiede di fronte, indossò l’uniforme da infermiera e fece segno ad Alexander di seguirla fino ai cancelli presidiati. Erano le cinque. Nei paraggi non c’erano mezzi sovietici.

“Io ti aspetto qui. Va’ da sola e poi vieni a prendermi”, le disse.

Lei gli prese la mano. “Non intendo lasciarti, Alexander. Andremo insieme, ma metti via le armi.”

“Non attraverserò la strada disarmato.”

“Non c’è nessuno! E poi stai per entrare nella casa del governatore. Chi credi che ti lascerà entrare con le armi in pugno? Mettile via.”

Lasciarono il mitra, perché era troppo vistoso. Con le altre armi nello zaino, raggiunsero i cancelli e Tatiana, spalla a spalla con Alexander, chiese alla sentinella di chiamare il governatore Mark Bishop. “È l’infermiera Jane Barrington che lo cerca”, disse.

Alexander la guardava. “Non Tatiana Barrington?”

“Jane è il nome che ho sui documenti della Croce Rossa”, rispose lei. “E poi Tatiana è troppo russo.”

Si guardarono per qualche istante. “È molto russo”, borbottò lui piano.

Mark Bishop comparve ai cancelli. Diede un’occhiata a entrambi e li invitò: “Entrate”. Prima che oltrepassassero l’ingresso, aggiunse: “Infermiera Barrington, ha scatenato un putiferio”.

“Governatore, lui è mio marito, Alexander Barrington”, gli disse in inglese.

“Sì”, fu tutto ciò che Bishop rispose. “È ferito?”

“Sì.”

“E lei?”

“No. Governatore, uno dei suoi uomini può accompagnarci all’ambasciata? Dobbiamo vedere il console John Ravenstock. Ci sta aspettando.”

“Davvero?”

“Sì.”

“Sta aspettando anche suo marito?”

“Sì, mio marito è un cittadino americano.”

“Davvero? E dove sono i suoi documenti?”

Tatiana guardò il governatore dritto negli occhi. “La prego”, disse. “Lasciamo che se ne occupi il consolato. Non ha senso che lei venga coinvolto. Le saremmo molto grati se ci desse un” – e mise una particolare enfasi sull’articolo indeterminativo – “passaggio.”

Bishop chiamò due soldati. “Preferisce una jeep, infermiera Barrington, o...”

“Un camion coperto sarebbe meglio, governatore.”

“Certamente.”

Tatiana gli chiese se il dottor Flanagan e l’infermiera Davenport avessero raggiunto il settore americano.

“Non senza problemi, ma li abbiamo rimandati a casa due giorni fa. Dire che erano contrariati per il suo comportamento sarebbe un eufemismo.”

“Lo capisco e mi dispiace moltissimo. Sono contenta che siano sani e salvi.”

“Non si scusi con me, infermiera Barrington. Si scusi con loro.”

Due soldati accompagnarono all’ambasciata Tatiana e Alexander, che si sedettero sul pianale del camion, vicini e in silenzio. Lei cercò di pulirgli la tempia macchiata di sangue, ma lui scostò la testa.

Quando i portelli si aprirono, erano sul suolo americano.

“Andrà tutto bene, Shura”, gli sussurrò prima di scendere. “Vedrai.”

Ma quando John Ravenstock comparve in smoking e cravatta nera all’ingresso, nel cortile lastricato dove lo aspettavano, non sorrideva né si dimostrò affabile. O era semplicemente un uomo serio oppure non voleva fare un singolo gesto che potesse essere interpretato come un segno di calore.

“Signor Ravenstock, Sam Gulotta di Washington ci ha detto di venire da lei.”

“Credetemi, ho sentito varie persone in questi ultimi giorni, compreso Sam.” Emise un profondo sospiro. “Infermiera Barrington, mi segua. Suo marito aspetterà qui. Ha bisogno di un dottore?”

“Dopo”, rispose lei tenendo stretta la mano di Alexander. “Adesso ha solo bisogno di venire con noi. Parleremo in privato, se preferisce, e lui ci aspetterà fuori dall’ufficio, ma deve entrare. Oppure parleremo qui, davanti a lui.”

