HORCYNUS ORCA

a Jutta,
che meriterebbe di figurare
in copertina col suo Stefano

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.

Imbruniva a vista d’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio flacco flacco dell’onda grigia, d’argento o di ferro, ripetuta a perdita d’occhio.

Solo da alcune ore, anche se lo scirocco era sempre quello e anzi aveva infocato la posta, aveva cominciato sotto sotto ad allionirsi. Era stato naturalmente nel farsi da mare rema, intrigato e invelenito alle prime tormentose serpentine di spurghi e di rifiuti, simili a gigantesche murene che egli, col suo occhio di conoscitore, andava scandagliando dal colore diverso, come di pietra muschiata, gelido e rabbrividente. Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scomparse alla sua vista dietro Capo Milazzo, e Stromboli, Vulcano, Lipari, che intravvedeva per la prima volta distanti e da terra, dopo averle viste sempre dalla palamitara, salendo per il Golfo dell’Aria, sembravano vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bonaccia.

Intanto che camminava verso la punta del promontorio femminoto, il cielo davanti a lui sullo Stretto passava dall’ardente imporporato a una caligine di guizzi catramosi. Quando s’affacciò sul mare, e ancora si vedeva chiaro per dei barbagli madreperlacei dell’aria, la notte senza luna sopraggiunse di colpo, con quel repentino e temporalesco passare dalla luce all’oscurità con cui cadono, anche nella più chiara estate, le notti di luna mancante. Nuvolaglie fumose, come rotolassero giù dalle cime dell’Aspromonte e dell’Antinnammare, avevano sommerso e livellato, in un solo nero miscuglio, il varco aperto fra le due sponde.

Qualcosa, in Sicilia, che per la coloritura violacea riflessa dall’acqua, sembrava una grande troffa di buganvillea pendente sulla linea dei due mari, brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia, poi il brillio cessò e lo seguì un risplendere breve breve e bianco di pietra, e allora, nel momento in cui spariva nella fumèa, riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina s’appruava, quasi al mezzo, come per spartirli, fra Tirreno e Jonio.

Su quella punta abitava il loro Delegato di Spiaggia, in una casipola a cubo, che era una via di mezzo fra la cabina di bastimento e la garitta della sentinella. Lo sperone serviva per consigli e conversari; serviva pure da osservatorio sul duemari durante la passa, quando il sorteggio gli assegnava la posta ravvicinata rivariva, nella quale non avevano mare sufficiente per piazzarvi la feluca dal cui albero l’intinnere scandagliava in circolo il primo appalesarsi di spada, sicché s’imponeva uno scaglionamento di guardie a terra ed era anche allo sbracciamento o scappellamento di queste vedette, che il filere sull’ontro spiava, tutt’occhi, per avere avvisaglia d’animale che s’appropinquava.

’Ndrja Cambrìa vedeva così la notte, una notte doppiamente tenebrosa, per oscuramento di guerra e difetto di luna, rovesciarsi fra lui e quell’ultimo passo di poche miglia marine che gli restava da fare, per giungere al termine del suo viaggio: che era Cariddi, una quarantina di case a testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nuvolaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei due mari.

E intanto che la notte s’inondava sempre più per Tirreno, mangiandosi il mare di sangue pestato come ci dilagasse dentro col suo nero inchiostro, e tratto tratto sembrava accorciare la diagonale che si seguiva a occhio nudo fra lo sperone incontro a Scilla e quel punto di bassa caviglia calabrese dove si trovava, egli andava misurando, come una volta, stando a bordo all’ontro, la brevità di quel passo di mare, remando una palella dietro l’altra: oooh…oh… oooh…oh… sul poco fiato dello spada agonizzante che smaniava, smaniava contempo che scappava, nuotando nel suo ultimo sangue, e dentro quel breve miglio era già morto: e le acque davanti al paese delle Femmine sentivano appena la punta della sua spada, perché, da Cariddi a lì, il suo era un salto solo nella morte.

Quando capitava che nel suo strano capriccio di morte, lo spada sbattesse per là, erano parole e scene sicure con quei notorii armimbrogli. Snelli di vita, delicati ed eleganti per natura, piacentissimi alle loro femmine, che sembra li tengano solo a quell’uso, almeno una volta, alla passa, il sorteggio di là e di qua li metteva posta a posta con loro, in uno stretto giro d’acque. I pescatori femminoti, i baffettini sul labbro, se ne stavano come per figura su ontri e feluche: sembrava, a vederli di lontano, che aspettassero solo che uno spada stracquo e avvilito, meglio ancora se perso di sangue, scapolasse, da quelle di Sicilia, nella loro posta. Quando fatalità voleva che l’animale pigliasse quell’indirizzo storto, avesse pure la traffinera inalberata sulla schiena come stendardo di riconoscimento, quei galantomini facevano issofatto la mossa d’incamerarselo, accampandoci sopra il diritto del malandrino. Tante volte, alla ladricella, tentavano persino di liberarlo dalla traffinera e di scaricare la corda in mano ai cariddoti; e tante volte, per strappargli il ferro, sottomano, in fretta in fretta, lazzariavano le belle carni.

Arrivavano là cogli occhi di fuori, girandogli strettistretti intorno, come per abbordarli:

«Bello il gioco delle trecarte che ci faceste» gli dicevano i pellisquadre, schiumando dalla bocca. «Di anno in anno, vi fate più svelti di mano.»

Intanto, a prua, il lanzatore ripescava la traffinera, asciugava il ferro, lo lustrava col fazzolettone, fra indice e pollice, con la delicatezza dovuta a un diamante; faceva sentire poi lo scatto morbido della chiusura delle tre punte intorno all’asta, e infine impugnava la traffinera, calibrandola e bilanciandola, fra palmo e polso, come una lancia da scagliare. Faceva apposito, smaccatamente, perché lo vedessero che la traffinera gli scappava quasi di mano, che era pronto, prontissimo a lanzare cristiani come lanzava animali, e che anzi ci avrebbe messo tutti i sensi e i sentimenti. Quindi, sollevava gli occhi, stretti a feritoia, e mirava i femminoti:

«Quell’animale là, lanzato, fu il sottoscritto che lo lanzò» affermava.

«Ci fu errore» rispondevano gli sfrontati. «Lo scambiammo per un povero orfanello solingo.» E posavano l’osso.

Era già in fondo al promontorio, sotto i trafori della scogliera, quando gli giunse all’orecchio il rimbombo precipitoso della stampella di Boccadopa. I colpi si perdevano fra le cavità della scogliera, correvano sotto la massicciata, ed era come se la loro eco gli sfiorasse i piedi in un soffio d’aria. Il rimbombo cresceva colpo su colpo, batteva e ribatteva sulla prescia di Boccadopa che il marinaio, nemmeno a dirlo, non se lo voleva lasciare sfuggire, proprio ora che erano in pizzo al mare.

La notte, col suo cadere improvviso fra i due versanti del promontorio, si era messa fra lui e i soldati come una cortina fumogena: doppiata la punta, quelli, si erano trovati fra le pareti della scogliera come in una galleria di tenebre, col marinaio sparito dentro, a non più di duecento metri davanti a loro.

Si figurava, dallo sbattimento di stampella, la cazziata che Boccadopa, sicurissimamente, fece a quel pelleossa di Portempedocle che, secondo il suo criterio dispotico, doveva mettergli il sale sulla coda e non perderlo mai di vista. E in effetti, per due giorni, con la paroletta che veniva a dirgli ogni tanto, col suo bonfare e il suo sorriso di scheletro ambulante, senz’altra opera di persuasione che questa, l’aveva persuaso lui, a trattenersi, a non alzare i tacchi e lasciare Boccadopa e gli altri nel polverone che sollevavano con le pezze in cui tenevano fasciati i loro piedi. Ora, però, con tutto quello scuro di mezzo, era come se li avesse distanziati due giorni prima. Ma il punto non era quello, il punto era che al mare si doveva fermare anche lui.

Il rimbombo s’interruppe e un istante dopo, nel silenzio cavo della scogliera, scoppiò come un boato la voce di Portempedocle:

«Moo…sè… Moo…sè» chiamava nella notte.

S’immaginò che Boccadopa lo tenesse come un cagnolo, agguantato per il cozzo, dicendogli con l’affanno fra i denti: allettigato, chiamate, chiamate, fatevi uscire il fiato…

Portempedocle era ormai di quelli che non si bagnano né si asciugano, di quelli che non possono più dire, come si dice: bene e male sempre viene, perché il male gli era venuto in una tale quantità, che anche il bene, si poteva dire, gli era venuto col male: non era uno scheletro ambulante? eppure, non camminava, rideva, viveva? Era uno scheletro, ma Boccadopa pareva non vedergli le ossa sotto la pelle, perché lo aveva preso a struggere come fosse convinto che ci fosse ancora da struggere in lui: e il fatto che Boccadopa non se ne scandaliasse, a Portempedocle smuoveva una specie di riso, anche se spesso, questo riso, gli restava dietro i denti, quasi in trasparenza. Anche in quel momento, pareva che se lo pigliasse a pizzola, Boccadopa:

«Moo…sè… Moo…sè…».

Gridando, pareva giocare con la o come facesse bolle di sapone, e l’eco si arrotondava in bocca al promontorio, come un gigantesco mormorio di meraviglia.

Risorse il rimbombo della stampella di Boccadopa, per un poco batté: mbù, mbù, e poi Portempedocle tornò a gettare il suo richiamo alla notte:

«Mosè, fermatevi, non scomparite…» gli gridò e questa volta c’era un certo affrevo nella sua voce, come una ribellione di accenti ansiosi. Ma forse pure quella, la febbrosità di tono, gli indettava, con la forza, Boccadopa.

«Pigliatelo nel mazzo, tu, Boccadopa, e quel Mosè che mi vai nominando» gli mormorò.

Ormai, si doveva sciogliere dall’esercito. Con le femminote, se otteneva trasbordo per sé solo, doveva baciare in terra e guardare in cielo. Non sapeva quali parole e argomenti di persuasione trovare, e che promettergli, che inventargli, a quelle scabrose femmine, per farsi pigliare in barca, se barca c’era, se corrispondeva al sentitodire: figurarsi se poteva accollarsi anche quel pesomorto, quattro soldati di terra, di cui uno con una gamba sola e la stampella, tutti e quattro, poi, poteva figurarseli, spagnatissimi, sia di mettersi, sia di non mettersi in mare.

Per questo, da due giorni lo seguivano, non lo perdevano mai di vista, se lo covavano cogli occhi: per il mare; e per questo, quel pelleossa sfantasiato di Portempedocle, da due giorni l’andava appellando Mosè, con tanta serietà che lui stesso, non solo si voltava a quell’apostrofe, ma certe volte, si scordava quasi quasi di chiamarsi ’Ndrja Cambrìa e gli pareva quasi quasi di essere stato inteso sempre Mosè, Mosè marinaro.

In quattro che erano, dopo un giorno o due che lo tallonavano, gli contavano i passi, lo tenevano d’occhio dall’alba al tramonto, in mente a lui si erano come moltiplicati. Qualche volta, se si girava a occhìare verso di loro gli veniva d’immaginare che il polverone sollevato dalle pezze in cui strascicavano i piedi, fosse solo l’inizio di una lunga nuvola biancastra, dentro la quale, per le coste calabresi, il popolo ebraico, di guerra in guerra, si spostava verso sud, sudest, sempre affamato, ramingo, ferito, sempre in cerca d’una patria, d’un cielo e d’una terra per tetto e rifugio. Avanzi di guerra miseriosi e pezzentieri, impiagati e mutilati, chi si vedeva e chi no, e la stampella di Boccadopa ci stava come per insegna e simbolo, avevano l’aria di marciare veramente dietro a lui verso il Mar Rosso. Anche se ignari, quella era l’aria, Portempedocle gliel’aveva proprio marcata: l’aria ebrea, siciliana, di quelli che tireranno il respiro solo quando passeranno il mare e solo là, di là, si sentiranno salvi.

S’illuderanno veramente, pensava. S’illuderanno di sentirmele dire pure a me quelle parole mammalucchine: apriti, mare. Lasciaci passare. E lui s’apre, si fa di fianco e noi trasbordiamo sull’isola a camminata, discorrendo e fumandoci una sigaretta.

Questi rituffi di caffè, questi soldati di terra, lo avevano ignescato in alta Calabria, nelle vicinanze di un paese che si chiamava Praja a Mare e non senza ragione: da lì in poi, infatti, il terramare era, per miglia e miglia, plaia e plaia, costiere di sabbie dolci e sabbie dure, scavate, di tanto in tanto, dai letti asciutti e pietrosi delle fiumare che brillavano in lontananza.

Gli era scoppiata là, a Boccadopa e compagni, tutta quella ambascia del mare da passare: e questo, in conseguenza di un incontro strano, per non dire fenomenale, che lui e loro, anche se separatamente, avevano fatto con una piccola comarca di femminote, straviate lassòpra, che sarebbe come dire il Polo Nord per esse, dal loro verso e direzione abituali, che non furono mai di salire per Calabria, ma di scendere e passare mare per Sicilia, dato che il loro stile di vita, stile mascolo cioè di buscarsi la vita, consistette sempre in arraffamento di sale franco a Messina e in ’spedienti per passarlo in Calabria senza pagare dazio, sotto l’occhio di finanza e questura, fra manovre di treni e imbarco di vagoni, fra molo e ferribò, arrivi e partenze, merci e passeggeri, colli e bagagli, finestrini e staffe, scambi e respingenti, latrine e stive, ponti e scalette, vapori di locomotive e fischi di sirene.

Straviate: come gabbiani dirottati sullo scill’e cariddi da qualche tempestona oceanica, che da Gibilterra rintrona nel Canale e fa venire il pellizzone, i brividori di pelle; o come rondini marine, che trasvolano atterrite verso terra, svolante nuvola nera davanti alla burrascata, che viene ribellando di lontano i cavalloni, rigonfi e tenebrosi, delle furie; o come le quaglie anticipate dal maggio all’aprile, che sbattono sulle dune di Casablanca o alle prime alture di Spartà, stracque e accaldate di sabbia africana, e sono segno che s’avvicina un’estate selvaggia, un tale terribilio di scirocco a levante, che si scioglierà il catrame sotto le barche al secco e lo spada, magari per tutti e quattro i mesi senza r, passerà basso, sotto i quindici metri, e là, non c’è occhio che possa scandaliarsene, là, anche l’occhio più fino di falcone dovrà farci sopra una lagrimella e intinnere e filere si terranno sciolti in coffa, perché, prima o poi, gli si rovescerà il bianco degli occhi e precipiteranno a mare come sparati dal loro albero di vedetta, con la testa che gli fumiga sotto il cappello di paglia.

Straviate così: come gabbiani, rondini marine e quaglie, quando sono fuori tempo e fuori luogo, e allora sono sempre avvisaglia di qualche novità, e novità sempre dispiacente, se si sa smorfiarla.

Stavano ai bordi di una plaia immensa, rientrata dalla marina vera e propria circa trecento metri e prolungata tanto, che non se ne vedeva la fine.

Un’ora o due dopo mezzogiorno, era arrivato a una fiumara secca, sabbiosa e pietrosa che a occhio e croce doveva essere un mezzo miglio fra una sponda e l’altra.

Il ponte, che una volta l’attraversava, era stato fatto saltare pezzo a pezzo dai tedeschi in ritirata; restavano solo i piloni, che sembravano dei baluardi frangiflutti per la piena delle acque invernali.

All’altra sponda del ponte, alzata accanto a un pilone, c’era una tenda da campo. Non si vedeva nessuno di fuori, ma sotto la tenda, al riparo del sole, doveva esserci certamente qualcuno.

