n. 2829

Tormento (Dear Murderer)

Gb 1947, b/n

 

R: Arthur Crabtree; s: dal dramma di St. John Legh Cowes; sc: Muriel Box, Sydney Box, Peter Rogers; fo: Stephen Dade; mt: Gordon Hales; mu: Benjamin Frankel.

Int: Eric Portman (Lee Warren), Greta Gynt (Vivien Warren), Dennis Price (Richard Fenton), Jack Warner (Ispettore Penbury), Maxwell Reed (Jimmy Martin), Hazel Court (Avis Fenton).

Prod: Gainsborough.

Revisione: 13.10.1947 (2367 m), respinto: 17.10.1947.

 

Di ritorno da un viaggio, l’uomo d’affari Lee Warren scopre che la moglie Vivien lo tradisce con il suo avvocato Richard Fenton. Il geloso Warren affronta il rivale e gli rivela di avere ideato il delitto perfetto: la vittima sarà proprio Fenton, la cui morte sembrerà a tutti un suicidio. E quando Warren si accorge che Vivien ha un nuovo amante, Jimmy Martin, fa ricadere su quest’ultimo la colpa dell’omicidio di Fenton. L’ispettore Penbury, che pure sospetta di Warren, non ha prove: sarà l’astuzia di Vivien a segnare la rovina dell’omicida. La donna convince il marito a salvare Martin, quindi lo avvelena con un sonnifero. Ma è a sua volta arrestata.

 

Tratto da un dramma teatrale di Sir John Legh Clowes, il film di Arthur Crabtree incappa nelle maglie della censura per via della tematica giudicata assai scabrosa. Nel luglio 1947 la Eagle-Lion Films deposita il copione per la revisione preventiva così da ottenere l’autorizzazione al doppiaggio: la Commissione (il 7 agosto) nega però l’autorizzazione, «in quanto si riscontra che in esso è esposta, con eccessiva realistica crudezza, la truce storia di un duplice assassinio, che potrebbe essere di scuola e di incentivo al delitto».

Più in dettaglio, è emblematica la disamina del capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia, che dipinge l’opera di Crabtree a tinte assai fosche:

 

con il film in esame, si è voluta rappresentare la truce e disumana storia di due orrendi delitti compiuti in piena coscienza e con la più attiva partecipazione della volontà da parte degli assassini. Il motivo criminale è il solo dominante la mostruosa vicenda, sì da diventare ossessivo. L’azione è svolta da delinquenti ed adulteri, che sono sempre presenti nella loro immobilità psichica invasata da demoniaca perversione. Né il far dire ad uno dei protagonisti che «nessun delitto rimane impunito» può essere «la morale» da trarsi dalla fosca storia e di conseguenza la sua giustificazione. Tale «morale» è respinta dallo spettatore inorridito dalla materiale, cinica esecuzione dei due delitti […]. Per tale crudeltà, per la completa amoralità con cui i protagonisti sono presentati, per l’assoluta mancanza di giustificazione a tali orrori e per il fatto che la cruda descrizione particolareggiata dei due assassini può essere di scuola e di incentivo al delitto, non si ritiene di autorizzare il film al doppiaggio […].

 

A questo punto il censore si lancia in una non richiesta disamina artistica, notando che

 

L’opera si vale di una regia morbidamente raffinata ma perspicace e chiara. La recitazione è sicura […]. La sceneggiatura è di un equilibrio quasi perfetto e la fotografia […] ricca di effetti preziosi

 

e concludendo:

 

Non si può fare a meno di deplorare che tante qualità artistiche e così ammirevoli mezzi tecnici siano serviti per realizzare un’opera decisamente malsana e moralmente deteriore».

 

Il 13 ottobre la Eagle-Lion presenta in revisione la pellicola in versione originale: «pur ritenendo eccessiva la Vs. motivazione», si legge nel documento allegato, «ci siamo preoccupati di togliere dal film quelle scene che a ns. avviso possono aver determinato il parere sfavorevole». I tagli, per complessivi 280 m (quasi 5’), riguardano l’esecuzione materiale dell’omicidio di Fenton e il dialogo tra Lee Warren e la moglie. «Con i suddetti tagli riteniamo sia eliminata la fisionomia particolare dei due delitti esposti originariamente con prolissità di dettagli e non solo, ma è anche tagliato il lungo dialogo tra la vittima e l’assassino in cui quest’ultimo dà spiegazione di tutti gli accorgimenti che userà per far apparire il suo delitto un comune suicidio passionale». Revisionato il film il 17 ottobre, tuttavia, i commissari confermano il precedente giudizio. Il film di Crabtree resta inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 3225

Enemy of Women (The Private Life of Dr. Goebbels)

Usa 1944, b/n

 

R: Alfred Zeisler; s, sc: Alfred Zeisler, Herbert O. Phillips; fo: John Alton; mu: Artur Guttmann; mt: Doug Bagler.

Int: Claudia Drake (Maria Brandt), Paul Andor [Wolfgang Zilzer] (dottor Paul Joseph Goebbels), Donald Woods (dottor Hans Traeger), H. B. Warner (colonnello Eberhart Brandt), Sigrid Gurie (Magda Quandt).

Prod: W. R. Frank Productions.

Revisione: 14.10.1947 (2239 m), respinto: 16.10.1947.