Ravenstock scosse la testa. “Vede”, disse, “sono le sei e io smetto di lavorare alle quattro. Stasera ho un ricevimento. Mia moglie mi sta aspettando.”

“Anche mio marito sta aspettando”, replicò pacata Tatiana.

“Sì, sì. Suo marito, suo marito. Ma la giornata lavorativa è finita. Entrate, ma non posso occuparmi come si deve della faccenda, adesso. Altrimenti farò tardi.”

Entrarono nell’edificio dell’ambasciata e salirono l’ampia scalinata fino al secondo piano, dove si trovava l’ufficio rivestito di pannelli di legno del console. Ravenstock chiamò una guardia e le ordinò di restare con Alexander in sala d’attesa, poi condusse Tatiana nel suo ufficio. Lei si voltò a guardare il marito, restia a lasciarlo da solo, ma erano nell’ambasciata americana, ed era meglio che lasciarlo in un edificio deserto sul suolo sovietico. Alexander estrasse l’accendino e chiese alla guardia una sigaretta.

“La prego, non si sieda, non abbiamo molto tempo”, disse Ravenstock chiudendo la porta. Era un uomo sulla cinquantina, con i capelli grigi, alto, con baffi e sopracciglia grigi e folti.

Tatiana rimase in piedi.

“Ha idea di quanti problemi ci ha creato?” le chiese il console, infervorato. “No, vero? Infermiera Barrington, si trova in Germania, a Berlino, per un privilegio! Abusare della sua uniforme della Croce Rossa e provocare i nostri ex alleati è pura follia. Ma ora non ho tempo per approfondire.”

“Signore, il consolato negli Stati Uniti autorizzerà il rilascio di un passaporto per mio marito...”

“Passaporto! Mio Dio. Sì, Sam Gulotta mi ha contattato per questo. Si dimentichi del passaporto. Abbiamo un grosso problema per le mani, una situazione molto delicata. Se ne rende conto?”

“Me ne rendo conto...”

“No, non credo. Il comandante della guarnigione di Berlino, l’amministrazione militare sovietica in Germania, diamine, il Ministero per la Sicurezza nazionale di Mosca sono estremamente irritati da questa faccenda!”

“Il comandante della guarnigione di Berlino?” disse Tatiana sorpresa. “Il generale Stepanov è irritato?”

“No, non lui. È stato sostituito due giorni fa da un uomo di Mosca, un generale veterano, un tale Rymakov o qualcosa del genere.”

Tatiana impallidì.

“Tutti quanti chiedono a gran voce il suo sangue.” Dopo una pausa, aggiunse: “Anzi, quello di entrambi! Per loro, suo marito ha infranto ogni legge civile e militare. Dicono che è un cittadino sovietico, un maggiore del loro esercito. Prima lo accusavano di tradimento, spionaggio, diserzione e sommossa antisovietica, e quando abbiamo detto che non era in nostra custodia, lo hanno accusato di essere una spia americana! Abbiamo chiesto loro se fosse entrambe le cose, un traditore e una spia. Abbiamo chiesto di scegliere e loro si sono rifiutati e hanno esteso l’accusa anche a lei. Lei è sulle loro liste nere dal 1943: pare che non si sia limitata a fuggire, ma che abbia abbandonato il suo ruolo di infermiera nell’Armata Rossa e ucciso cinque guardie di confine per fuggire dalla Russia, compreso un tenente decorato. Mi hanno detto che suo fratello è un...” Ravenstock si grattò la testa. “Non ricordo la parola che hanno usato. Pare che sia un traditore della peggior specie. Ma non una spia”.

“Mio fratello è morto”, disse Tatiana.

“Il punto essenziale, infermiera Barrington, è che vogliono che siate entrambi estradati e consegnati nelle loro mani. Perciò, quando mi chiede un passaporto non sa quello che dice. Ora devo proprio andare, sono le sei e mezzo.”

Tatiana si sedette sulla sedia davanti alla scrivania.

“La prego, non si sieda!”

“Signor Ravenstock”, disse, “abbiamo un figlio negli Stati Uniti. Io sono una cittadina americana e lo è anche mio marito. È stato portato in Russia da piccolo dai genitori e non è colpa sua se è stato costretto ad arruolarsi e se i genitori sono stati uccisi dall’NKVD. Vuole che le legga le disposizioni sulla cittadinanza?”