Questo qualcuno, siccome era a quelli che pensava, gli passò per la mente che potessero essere una di quelle coppie di carabinieri che, correva voce, giravano a cavallo o a piedi, cogli ordini del re scomparso, che era ricomparso con trono e rintrono di proclami maestosi, nella città di Brindisi, nelle Puglie, e che, come Carlo dopo Roncisvalle, andava facendo l’appello dei paladini morti per vedere se casomai qualcuno gli restò fedele e vivo, ma non per squartare fra due cavalli il suo già caro e onorato cugino ma solo, forse, per proforma di re che regna. Fantasimi, diceva la gente di quelle coppie di carabinieri erranti. Fantasimi, che in nome di re fantasima, gettano il bando di richiamata a soldati fantasimi anche loro, loro nemmeno a dirlo, più fantasimi di tutti.

Fantasimi o no, aveva disceso la fiumara sino al suo sbocco. Là, sull’altra sponda, c’era un grande ammassamento di scogli, come se il mare si fosse ritirato lasciandoli allo scoperto, sprofondati nella rena. Si era levate le scarpe e girando e rigirando nei passaggi fra scoglio e scoglio, era uscito su quella plaia sterminata, silenziosa, bianca e accecante sotto il sole.

Era come di piena estate, la sabbia e le pietrebambine bruciavano sotto i piedi, il cielo era azzurro e senza una nuvola, il mare mosso appena dal suo scintillìo: nell’aria ferma, il rotolìo delle onde lente alla riva pareva scendere dentro la marina e prolungarsi lontano sotto la rena.

Intorno, era dappertutto bianco e polveroso: c’erano solo delle macchie di canne lungo la fiumara, per il resto l’occhio non avrebbe avuto dove posarsi, se non fosse stato che subito a sinistra, ad angolo retto con la fiumara, un fitto nereggiante di giardini bordava per un lungo tratto la plaia, attirante come un’isola di fronde e di frescura. Lontano, dove il boschetto finiva, si intravvedeva un pezzo di serpentina della strada.

Risalì la spiaggia e poi, nella plaia vera e propria, seguì la traccia che altri passi avevano lasciato sulla sabbiadura. Avvicinandosi, vide che erano alberelli nani, aranci e bergamotti, combacianti tra loro col ricco fogliame e il carico di bottoni verdeneri e lustri: subito, al primo passo, lassòtto era cupo d’ombre, tenebroso come per notte.

Camminava lungo il boschetto, ancora con le scarpe in mano, e credette di sentire come un improvviso fruscìo d’aria fra le foglie secche, ma era invece qualcuno che gli faceva sordellino, con le labbra ad anello, per richiamare la sua attenzione; e difatti, dietro al sordellino, una voce di femmina era sorta di là ad apostrofarlo:

«A voi, marinaro con la barba. Una parola, una paroletta, permettete, sentite…».

Qua parlano l’aranciare, era stato il suo primo pensiero. La voce infatti, seppure d’intonazione tutta naturale e umana, umana anzi sino alla sfrontatezza, per lui che non vedeva la femmina, sembrò sgrovigliarsi, bassa e tenebrosa di segretezza, dalle parlanti radici di uno degli alberelli.

«A voi, marinaro ’ntartarato» insistette la voce. «Una parola, una paroletta. Permettete, sentite…»

Con quel suo modo allusivo di pronunciarsi, mezza e mezza, dall’ombra, come dallo spiraglio di una porta o da dietro la grata di una finestra, la voce gli faceva lo stesso effetto di quella d’una adescatrice, soldatara della cinta delle mura, sirena di bassoporto, una adescatrice di quelle che ti gettano l’esca e ti cantano canzonette, eppure sottosotto hanno un tono come di boria, risentito e sprezzante, un piglio d’alterigia, che non si sa dove l’appoggiano.

Aguzzando gli occhi sotto gli alberelli e come orientandosi al suono della voce, arrivò a scoprire, prima quella che lo aveva apostrofato e poi, da lei, le altre, una diecina, sedute qui e là, alla prim’ombra del giardino, ognuna sulla cofana d’incannata; solo che mentre quella stava rialzata sul busto e poteva vederla, le altre invece stavano chine in avanti, senza nessuna curiosità di lui: le lunghe schiene ricurve, dal rigonfio delle gonne che gli incoffava il culo, al collo lungo e scoperto, alla testa con i capelli neri corvini, accoronati sopra, attrusciati in tondo, per fare da appoggiatoio alla cofana in equilibrio quando camminano; i gomiti sulle cosce, le gambe larghe e le gonne tirate sui ginocchi per rinfrescarsi di sotto. Qualche lembo di colore rossofiamma spuntava dal numeroso fascio delle gonne: questa scoperta, delle gonne rosse fra le nere, che esse solo portano quasi per bellezza e bandiera, come a un segnale, gliele fece riconoscere per femminote. Le riguardò alla posa, allora, come di maghe nel nascondiglio.

Femminote lontane dalla base? si chiese. Femminote straviate per nord, contrariamente al loro naturale? Ma non ebbe tempo, sul momento, né di capacitarsene né meravigliarsene quanto avrebbe dovuto.

C’era sempre quella che gli si era messa all’orecchio con la paroletta: quella, che stava ritta, cogli occhi aperti, come alla misa del passante, mentre le altre stavano a spalle piegate, quasi aspettassero che il sole gli passasse sopra il dorso.

«Una paroletta, marinaro, bello mio. Una paroletta per il piacere vostro» insinuava.

Ora, la vedeva bene: un soggetto capotico che a suo tempo doveva avere furoreggiato e ancora se la batteva, col personale grande e giovanile, la faccia tosta e lucida, gli occhi di piratessa, mezzi chiusi e terribili, le rughe che le tagliuzzavano la faccia in forma di due mezzelune, fra gli zigomi e la bocca, e che non tanto parevano opera di vecchiaia, quanto cicatrice di qualche vecchio sfregio, ricordo di spasimante tradito e furioso. Vecchiaia o rasoiate, quelle rughe, o intacche, le stavano sulle guance come un tatuaggio con la data, di quando doveva essere assai sbardellata e invogliante, una gran campiona di galeota, passionale e tragediatora, e gli uomini che c’incappavano, o finivano in carcere o finivano al cimitero. Allo stato attuale, a lui, nell’insieme, gli riusciva sfrontata, trucchigna e scostante.

«Che c’è?» le fece. «Che è sta paroletta?»

Una certa curiosità ce l’aveva, non poteva negarlo, anche se molto credeva di saperlo: non poteva mai immaginare però la stranezza di cosa femminina che quella paroletta gli avrebbe rivelato, seppure non svelato.

Senza dargli conto, la femminota si girò indietro e si rivolse a una delle sue compagne, che stava più dentro al fogliame, invisibile a lui. L’apostrofava: «Cata, bella mia» e le parlava a muso dolce, con parole ammielate all’orecchio di lei, con frasi strabilianti all’orecchio di lui. «Cata, bella mia» le diceva, «faceste caso al marinaro che vi venne qua davanti? Lo miraste bene com’è bello e com’è alto, che pare uno stendardo? Vi fa sangue, bella mia? Ditemelo se vi fa sangue, ditemelo franca, non vi fate scrupolo… Vi viene a conoscere, a occhio vostro? Vi ricorda qualcuno, a mente vostra? Vi fa cuore d’averci conversario? Eh, qualche paroletta, per caso, non ce l’avete, in punta in punta, di dirgliela? Un purparlé con lui, eh, vi fa genio di avercelo, un trattenimento sotto le fresche frasche? Parlate, bella mia, ditemi se questo regio marinaro v’incontrò i caratteri, se ci faceste un pensiero sopra, sennò non v’appenate. Iate, iate, gli dico. Iate per la strada vostra, marinaro, una volta che a Cata non le fate nessunissimo genio. Eh, bella mia, sentiste come gli dico?»

«Scusate se mi intrometto…» la interruppe.

«Un momento, aspettate un momento, voi» lo zittì lei.

«Ma che momento. Mi piace come disponete del sottoscritto. Una paroletta, se permettete, la vorrei dire pure io. Mi spetterebbe, mi pare.»

Quella Cata rise là nell’ombra e la femminota se ne mostrò sorpresa:

«Ah, vi strappò un riso? Allora, un po’ v’aggradisce il marinaro, vi fa sangue? La paroletta allora vi sentite di dirgliela?».

«Ma a me, non me lo domandate a me, se mi va di sentirla?»

«Ah, meglio mi sento… Pure pregato volete?»

«Pregato? Ma se nemmeno fui interpellato… Oh, questo, teatro vero vero mi pare: uno si trova a passare e voi, issofatto, disponete di lui a libito vostro. Vi comportate, forse mi sbaglio? come una sensala di matrimonio, però la parlata gliel’andate facendo solo a quella tale Cata che vi sta dietro, mentre a me, né mi fate né mi date parola, mi pigliate e levate come un pupo dell’Opera dei Pupi. Ma secondo voi, io me la dovrei pigliare nel sacco? Io, secondo voi, un’occhiatella non gliela dovrei dare?»

«E statevi quieto, statevi…» fece con smacco rabbioso, a lamento. «Non immagina nemmeno la fortuna che gli capitò. La vuole vedere, fa pure l’esigente, con quell’aspetto di porcospino, tutta quella barba che si porta per lutto. La volete vedere? E vedetela. Ma lustratevi gli occhi prima, lustrateveli, sì…»

«Va be’, me li lustro. Ma non è che mi fate comparire una zoppa, tignosa, con l’occhio di vetro, i denti finti e il petto di pezze?»

Ancora non sapeva che pensare: fingeva di pigliarlo a scherzo, sentendo che scherzo non era. Parlava con quella, e intanto considerava e vedeva le altre che, se stava a lui dirlo, le avrebbe dette tutte morte: seguitavano a non dare musione alcuna da sotto le schiene, qua e là qualcuna tirava un grosso sospiro, ma quanto ad alzare la testa, mostrare una minima curiosità per lui, per l’apostrofazione di Facciatagliata e la parlata che gli faceva per quella sua Cata, niente, non gli arrivava niente: o era troppo vecchia la cosa per esse o erano esse troppo vecchie per la cosa.

Facciatagliata aveva rovesciato una delle cofane e la spingeva sotto a forza di braccia, per incarcarla coi manici dentro la rena. Fatto questo, batté con la mano sopra una di quelle schiene, la più vicina a lei, e quella, come ci fosse un’intesa, si alzò senza domandare e si piazzò dall’altro lato della cofana: era una vecchia cannadastendere, che non aveva niente, all’aspetto, di quella Facciatagliata che mostrava ascendente sopra di lei, non aveva specialmente quella, la faccia, col piglio dell’antica femminona e quelle intacche a luna mancante.

Fronde e foglie si smossero nel boschetto, come se ci sbattesse contro con le ali un uccello che volava fuori di lì. Le due femminote poggiarono le dita in punta ai bordi della cofana: ma senza forzare, solo proforma, si vedeva che lo facevano per scena, e stettero così, sinché quella che veniva avanti, suonando bambinescamente fra le fronde sotto cui passava, non apparve e si sedette sulla cofana come sopra un tronetto: con le mani in grembo e un sorrisetto strano, terribile e beato, che faceva a labbra unite, guardando davanti a sé, nel sole dove stava lui, nel taglio tenebrolucente del giardino.

Fra le femminote è difficile trovare la brutta, non la bella; e anche fra quella diecina ammucchiate all’ombra del giardino, certamente non difettavano le belle, forse ve n’era persino di più belle di quella Cata. Ma lei era diversa, era rara: non era una bellezza, era una beltà. Per questo, la sua sensala diceva che doveva lustrarsi gli occhi per vederla: perché era differente da lei, da tutte. Non aveva niente dell’incarnato femminoto, tosto, prepotente, scuro, niente della movenza malandrinesca, tutta naturale, d’un corpo statuario, di gran vista, però commisurato a se stesso, alla perfezione: un corpo alto di ponte, coscia lunga e gambe trampoliere, dalle larghe, nere, polverose piante dei piedi sempre nudi, sulle quali poggia potentemente, eppure morbido, elastico, come fossero vere statue che camminano, animate di midollo di cannadindia, che gli dà quella movenza di fustino che vibra e di cui si risente persino l’aria dove passano. Quella Cata non aveva niente di queste famose particolarità femminote, e niente del piglio dispotico e sfacciato con cui manifestano il loro ascendente sull’uomo, niente, insomma, di quell’insieme galeoto che attira e contempo scoraggia nella femminota. Lei era tutto il contrario, la negazione d’una femminota.

Si restava a bocca aperta a girare gli occhi dalle altre e vedere lei, una femminella mignonetta, una miniatura, un gioiellino di personale che dal garbo di vita si sfilava nel pettazzolo che le gonfiava il corpetto fra i lacci, non come le mammellerie soverchianti che si vedevano in giro nel giardino, ma come un grosso sospiro: un figurino di femminella che c’era, tanto per farsene un’idea, da intrecciare le mani a dondolo e balanzarla fra le braccia come una pupitta. Mignonetta, e di pelle damaschina, il viso come squaglio di zucchero, una bianchezza così vergine, di natura, da fare pensare che mentre le compagne, affumicate e tinte, camminavano perenni sotto il sole, lei invece si riparava gelosamente sotto un ombrellino; coi tratti di viso, poi, come li avesse disegnati a mano, formato piccolo, modellati giust’a puntino per quell’ovale, cogli occhi mandorlati, il bianco appena sgusciato e la pupilla a papuzza, come una farfalletta ancora chiusa, tondina nera traslucida. Era di una vaghezza avvincente, una sorpresa tale a vedersi in quella compagnia, che levava il fiato: veniva di mangiarsela cogli occhi, per concludere.

Succedeva però, che quando s’andava a cercarle lo sguardo, magari per farle occhiolino e intendersi, l’entusiasmo si freddava, l’intenzione moriva perché, per restare al paragone, gli occhi correvano da lei come due aponi attirati dall’odore di miele e subito se ne volavano via, allarmati di scoprire che quel profumo di miele si sprigionava da lei come da un fiore finto, o vero e carnivoro.

Dall’aria che aveva in faccia, si sarebbe detto che la sua mente riguardasse quella sua bellezza di corpo, né più né meno, come una nuvoletta che gli stava sopra e ci giocasse quasi a fargli ombra, ora coprendolo, ora scoprendolo, ora fingendo di inseguirlo, ora di farsi inseguire. Era una impressione immediata, netta e insieme oscura, che si riceveva al primo sguardo: nell’ombra molle, sottomarina del giardino, sembrava di vederla come specchiata in un’acqua, sembrava non di vedere lei, col suo sguardo sano, reale, ma la sua immagine riflessa fuori di sé, svagatamente, nei suoi stessi occhi, come un pensiero cadutole di mente.

Inquadrata così: quello che di lei figurava e si vedeva con quello che di lei sfigurava e non si vedeva, ne risultava una mignonetta, fra l’imbambolata e la sfantasiata, la quale d’un verso pareva una ancora acerba che si figurava a femmina fatta, e d’un altro verso, una grande che si facesse a pargoletta, e pareva che in questo ci fosse qualcosa di ugualmente vero, come non fosse ancora tutta spigata, ma pure come fosse maturata tanto, che di più non poteva.

Se ne stava là, posata più che seduta sul bordo della cofana, fra le due vecchie all’impiedi, tutte in muti riguardi, sola con quel suo sorriso strano, terribile, beato: in un’aria delicata, in vetrina, come qualcosa di intoccabile dietro un vetro, in un’aria tutta tangelosa, dove appariva contornata da una maestosità senza ragione e senza forza. Ed era questo il misterioso in lei, questo che chiamava verso di lei e allontanava da lei, questo che mentre spingeva quasi a pigliarla nelle braccia, spingeva contempo quasi a scapparle di davanti agli occhi.

Si era messo sulla rena e s’infilava calze e scarpe, intanto che la guardava.

L’aria di lassòtto si spiritò di odore di bergamotto. Con un temperino, la femminota che faceva da aiutante all’altra, stava levando la scorza a un limoncello: quando lo nettò del callo e della pellicchia, lo passò alla sensala; questa lo aprì e ne mise uno spicchio fra le labbra di Cata, aspettò che ne spremesse il dolce e poi si fece sputare in mano la polpa amara. L’altra, intanto, messa di dietro, le andava riguardando i capelli che lei portava come le altre, intrecciati e accoronati sopra: li pigliava fra le mani incavate, ricalcandone l’arrotondamento, come le imponesse in capo una corona. Facevano, lei e l’altra, come la preparassero a una cerimonia, al suo sposalizio, alla sua prima notte, anzi: una prima notte di pieno giorno, stando al frasario, fra di baliaggio e di ruffianaggine, che stilava con lei quella piratona di Facciatagliata.

