Il mattino dopo si svegliarono alle sei. Alle sette, la domestica portò la colazione e un’uniforme per Alexander. Avevano anche lavato la divisa da infermiera di Tatiana.
Alexander bevve un caffè, mangiò sei fette di pane e burro e fumò sei sigarette. Tatiana bevve il caffè e provò a mangiare pane e burro, ma non riuscì a mandarlo giù.
Alle otto meno cinque due guardie armate li scortarono al terzo piano. Tatiana e Alexander si sedettero sulle sedie di legno dell’anticamera e aspettarono in silenzio.
Alle otto si aprirono le porte e uscì John Ravenstock. “Buon giorno. Va meglio con abiti puliti, no?”
“Soprattutto se americani”, disse Alexander alzandosi.
“Sì, naturalmente. Mi segua.” Poi, rivolto a Tatiana, aggiunse: “Infermiera Barrington, può anche aspettare in camera. Ci vorrà qualche ora”.
“Aspetterò qui”, disse lei.
Ravenstock scrollò le spalle e replicò: “Come vuole. Se ha sete, chieda dell’acqua alla guardia”.
Alexander seguì il console ma, prima di entrare, si voltò. Tatiana era in piedi. La salutò. Lei ricambiò il saluto.
I sei uomini si accomodarono lungo un lato del lungo tavolo. Alexander rimase in piedi dalla parte opposta.
John Ravenstock gli presentò il governatore militare Mark Bishop (“Ci siamo già conosciuti”), l’ambasciatore americano a Berlino Phillip Fabrizzio e i generali dei tre corpi delle Forze Armate statunitensi di stanza a Berlino, Esercito, Aviazione e Marina.
“Allora”, iniziò Bishop. “Che cosa ha da dire sul suo conto, capitano Belov?”
“Prego, signore?”
“Parla inglese?”
“Sì, naturalmente.”
“A causa sua, si è scatenata una diatriba di portata internazionale, qui a Berlino. I sovietici ci hanno chiesto con insistenza di consegnare alle loro autorità un certo Alexander Belov nell’attimo stesso in cui si fosse presentato alla nostra porta. Tuttavia, sua moglie sostiene che lei è un cittadino americano. L’ambasciatore Fabrizzio ha letto il suo dossier e la questione della nazionalità di un uomo di nome Alexander Barrington sembra piuttosto ambigua. Non ho idea di quello che ha fatto per i sovietici prima di essere portato a Sachsenhausen, ma una cosa è certa: negli ultimi quattro giorni ha ucciso quarantuno dei loro uomini e per quello chiedono giustizia.”
“Trovo alquanto ironico che al comando militare sovietico di Berlino, o di qualunque altro posto, all’improvviso importi di quarantuno uomini quando personalmente ne ho seppelliti almeno duemila a Sachsenhausen in tempo di pace.”
“Be’, Sachsenhausen è un campo per detenuti.”
“No, signore, per soldati come il sottoscritto. Come lei. Tenenti, capitani, maggiori e un colonnello, senza contare i settecento tedeschi – alti ufficiali e civili – che sono stati seppelliti o cremati.”
“Sta negando l’omicidio di quarantuno uomini, capitano?”
“No, signore. Venivano a uccidere me e mia moglie. Non ho avuto scelta.”
“È fuggito?”
“Sì.”
“Il comandante del Campo Speciale sostiene che lei è un evaso incallito.”
“Sì, non ero contento delle condizioni di vita.”
I generali si scambiarono un’occhiata. “È stato arrestato per tradimento, esatto?”
“Esatto, questa è la ragione del mio arresto.”
“Nega l’accusa di tradimento?”
“Assolutamente.”
“L’accusano di aver disertato mentre venivano a portarle i rinforzi e, dopo aver vagato per i boschi, si è arreso volontariamente al nemico e ha combattuto con esso contro la sua gente.”
“Mi sono consegnato al nemico. Non ricevevo rinforzi da due settimane, non avevo né munizioni né uomini contro una linea difensiva di quarantamila tedeschi. Non ho mai combattuto contro la mia gente. Sono stato portato a Katowice e poi a Colditz. Ma dovete sapere che arrendersi è contro le leggi sovietiche, perciò per loro sono colpevole.”
I generali rimasero in silenzio. “È fortunato a essere ancora vivo, capitano”, disse il generale Pearson della Marina. “Pare che i tedeschi abbiano lasciato morire cinque dei sei milioni di prigionieri di guerra sovietici.”
“Il numero non mi sorprende, generale. Se Stalin avesse firmato la Convenzione di Ginevra, forse sarebbero ancora vivi. Gli inglesi e gli americani non sono stati tutti uccisi, giusto?”
I generali non risposero.
“Qual è il suo grado, adesso?”
“Non ho nessun grado. Mi è stato tolto un anno fa, quando sono stato accusato di tradimento.”
“Allora perché i sovietici la chiamano maggiore Belov?” chiese Bishop.
Con un mezzo sorriso, Alexander scrollò le spalle. “Non lo so. Fino a un anno fa ero capitano; lo sono stato per tre anni.”