“No, grazie, le conosco a memoria.”

“È un cittadino americano. Desidera solo tornare a casa.”

“Capisco. Ma lei capisce che è stato arrestato dalle autorità sovietiche, secondo le leggi del loro Paese, a venticinque anni, per diserzione e tradimento e non so che altro? E a complicare il tutto non solo è fuggito, che è un reato in sé, dalla giusta punizione, ma insieme a lei ha ucciso quaranta uomini! Pretendono il vostro sangue! Lanciò un’occhiata all’orologio e si allentò la cravatta per la frustrazione. “Oh, no. Non immagina quanto mi sta facendo fare tardi.”

“Signore”, disse Tatiana. “Abbiamo un disperato bisogno del suo aiuto.”

“È naturale. Ma prima di imbarcarsi in questa avventura avrebbe dovuto pensarci su due volte.”

“Sono venuta in Europa a cercare mio marito. Non ha scelto lui di essere sovietico. Non è come per me. Io sono nata in Russia e sono cresciuta così.” Deglutì. “Ma non m’importa. Tutto ciò che m’importa è mio marito. Se gli parlasse, scoprirebbe che ha servito gli alleati con onore, che è stato un soldato esemplare che merita di tornare a casa. Il suo esercito sarebbe fiero di avere un uomo come lui.” Tatiana aveva la voce ferma. “Io ero una cittadina sovietica. Non ho ucciso quegli uomini al confine con la Finlandia, ma sono fuggita, questo è vero. Lei ha tutto il diritto, immagino, di consegnarmi alle autorità sovietiche. Io non opporrò resistenza, a patto che lei faccia tornare mio marito nel suo vero Paese.”

Anche mentre lo diceva, si rese conto di quanto fossero assurde le sue parole: Alexander non avrebbe mai accettato l’eventualità di tornare a casa sano e salvo mentre lei veniva consegnata ai sovietici. Chinò la testa, ma non poteva permettere che Ravenstock notasse il suo tumulto interiore. Perciò sollevò gli occhi.

Il console si era seduto sull’orlo della scrivania e la guardava. Per un istante si placò, ma solo finché non ricordò di dover essere in un altro posto. Cominciò a giocherellare con la cravatta. “Non spetta a noi giudicare i nostri alleati.” Poi tacque. “Ma i sovietici si stanno dimostrando determinati e crudeli nell’occupazione dell’Europa. È vero che non concedono nulla agli alleati e trattano con disprezzo i prigionieri di guerra. Ma voi avete infranto molte regole.”

“Prigionieri di guerra? Le suggerisco di andare nel Campo Speciale numero 7, per vedere come trattano non i tedeschi, ma i loro stessi concittadini.”

Ravenstock diede un colpetto nervoso all’orologio. “Infermiera Barrington, mi piacerebbe molto restare qui a parlare con lei dei meriti e dei demeriti dell’Unione Sovietica, ma mi sta facendo fare tardissimo. Purtroppo devo risolvere questa faccenda... lo farò domani.”

“La prego, telegrafi a Sam Gulotta”, disse Tatiana. “Lui le darà tutte le informazioni che le servono sul conto di Alexander Barrington.”

Ravenstock sollevò un pesante dossier dalla scrivania. “Ho già una copia di quelle informazioni. Domani mattina alle otto parleremo con suo marito.”

“Che vuol dire parleremo?” gli chiese.

“Io, l’ambasciatore, il governatore militare e i tre ispettori generali delle Forze Armate di stanza a Berlino. Dopo che i nostri militari l’avranno interrogato, decideremo il da farsi. Sappia, però, che l’esercito è molto severo sulle questioni militari, che riguardino i suoi soldati o quelli di altri eserciti. Diserzione e tradimento sono considerate accuse molto gravi.”

“Che ne sarà di me? Interrogherete anche me?”

Ravenstock si sfregò il naso e scosse la testa. “Non credo che sarà necessario, infermiera Barrington. Ora la prego, vuole alzarsi e prendersi cura di suo marito?”

Quando aprirono la porta dell’ufficio, Alexander era seduto sulla panca a fumare.