«Eh, bella, v’aggradisce il marinaro?» tornò a chiederle, intanto che la imboccava di bergamotto. «L’appuraste voi che è marinaro, sì, bella, l’appuraste? Frinzi non ne ha più sulla divisa: scollo di solino, cordoncino bell’annoccato e nastrino sul berretto, capace che se li giocò a zecchinetta, ma i pantaloni scampanati, quelli ancora li ha. Vi vengono a mente, bella, i pantaloni scampanati?»

Le parla come a una babba, pensò. Non fosse babba, si lascerebbe dire di tali babberìe? Pure fessa però, che non si scandalìa di sta gran fesseria dei pantaloni scampanati? Desiderò vederla da più vicino, se musionava da babba o da scaltra, al tono di quella sua sensala o ruffiana o mammana, quella che era.

Il sole ormai specchiava fortissimo quasi a perfilo del giardino e lo abbagliava, perciò se ne andò all’ombra sotto il fogliame e si appoggiò a un alberello a pochi passi dalle femminote.

«Eh, bella, sì? la paroletta vi viene cuore di dirgliela?» continuava Facciatagliata. «Eh bella, ve lo mando lassòtto? Sentite, voi, gli dico, c’è una personella di riguardo che v’ha da dire cosa fra le fresche frasche. Una certa Cata, che è le settebellezze, vi concede quest’onore e piacere d’una sua paroletta. Così gli dico, eh?»

«Ma che è sta paroletta? Eh, signorina, si può sapere o non mi ritenete degno?» s’intromise lui alle loro spalle: e s’accorse di parlarle anche lui vezzeggiandola, col tono simillimo a quello della sua mammana.

Facciatagliata si girò scattosa, spalancando la bocca come per mangiarselo vivo: subito però, si rigirò per osservare la sua pupilla. Questa si era ottenebrata come se una nuvola le passasse in quel momento davanti agli occhi: si era accigliata e irrigidita, tratteneva il respiro e stringeva le pupille contro di lui, come si sforzasse di riconoscerlo, come lo guardasse di lontano, d’assai, d’assaissimo lontano.

La mammana si era ritratta d’un passo e la spiava, con una mano fra bocca e mento, e l’altra vecchia la imitava, lì allato, tenendosi in bocca, anche lei, con una mano la sua meraviglia, il suo impaurimento come di fronte al ripetersi di un tristo e triste fenomeno.

Poi lei, confusi insieme respiro, sospiro, resospirò profondamente come uscisse di catalessi: il busto le si sciolse dentro il corpetto, riprese subito in faccia quel bianco di squaglio di zucchero, tornò lei, col suo sorriso strano, terribile e beato.

Lui, ora, cominciava a scandaliarsi che senso aveva quel sorriso enimmatico, ammaliato, per questo, mentre in lei si ravvivava, in lui, se sorriso c’era sulle sue labbra, moriva.

Facciatagliata, mammana o sensala, doveva conoscerla vecchia, quella cabala, e la smorfiava a menadito. Girò la testa verso di lui e gli disse:

«Tornate di guerra, che nemmeno quella Morte grande vi volle, per come siete barbaro a vedervi, tornate così lordo, selvaggio e infamato la persona, che una cristiana tutta in sensi nemmeno con una canna vi toccherebbe: eppure vi va a capitare giusto a voi questa trovatura di femmina, vacci a leggere, vacci a capire… Sta bambolalenci, preziosa e difficile di gusti, che quanti gliene proponete, tanti ve ne rifiuta, e succede invece che vi vede a voi, e invece di girarsi gli occhi dall’altra parte, pare che se li rifà, belli fiammanti, a guardarvi. Insomma, le aggradite. Le aggradite? Le piacete, pirdeu, le fate sangue, ve ne potete vantare, pirdeu: siete il primo, vi scelse a voi, siciliano, la calabrisella, con tutti sti disonorati che circolano, di levarle l’onore. Che andate cercando? Un tale tesoro vi viene tutto franco. Voi siciliani, se cadete a mare, tornate a galla col culo come una coffa di calamaretti…».

Non gli dette tempo di risponderle, perché si chinò sulla sua pupilla, le pigliò il viso fra le mani e la baciò sulla bocca con trasporto; anche l’altra la baciò sulla bocca, pulendosi prima le labbra col dorso della mano. Facevano come la felicitassero; le facevano effusioni però, che sapevano anche d’addio, come si dovessero separare da lei e la perdessero un poco, proprio come se la loro bambolalenci s’andasse di fatto a maritare.

Lei manco batté ciglio: guardava lui a occhio fisso, pieno, sempre guardandolo si carezzò la fronte e si alzò, poi si girò all’indietro e allacciandolo dietro a sé con quell’ultimo sguardo, s’inoltrò dondolandosi nell’ombra, che da lì in poi sembrava scavarsi profondamente sotto gli alberelli, e sparì laddèntro, leggera e silenziosa, senza nemmeno un fruscìo di fronde stavolta, e subito divenendo inesistente come un’apparizione di mezzogiorno.

«Andateci dietro: ma che aspettate, la carrozza?» gli fece fra i denti, biliatissima, Facciatagliata: piegandosi in due, come per soffocare il suo scatto di voce, con una mano s’appoggiava a una coscia e con l’altra sciabolava l’aria fra lui e il fitto del giardino, pareva spingerlo, sdiruparlo, a colpi di fendente dietro a Cata.

La faceva fatta, la faceva come intendeva lei, vecchia facciatosta: la faceva così fatta, che nemmeno se lo avesse visto, cogli occhi arraggiati di voglia, invaghito selvaggio, che da un momento all’altro si tuffava a pesce sulla sua pupittilla per annicchiarsi con lei fra le fresche frasche. Lui invece stava lì, appoggiato a una limoncella, come si riparasse dal sole e non fosse lui la persona su cui la vecchia faceva calcolo per dare l’incrignatura alla bella Cata: e se era vero che per tutto il tempo non aveva potuto levarle gli occhi di sopra a quello specchio di femminella, era anche vero però, che quanto a lui, era andato rimirandola sempre più spassionato, sempre più come una specie di miraggio solare femminino, che poteva vedere, ma non toccare.

Non sapeva come comportarsi. Va be’, si era scandaliato che quella settebellezze era strambata, un poco o assai persa di sentimenti: però, punto e basta, il resto gli era sempre oscuro, e quell’oscuro lo sconcertava. Perché Facciatagliata mostrava tutto quell’affrevo di metterla a tupertù con un uomo, la sua preziosa Cata, come si trattasse d’una medicina che le aveva ordinato il medico? Pensava forse di sanarla? E di che, precisamente? E perché, quella stravagante, aveva scelto proprio lui, uno che ancora scappava di guerra, agguantandosi forte il culo con tutte e due le mani? Che particolarità, aveva lui? che era vivo, forse, mentre da lì in poi, a scendere verso il piede dell’Italia, tutti i maschi erano morti? Ma lei era del tipo di femmina che fa risuscitare i morti più vivi, più mascoli e sbrigliati di prima. Perché dirgliela proprio a lui quella sua paroletta appartata, paroletta che forse era veramente quello che s’immaginava, il solito baccaglio femminino per dire: infilami, ma chi l’assicurava che, andandoci dietro, andandole dentro a sentirgliela dire quella paroletta, non gli succedeva che ancora non aveva finito di passare quelli di guerra e s’imbarcava in guai di pace? Quelle due: la femminona col tatuaggio e la femminella a baliaggio, quelle, ognuna per il suo verso, erano, si capiva, femmine di conseguenze, di quelle che lasciano strascichi pericolosi: e doveva incapparci giusto lui? E se quella lo faceva per sfregio e se ne usciva qualcuno incavallato di coltello? O l’impestava con la goccia, oppure contagiava con lo sputo di sangue? Tutto era possibile e invece, secondo Facciatagliata, doveva anche ringraziarle del regalo.

E poi, c’erano quelle altre che se ne stavano zitte e curve sotto i loro pensieri, come per ritegno o disdegno di quello che gli arrivava all’orecchio, e lo soggezionavano e gli facevano apparire più oscura ancora la faccenda. Insomma, non si sentiva voglia né sentimento d’infilarsi all’orbisca di quel giardino.

Tutte sicure che lui s’alliccasse i baffi all’idea della babbicella, le due fidate gli andavano facendo delle raccomandazioni. Gli dicevano d’indelicarsi con quella bisquì, di scordarsi per quei cinque minuti del modo di vita rustico e barbaro che pigliò in guerra, e ricordarsi invece se ebbe mai garbo in borghesia e mettercene un poco con quel bambolotto di porcellana ché sennò gli si spezzava in mano…

«Con l’orecchio teso stiamo» gli diceva Facciatagliata. «Se dal giardino esce un ahi, se la ronzate, se la martoriate, pirdeu…»

«Ma che m’andate infasciando?» le fece e gli venne da ridere. «Non vi biliate perché, tanto, non la tocco nemmeno con un dito. Ma v’intestaste per davvero che ci vado insieme, che m’isolo con lei dentro allo scuro? Ci mancherebbe che m’arruolo alla guerra vostra, ora.»

«Ah, pirdeu, la chiama guerra, pure questa» fece lei disfiziata. «Senti, senti, questo ci rimette secondo lui, a sacrificio lo piglia… Oh Cata, Cata» chiamò poi all’indietro, ma a bassa voce, per scena, solo per farsi sentire da lui. «Venite, venite, bella, abbaglio pigliammo, e prima di voi, io che lo dovrei vedere a distanza chi porta pantaloni veri e chi per figura. Ci sbagliammo d’uomo, capiste? il qui presente non fa per voi. Venite, venite fuori, bella mia, rassettatevi alla cofana, trattenetevi ogni sfoggio, datelo a chi v’apprezza il ricreo di beltà vostra. Passerà, passerà, non v’allarmate, perché non tutti li ammazzò la guerra, quei cavalieri, passerà chi vi scambia per fata e vi piega il ginocchio davanti, in questo giardino…»

«Che è fata, quanto alla bellezza, chi lo può negare?» le replicò, tanto per chiarire che gli occhi li aveva, e penetranti pure. «Ma oltre che fata, è pure fatata, mi pare: ci vuole forse l’orbo per indovinare questa ventura? Si vede da come guarda e sta in sorriso. Questo voi lo potete negare?» E siccome gli consentiva col suo silenzio, proseguì: «E la dovrei sfatare io? Gliela dovrei tirare io la riffa, laddèntro allo scuro? E se si getta al collo?». A questo punto però, lei gli dette un’occhiata sprezzante, fece una smorfia di schifo e lui si pigliò di puntiglio. Il tono alquanto acceso, continuò: «Ma me lo sapete dire perché io e non quello che passò di qua prima di me o quello che passerà dopo? Eh, perché proprio io? Che ci vedette in me?».

«I pantaloni scampanati ci vedette, i calessoni marinari. Che vi pareva? La dondoliata di fianchi che avete? Il colore bello degli occhi?»

«Volete dire che mi scambiò per qualcun altro?»

«Per un altro paio di calessoni, sì.»

«Era suo marito, forse, quello dei calessoni scampanati?»

«E chiamatelo marito…»

«Zito, allora?»

«Uh, pirdeu» sbuffò. «Alquandalquando ne capitò uno e si rivelò questo cacone, questo domandiere fottuto…»

Detto questo, tornò alla sua cofana, gettando di bocca pirdei, facendo uffa, uffa, come avesse rinunciato all’impresa: si curvò anche lei in avanti come le altre, pendoliando con la testa fra le gambe in modo che sembrava gettarsi il tribolo.

«La vedete?» gli mormorò allora la vecchia aiutante, parlando con la mano alla bocca, alla ladricella. «Quando fa così, mi pare che pure lei, Jacoma, perse i sentimenti dietro a Cata…»

«Ma quella Cata, fatemi capire, è sua figlia? E che le successe? Le morì il marito, lo zito? Com’è che s’imbambolò?»

La vecchia lo guardò arrugandosi in fronte: poi, alliccandosi un grosso neo peloso che aveva all’angolo della bocca, si decise e lo tirò per un braccio più in là, dove il giardino non era più tanto fitto e fra gli alberelli, sopra, sotto il fogliame lampeggiava il sole battendo sul biancore della fiumara. La vecchia s’appoggiò alla sua spalla e cennandogli di continuo cogli occhi al sottocavallo e parlando in un bisbiglio anche se non potevano udirla, gli disse:

«Ma perché v’andate traccheggiando tanto? Avete il fare flaccommodo con la femmina o non vi sentite valìa? V’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura? Parlate, dite, non vi fate scrupolo, io nonnava vi potrei venire. Spiegatevi, spiegatevi che pesce siete, perché un pari vostro, vecchia, vecchiona per quanto sono, non lo incontrai mai: oh, e ne incontrai d’ogni colore e sapore. Uno però, che alla vista d’una rosellina come Cata, ancora col suo bottonello chiuso, s’inghiotte l’acquolina e si ricusa d’andarla a sbottonare e a spampanarla tutta, senza pagare dazio, anzi pregato, ringraziato, uno così, chi l’incontrò mai? Disgraziate noi, sta guerra di sopra ammazza e di sotto si sgrava di portenti maligni. Focu, focu, per fare un esempio, voi: e non siete forse un vero fenomeno vivente, voi? Avreste a essere in un circolo equestre, s’avrebbe a pagare il biglietto per vedervi, e che m’annorbo, se v’insulto o vi commedio…».

Insultare no, commediare sì, però; era fina la vecchia cannadastendere, fina pure di mente. Non era quella grezza indiplomatica di Facciatagliata che cacone glielo diceva in faccia: fra l’altro, non doveva essere intrigata tanto intimamente, quanto quella, con Cata. Lei non gli gettava infamia per insultarlo, commediava solo che gliela gettava: lo istigava, lo provocava per farlo uscire al naturale, naturale mascolino, per essere più precisi. Doveva pensare: ora, a questo gli viene rosso agli occhi, sentendosi screditare, s’incazza come un toro e per darci risposta, se vale o non vale, si farà vedere all’opera con Cata. E magari, pensava che lui dicesse: ora vi faccio vedere se sono un fenomeno vivente, senza pagamento di biglietto ve lo faccio vedere. E doveva pensare che incazzato com’era, Cata correva rischio, dopo, che la dovevano raccogliere con il cucchiaino. Non era fina, furbissima? Chi non si sarebbe incazzato a sentirsi dire che come maschio valeva quanto un fiammifero sparato? E chi, incazzandosi, si sarebbe trattenuto di dare prova del contrario, accendendosi e facendo fuoco e fiamme? E proprio questo andava cercando la vecchia con gli insulti: di vederlo incazzato, perché a senso suo, quello era giusto il caso in cui incazzato diceva e faceva per incazzato.

Lui, però, si sentiva solleticato da una gran voglia di riso e non glielo nascondeva:

«Ma che vi passa per mente?» le fece. «Lo dissi e lo ripeto: non mi metto con una ’ncantesimata. Inutile che dite.»

«Ma allora, ’sendo ’cellentemente ’ncavallato» continuò lei, per conto suo, «come vi potete sentire l’almo di ricusarvi a quel lattume di spadella, a quelle carni di seta rosa?»

«Sì, seta rosa. E poi, la mente allampata che ti guarda e ti fa venire i brividi.»