“Capitano Belov, perché non inizia dal principio, da quando i suoi genitori lasciarono l’America e andarono in Unione Sovietica, e non ci dice che cosa le è successo? Ci sarebbe di enorme aiuto. Abbiamo troppe informazioni contraddittorie. Notizie di un suo arresto nel 1936, di una sua fuga persino allora. L’NKGB è sulle tracce di un certo Alexander Barrington da dieci anni. Ma sostiene che lei sia anche Alexander Belov. Non sappiamo neppure se si tratti dello stesso uomo. Perché non ci dice chi è, capitano?”
“Volentieri, signore. Chiedo il permesso di sedermi.”
“Concesso”, rispose Bishop. “Guardia, gli porti delle sigarette e dell’acqua.”
Alexander era dentro da sei ore. Tatiana pensò che fosse stato portato via attraverso un passaggio segreto, ma dalle porte spesse filtravano le voci sommesse degli uomini e, sopra tutte, quella familiare e profonda del marito.
Camminò avanti e indietro, si sedette – per terra e sulle sedie –, si accovacciò, si dondolò. La sua vita e quella di Alexander le galleggiavano davanti agli occhi nell’anticamera dell’ambasciata americana a Berlino.
Stavano imparando a nuotare e ogni minuto diventava più difficile, ogni nuovo giorno non portava con sé alcun sollievo. Ogni giorno portava con sé un altro minuto di tutto quello che non potevano dimenticare. Jane Barrington, seduta nel treno, di ritorno da Mosca a Leningrado, con il figlio tra le braccia, consapevole di averlo deluso, chiamava Alexander; Jurij Stepanov, a pancia in giù nel fango della Finlandia, chiamava Alexander; Dasha, nel camion, sul ghiaccio del lago Ladoga, chiamava Alexander; Tatiana, in ginocchio, nella palude della Finlandia, insanguinata, chiamava Alexander; Anthony, solo con i suoi incubi, chiamava il padre.
Eccolo, con il berretto in mano, che attraversa la strada in cerca del suo mare, del vestito bianco con le rose rosse, eccolo, ogni giorno davanti alla Kirov, sorridente per il suo mare, pietra su pietra, cadavere su cadavere, eccolo, nel Campo di Marte sotto i lillà, con il fucile, e lei è scalza accanto a lui, i sandali rossi in mano, eccolo, che la fa volteggiare sui gradini della chiesa dove si sono sposati, che balla con lei sotto la luna cremisi la prima notte di nozze, che esce dal Kama, scostandosi i capelli dal viso, che esce dall’isba di Lazarevo, con l’ascia e la sigaretta, che le va incontro, sfinito, in piedi accanto a lei nella capanna, nudo, che sorride, fuma, annega, Alexander.
Eccolo di nuovo sulla Vistola, intento a fissare le rovine della guerra. Un sentiero conduce alla morte, l’altro alla vita, e lui non sa quale scegliere, ma nei suoi occhi c’è il mare immortale e, sul mare, c’è il ponte di Santa Croce.
Quando Alexander ebbe finito, i generali rimasero immobili, l’ambasciatore rimase immobile, il console rimase immobile.
“Bene, capitano Belov”, disse Bishop, “ha avuto una vita piuttosto intensa. Quanti anni ha?”
“Ventisette.”
Bishop emise un fischio.
Il generale Pearson, della Marina degli Stati Uniti, chiese: “Ci sta dicendo che sua moglie, senza neanche sapere dove si trovasse, è venuta in Germania armata, ha trovato il campo in cui era rinchiuso, ha trovato la sua cella e ha orchestrato la sua fuga dal Campo Speciale numero 7 di massima sicurezza?”
“Sì, signore, e prima che decidiate vorrei aggiungere qualcosa su mia moglie. Lei, vedete, è... diciamo che non si arrende facilmente. È completamente fuori di senno. Non si è resa conto dei guai che avrebbe creato. È convinta di tornare con me in Unione Sovietica. Vi supplico di risparmiarla. Quali che siano i miei peccati, lei non merita l’Unione Sovietica. Ora è una cittadina americana e nostro figlio è in America e aspetta la madre. Deve tornare da lui. Qualunque cosa decidiate per me è irrilevante. Consegnatemi pure, se ciò vi eviterà uno scandalo.”
John Ravenstock non replicò. I generali non replicarono. “Quale sarebbe il suo nome, capitano, se le venisse restituita la cittadinanza americana?”
“Anthony Alexander Barrington”, rispose.
Gli uomini lo fissarono. Lui si alzò e fece il saluto.
La porta si aprì e i sette uscirono dalla sala conferenze. Alexander fu l’ultimo. Vide Tatiana alzarsi a fatica dalla sedia e restarvi appoggiata una volta in piedi. Era così piccola e sola! Ma, anche se temeva di vederla crollare davanti a sei estranei, Alexander voleva dirle qualcosa per tranquillizzarla, perciò mosse appena la testa, aprì la bocca, sorrise e disse: “Torniamo a casa”.
Lei respirò a fondo e si portò la mano alla bocca.
E poiché era Tatiana e non poteva essere altrimenti, né Alexander avrebbe voluto che fosse diversa, gli corse incontro e gli si lanciò tra le braccia, incurante dei generali. Lo abbracciò e affondò il viso rigato di lacrime nel suo collo.
Alexander chinò la testa e i piedi di Tatiana si sollevarono da terra.