Ravenstock gli si avvicinò. “Domattina sarà interrogato, ehm... qual è il suo grado, al momento?” gli chiese.

“Capitano”, rispose Alexander.

Ravenstock scosse la testa. “Lei dice capitano, loro ci hanno detto maggiore, sua moglie dice che le hanno tolto il grado. Non ci capisco più niente. A domattina alle otto, capitano Belov.” Lo guardò e aggiunse: “Preferite mangiare alla mensa dell’ambasciata o cenare in camera?”

“In camera sarebbe meglio”, rispose Alexander.

“Bene.” Ravenstock diede un’occhiata ai vestiti di Alexander, ridotti in brandelli, sporchi di fango e coperti di sangue. “Ha qualcos’altro da indossare?”

“No.”

“Domani alle sette le porteranno un’uniforme da capitano. Si faccia trovare pronto per essere scortato nella sala conferenze alle otto meno cinque.”

“Sarò pronto.”

“È sicuro di non volere che un medico le controlli la testa e il torace?”

“No, grazie, ho già qualcuno.”

Ravenstock annuì. “Ci vediamo domani. Guardia, li porti al sesto piano, faccia preparare una stanza e dica di portare loro la cena in camera. Sarete affamati.”

 

La stanza era molto grande, con il pavimento di legno, vari tappeti, tre finestroni e un soffitto alto circondato da una cornice ornata. C’erano anche sedie comode e un tavolo, e persino il bagno privato. Dopo aver posato a terra i bagagli, Alexander si accomodò su una sedia imbottita. Tatiana fece il giro della stanza e osservò i quadri, la cornice, i tappeti e tutto il resto, eccetto Alexander.

“Allora, i sovietici sono molto furiosi?” le chiese.

“Insomma...” rispose lei dandogli le spalle.

“Mmm. Posso immaginarlo.”

“Hanno sostituito Stepanov”, ribatté Tatiana, voltandosi.

Alexander si torse appena le mani. “Quando è venuto a trovarmi a febbraio, mi ha detto di essere sorpreso da quanto a lungo aveva resistito. La situazione postbellica è particolarmente difficile per i generali, nell’esercito sovietico. Troppe campagne andate male, troppe vittime, troppe accuse.”

“Come faceva a sapere che eri lì?”

“Ha letto il mio nome sugli elenchi del Campo Speciale.”

“A me non l’hanno permesso.”

“Non sei il comandante militare della guarnigione sovietica di Berlino.”

Tatiana si sedette sul davanzale della finestra e si portò le mani al viso. “Che sta succedendo?” disse. “Pensavo che il peggio fosse passato, che questa sarebbe stata la parte più facile.”

“Pensavi che questa fosse la parte più facile!” esclamò Alexander. “Quale parte della nostra vita è mai stata facile? Credevi di calpestare il suolo americano e di essere accolta con un ricevimento?”

“No, ma credevo che dopo aver spiegato a Ravenstock...”

“Forse Ravenstock non conosce le tue doti persuasive, Tatiana”, disse Alexander. “È un console, un diplomatico. Segue gli ordini e fa tutto il possibile per salvaguardare le relazioni tra i due Paesi.”

“Sam mi ha detto di chiedergli aiuto. Non avrebbe dovuto...”

“Sam, Sam. Chi è questo Sam? E perché credi che l’NKGB dovrebbe dargli ascolto?”

Tatiana si torse le mani. “Lo sapevo! Non saremmo dovuti venire qui! Saremmo dovuti andare a nord, dove non ci aspettavano, e imbarcarci su un cargo per la Svezia. La Svezia ci avrebbe dato asilo.”

“È la prima volta che sento questo piano, Tania.”

“Non avevamo tempo per pensare. Berlino, Berlino! Perché portarti a Berlino, se avessi pensato per un solo istante che non ci avrebbero aiutati?”

Sentirono bussare alla porta e si guardarono. Alexander si alzò per andare ad aprire, ma Tatiana gli indicò il bagno come per dirgli: No, entra lì e non uscire, non si sa mai.

Era la domestica con la cena e gli asciugamani.

“Ha sigarette?” chiese Tatiana con voce roca. “Gliele pago. Ha un pacchetto, anzi due?” La ragazza tornò con tre pacchetti.