«Pirdeu, pirdeu, questo alla mente guarda… Non guarda che la fessicella, a passarci il dito di sotto, si sente ancora la panna e il velo di come uscì di ventre a sua madre…»

«Sì, decantatemela, decantatemela…»

«Voi forse direte: vergine, figurarsi. Sentite allora quello che vi dico, a rischio che Jacoma mi salìa. Damiano, il marito, dovete sapere che non ebbe tempo nemmeno di farle sentire le tavole di letto fare ’nzùghiti, ’nzùghiti, perché la morte gli batté sulle spalle dicendogli: Damiano, finiscila di cavalcare Cata, che ora mi devi cavalcare a me. Capiste perché s’imbabbì? Damiano le stava ancora sotto l’arco della porta, le stava domandando: c’è permesso? posso entrare? e lei, la bella, aspettava cogli occhi chiusi quella meraviglia di entratura e invece s’appresentano i carabinieri e glielo strappano di sopra che ancora non le aveva scandagliato nemmeno l’antistanza…»

«I carabinieri? Ma che c’entrano i carabinieri ora? Appena un secondo fa diceste che fu la morte che lo scavallò di sopra a Cata…»

«Vi dissi morte e vi dico carabinieri» gli chiarì la vecchia, urtata, ammussandosi nella voce. «Ci vedete discordanza? La morte governativa agisce forse da sola, la morte, dico, che più vi strafotte a voi giovinoni bruni e preziosi? È forse come l’altra morte che dispone solo di vecchie malattie e di vecchiaia e per noi è come la scopa di casa e infatti, né femmine né maschi c’è bisogno di ammanettarci? La morte governativa invece, assai ne farebbe affari, e ve lo dico per ’sperienza, senza carabinieri e armamentario… In guerra morirebbero solo i biondi, nemmeno a pagarlo a peso d’oro lo troverebbe un bruno, quella Nasomangiato. Ma che vi stavo per dire? Perdetti il filo…»

«Sentite, non vi sforzate, risparmiatevi il fiato. Ora che mi pigliai un poco di frescura in questo giardino, alzo i tacchi e me ne vado.»

«Aspettate almeno che vi confido perché Jacoma vi fece la parlata per Cata…» gli fece agguantandolo per il braccio. Occhiò verso la sua socia e poi, tutta segretosa, d’un fiato, gli disse: «Per sanarla».

«Per sanarla? Mi pigliò forse per medico di levante che porto unguento e medicamento?»

«Non siete medico ma l’unguento l’avete, siete marinaro e avete il medicamento» sentenziò la vecchia. Spiò di nuovo fra gli alberelli con la faccia appuntita, prima di dire, strettastretta, più smorfia che bisbiglio: «In pieno sole e bombardamento d’agosto, fra polveroni e sputafuochi, fracasso e pericolo di germanesi che passavano di Sicilia a qua, insanguinati e zannosi, vi dovete figurare che Jacoma, pigliatasi Cata per mano, alzò i piedi e s’avventurò per le strade: e da questo vi potete fare un conto di come l’ama, Cata, e ci spasima…».

«Ma non le è figlia?» la interruppe. «Allora si capisce che l’ama e ci spasima…»

«Pirdeu, vero vero che siete un gran domandiere. Uffa no, no che non le è figlia, quel Damiano le fu figlio. Uffa, pirdeu, finiste di fare il domandiere ora? Trovaste sta vecchia di lingua sciolta e ve n’approfittate. Saliata mi merito, saliata…»

Si lamentò un poco, ma da vecchia qual’era, che non si sapeva se faceva il dramma o la farsa, e poi, di netto a netto, riattaccò sul tono confidente:

«Jacoma, Jacoma, in quel finimondo, vi stavo per dire, portò quell’animuzza da una certa sanatrice di Santa Cristina d’Aspromonte, una specie di iattamammona ’sperta e lùngimira, che alla prima occhiata si svelò l’arcano di Cata: non solo si svelò gli spiriti e i sentimenti che s’era persi, ma anche l’aria di femmina màrtira, che non era più né pesce né carne, né signora né signorina. Sapete che fece? La volle accanto e quando l’ebbe accanto: bella, le disse, fatti vedere se hai l’ovicello. E le mise una mano sotto e la sprovò col medio come una gallinella se ha l’ovo. Il medio mi dice, disse poi la iattamammona, che questo gingillino non ebbe fracasso benigno. E allora Jacoma le contò tutto di Damiano e della sua sventura. Lei l’ascoltò e poi papale papale disse: per sanarsi, sta storticella, c’è un solo rimedio e questo rimedio glielo potete procurare facillimo, dato il portento di beltà che è. Insomma, dove marinaro la lasciò, marinaro la deve ripigliare: quello che marinaro principiò, marinaro finirà. La storticella abbisogna di gettarsi a gridare, abbisogna di lamentarsi, di fare ahi, ahi, come fa ogni umana cristiana quando l’uomo la sperona e lei si sente al suo completo naturale. E chi le dà la speronata, dev’essere fatalmente marinaro, torno e ripeto: lei deve vedere cogli occhi suoi che lo speronatore porta pantaloni scampanati. E questo marinaro, capitemi bene, si deve vedere e sentire che torna di mare e di guerra, che patì lontananza di casa e di femmina: e che torna tutto fervente, però non focoso, assetato, però non arrabbiato di sete. Non sia mai che pure questo fa una affacciatella e si ritira, o che s’addobba lui e a lei le strappa il boccone di bocca, perché sennò, dopo, la camicia di forza le dovete mettere, tenerla dietro le sbarre, nuda e cogli occhi spiritati. Questo disse la iattamammona, comprendete? Per questo si raccomandò, in speciale, di sceglierlo bene il marinaro, di guardarlo tutto, dentro e fuori. Non deve avere ferita né mutila, disse. Se esce di guerra, assicuratevi che non ha niuna barbara macula alla figura, né di fuori né di dentro. Del resto, lo guardate voi prima, ma dopo se lo riguarda lei. Voi guardate se e come lo guarda lei: se lo guarda, cioè, come se lo ricorda lei, il marinaro che la lasciò a: carissimo amico… Se lo guarda e l’occhio voi glielo vedete restare vivo, voi allora inviateglielo dietro dove vuole lei… E ora, lo capite ora, perché Jacoma se la carrìa dietro, quella bisquì, salendo per Calabria? Capite perché va scrutando per mare e per terra e sempre nix, sempre nisba marinari ’taliani, e prima tentò a Villa e ora tentava a Napoli se non v’incontrava a voi? E capite perché, se fallite voi, quella con Cata per mano, per trovarle il marinaro a lei, s’ardirebbe di salire ancora a pestarle la coda alla guerra e starci sempre nelle vicinanze e contarle le scorregge che rintronano nell’aria? Ora capite perché, quando vi vedette a voi la sentii che mormorava: alla faccia tua, morte bastarda, qualcuno restò a galla? e perché s’appropinqua quanto più può alla guerra, a dove c’è chi muore e c’è chi vive? Capite perché Jacoma vi corteggiò cogli occhi al primo vedervi e poi v’apostrofò sfacciatamente? Eh, capite? Capiste? E allora, giovinone bello, avanti, sursincorda, entrate nel giardino, fategliela la grazia a quella meschina di Jacoma, andatele a speronare Cata, avanti, annacatevi sui fianchi, avanti, speronatore prezioso, v’aveva a voi in mente, per l’ideale di Cata, la iattamammona dell’Aspromonte, avanti, entrate nel giardinello di Cata, andatevi a improfumarvi tutto, allestitevi, pirdeu, se capiste l’antifona…».

E in così dire, la vecchia lo pigliò per il gomito e gli dette una spinta.

«Ma che antifona ho da capire?» le disse. «Che antifona, in specie ora, dopo questo piede di canzone che m’andaste piantando?»

«Piede di canzone, eh? Vi sentisse, vi sentisse quella gran sventurata…»

«Perché? Vi pare forse che la potrei mai offendere quell’animella?»

«Animella? Cata, dite? Vi pare, lei, la sventurata? Cata? E chi c’è più felice di Cata? Vestita, svestita, imboccata, cullata, tenuta col fiato, nella bambagia… E che le manca? L’uomo, sì: ma ne sente forse privazione medesma a un’altra? Soffre? E che ne sa lei? Jacoma lo sa, eccome lo sa che soffre. Ore e minuti, non fa che cardarsi per la vergogna di figlio che prova. Scellerato, gl’impreca a Damiano. Figlio fuori razza, ma di chi ne pigliasti? da chi nascesti? Tuo padre, appena m’ebbe sotto, mi lazzariò tutta, mi fece un tale lago di sangue, che pareva una carneficina. Ah, non si dà pace per la mala riuscita che le fece Damiano.»

«Ma quale mala riuscita, scusate? Che partì marinaro e morì?»

«Che morì senza gettare semenza, dovete dire.»

«In che senso, non gettò semenza?»

La vecchia dovette pensare che tanta ingenuità la mostrasse per sfotterla:

«In che senso? In senso di cazzo» sfuriò sboccata, e dopo una rapida occhiata all’indietro: «Vi riuscì più loquente ora? Oh, pirdeu, che baccalarone siete, più scaltri vi facevo in Sicilia. Oh, ma non sentiste che dopo tre giorni e tre notti, letto letto, Cata la lasciò che si potevano dire sorella e fratello?».

«Tre giorni? Ma non diceste che non ebbe tempo nemmeno di farle sentire le tavole di letto fare ’nzùghiti, ’nzùghiti, perché vennero i carabinieri e se lo portarono via?»

«E certo: con la licenza scaduta, lui ancora si traccheggiava, era ancora a: carissimo amico… Ma quale ’nzùghiti e ’nzùghiti, se quello ci andava con la vasellina, se forse nemmeno respirava per non sgraffiarla con l’alito? Si credeva forse di giocare a fare qualche pertuso nella rena, un granello alla volta, sempre orlo orlo, con l’unghia del dito mignolo. E volete che a Cata, dopo che per tre giorni e tre notti la seviziò con sdolcezze che non le riempivano la pancia, non le veniva la bava alla bocca quando restò sola nel letto, non le scappava il bene dell’intelletto?»

«La seviziò perché la trattò in guanti gialli, pieno di riguardi, delicato, senza gettarsi sopra a lei come un allupato? E non si gloria d’un figlio così, quella vostra Jacoma?»

«Focu, focu: di Damiano, volete che si gloria? Jacoma se la porta come uno scrupolo di coscienza Cata: ma in che lingua ve lo devo dire? Sapete che dice tante volte Jacoma? Mascola, mascola mi dovrei svegliare una mattina. Per vera legge, la dovrei sanare io Cata, mi toccherebbe d’aggiustarlo a me questo gioielletto che guastò mio figlio. E per una come Jacoma, che se domandate labbàsso, vi diranno che femmina era, desiderarsi mascola, non so se mi spiego…»

«Mah…» fece lui, stringendo le labbra, tirandosi in su i pantaloni e svagandosi a guardare intorno, come le volesse intendere alla vecchia che lui ci metteva un punto.

«Pirdeu, pirdeu» esclamò lei con accento schifato, ma che poteva sembrare persino ammirativo. «Siete santo di marmo e non sudate voi, eh? Non vi passano nemmeno per la prima pelle a voi, eh, le sventure del genere umano? Di dentro e di fuori, guardatelo, si raccomandò la iattamammona dell’Aspromonte. Eh, sì, gran femmina ’sperta e lùngimira era quella…»

In quel momento, a due, a tre, a cinque alla volta, sotto il giardino scoppiarono, risuonando e annumerandosi fra le tenebrosità delle fronde, le voci delle femminote, chissà per quale causa improvvisamente rinvenute.

La vecchia era corsa da quella parte, ma poi si era fermata dietro gli alberelli e l’aveva aspettato: di dietro, col suo personale snello e leggero, si sarebbe detta una giovanotta che giocava all’ammucciatella con le amiche.

Gli fece segno con la mano verso quella Jacoma che da un sacco sulla rena stava sfagottando qualcosa, che poi sollevò per aria con una mano infilata dentro: pareva una grossa testa di pupo, fra nera e rossiccia, dall’occhiata inferocita, le labbrone a sprezzo e i mascellari muscolosi, come fosse un fassimile di quella di Rodomonte, e difatti non si sbagliava.

«Lo vedete?» gli bisbigliò la vecchia. «Lo vedete come si ridusse in mano a Jacoma quello che chiamavano duce ed era invece amaro?»

Le femminote, girando appena la testa, chi mandava ingiurie contro Jacoma, chi bestemmie e maledizioni contro quel mascherone che Jacoma aveva sfagottato: le due più vicine addirittura pigliarono la loro cofana e s’andarono a sedere lontano da quella.

«Jacoma, malanova: ancora col mascherone in mostra, col càntaro che fete lontano un miglio?» si sentiva dire.

«Oh, Jacoma, pirdeu, pare che ci trovi gusto a tirarlo fuori…»

«C’impesti, c’impesti tutte, con quel cesso ambulante, le budella ci fai rigettare.»

«Ma pirdeu, pirdeu, tu non la senti la puzza che sventa? Ti stoppò il naso, eh, Jacoma?»

«Un boccazzaro come quello, pirdeu, che lui stesso si pisciava di sopra, chiacchierone fottuto, e si faceva da càntaro. Ora poi che gli piscia Cata, si scola da occhi, orecchi, narici e non solo di bocca: il mascherone, pirdeu, si sventa d’ammoniaca come un pisciatoio pubblico.»

«Cata profumarlo può, non appuzzonirlo» fece Facciatagliata pigliando parola con una smorfia di sorriso provocatorio.

Si scandalizzarono tutte:

«Focu, focu… Oh, Jacoma! Ce la vuoi forse passare per Colonia Coty la pipì di Cata?».

«Pirdeu, fosse la sola puzza, ma quant’è vomitevole, quanto, la vista di quell’infamone micidiatore…»

«Come ora, nemmeno all’epoca lo vedemmo tanto, nemmeno quando chiudevi gli occhi, li aprivi e te lo trovavi sempre davanti con la bocca storta e pareva quasi, nella fotografia, di vedergli uscire di bocca le parole…»

«Eppoi, Jacoma, pirdeu, iettatura ci getta, portarcelo in processione, quel ladro delle nostre carni, causa di tutto…»

Jacoma aveva rovesciato il mascherone, pigliava pugni di rena e glieli gettava dentro.

«Le giovanotte si schifano» gli spiegò la vecchia, con qualcosa che la rallegrava nella voce. «Perché, quello, oltre che gli svacantò i letti, è tutto pisciato. Jacoma, la vedete, voi che vi fate il prezioso per un favore tanto piaceroso, lei anche a quello si sobbarca per Cata… Oh, Cata, Cata» sospirò, facendogli strambotto a lui, «la morte perché non ti piglia? Fosse maschia, pure la morte si getterebbe a pesce sopra un bocconcino come te. Fosse maschia, fosse maschio…»

Intanto che le femminote andavano spicciolandosi a uno a uno i pensieri nella testa appendolata giù, la bocca come fiatasse tra la rena, la vecchia lo informò, a scopo forse di persuasione, di come andava quella storia del mascherone in mano a Jacoma.

Lo avevano pigliato a Reggio, nell’arraffarraffa che c’era stato alla caduta del Fascio. Pensavano di farci qualche lira col bronzo del mascherone, invece era risultato gesso bronzato e questo voleva dire che i fascisti pure in famiglia stilavano i camuffamenti, e persino col loro capintesta: che si poteva sperare? Jacoma allora lo aveva portato a Cata, casomai ci trovasse da giocarci, e Cata, l’innocente, vedendo la forma di càntaro che pigliava il mascherone capovolto, se n’ispirò: s’alzò le gonne, s’abbassò e ci pipiò dentro ridendo. A Jacoma allora le era venuto spontaneo di dirle: pipìaci, bella, pipìaci nella testa dello scellerato. Usalo per orinare. E siccome Cata, fidelissima nella sua stramberia, non pipiò più se non in quella gran testa, Jacoma s’illuminò, vedendoci buon segno: che non appena il gesso del mascherone si rammolliva, a quello, alla Grantesta vivo vivo, veniva sconquasso mortale.

«Per questo se la carrìa sempre dietro, quella testa d’orinale, per essere sicura che Cata pipìa là, se le viene di pipìare per via.»