“Alexander? Tutto bene?” Dal bagno non proveniva alcun rumore e, in attesa che la domestica tornasse, Tatiana non era andata a controllarlo: all’improvviso le venne in mente che si fosse fatto male, perciò corse alla porta e, urlando, l’aprì con una violenza tale che per poco non lo colpì.

“Che c’è?” le chiese lui, calmo. “Perché urli?”

“Io non... eri così silenzioso che non...”

Alexander le prese le sigarette dalle mani.

“Ci hanno portato da mangiare”, annunciò Tatiana mostrandogli i vassoi. “C’è la bistecca.” Si sforzò di sorridere. “Quando è stata l’ultima volta che hai mangiato una bistecca, Shura?”

“Bistecca? Che cos’è?” disse lui, ricambiando il sorriso.

Si sedettero a tavola e si servirono una porzione ciascuno. Tatiana bevve. Alexander bevve e fumò.

“Buona, vero?”

“Buona.”

Ne presero ancora, in silenzio, senza guardarsi. Era buio, e Tatiana si alzò per accendere la luce.

“No, lascia stare”, disse lui.

Mentre cenavano, l’unica luce nella stanza era quella proveniente dalle sigarette, che Alexander fumò una dietro l’altra.

Non si parlarono, ma non c’era silenzio. Dentro di sé Tatiana urlava, e sapeva che lui fumava per soffocare le stesse urla.

Infine lui disse: “Hai imparato proprio bene l’inglese”.

“Ho avuto un ottimo insegnante”, rispose Tania, e scoppiò in lacrime.

“Ssst”, disse Alexander piano, guardando verso la finestra spalancata. “Per noi il russo è più facile, più familiare.”

“Sì, quella lingua fa più male”, confermò Tatiana.

“È un sollievo parlarlo con te.”

Si fissarono a lungo.

“Oh, Dio”, mormorò lei, “che cosa faremo?”

“Non c’è niente da fare”, replicò Alexander. “Affronteremo la situazione.”

“Perché vogliono parlare con te? Che senso ha?”

“Come sempre, quando si tratta di questioni militari, bisogna fare a modo loro. I sovietici mi hanno tolto il grado, quando mi hanno condannato, ma sanno che non otterrebbero niente dagli americani se dicessero loro che l’uomo in cerca di estradizione è un civile. Il governatore non avrebbe voce in capitolo e la cosa passerebbe direttamente nelle mani di Ravenstock. Ma i sovietici mi accusano di tradimento e diserzione, parole molto provocatorie per i militari, soprattutto per gli americani, e loro lo sanno. Non sono più un maggiore da tre anni, eppure mi definiscono maggiore, mi fanno passare per un ufficiale per provocarli. Tutte queste parole richiedono un’adeguata risposta militare. Ecco perché domani sarò interrogato.”

“Che cosa pensi? Come andrà?”

Alexander non rispose, e per Tatiana quel silenzio fu peggiore di una risposta negativa, perché così immaginò l’inimmaginabile.

“No”, disse poi. “Non posso. Non voglio... Io...” Sollevò la mano e raddrizzò le spalle. “Dovranno consegnare anche me. Non ti lascerò andare da solo.”

“Non essere sciocca.”

“Io...”

“Non... essere... sciocca!” Alexander si alzò ma non le si avvicinò. “Mi rifiuto di affrontare l’ennesima discussione teorica con te.”

“Non teorica, Shura”, replicò Tatiana. “Vogliono anche me. Ho parlato con Ravenstock, ricordi? Anche Stepanov me l’ha detto. Sono sulla loro lista nera. Ci vogliono entrambi.”

“Per l’amor del cielo!” esclamò Alexander. “Hai già deciso tutto, vero?” All’improvviso, andò alla finestra e guardò fuori, quasi a voler calcolare la distanza fino al suolo. “Tania, a differenza di me, tu hai un passaporto americano.”

“È una pura formalità, Alexander.”

“Sì, ma vitale. Sei una civile.”

“Ero infermiera dell’Armata Rossa, in prestito alla Croce Rossa.”

“Non ti consegneranno.”

“Lo faranno.”