«Pipìa poco Cata, si deve dire» osservò allora lui alla vecchia, laddiètro agli alberi. «Da luglio, ormai passarono tre mesi e quello ancora dura sia in gesso sia in carne e ossa…»

«Pazientate, pazientate e sentirete dire che se n’andò a pezzi. Il gesso già si mollacchiò e a sprovarlo, si stampa il dito. E pure lui in persona si mollacchiò e va sconsentendosi. C’è dubbio? Ma come, non lo sentiste dire che se lo misero in mezzo i carabinieri con le catenelle? A voglia, ormai, a liberarlo, a voglia a se ne fuire… Chi ci stette anche una volta sola in mezzo ai Fratelli Abbranca, restò segnato per tutta la vita. Essì, e ora se la cancella l’ombra dei pennacchi dalla fronte. Finì, finì di fare l’artificiero, di sparare rotelle pazze, mascoloni e cassinfernali, finì di fare guerre ogni due tre, come fossero feste da ballo, finì di mandare a morte st’omicelli bruni, di straviarli nel mentre fanno fare ’nzùghiti, ’nzùghiti alle tavole di letto, di tante, chi lo sa quante, disgraziate Cate, e finì, finì di mettere focogrande a certi nicchiarelli di primo pelo, paglionelli asciutti, infiammabilissimi, e poi magari non si trova un’anima buona, che dispone di acqua, dispone di gioventù, non so se mi capite, un’anima che si procura piacere raro e gentilmente si presta e glielo spegne. Ah, pirdeu, pirdeu, Giovanna» si apostrofò qui, scattosa, finendo di parlargli all’orecchio. «Troppo campasti, Giovanna vecchiarda. Questo mondo che ti faceva tanto genio, ti cominciò proprio a rincrescere…»

E poi, curiosa, lo scrutò a lungo, casomai si fosse pentito del no e persuaso del sì in seguito alle sue parole: e infine abbassò gli occhi e li tenne chiusi, come cogitasse, con la mano alla bocca, su quelle ultime parole che aveva pronunziato in via personale.

Allora, cogitò anche lui un poco: sopra quella Grantesta di mascherone, sopra quella Jacoma che ci aveva fatto sopra la fattura e sopra quella anìmola spersa, quel nicchiarello a focogrande, che ci pipìava dentro.

L’aveva vista per Napoli, quella Grantesta, rovesciata dai balconi, scalpellata dai muri, abbattuta dai piedistalli, ammaccata e scheggiata, di bronzo vero e di marmo, o frantumata in mille pezzi, gessosa, le strade intaccate di bianco da quegli scoppi d’occhi, di orecchi, di nasi, di labbra, che poi finivano smacinati e polverizzati sotto i tacchi di quelli che si trovavano presenti al fatto e che subito correvano a mettersi sotto i piedi, come insetti pericolosi che bisognava schiacciare all’istante, ogni pezzo di quei connotati sfacciati e sfasciati nel crollo.

Qui, però, era diverso. Anche se il mascherone era intero, visto ai piedi di quella Jacoma, faceva un effetto di rovina e di degradazione massima, senza riparo, che colpiva e impressionava assai di più dei frantumi rumorosi di Napoli: e immaginato, poi, sottosopra, mentre Cata si alzava le gonne e s’abbassava, la distruzione della Grantesta si rappresentava allora agli occhi con un senso vivo vivo, sotto l’aspetto barbaro di quella innocentissima che quello che faceva, sembrava farlo come ispirata da un volere divino. Cata era pazza a causa di Damiano, ma facendo il calcolo, ci colpava unicamente la Grantesta se Cata era pazza a causa di Damiano: e Cata sembrava farlo questo calcolo e sembrava che in seguito a questo calcolo, si vendicasse del mascherone pisciandoci dentro: perché la mente pazza, è cosa notoria, è l’unica fra tutte le menti, che a decifrarla manda un suono di verità, dolce o terribile, come di corde divine, qualcosa che fa trattenere il respiro e non si saprebbe mai spiegare, dire.

Per opera dell’amico tedesco, si diceva, quella Grantesta tornò in auge nell’Altitalia, la rimisero sul piedistallo. Questo si diceva, e questo aveva sentito a Napoli, ma ora, da quello che un poco vedeva e un poco s’immaginava, gli pareva che nell’Altitalia, in auge, sul piedistallo, avessero rialzato in realtà solo una statua di gesso, un mezzobusto bronzato, un ritratto labbruto, e gli pareva invece che qui, nella Bassitalia, sotto le aranciare, fra queste femminote straviate lontano come rondini nel vento contrario della tempesta, quel mascherone pisciato da Cata, quel mascherone che Jacoma aveva sbrogliato dal sacco, col gesso mollacchio e fetente che schifava, fosse quella la Grantesta vera, mozzata in carne e ossa, decollata di persona, ed era come se il Duciamaro non ne avesse saputo niente, che gli avevano scippato la testa ed era oramai solo un busto pettoruto, che ancora per poco si muoveva sulle gambe automaticamente, agitando le braccia contro l’aria.

La vecchia tornò alla sua cofana:

«Non vuole ricreo né sente pietà» disse a Jacoma, a voce altissima, dopo tanto bisbiglio.

«E che vuoi farci?» fece quella con la faccia a disfizio. «Eh, che possiamo farci? Diccelo tu, scellerato» aggiunse, ronzando col piede la Grantesta.

In quel momento, la bella senza senno riapparve sotto gli alberelli: si era sciolte le trecce e i capelli ora le incorniciavano il viso che usciva dall’ombra più pallido ancora del suo naturale. S’appoggiò con le spalle a uno degli alberelli, che era non più alto di lei, e allora diventò come uno di quei tronchetti e parve che rami e fronde e bottoncini spuntassero da lei, dalla sua testa, dalle sue braccia e spalle. Si alzava sulla punta di un piede, sollevando l’altro in avanti, e tendeva un braccio come per raggiungere le fronde più alte, però senza mai afferrarle. Sembrava, a guardarla, che fosse quello il posto suo naturale: in un giardino, a giocare con le fronde, fra i profumi misteriosi di quei frutti a lei somigliantissimi, di una freschezza inebriante che penetra persino i pensieri, eppure con qualcosa di imbalsamato, come profumi, non di frutti sull’albero, ma di essenze sigillate in un’ampolla.

Dalla plaia, lontano, si udirono delle voci: erano i soldati che uscivano dagli scogli e venivano verso il giardino. Fu allora che come l’avesse già vista con un paio d’occhi dietro la testa, quella Jacoma si girò verso la sua Cata:

«Rinculate, bella. Incuneatevi più dentro allo scuro» la sollecitò e siccome la fessicella continuava a giocare con le fronde, le ripeté: «Cata, bella, levatevi di vista, ritiratevi. Viene gente che non fa per voi».

Ma Cata, pareva che non la sentisse nemmeno: guardava lui, come fosse sola con lui in sogno. Jacoma allora si girò di furia con tutto il busto e le gridò:

«Iate, Cata, iate allo scuro, vi dissi… Li vedete i soldati pezzentieri che vengono? I soldati di terra, li vedete? Viva vi mangiano, quelli, se vi vedono, viva, capiste? Sparite, sparite, allestitevi».

Cata stette un poco sospesa, col bianco degli occhi scintillante, e poi s’addentrò nell’oscurità del giardino: dietro a lei, le fronde si smossero a lungo, ancora con quel rumore lieve, smorzato e tenebroso, come si muovesse un uccello, una tortorella, per tutta la profondità del giardino.

Le femminote intanto, rialzando, chi gli occhi, chi la testa, chi il busto, tornavano alla vita: smirciando i soldati in appropinquo, avevano fra di loro qualche scambio di vedute, ma erano ancora voci senza faccia, di qua e di là, di sotto alle schiene, bocche che lasciavano cadere sulla sabbia le parole sfottenti, i concetti smagati d’antica data:

«Arrivarono quelli belli danarosi» dicevano.

«Affari grossi in vista.»

«Fagli in pietra li fate? Pìccioli niente, non gliene fate?»

«Para la mano dove li vuoi messi…»

«Pidocchi, di quelli, a voglia.»

«E voglie, no? A voglia di voglie che avranno…»

«Focu, focu, voglie intartarate, oramai…»

«Meschine mogli che gliele leveranno.»

Boccadopa, con la furbizia del catanese, le sventò subito per femminote. Entrò direttamente nel giardino e senza nemmeno un bongiorno, stampellando davanti alle cofane di culo, coi lineamenti alterati, le apostrofò rabbiosamente come gliene chiedesse conto:

«E voi, femminote, che ci fate quassòpra, così lontane?».

«A passeggiata venimmo» gli risposero, mettendosi a sfottò.

«Ma com’è che vi trovate a salire per Italia e non a scendere per Sicilia?»

«Per Sicilia? Arretrato siete.»

«Ma che successe? Finì il sale in Sicilia?»

«Volete sale? Spremetevi qualche lagrima e alliccatevela.»

Quelle, erano capaci di fargli mangiare i gomiti. Eppure, anche se era antipatico e aveva tono pretendente, quella volta, a Boccadopa, non si poteva dargli torto: vedere femminote tanto in alto alla Calabria, era stranezza così grande, che doveva dare per forza nell’occhio, domandarsene la ragione veniva naturale. Lui stesso, arrivando, se n’era fatto meraviglia: solo che, fra la paroletta di Jacoma e la beltà di Cata, la cosa gli era completamente passata di mente.

«Oh, per Sant’Aita» gridò Boccadopa inferocito. «Vi volete degnare di darmi qualch’informa? Se siete qua voi, che ne fu della Sicilia, eh?»

«Focu, focu, a noi ci chiede conto della Sicilia, sentitelo sto lepido qua. Pare che ci pagò per guardargliela dai pericoli di guerra…» fecero quelle che assai s’impressionavano se si era inferocito.

«Galleggia sempre, non s’affondò, galleggia, non vi spagnate» gli fecero ancora.

«Ma che volete dire? Che allusioni fate? Che è sto parlare a baccaglio?»

«Parlare a baccaglio vi pare? Allora sentite quello che vi diciamo papale papale: in Sicilia, noi non ci mettiamo più piede e cioè a dire non ce lo mette più nessuno, i ferribò affondarono e non ne restò uno, Messina si fece lontana e per noi di qua, è come se l’isola se n’andò al largo mare.»

Per Boccadopa fu come una scoppola che lo fece piegare in avanti sulla stampella:

«E come si passa senza ferribò?» riuscì a dire. «Come fa a passare in Sicilia, un siciliano?»

Singultava, parlando con la voce ora tutta muta e ora tutta un grido: pareva di vederlo che inghiottiva acqua in punto di affogare, come fosse già accaduto quello che lo spauriva tanto. Gli altri tre, intanto, guardavano fra i bottonelli delle aranciare se ce n’era qualcuno meno acerbo, per farsi la bocca.

«Ma siete sicure? Siete oneste e sincere?» insisteva Boccadopa con le femminote. «Per bocche di verità, c’è da dire, non passate certamente, perciò può essere che m’infasciate. Non è che voi ci mettete sale a infasciare un mutilato, un soldato che torna appena appena di guerra dove dette alla Patria una gamba, capacissime voi di sfotterlo…»

«Quanto alla gamba, rispettosissime ci diciamo» risposero, non si capiva se con o senza intenzione di offenderlo.

«Una gamba in meno, niente dite…»

«Queste qui, le gambe, sono il nostro armamentario.»

«Figuratevi se non lo sappiamo…»

«Ire girando…»

«Fuirsela da questurini e da finanzieri…»

«Stringere l’uomo e farlo storcere per la carina quando se la promena letto letto…»

«Essì, la gamba è tutto…»

S’immedesimavano? Boccadopa ci stava quasi credendo e per questo, forse, lo sfottò finale gli fece fare una smorfia un poco ridicola:

«Essì, ve lo piglierete il culo a manate, spaiato di gambe…» gli conclusero.

Eppoi, di seguito, da schiena a schiena, quelle galeote senza re né regno, gli dettero senza riguardi un’incalcata di smacco, con mano più pesante ancora:

«Ma quante miria e miria di braccia e gambe avrà sta tale Patria?».

«La gamba, dice questo, la detti alla Patria. Il braccio, quello dice, lo detti alla Patria. Gamba, braccio. E che è per loro? Un fiore.»

«E quanta boria, quanta trionferia ci mettono a dirlo…»

«È tutto un macello di guerre, ma se senti questi qua, ti pare quasi che sono tutte questioni di uomini per femmine, azioni di amanteria.»

«Ma che gli farà, sta Patria?»

«Sarà speciale, lei.»

«L’avrà filettata d’oro, lei.»

«O ci avrà il miele.»

«Pirdeu, più ne ammazza e più ne trova di questi ladri, assassini delle loro carni.»

«E certuni di questi che mutila, qua ne abbiamo un campione, pare quasi che se li innesta al corpo suo, per via di braccio, di gamba e via mutilando. Le portano a lei divozione, o al braccio, alla gamba, ai ricordini che le lasciarono? Focu, focu, e chi ci legge in questi misteri?»

Boccadopa, alteratissimo, arrancò verso le più vicine e alzò la stampella:

«Parola mia d’onore, vi stampellìo» le minacciò ancora, però smuovendosi sulla stampella, perse l’equilibrio e si sconocchiò sulla sabbia, ai piedi della femminota. Portempedocle, col divertimento che gli traspariva dagli occhi, pigliandolo per le ascelle, lo aiutò a sollevarsi di nuovo e a puntellarsi sulla stampella.

«Issatelo, issatelo, sennò si radica nella rena…» fece una delle femminote.

Le altre rincararono la dose senza pietà, passandosi la parola come una frusta che schioccava dalla loro lingua sulla rena, sollevando polvere contro Boccadopa:

«Issatelo, questo cicognone».

«Questo iambetta focoso.»

«Questo boccazzaro.»

«Questo linguto.»

«Avrebbe a passare col piattino, elemosinando un soldo di perdono e simpatia…»

«Avrebbe a gettarsi cineraglia in testa…»

«Sfigurato com’è…»

«Per la gamba che perse…»

«Per la gamba che si vanta che perse…»

«Invece, sentitelo, sentitelo…»

«Che prosopopea.»

«Che iattanza.»

«Che sprezzo.»

Boccadopa, o se la sciroppò zitto zitto, quella passata di smacco a levapelo, o doveva essere che la caduta lo aveva strambato un poco, l’aveva messo a terra non solo col culo, ma anche col piglio.

Chissà, pensò forse di scontarsela con quella Jacoma, quando vide la Grantesta messa di piatto per terra e la femminota che con la punta del piede gli scavava la rena intorno. Per non smentirsi, se ne scandalizzò:

«Guardate qua dove arrivammo» fece fra l’altezzoso e lo schifato, rivolto a Portempedocle che lo sorreggeva con un braccio alla vita. «Questo lordume di femminota che ronza il duce, gli fa sfregio e oltraggio. E si capisce, da queste parti, per il momento, cadde in bassa fortuna. Una volta, a sta beduina, l’attaccavano per meno assai…»

«I peli più lunghi m’attaccavano, una volta» gli fece Facciatagliata. «Ora, m’attaccano quelli più corti…» Poi, come in un impeto, si tirò su tutte le gonne, scoprendo un gran paio di cosciazze abbronzate, ancora toste, muscolose, e dette un colpo di reni in avanti come per sbattergli il grembo in faccia a Boccadopa: «Attaccatemeli voi, dato che ci siete» gli fece. «Avanti, Iambetta, venite all’attacco, fategli vedere al mascherone come lo sapete difendere.»