“No, domani parlerò con loro.”

“No! Vuoi parlare con loro? Non hai già parlato abbastanza? A Matthew Sayers, a Stepanov, mi hai guardata negli occhi e mi hai mentito, non ti sembra abbastanza? Eppure sono qui.” Scosse la testa. “Non parlerai con nessuno.”

“Lo farò.”

Tatiana scoppiò a piangere. “Che ne è stato della promessa: viviamo insieme o moriamo insieme?”

“Mentivo.”

“Mentivi? Non mi sorprende!” Stava tremando. “Avrei dovuto saperlo. Se non ti rimanderanno a casa e ti porteranno a Kolyma io verrò con te.”

“Non sai quello che dici.”

“Mi hai scelta”, replicò Tatiana con voce rotta, “perché sono diretta e sincera.”

“E tu mi hai scelto”, ribatté Alexander, “perché sapevi che proteggo ciò che è mio, proprio come Orbeli.”

“Oh, Dio, non intendo partire senza di te! Se torni in Unione Sovietica ci torno anch’io.”

“Tania!” Alexander si alzò dal davanzale della finestra. In piedi, davanti a lei, la fulminò con lo sguardo. “Di che stai parlando? Mi fai venire voglia di strapparmi i capelli e di strapparti i tuoi. Parli come se avessi dimenticato tutto.”

“Non ho dimenticato...”

“Ti interrogheranno fino a torturarti e a spingerti a dirgli la verità sul mio conto oppure a farti firmare la confessione che ti metteranno davanti. Non appena firmerai, mi uccideranno all’istante e ti manderanno a Kolyma per dieci anni con l’accusa di aver infranto le leggi dello Stato sovietico sposando una nota spia, un sabotatore.”

Tatiana alzò le mani in segno di resa. “Va bene, Shura”, disse. “Va bene.” Vide che Alexander stava perdendo il controllo.

Lui l’afferrò per le braccia e aggiunse: “E poi sai che cosa ti succederà nel campo? A meno che tu non pensi che sarà un’altra avventura. Verrai spogliata e lavata dagli uomini e poi verrai fatta sfilare nuda lungo un corridoio tra una decina di soldati sempre a caccia di belle ragazze – e una come te la noteranno – che ti offriranno un posto tranquillo nella mensa della prigione o nella lavanderia in cambio dei tuoi servigi e tu, da brava ragazza, rifiuterai e loro ti picchieranno, ti violenteranno e poi ti manderanno a tagliare la legna, come fanno dal 1943 con tutte le donne”.

Tatiana, temendo Alexander e la sua ira, disse: “Ti prego...”

“Caricherai un camion con i pezzi di pino e, quando avrai finito, non sarai più in grado di comportarti da donna, per aver sollevato quello che nessuna donna è in grado di sollevare, e allora nessuno ti vorrà più, neppure i soldati, che prendono tutte tranne quelle che tagliano la legna, perché anche loro sanno che si tratta di merce guasta.”

Pallida, Tatiana cercò di liberarsi dalla sua presa.

“Quando, dopo aver scontato la pena, sarai rilasciata nel 1965, tornerai nella società e non troverai più quello che avevi un tempo.” Si fermò, ma non la lasciò andare. “Niente, Tatiana.”

Tutto ciò che lei riuscì a dire fu uno straziato: “Oh!”

“Non ci sarà più nostro figlio”, continuò Alexander, “il ragazzo che potrebbe crescere per cambiare il mondo, e non ci sarò più io. Sarai sola, senza i denti davanti, senza figlio né marito, sfinita, derelitta, sodomizzata, disumanizzata, e tornerai al tuo appartamento al Quinto Soviet. È questo che vuoi?” le chiese. “Non ho visto la tua vita in America, ma dimmi, quale delle due scegli?”

Tetra ma decisa, Tatiana mormorò: “Tu sei sopravvissuto. Ce la farò anch’io”.

“E lo chiami sopravvivere?” urlò Alexander. “Non sei ancora morta, vero? Vuoi morire? Allora è diverso.” La lasciò libera e si allontanò. “Vuoi morire, d’accordo. Morirai di freddo, di fame. Se Leningrado non ti ha uccisa, Kolyma lo farà di certo. Il novanta per cento degli uomini che vengono mandati là crepa. Prima ancora di avere un aborto spontaneo, morirai di infezione, peritonite, pellagra, tubercolosi, che ti ucciderà senza dubbio, oppure verrai picchiata a morte dopo uno stupro di gruppo.” Dopo una pausa, precisò: “O prima”.

Tatiana si coprì le orecchie con le mani. “Basta, Shura”, sussurrò.

Lui tremò. Tremò anche lei.

Alexander l’attirò a sé, sul suo petto, tra le sue braccia. Anche se ogni suo respiro sembrava uscire da una gola piena di schegge di vetro, Tatiana si sentì meglio.

“Tania, sono sopravvissuto perché Dio mi ha reso forte. Nessuno mi si avvicinava senza perdere la vita. So sparare, so combattere e non ho paura di uccidere chiunque mi minacci. E tu? Che cosa avresti fatto?” Le prese la testa fra le mani e le sollevò il viso. “Guardati: sei la metà di me.” Si staccò le braccia di lei dal corpo e la spinse appena all’indietro, facendola cadere sul letto. Poi le si sedette accanto e disse: “Non sei neppure capace di difenderti da me, e io ti amo più di quanto un uomo possa amare una donna”. Scosse la testa. “Tatiasha, quel mondo non è fatto per una donna come te, ed è per questo che Dio te l’ha evitato.”

Lei gli accarezzò il viso. “Ma perché non l’ha evitato anche a te?” gli chiese con amarezza. “Tu... sei il re degli uomini.”

Lui non voleva più parlare.

Lei voleva, ma non poteva.

Alexander andò a farsi una doccia e Tatiana lo aspettò rannicchiata su una sedia accanto alla finestra, vicino al letto.

Quando la raggiunse, con l’asciugamano intorno alla vita, lui le disse: “Mi dai un’occhiata alla ferita al torace? Credo che si sia infettata”.

Aveva ragione. Si sedette immobile e Tatiana gli iniettò una dose di penicillina e gli ripulì la ferita con acido fenico. “Ora ti metto qualche punto”, gli disse estraendo il filo chirurgico e ricordandosi all’improvviso di averlo usato per cucire il simbolo della Croce Rossa sulla jeep finlandese con cui era fuggita dalla Russia. La debolezza la fece barcollare. Non era riuscita a salvare Matthew Sayers.

“Lascia stare, è passato troppo tempo”, replicò Alexander.

“No, meglio cucirla lo stesso. Fermerà l’infezione e guarirà prima.” Come riusciva a parlare?

Estrasse una siringa di anestetico per addormentare la zona, ma lui le afferrò la mano e chiese: “Che cos’è?” Poi scosse la testa e aggiunse: “Non serve, Tania. Mi basta una sigaretta”.

Tatiana gli diede otto punti. Alla fine, gli posò un bacio sulla ferita. “Ti ho fatto male?” sussurrò.

“Non ho sentito niente”, rispose lui facendo un tiro.

Tatiana coprì la ferita con una garza e poi gli bendò il braccio fino al gomito, compresa la mano ustionata dalla polvere da sparo. Non voleva che lui la guardasse negli occhi, perché mentre lo medicava piangeva e, dal respiro di Alexander, sapeva quanto fosse difficile per lui ascoltarla e trovarsi così vicino a lei senza toccarla, proprio come durante i giorni dell’assedio e quelli di Lazarevo. Quanto più si avvicinavano alla fine, tanto meno Alexander la toccava.

“Vuoi un po’ di morfina?” Lo guardò.

“No”, rispose lui. “Altrimenti sarò privo di sensi tutta la notte.”

Tatiana si allontanò da lui e inciampò.

“La doccia mi ha fatto bene”, aggiunse. “Asciugamani bianchi. Acqua calda. Splendido, non me l’aspettavo.”

“Sì”, replicò lei. “Ci sono molti comfort, in America.”

Si voltarono le spalle. Lui uscì dal bagno e Tatiana entrò nella doccia. Quando ne uscì, avvolta nell’asciugamano, Alexander dormiva già. Dopo averlo coperto, si sedette a guardarlo con le mani nella borsa da infermiera, sulle siringhe di morfina.