Tutta la comarca si scompisciò dal ridere a quella uscita di Jacoma, e mentre ridevano, col riso che gli faceva sciacquìo dentro e gli faceva dare culate alle cofane cigolanti sotto il loro peso, parecchie altre si scosciarono come Jacoma, sfidando Boccadopa con lazzi e sollazzi ad attaccarglieli pure a loro, i peli:

«Intrecciateceli» gli dicevano. «Fateceli a mazzetti, a ciuffetti, a riccioletti. Fategli l’ondulazione permanente, la messa in piega. Avanti, mostrateci sta moda fascista d’attaccare i peli d’in mezzo all’anche…»

Boccadopa sputava con un mezzo sorriso sprezzante. Gli altri tre soldati, per godersi meglio lo spettacolo, si erano gettati a pancia sotto sulla sabbia: le femminote sboccarono pure con loro e dopo un po’ calarono il sipario. Solo allora, come ci avesse pensato a lungo, Boccadopa pigliò a dirgliene quattro:

«Zingare, lordone e zingare… Vi manderei all’isola, a mangiare pomice vi manderei, tutte quante siete, all’isola, là sareste degne di vivere. Tanto, che campate a fare nel consorzio civile? Famiglia, patria, dio, vi dicono forse qualcosa a voi? V’ardite di oltraggiare il ritratto del duce, il vostro dio in terra, vale a dire. Vi dovreste sciacquare la bocca prima di nominarlo e invece, non appena quello gira gli occhi, vi gettate di sopra come iene. Che si può sperare da voi? Infamate il duce e mi faccio scrupolo se m’insultate a me? Che ne potete sapere voi, femmine zingaresche, di me che persi una gamba e per chi e perché la persi? Nemmeno ve lo sognate, voi, chi sono io, una domanda in carta da bollo mi dovreste fare per parlarmi…».

Le femminote, prima gli dettero tutto l’agio di parlare e d’illudersi pure che zitte e mute si lasciavano spubblicare, anche perché s’erano curvate di nuovo in avanti, a testa sotto, e poi gli dettero un’altra allisciata di pelo. Cominciò una, che quando si sollevò dalla cofana, mostrò un personale di gigantessa:

«Capiste? Abbiamo da fare con un illustrissimo in incognito, il portamento stesso lo dice, basta la mossa. Si vede che portò sempre stivaloni e speroni ai piedi: gli manca una gamba? e che gli fa a lui? Lui, pure sopra un piede rintrona e sprizza scintille…».

E poi le altre, dietro a questa gigantessa, dissero:

«E st’illustrissimo si va preoccupando per i ferribò? Si spagna di non passare uno come lui?».

«Non passa nessuno, ma lui non è nessuno, lui, gl’inglesi lo passano…»

«Gli negano forse il lasciapassare a lui? Forse è un quilibet qualsiasi, lui?»

«Nemmeno la disinfezione gli fanno fare a lui, per usargli riguardo.»

«Non sia mai… Che lo mettono nelle baracche, a spuliciarsi con l’altra gente, lui?»

«Che lo tengono in quarantena, lui? Lo cardano e rammollano con acqua bollente e sapone lisoformio, lui?»

«Un signorino come lui, che contagio può portare? Che pulci e che pidocchi? Sanità può portare, lui…»

«O forse lo sommettono all’interrogatorio, lui? A lui vanno a chiedere: chi sei, da dove vieni, dove vai, perché vai, eccetera eccetera, a lui?»

«Lui è a posto, lo porta scritto in fronte da dove viene e dove va.»

«Lui ha tutto: dio, patria, famiglia, capace d’avere persino una madre, lui. Che gli manca, a lui?»

«Insomma, gl’inglesi, appena lo vedono, si precipitano, si rompono la schiena a fargli l’inchino: eccellenza, accomodatevi sullo zatterone, al servizio di vostr’eccellenza siamo…»

«Come? Non passa il mare, lui?»

«Eh…»

Qui, con una delle sue uscite eccentriche, Cata ricomparve fuori dal giardino. I soldati fecero un passo indietro come davanti a un’apparizione e quel pelleossa di Portempedocle batté persino le mani per la sorpresa.

Cata si scioglieva dalle ombre, dagli alberelli e dal fogliame, chinando il collo, ruotando il busto, sfarfalliando con le braccia, facendo mosse come di sogno, silenziose e senza peso: nei movimenti però, il personale si disegnava caldo e tenero, tutt’un biancore di rotondità sotto le gonne e il corpetto.

A lui stesso appariva più bella e attraente di un minuto prima.

Quanto ai soldati, s’ammutolirono, si scordarono d’ogni altra cosa che avevano in mente, dedicandosi a lei, sguardi e pensieri. Anche Boccadopa si spensieriò, per quella, delle altre femminote, di tutta la bile e la rabbia che gli avevano messo in corpo con lo smacco, gli insulti e la sorpresa amara riguardo ai ferribò.

Jacoma s’alterò tutta in faccia, trovandosela dietro la cofana, la riassettò e le restò davanti per coprirla ai soldati:

«Cata, bella, perché riappariste?» le fece. «E perché vi sbrogliaste tutta la capigliatura?»

La vecchia aiutante si mise allora dietro a Cata e pigliò a rifarle le trecce. I soldati si spostavano alle spalle di Jacoma per mirarla. Boccadopa saltellava appoggiato a Portempedocle. Questi, a un certo punto, allungò il braccio e toccò con un dito la babbabella:

«Vera è» esclamò.

Jacoma lo ronzò con una manata, si girò e ripassandoli tutti e quattro cogli occhi, disse gettando fuoco dalle narici:

«Allascatevi, pirdeu. Non ci fate conto, pirdeu. Allascatevi, non è roba per voi, pirdeu».

«Jacoma, non te n’accurare» le fece la femminota gigantesca. «Se s’azzardano con Cata, li facciamo come se morirono in guerra.»

Jacoma dette una sguardata mascola pure a lui:

«Voi restate a godervi la vista, eh, calzoni scampanati?» gli fece e poi aggiunse, allusiva: «Che ve ne pare di questi galantomini? Questi, non ci mettono pensieri, a questi gli esce dai gambali dei pantaloni la voglia. M’avreste a dire, ora, m’avreste, se siete regolare voi o sono loro».

«Mah, fate voi…» le fece sentendo che arrossiva, mentre i soldati lo spiavano in faccia senza capire.

Fra le femminote, c’era quella imponente di faccia aquilina, che lo sogguardava con un mezzo sorriso di malizia e di compiacenza. Gli fece con gli occhi d’avvicinarsi e quando le andò vicino si piegò in avanti, infilò una mano nella cofana, pigliò un grappoletto di uva corniola e glielo allungò, facendogli l’occhiolino. Le fece segno con indice e pollice che non aveva un soldo e lei gli fece segno: chi vi domandò?

«E assettatevi un poco» gli disse poi. «Dove andate con questo schiatto di caldo?»

Sedette lì davanti a lei e cominciò a spizzolarsi la sua corniola. Alcune delle altre femminote avevano tirato fuori anch’esse dei grappoletti d’uva e tanto per provare, l’avevano offerti ai soldati. Però, non appena i soldati gli facevano segno con l’indice e pollice che erano fagli e gli rovesciavano poi le tasche sotto gli occhi: uffa, pirdeu, che pezzentieri, facevano le femminote e gettavano contro il loro petto, come per liberarsene, il grappolo che tenevano ognuna in mano. Anche Boccadopa ricevette il suo sul petto e non lo rifiutò. I soldati poi tornarono a rimirarsi Cata: spizzolavano corniola e si squagliavano di desiderio per quella sciantiglì.

«Ora vi piacerebbe farvi la bocca col fruttomagnolo suo, non è vero?» gli fece Jacoma.

«Ah, magari…» fece sospiroso Petraliasottana che sembrava il più inselvaggito. «Ce ne moriamo. Che ci consigliate voi di fare?»

«Fate come faceste sino a ora, fra voi mascoli, in guerra» fece lei. «Chi mette cazzo e chi mette culo e chi si risente davanti e chi di dietro. Oppure, fate il vostro bello cinque contro uno.»

Le femminote intanto si erano messe a parlottare dei bei tempi, quando passando in Sicilia, facevano un viaggio e due servizi: perché, all’andata svuotavano coi viaggiatori le cofane di uva, fragola, corniola o liparota, e arance, e al ritorno, col sale, quando nient’altro, s’incoffariavano coi ferretti all’uncinetto e fra Messina e Villa arrivavano a fare una pianta di piede, una caviglia con calcagno, oppure un braccio, una spalla, un collo, uno scollo.

A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò, sui bei ferribò spariti, persi: e doveva fatalmente cadere sui ferribò, perché era per quello, per la perdita di tutto quello, che si trovavano ridotte a quel punto, straviate terraterra, col culo sulla cofana. Case e locande e botteghe e negozi e piazze e mercati e treni e chiatte e transatlantici, insomma, l’arcalamecca… Questo, era tutto questo e tutto quello, era tutta la loro arcalamecca, che avevano perso coi ferribò, e di quella, forse per la millesima volta, s’erano messe a parlare: si trovavano nella polvere e si ricordavano del tempo in cui stavano in trono. Il discorso scese, scese, scavò, scavò, riaprì la piaga sinché, anche questo era fatale, dal discorso a conversario che era parlare accademico del più e del meno, sconfinò al tribolo, al parlare a singhiozzo, con scatti di voce oppure silenzi, gridi oppure sospiri.

Gli gettarono il tribolo sopra a ognuno, per nome e per figura, un tribolo tale, che se lo sentiva un forestiero all’oscuro della cosa, Villa, Reggio, Messina, Aspromonte, Cariddi, Scilla, Mongibello, li avrebbe presi per nomi di cristiani morti e non di ferribò persi in guerra. Certo, convenienza e vanteria c’entravano molto nel tribolo; e c’entrava il comodo che avevano perduto, c’entrava il bello dell’interesse che ci trovavano, sui ferribò. Certo, il sentimento se lo gettavano nell’utile e nel dilettevole che gli raffiguravano i ferribò, nei grandi ventri a due bocche, zigzagati di binari, ai loro occhi di piedilungo contrabbandere. Certo, era notorio, le femminote non facevano poesia, tutto quello che facevano, era di buscarsi la giornata e quando uno deve buscarsi la giornata, nel modo poi in cui se la buscavano le femminote, battagliando ore e momenti, può mai contempo fare poesia? E certo, neanche nel tribolo che si gettavano per i ferribò, era tutto oro quello che luceva, però lo stesso gli bruciava, ’Ndrja Cambrìa ci avrebbe scommesso, messo addirittura la mano sul fuoco: poteva giurarlo che a tutta la comarca gli bruciava per i ferribò, come le bruciava a Jacoma per Cata. Gli bruciava senza lagrime, perché la vita può sonargli quanto e come vuole a lagrima, le femminote non le dànno mai conto: gli bruciava perciò forse assai di più di chi trova sfogo al bruciore nelle lagrime. Poesia o no, gli bruciava la perdita della loro flotta mercantile, la perdita dei profitti di sale, e non gli avrebbe bruciato di più se quel tribolo se lo fossero gettato solo per poesia e per bellezza dei ferribò. Gli bruciava e non per scena: scena eppoi per chi, a che scopo? Forse per lui e per quei quattro soldati, per impressionare loro? Ma impressionare a che scopo? A quel che sembrava, marinaio e soldati, per quello che le riguardava, era come non fossero più presenti, là, ai bordi del giardino, da quando erano venute a quel soggetto penoso.

Senza fare alcun movimento, sembrarono incunearsi ancora di più dentro le spalle, incofanarsi più dentro ancora nella scurosità del boschetto; anche se stavano l’una accanto all’altra su di una fila, dettero l’impressione di essersi isolate così fittefitte fra loro, da sembrare un circolo chiuso di schiene ricurve fra cofana e rena, di voci tribolate, strette l’una con l’altra, dopo l’altra, a catena, che per effetto certo della posizione risonavano tutte cupe e cavernose, come gli salissero alla bocca dal più profondo delle visceri. Stavano con la bocca a un palmo da terra e a vederle, era come si piangessero il morto, ed era come se tutte le frasi, le parole con cui lo piangevano e compiangevano, le leggessero là stesso, là stesso sotto i loro occhi, smorfiandole dai granelli di rena, come le leggessero rigo per rigo in tutto quell’intrigo. E quando facevano: focufocufocu… come se per il dolore le parole medesme gli ardessero in bocca avvampandogli persino l’aria che respiravano, si sarebbe detto, a sentirle, che vero, davvero il fuoco lo vedessero lingueggiare là, fra le pieghe della rena, il ricordo a fuoco di questo o di quel ferribò arso, perso arso, che ancora le infiammava col bruciore che gli faceva fare ancora ahi.

Dopo quel primo parlottamento alla rinfusa, fecero un silenzio, un silenzio tale, che era come si potesse sentirlo, perché dentro, sottosotto alle figure incofanate, sembrava succedesse uno sbrogliamento di pensieri che si muovevano verso la bocca, un movimento di lingue che facevano saliva di parole. E tutta d’un fiato, come un sospiro lancinante che a qualcuna di loro le uscisse dal fianco aperto, da lì venne una voce lamentosa:

«Ah, i ferribò belli…».

Fu come se lo stesso silenzio aprisse inaspettatamente una bocca, sfogandosi per via di parole. Quello, invece, era di fatto il segnale d’inizio del vero e proprio tribolo.

«Nichelati, cromati, indorati, preziosi…» continuò infatti un’altra voce senza dare tempo alla prima di freddarsi per aria.

E andarono avanti così, ripigliandosi l’una con l’altra la frase di bocca, nell’attimo giusto in cui gli cadeva dalle labbra e passandosela di continuo ma filata filata, come aggiungessero ognuna una maglia alla stessa catena. In tante, facevano una frase che poi poteva essere stata detta da una, da ognuna. Il tribolo sembrava un’eco che si cercava, aggiustandosi e ritrovandosi di bocca in bocca, anche se ognuna però aggiungeva ogni volta un piede nuovo e diverso alla canzone. D’altronde, quello sui ferribò non era tribolo di questa o di quella femminota, non era faccenda personale, era tribolo femminoto, faccenda di patria e popolo. Le parole, le frasi delle parole, i discorsi delle frasi, il tribolo dei discorsi, i ferribò del tribolo, questo contava. D’altronde, a bordo dei ferribò o straviate per terra, infrascate in quel giardino, non stavano sempre nella stessa barca?

Cominciarono e finirono e non ce ne fu una che alzasse la testa e la schiena per mostrare che faccia aveva la sua voce.

Prima, fecero una passata larga larga, con cenni sconsolati alla triste fine della bella flotta che non gli costava un soldo, inframmezzati con altri, scattosi e taglienti, a quelli che ci colpavano. Poi dedicarono un pensiero particolare ai due beniamini della flotta, quello scardellino di Cariddi, mignuno come una chiatta, e quel gigantone di Aspromonte, pozzo senza fondo, antro di cui lo spratico stentava a ritrovare l’uscita, fra tunnel, passaggi, giravolte, incunaglie che erano l’ideale per levarsi di vista coi rotoli di sale. E da qui, pigliando spunto dall’Aspromonte, come cosa da cosa, fatalmente, il tribolo sui ferribò se lo gettarono sul personale, e precisamente sulle parti basse del personale, con un parlare sboccato, senza peli sulla lingua che però, a sentirsi, non riusciva né laido né fetente, perché scendendo dalle parti alte alle basse, non ebbero tentennamenti, non mutarono accento né pensiero: passarono a parlarne, ne parlarono con la stessa connaturata impavidezza di mente che mettevano in ogni soggetto e oggetto della vita, che fosse nell’ordine naturale delle cose: spartanamente.

«…preziosi.»

Una voce non finiva di dire, che un’altra cominciava, l’orecchio non faceva nemmeno in tempo né a separare né a mettere dei puntini di sospensione tra l’una e l’altra. In realtà, quel tribolo, una sola avrebbe potuto gettarlo a nome e a pensiero di tutte come di se stessa, e in apparenza, anche alla voce sembrava che fosse una sola a gettarlo, a una voce:

«Oh, ’mari, come se ne calarono a mare. Sotto i nostri stessi occhi. Sempre all’uscire di porto. A popparinculo. A girarsi e mettersi di prua. Caiccazzi, non navi. Flaccommodi, ’ntrafficati. L’argano e l’organo volevano a girarsi. Gli aviatori ’nglesi. Quei finocchietti. S’approfittavano di quel momento. Gli posavano le bombe dentro i fumaioli. Con le mani. Fumandosi la sigaretta. Caicchi mansi, pacifici. Scambiati per corazzate. Focu, focu. I ferribò belli si sbafararono in mari di spume. Con trenimerci e treniviaggiatori. Arrotolati sui binari. Con tanta bella mercanzia nei carri e nei vagoni. Con tanta ricchezza di bagaglio e di colli. Con vestiti, gioielli e denari. Con gente piccola e gente grande. Gente continentale. Cercava scampo e c’incappò. Chi si salvò e chi non si salvò. Il ferribò mai si salvò. Niuno niuno niuno si salvò. In culo a noi ci andarono, st’inglesi e ’mericani. Il culo a mollo, ce lo misero. Ma gli vogliamo dare la colpa a loro, ora? Dovevano guardarci in faccia a noi? Quelli guardavano cannoni e mitraglia. Cannoni e mitraglia stavano in vista sopra i ferribò. Questo non può mai essere ferribò, giustamente dovevano dirsi. Questa è nave di battaglia alterata. Infami, scellerati, quelli che li pararono a battaglia. Pirdeu, pirdeu, con cannoni e mitraglia. I ferribò in guerra. Tutti saliati di nostro sale. Con l’Aspromonte. Oh, grandi cornuti. Con l’Aspromonte pensarono di conquistarci Malta. Focu, focu, ci piazzarono le scale dei pompieri. Così s’arrampicavano sulle rocce di Malta. Che ci voleva a pigliare Malta? L’Aspromonte e le scale dei pompieri. Quel caiccone dove ci accomodavamo noi. Con sale arance corniola e liparota. Quel caiccone casalingo gli risolveva tutto. Con scale di pompieri e pompieri. L’avevano trovato il sistema. Pigliavano Malta. Vincevano la guerra. Degenerati. Bombardari. Bavosi. Perdettero corazzate incrociatori cacciatorpediniere. Così pensarono di perderci i ferribò a noi. Pigliarono di mira l’Aspromontone nostro. Non lo mandarono a Malta poi. Troppo facillima Malta per lui. Per lui corazzata potente. Qua a un passo mandavano la corazzata Aspromonte? Quale Malta e Malta. Mare Nero, Mare Nero. Là poteva affondarsi bene. E là s’affondò. Mare veramente nero fu per lui. Che doveva caricargli nel Mare Nero? Le corna forse che si erano perse guerra guerra? Focu focu focu. Dove andò ad affondarsi quel gigantone nostro. Servizievole. Comodoso. Pieno d’abitudini e libertà nostre femminote. Nel Mare Nero s’andò a perdere il conto delle regole mie. Proprio sull’Aspromonte, in un angolo della latrina di stiva, ci tenevo un pezzo di gesso e ci segnavo le scadenze mie. Io il conto delle cose mie lo tenevo sopra lo Scilla: proprio nella latrina dei macchinisti. Io le regole mie, sinché non mi finirono, le segnai sempre sopra il Reggio. Ferribò vecchio e vecchia femminota. Io invece, per il calcolo mio, gli detti sempre la preferenza al Cariddi, a quell’elegantone tutto allicchettato. E pure io, con Rosa, bazzicavo la latrina di prima e di seconda del Cariddello, rischio o non rischio, o mi regolavo lassòpra o sennò niente. E io pure, con Rosa e con Paola, ci trovavo il mio agio sopra quello scardellino lustro lustro. Lassòpra scadenziavo, m’intolettavo. Eh, ma chi non ci spasimava per la sua siluettella? tutte quante noi non n’eravamo forse tutte come inganzate? Eppure era un mignuno incommodissimo. Un ponte di barcaccia. Si stava stretti, gomito con gomito. E la stiva? C’entrava a stento una littorina. Due spezzoni di binari. Giusto per quel trenetto di lusso. Niente vagoni e carri per noi. Niente predellini e ritirate per intanarci e salire a bordo di sgarro. Ci toccava stare in vista di questura e finanza. Si rischiava la giornata. Si rischiava la libertà. Diversissimo da quei gigantoni di Aspromonte e Mongibello, tanto per dire. Specie di cavernone, tutti belli attunnellati. Ripieni di incunaglie oscure, nascondigli. Ma ci faceva sangue il Cariddello. Gli passavamo sopra ai difetti. Cosiffatte siamo noi femmine femminote. C’incapricciamo d’uno scialacquone senz’arte né parte. D’uno col fischio in bocca. Il garofano all’orecchio. E la coppoletta storta. D’uno che consuma gli specchi ad alliffarsi i baffetti. D’un travagliatore da letto. Però, è di figura un figurino? S’addondola sopra i fianchi? E questo noi cerchiamo. Focu focu. Che carognazze. Uno ci fa sangue? Gettiamo sangue per lui. E il Cariddello ci faceva sangue. Lo pigliavamo a passeggiata. Ci spiritava come collegiali. Era un rallegramento generale quando ci trasbordava lui, ’maro, ’maro. Levarcelo di vita. Così juvene. Così bello. Si portò i nostri mesi. Il nostro scadenziario. E come trovò di azzizzarsi anche allo scomparire. Come fu spiritoso anche all’addio. Come si profumò con l’ultimo pensiero. Decise di nettarsi. Di fumo di ciminiere. Di nerofumo di treni. Di ammoniaca di latrine. Sfumò in un grande spirito di arance di Paternò e di Lentini. Aveva solo quel merci ripiegato dentro. Non passava carrozzelittorine quella volta. I viaggiatori per Roma trasbordavano in treno a Villa. Là c’era il direttissimo che veniva di Reggio. Il Cariddello era tutto un’aranciara. Stivata fittafitta. Quel merci di tre vagoni. Di quattro vagoni. Di cinque vagoni. Di sei vagoni. Di vagoni e vagoni. Carichi di tonnellate e tonnellate di portogalli. Portogalloni sanguigni, scelti uno per uno. Portogalli simili, gli occhi nostri non ne vedettero mai prima. E non ne vedranno dopo. Portogalli destinati a gente nordica. Così ricca che può mantenersi questo lusso dell’albero in Sicilia e del frutto sulla tavola nordica. E questi portogalli, lui, il Cariddello… Quando le bombe lo fracassarono e s’affondava in un subisso d’acqua, che fece? Giocò col rigorgo. S’ingeniò di poppa e di prua. Se ne calò, riassommò. Svacantò i vagoni e i portogalli galleggiarono. Che spettacolo fu. Oh, Cariddello, se ci fosse una giustizia, dovevi avere occhi per vederlo. Fra tanto sconquasso di guerra. C’illeggiadristi gli occhi con la vista d’un mare aranciato. Fra tanto fetore d’animali e cristiani che ci rivoltava lo stomaco. Ci profumasti l’aria per tutto il canale. A respirarla, il naso si faceva riccio. Ci ricreava. Per giorni e giorni il mare restò ’mportogallato. Un mare verdastro sotto e dorato sopra. Un mare di giardini d’aranciare. E le arance, la rema le sparpagliò qui e là. Inondarono spiagge e plaie joniche e pure tirreniche. Ne ebbe bene la gente bassa invece dell’alta. La gentuzza miseranda affamata. Ignara di dove venivano. Le pigliava in mano. Le guardava. Non gli parevano vere. E quando poi addentava la scorza. E la sentiva amara di sale. Diceva: dio ci mandò sta manna amareggiata. Chiamavano dio il Cariddello. E non se lo meritava? Dio francese si meritava chiamato. Perché come un dio francese s’incazzò in sul momento estremo. Contro la sua malasorte. Contro la nostra. La malasorte nostra. Di femminote. Chi c’era a quell’ultima corsa del Cariddello? Chi ebbe quella ventura? Io c’ero. Io l’ebbi quella ventura. E io. E io. E io. La gente si calava sulle barche e noi ancora là. Chi stava e chi camminava. Mute mute. Insalanite. Con la mano alla bocca ci andavamo guardando intorno. Ponte scalette stiva saloneristorante, bar cucinequipaggio salamacchine cabinatimone persino. I nostri occhi commentariavano. Guardate che se ne va a fondo. Guardate che ci perdiamo. Con quale cuore lo possiamo lasciare? Poi quell’ufficiale in seconda paradisoto ci gettò una voce. Che fate brave femmine? Ve ne volete colare a picco col ferribò al posto del capitano? Ci conosceva vecchie il paradisoto. Ci conosceva nell’intimo a quasi tutte. Però si sentì un’altra voce che ci ferì. Forse v’andate traccheggiando per arraffare fra bagagli e valige, eh? Doveva essere un qualche disonorato. Le corna vostre che vi scordaste a bordo nella prescia. Quelle arraffiamo. Questo per tale segnale glielo dissi io. Quanto ci mise a calarsene. Cariddello Cariddello. Forse ci sentiva a noi sotto le piante dei piedi. Ci sentiva a noi sole mentre se ne calava. Se ne calava e a noi pareva che ci mancasse la terraferma sotto i piedi. Forse per i rotoli di sale? O forse perché ci spagnavamo? Gli altri. Gli altri che si perdevano? Qualche valigia. Qualche persona cara. Qualche. Noi ci perdevamo lui. Il Cariddello. Ci perdevamo, l’uno dopo l’altro, i ferribò. Ci perdevamo tutto il mondo. Anima e corpo. Noi. Gli altri erano di passaggio. Di passaggio e di pedaggio. Quelli che gli camminavano sopra con tutte le scarpe. Queste sono le nostre parrocchiane. Le femminote. Così dovevano dirsi i ferribò, sentendo piedi nudi. Suola di scarpe gli diceva gente volandiera. Pelle di piede gli diceva invece abitué. Gente di casa. Femminote. Compagnone della loro vita. Noi i ferribò li tramutammo in casa. In casa e casata. Focu focu. Più più. Noi sopra i ferribò domiciliavamo. Mongibello e Aspromonte. Scilla e Cariddi. Villa, Reggio, Messina. Ferribò di sale. Sale di ferribò. Vaeviene e alloggiamento. Là campammo. Battagliammo la vita. Buscammo la giornata. Là mangiammo e bevemmo. Ci sfamammo. Andammo di corpo e pipiammo. Lavammo, asciugammo, piegammo. Travagliammo all’uncinetto. C’inconversammo insieme a cortiglio. Solinghe solinghe cogitammo. Là fummo vergini e maritate. Là ci vennero i primi spurghi di sangue. Là ce li regolammo. Là passammo le gravidanze. Là a più d’una ci successe di sgravarci persino. E chi se n’accorse, appartate in cerchio fra di noi. Isolate in pizzo all’imbocco di poppa o attorno a una bocca a vento? Bastava poggiarsi sopra un sacco, allargare le cosce. Qua, per prova, ci sono io, che Cosimo, il quinto, lo feci sul Mongibello. Non mi ricordo chi fu, che per mancanza di forbici, gli spezzò coi denti il cordone ombelicale. Mia madre lo pigliò per i piedi, lo mise a testa in giù, il ranunchio fece ngangà, ngangà e allora tutte voi attorno armaste una gran pomponella, gridando più forte di lui. Qualcuna poi me lo infasciò e me lo mise in braccio. Insomma, stetti più a dire: mi sgravo, che a sgravarmi. Ma lì ne facemmo pure di bucati senza cenere. Con chi ci fece genio, perché no? ci levammo qualche sfizio. Qualche capriccio, qualche voglia, qualche sghiribizzo. Non ci spettava un dopolavoro? Qualche volta qualcuno ci faceva genio. Succedeva. Una volta l’anno. Qualche volta ci sboriammo di tutto il sudore che gettavamo. Qualche volta navigammo lassòpra con uomo, a bordo al suo crigno. Io se permettete mi vorrei citare per tutte io. Io sopra allo Scilla, una volta, mi appoggiai all’imbocco d’una scaletta della salamacchine. Stando là assorta nei pensieri miei, a un certo punto mi sentii maniare di dietro, con tanto garbo di mano, tatto e galanteria, che non mi faccio scrupolo a dirvi, issofatto benvolonté accondiscesi, muto lui e muta io. Il tempo poi di riassettarmi le penne, mi girai e sulla scaletta non vedetti nessuno: però stetti a sentire il rumore degli stantuffi, e strano a dirsi, ci posi mente come non l’avessi mai sentito prima, quello nfunfù nfunfù. Al nuovo trasbordo sopra lo Scilla, subito m’isolai e andai e mi rimisi a quell’angolino scognito, pelo pelo agli stantuffi che soffiavano aria calda di sotto: cosa che mai, mi sentivo curiosità di vederlo in faccia, motorista o macchinista, chiunque era. Il fenomeno si ripeté tale e quale la prima volta. E poi continuò, perché la curiosità se n’era andata e m’attirava la stranezza del percosìdire purparlé muto. Ma se badavo al rumore degli stantuffi nella salamacchine, il purparlé non era più muto: al punto che mi passò per la mente che a pigliarsi piacere con me non fosse un cristiano, ma fosse lo stesso Scilla. Pensate, mi passava per mente che quella speloncazza di salamacchine si trovava nel mezzo d’una boscaglia fatata, di ferraglia e di legno, con alberi castelli ciminiere ponti; e nella speloncazza c’era l’incanto d’un famoso femminaro, uno, fatevi conto, come quell’attore là, quello con le basette a punta, quello che si chiamava Rodolfo e gli misero l’intesa di Valentino per dire la valentia che ci metteva nel servizietto. Nfunfù nfunfù, facevano pistoni e stantuffi come m’insordissero: e chi poteva esserci incantato se non un femminaro, uno ’spertissimo di nfunfù nfunfù? Allora, sempre a mente mia, appena mi posavo all’incunaglia solita nella speloncazza, quello scoppolava fuori di forma umana e m’abbrancava. Insomma, spezzava l’incantesimo percome e perquanto mi desiderava a me. Certo, oggi, stess’io, sentendomi dire, mi dico: una millunanotte di cosa ti passava per mente. Sì, però, il fatto era, il fatto reale, era che appena fattomi il servizietto, mi giravo e non vedevo nessuno: eppoi, sentivo il rumore degli stantuffi e m’impressionavo, mi sentivo tremare tutta, e ci fantasiavo come non mi era mai capitato prima, quando nemmeno mi colpiva l’orecchio quello sconquasso di nfunfù nfunfù, di pistoni dentro cilindri, col loro saliscendi mascolino. Però mi dissi: ma che cazzo gli vai cercando? la carta d’identità? Per giunta, data quella solitudine di scaletta, pensai: ne posso profittare, questo può essere nascondiglio ideale per il sale, né guardie né finanzieri se ne scandalieranno mai qua. Così fu, e per un gran fottìo di trasbordi, io feci un viaggio e ricevetti due servizi dal galantissimo Scilla. Salivo a bordo al ferribò e veleggiavo, vento in poppa, a bordo al crigno mascolino. E ora perdonatemi se mi citai con lo Scilla. Tu come un’altra. Scilla come un altro. Eh, sì, ognuna di noi, se c’interroghiamo senza veli, ha di queste storie. Ognuna di noi, a senso suo, se la fece pure lei una fattispecie così, d’incrignatura. Ognuna di noi s’impurparlò con quei valentini di legno e lamiere, con la spuma fresca di fuori e gli stantuffi calorosi di dentro. Eh, sì, ognuna di noi ha di questi segreti col diletto e col profitto, fra scalette e sale e vagoni e binari e ponti e prua e poppa e portelli e manovre e respingenti e nfunfù di stantuffi. A ognuna di noi le pareva forse che le succedeva a lei sola quella specie d’infatamento e per questo forse non si confidava nemmeno con l’amica più intima. Si temeva che a parlarne si rompeva l’incantesimo e il folletto invece di manifestarsi a lei in quella certa incunaglia di ferribò, alla data corsa e alla data ora, le spuntava a un’altra in un altro angolo scognito. Eh, sì, raro gli spiavamo in faccia chi era che ci rendeva il servizietto. Il bello per noi era che la cosa, là cominciava e là finiva, in pancia a quegli amici vaporosi. Che erano per noi? Scilla o Cariddi, Aspromonte o Mongibello, che si personificavano, tutti cascettoni, cascettoni… Che c’importava dell’aspetto, di chi era la faccia. Ora ci mancava che gli domandassimo a un ferribò di mostrarci i connotati e farsi riconoscere. Lo nfunfù nfunfù, per noi quello contava, quella era la carta d’identità, lo nfunfù nfunfù degli stantuffi. Marinaio di coperta o commesso viaggiatore, fanalista di ferrovia o uomo di paranza, e chi li calcolava in sé e per sé? qualcuna di voi, per caso, li pigliò al personale? C’era dubbio, forse, che era lo stesso ferribò ogni volta che ci abbordava in figura di fanalista o di commesso, a qualche passaggio scuroso? Poi però, all’atto pratico, si poteva smentire? la spoglia era di chi se lo sapeva lui, ma lo nfunfù, oh, quello, era suo di lui, col marchio di fabbrica. Eh, certo, certo: e sennò, come poteva succedere che un quilibet qualsiasi, uno che una volta sbarcate, nemmeno pagate a peso d’oro l’avremmo degnato, e lassòpra invece, a bordo al crigno, ci faceva toccare il cielo col dito? Ma era merito suo? nfunfù nfunfù suo? Era del ferribò, nemmeno a dirlo. Il primo che capitava s’illudeva forse di ricrearci, ma a noi era il ferribò che ci creava ogni sensazione: e chi gli poteva resistere a quel nfunfù nfunfù che ci assaltava come un mulo e ci scendeva sin all’unghia dei piedi? Eh, chi? Lo dice il fatto che bastava mettersi là, ’n pizzo alla salamacchine… E nfunfù, nfunfù. All’impiedi, a gambe aperte. E nfunfù, nfunfù. Dimodoché il calore e l’aria di vapori ce li sentivamo sbuffare di sotto. Sbuffi, sbuffoni. Fra le gonne. Cosce cosce. E noi ci facevamo suggestione, spontanee e persuase, che un gran femminaro ci addobbasse. Ci avvulcanasse di sotto. Questo dice dell’intesa che c’era. Quasi innamoramento. Quasi mogli e quasi mariti. E questo dice perché ci sentiamo come tante vedove. Senza ferribò, ora c’immignonammo. Andiamo povere e pazze. Vere derelitte. Piedilungo, ci dicevano. Ora femmine zingaresche, ci diranno. Ora che veramente andiamo vagabondando. Ora che pigliamo per sopra, invece che per sotto. In verso storto, straniato. Di questo passo dove ci scurerà un giorno? Ah, guerra, guerra scellerata, tanto valeva fare pure di noi carneficina, dato che la facesti dei ferribò. Ah guerra, guerra, a noi che ci colpammo, ci rovinasti già, mentre a chi ci colpa chi lo sa… Guerra? Che guerra? La guerra in testa a quel mascherone, la guerra che s’inventò lui. La sua guerra ci rovinò a noi…».