Non avrebbe permesso che lo riportassero in Unione Sovietica: prima, lo avrebbe avuto Dio.

Lasciò la borsa sulla sedia e si distese sotto la coperta accanto al corpo caldo e nudo di Alexander. Lo strinse fra le braccia e pianse nei suoi capelli. La Russia lo aveva ridotto pelle e ossa.

“Anthony è un bel bambino?” le chiese.

“Sì. È fantastico.”

“Ti somiglia?”

“No, Alexander, somiglia a te.”

“Peccato”, disse voltandosi verso di lei.

Erano nudi, uno di fronte all’altra.

I rimpianti, i respiri, i loro animi intrecciati sanguinavano e urlavano di dolore nella notte inquieta.

“Con o senza di me, hai vissuto e continuerai a vivere la tua vita secondo le tue regole”, le disse.

“L’ho fatto per te. Ho lottato con tutte le mie forze per te. Ho pensato a quello che avresti voluto per entrambi e l’ho fatto.”

“No. Io l’ho fatto per te”, replicò Alexander. “Ho lottato con tutte le mie forze per te. Eri sempre davanti ai miei occhi, e speravo che qualunque cosa facessi, comunque andasse, ti avrebbe fatto piacere. Che mi avresti approvato e detto ben fatto, Alexander, ben fatto.”

Una pausa.

Poi il grido di una civetta.

Forse un pipistrello.

Il latrato dei cani.

“Ben fatto, Alexander.”

Lui la strinse e le premette le labbra sulla fronte. “Non abbiamo mai avuto un futuro. Stanotte vivremo cinque minuti a partire da ora”, le sussurrò. “Abbiamo sempre vissuto così, tu e io, e vivremo così ancora una volta, un’ultima notte, in un letto bianco e caldo.”

“Sii il mio sollievo, vieni via con me”, lo pregò Tatiana. “Alzati e vieni via con me, mio amato.”

Alexander le accarezzò la schiena. “Sai che cosa mi ha salvato negli anni trascorsi con il battaglione penale e in prigione?” chiese. “Tu. Ho pensato che se tu eri riuscita a fuggire dalla Russia attraverso la Finlandia, attraverso la guerra, incinta e con un dottore in fin di vita, con nient’altro se non te stessa, io potevo sopravvivere. Se tu eri riuscita a sopravvivere a Leningrado, alzandoti ogni mattina e scivolando giù sul ghiaccio delle scale per portare l’acqua e il pane alla tua famiglia, io potevo superare tutto quello. Se tu eri sopravvissuta, anch’io potevo farlo.”

“Non hai idea di quanto me la sia cavata male nei primi anni. Non ci crederesti, se te lo dicessi.”

“Tu avevi mio figlio. Io non avevo altro che te, il ricordo di come mi camminavi accanto per le vie di Leningrado, lungo la Neva, sul lago Ladoga, di come hai richiuso la mia schiena aperta e hai curato le mie ferite, lavato le mie ustioni, di come mi hai salvato. Avevo fame e tu mi hai dato da mangiare. Non avevo nient’altro che Lazarevo.” La voce di Alexander s’incrinò. “E il tuo sangue immortale. Tatiana, sei stata la mia unica forza vitale. Non hai idea di quante volte abbia provato a tornare da te. Mi sono consegnato al nemico, ai tedeschi, per te. Per te mi sono fatto sparare, picchiare, tradire, arrestare. Volevo solo rivederti. Volevo che tu tornassi da me. Era tutto, Tatia. Lo capisci? Il resto non ha senso, per me. La Germania, Kolyma, Dimitri, Nikolaj Ouspenskij, l’Unione Sovietica, tutto questo non significa niente. Dimenticali, lascia che scompaiano. Hai capito?”

“Ho capito”, rispose lei. Camminiamo soli, in questo mondo, ma se siamo fortunati c’è un momento in cui apparteniamo a qualcosa, a qualcuno, un momento che ci sostiene lungo una vita di solitudine.

Per un minuto lungo una sera l’ho toccato ancora una volta e mi sono spuntate ali rosse e sono stata di nuovo giovane nel Giardino d’Estate e ho avuto la speranza e la vita eterna.