Si alzarono tutte, a eccezione di Facciatagliata, che altro che sputargli al mascherone, e tutte una dopo l’altra, a organetto, sporgendosi in avanti, sputarono in direzione della grantesta, e con questo finirono il tribolo.

Boccadopa non si scandalizzò questa volta, perché con quelle bruttissime nuove sui ferribò, a un certo punto del tribolo, gli era venuto al labbro un tremolizio come di coniglio e sembrava quasi che gli sarebbe spuntata la lagrimetta. Lèvatelo della testa che trasbordi in Sicilia: questo, a lui aveva detto il tribolo, e trattandosi di tribolo, persino le femminote, che erano le femminote, dovevano parlare con la verità. Anche gli altri tre però, erano rimasti impressionati, perché dal tribolo risaltava veramente che le femminote erano sballate dallo Stretto e salivano per Calabria, come s’allontanassero dal luogo della sciagura. Petraliasottana gettò qualche bestemmia e poi si perdette a nettarsi le unghie, unghia con unghia; Montalbanodelicona s’indurì in faccia, però non batté ciglio e continuò a schiacciare fra i denti il rametto del grappolo d’uva che aveva mangiato; quanto a Portempedocle, non si capiva che effetto gli facevano le male nuove sul trasbordo, a quel santolazzaro sempre a riso: stava ginocchioni sulla sabbia con la bocca aperta e così restò sinché durò il parlottio delle femminote. Di ferribò a galla non ce n’era più nemmeno uno: quando gli disse questo, il tribolo ai soldati pareva che non avesse più niente da dire. Del resto, non le conoscevano quanto le conosceva lui, le femminote, per essere presi anch’essi di meraviglia nello scoprire che quella razza di femmine, al cui confronto molti e molti uomini facevano la figura di femminelle, avevano anch’esse, a modo loro, qualche momento di debolezza, qualche dolidoli che non si tacitava, qualche ferita che non si cicatrizzava, qualche osso rotto che non si decideva a fare il callo: e i ferribò, che non erano nessuno di questi guai in particolare, lo erano tutti insieme in una volta, e quello che essi erano tutt’in contempo, tuttuno era il guaio più grosso come per dire la morte.

Subito perciò, alle prime voci catastrofiche sui ferribò, i soldati parvero perdere quel rimasuglio di spirito che gli restava, e come non avessero più nessuna voglia di ripigliare il cammino, se ne stavano mortizzi e sfantasiati a giocare con le mani nella rena. Però, non appena qualcuna delle femminote accennò a come si regolava lei con le sue scadenze sanguinose sopra l’Aspromonte, il tribolo, per i soldati e idem per lui marinaio, pigliò una piega soldatara avvincente: un cinematografo. Intesarono gli orecchi, non si persero una sillaba, specie più avanti, quando quelle mascolare, con la ruffianaggine delle parole, quasi quasi gli passavano i ferribò per femminari. Però, facevano sforzi per contenersi e non farsi trasparire, l’uno con l’altro, l’eccitazione dei sensi. Ognuno dava occhiate alla ladricella ai quadri del cinematografo che gli passavano davanti agli occhi dell’immaginazione. Era come se ognuno credesse di essere il solo a origliare dietro la porta di quelle femmine i loro discorsi spartani, senza veli né bavagli; ed era, per questo, come se li attanagliasse ancora l’emozione dello sbarbatello che per la prima volta scopre la femmina, la vergogna, l’ingoffamento e il cuore in gola di quella emozione. Questa però, era una faccenda fra di loro, faccenda di soldati e di marinai, che in guerra avevano perso molte o poche delle loro penne mascoline, che ora qui gli andavano rispuntando, ma ci sarebbe voluto tempo ed essi per giunta non ne sapevano nulla e si comportavano come se nulla fosse stato. Quello che provavano, non le intrigava le femminote, che li avevano lasciati là presenti, quando si erano gettate sotto gli scialli nel tribolo, ma senza calcolarli nemmeno, e ora forse senza ricordarsene più. Un cinematografo, forse le cose stavano proprio così: avevano tali cazzi di guai per conto loro le femminote, che coi cazzi di loro maschi c’entravano quanto le femmine del cinematografo, che parlano e si muovono in tutta libertà come se nessuno le sentisse e le vedesse, e difatti si vede poi che sono ombre e si scancellano dagli occhi contempo che si scancellano dai quadri tornati deserti, bianchi come lenzuoli. Si spiegava così, forse, se alla fine, ai soldati e a lui, invece di gettargli occhiate alle femminote, che si riassettavano sulle cofane, gli succedeva di cercare cogli occhi quella incantesimata di Cata ancora fra le mani della vecchia cannadastendere che aveva continuato a intrecciarla per tutto il tempo con dita assai mastre, ma lentamente lentamente, come se lo scopo vero fosse di carezzarla, di farle dolcezza dolcezza, fra le dita, ai capelli che, la vecchiarda doveva saperlo meglio di tutti, conoscono i pensieri. Cata: dovevano immaginarsi un quadro in cui stavano a fare il servizietto a una femminota e giravano gli occhi da quelle cavallone per posarli su quella pupitta tangelosa, che veramente a paragone di quelle femmine reali realissime, era una di quelle ombre che non si possono mai abbracciare, mai nemmeno cogli occhi, perché o stanno con la testa fuori quadro o di punto in bianco, c’è un bagliore e il fuoco se le divora. Ma forse anche questo era segno che la guerra aveva mischiato, nei soldati come in lui, il bianco col nero, il vero col falso, il sostanziale con l’apparente, il pratico con l’ideale, il desiderio col bisogno, la nostalgia col possesso, il passato col futuro, lo sbarbatello col vecchio.

Doveva dire però di quella femminota gigantesca che gli aveva regalato il grappolo d’uva. Questa gigantessa aveva la sua cofana alla fine della fila; e lui se n’era stato là seduto sulla sabbia, con lei e il resto delle femminote a destra e i soldati, a qualche metro, di fronte. Ora, doveva dire che per tutto il tempo che durò il tribolo, questa femminota aquilina, statuaria, anche se stava pure lei gettata sotto, in avanti, e faceva pure lei la sua parte nel tribolo, pigliando e dando voce, in una maniera o nell’altra, andò intrigandoglisi e flanellandoci sempre più con gli occhi e con le mani, queste e quelli muovendo ladrescamente; o anche dandogli dalla cofana delle ronzate col culo, che gli arrivava fra spalla e collo come una trapunta di lana arrotolata: perciò se lo era fatto sedere lì accanto, per averlo a portata di mani e di culo. Infine, precisamente al punto in cui quella sua compagna raccontava del servizietto che le facevano sconosciutamente all’imbocco della scaletta della salamacchine, gli levò il berretto e gli mise una mano sui capelli zazzeruti, poi avvicinandogli la bocca all’orecchio, ladrigna, gli disse:

«Eh, perché non glielo dimostrate a quella Jacoma che siete regolare, eh? E che se vi va, con chi vi va, fate nfunfù nfunfù, meglio di un ferribò, eh?».

«Ah, pure voi, ora?» le fece. «Ma come ve lo devo dire che quella Cata, così insonnambulata, mi fa impressione? A me, sull’onor mio, mi sembrerebbe di fare sacrilegio…»

«Cata?» ripeté la gigantessa, inscenandosi tutta a meraviglia nella voce, alzando la palpebra dell’occhio destro e calando stretta quella di sinistra come gli puntasse sopra un cannocchiale grande e lungo. «E chi parlò di Cata? Ci pensa Jacoma a Cata. Un’altra, dico io. Con un’altra, non vi sembrerebbe di fare sacrilegio, eh? Un’altra, tutta in sensi, un’altra delle presenti, e tanto, cioè soltanto per farvi un esempio, la sottoscritta, eh?»

«Con voi?» le fece, e la risalì con lo sguardo dai piedi alla testa.

Per dirle com’era spropositata a gusto suo, finse di gettare il capo all’indietro sulle spalle, perché sennò non ce la faceva a pigliarla tutta in uno sguardo. Fu questo a rassomigliargliela a Mata, la gigantessa di cartone che stava sopra un cavallo, di cartone pure lui, accanto al marito Grifone, gigante altrettale, però negro, che d’agosto a Messina espongono come una delle sette meraviglie. Con Mata, per portarle lo sguardo sino a lassòpra, cioè fra cavallo e pupazza, sino all’altezza dei balconi al primo piano delle case, non bastava gettare il capo all’indietro, ma bisognava allontanarsi di una cinquantina di metri dall’incastellatura di cartone. Sorridendo, finì di dirle:

«Con voi? Sacrilegio con voi? Io? Voi, fareste voi sacrilegio a mettervi con me…».

La femminota non si potette trattenere e si fece una gran risata sciacquosa, e a questa risata, come le suonasse offesa, forse perché prima si era sentita nominare con Cata, quella Jacoma, dall’altra parte delle cofane, gettò alla gigantessa una voce che pareva a scherzo e sottosotto invece scoppiava di nervino:

«Spinnata, ti meriteresti, Peppinagaribalda, spinnata in mezzo all’anche, Peppinagaribalda…».

Peppinagaribalda, e si capiva che con questa nomina, le avevano voluto fare allusione ai caratteri sregolati e impacifici, ripigliò a ridere a quelle parole, sciacquandosi tutta, piegata in due:

«Provaci, Jacoma» rispose nel ridere a quell’altra tosta. «Vieni e provaci e io pelo a pelo ti spenno, di sopra e di sotto…»

Jacoma non ci mise sale ad accettare la sfida: figurarsi, non aspettava che quello, Facciatagliata. S’imbustò tutta di colpo, s’alzò e tenendo sottomira Peppinagaribalda, lestamente, con tutte e due le mani, cominciò a levarsi forcine e ferretti dai capelli. La stessa cosa, allora, cominciò a fare, con un sorriso, la gigantessa.

Manmano che se li toglievano, forcine e ferretti, se li mettevano fra le labbra, e quando la loro bocca si riempì, fittafitta come un pugno, di quelle punte d’osso e di ferro, Facciatagliata e Peppinagaribalda pigliarono issofatto un’apparenza ferrigna, minacciosa: sembrava di scoprire in quel momento che le due femminote, cosiffatte che l’una forse gliela vinceva all’altra di un punto, avevano il respiro dotato di un incanto, di un potere magico, cioè quello di forgiarlo a comando, nero, tagliente e acuminato, in lame, frecce e spilloni che potevano gettarsi fuori di bocca come sputi, l’una contro l’altra. Quello che facevano, per un verso pareva fatto come per loro norma di cavalleria, nel senso che si liberavano di tutti quei ferretti e forcine con cui potevano rischiare d’accecarsi; per un altro verso, invece, sembrava che forcine e ferretti se li mettessero in bocca per averli pronti tutti in un mazzo e non perdere tempo a cercarseli fra i capelli, mentre se li ficcavano nelle carni. Le chiome acchiocciolate s’allentavano, a Jacoma era già caduta una delle bande coprendole l’orecchio: nessuno fiatava, s’aspettava solo il momento in cui si sarebbero accapigliate e cardate.

Si era levato daccanto a Peppinagaribalda e si era messo da parte, mezzo sotto gli alberelli e mezzo alla luce. Da lì cercò di vedere Cata, che per tutto quel tempo se n’era stata laddiètro alle spalle di Jacoma, come imbalsamata, a farsi intrizzare dalla vecchia: e a lui era venuto desiderio di darle un’ultima occhiata, prima di allontanarsi dal giardino.

Fu lei a farsi vedere: con un braccio trafficò contro Jacoma per togliersela davanti, e Jacoma si scostò, girandosi a guardarla. Gli occhi della babbicella parevano cercarlo. Non sorrideva più a quel suo modo strano, terribile e beato; e quel biancore lucente che aveva negli occhi, si era offuscato, era come se una luce dentro di lei, accesasi un momento, si fosse subito spenta. Stava seria, ora, si sarebbe detto, se poteva mai dirsi allegrezza quella di prima. Pareva avere un dolore, e che ci pensasse e lo capisse: pareva sanata, sana, ora.

Poi, di colpo, lei gli levò gli occhi di sopra, lo cancellò dalla sua vista e si guardò intorno, svagata e indifferente, come passasse gli occhi da uno all’altro degli alberelli del giardino. Girando gli occhi, sembrò vedere, per caso, il mascherone nella rena; si chinò, lo svuotò della rena e lo sistemò sottosopra, a orinale. Jacoma, ormai completamente scapigliata, si levò di bocca forcine e ferretti e la fermò che già si sollevava le gonne e s’abbassava sul mascherone:

«Bella» le disse. «Pipiateci allo scellerato, ma non qua. Gli volete forse ricreare gli occhi a questi qua? No, bella, vero? Questi qua, vedete, darebbero la mano destra per gettarvi un’occhiata di sotto, ai tesori vostri. Ma i tesori vostri sono di chi sono, lo sappiamo noi due sole di chi sono, eh? Vi potete mai mettere a farne scialapopolo qua? No, vero, bella? Voi, i tesori vostri dove è scuro fittofitto ve li scoprite, eh, bella? Essì, ora vi mettete a fare scialapopolo e gli mostrate a cani e porci la vostra bomboniera, essì. Là, bella incaramellata, là ’n fondo, là allo scuroscuro, andateci a pipìare là al mascherone. Sdiluviatelo, sdiluviatelo, bella, là, là.»