 

Il giovane Paul Joseph Goebbels, drammaturgo fallito, è costretto per denaro ad accettare l’incarico di tutore a casa di Herr Quandt. Attratto dalla giovane attrice Maria Brandt, figlia del colonnello Brandt presso cui alloggia, Goebbels viene respinto dalla ragazza e scacciato di casa dal padre. Quella sera stessa, Goebbels ascolta un discorso di Hitler e ne diventa un fanatico seguace. Da capo della propaganda nazista, coltiverà il suo odio morboso verso le donne. Per vendicarsi di Maria, le fa arrestare il padre e lo sposo, offrendosi di liberarli purché lei gli ceda. Maria rifiuta; e quando la donna muore durante un bombardamento alleato, Goebbels, folle di dolore, tenta invano di mascherare la realtà di una sconfitta bellica imminente con uno dei suoi discorsi propagandistici alla radio.

 

Produzione indipendente a bassissimo costo distribuita negli Usa dalla Monogram, il film di Zeisler – già autore di un adattamento di Delitto e castigo – è più interessato alla vita privata del suo untuoso protagonista che ai crimini del Reich, come del resto si intuisce dagli strilli delle locandine originali («Liar, murderer and evil genius of love! He ruined the lives of countless women!», Bugiardo, assassino e genio malvagio dell’amore! Ha rovinato le vite di innumerevoli donne!): il risultato è una fosca soap opera di propaganda, con cadute nel ridicolo (Goebbels che inventa il saluto nazista «Heil Hitler») e una caricaturale performance del protagonista Zilzer, mentre la suggestiva fotografia di John Alton avrebbe meritato miglior sorte.

Presentato in lingua originale dalla Cosmopolis di Enrico Sarri il 14 ottobre 1947, Enemy of Women si vede negare l’autorizzazione per la visione e il doppiaggio, «in considerazione che, pure essendo di spirito anti-nazista, rievoca la vita del dott. Goebbels», e dunque «potrebbe dar luogo a vivaci polemiche e tali comunque da perturbare l’ordine pubblico». Il film resta inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 3270

Chi dorme non piglia pesci

Italia 1947, b/n

 

R: Aldo Vergano; op: Domenico Scala

Int: Carlo Mazzarella.

Prod: Libertas Film.

Revisione: 28.10.1947 (324 m), respinto: 29.10-21.11.1947.

 

«In un paese di provincia arrivano dei vaglia alla sede del Partito Comunista. Sono per la sottoscrizione. Un giovane comunista va ad offrire delle cartelle della sottoscrizione in una bottega da barbiere. Un lavorante ed un cliente gliene comprano. Scherzosamente, il giovane ne offre anche ad un altro cliente, dichiarando però la sua sfiducia nell’acquisto. Infatti il cliente dichiara che a lui non importa nulla della politica comunista. A questa superficiale affermazione il giovane ribatte: “Ci pensi bene, se non ci fosse il Partito Comunista, a cosa potrebbe accadere!”.

Il cliente si addormenta mentre il lavorante comincia a sbarbarlo. E sogna: è tornato il fascismo. Gerarchetti affiggono ai muri manifesti illiberali. Persecuzioni e differenziazioni razziali cominciano a diffondersi, mentre i diritti dei lavoratori e l’attività sindacale vengono conculcati.

Poi, gruppi di fascisti facinorosi percorrono il paese fra canti sedizioni e manifestazioni antidemocratiche, terrorizzando la popolazione. Da un gruppo di faziosi si stacca uno squadrista, ed anche il nostro cliente che… si sveglia, corre spaventato fuori della bottega da barbiere ed assiste, finalmente del tutto rasserenato, allo sfilare, ordinato e pacifico, di un corteo democratico.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Uno dei primi frutti della propaganda del Partito Comunista Italiano applicata al cinema, Chi dorme non piglia pesci è prodotto dalla Libertas Film, la casa di produzione «ufficiale» del Pci, e destinato alla proiezione nelle piazze, da unità mobili, in vista delle elezioni del 1948. La Libertas vorrebbe far debuttare il corto di Aldo Vergano in occasione delle celebrazioni della rivoluzione russa, il 7 novembre. Ma non ha fatto i conti con il giudizio della Commissione di I grado, che revisiona la pellicola il 29 ottobre, esprimendo parere contrario al rilascio del visto di censura, «dato che il film presenta il popolo italiano come ancora fascista nella sua grande maggioranza, offendendone così la reputazione anche nei confronti dell’Estero, e considerato che la programmazione del film stesso possa per questo motivo determinare risentimenti tali da turbare l’ordine pubblico». I tre commissari però non sono concordi: se il presidente Della Valle e il giudice Passanisi sono per la bocciatura, in calce al responso, si legge il parere differente di Caso, il quale «ritiene che il film possa essere approvato a condizione che dal discorso del giovane comunista vengano eliminate le battute polemiche quali, per esempio: “Un’ondata fascista e reazionaria si è abbattuta sull’Italia”».

La Libertas presenta appello il 15 novembre per ottenere il visto censura «che per ragioni inspiegabili a questa società è stato negato dalla Commissione di I istanza». La Commissione d’Appello però conferma il giudizio della precedente, «ritenuto che il film è inteso a dimostrare che la tutela delle libertà democratiche, in Italia, non viene esercitata dai competenti organi dello Stato, ma sarebbe garantita soltanto dall’organizzazione di un determinato partito politico; che, in particolare, il film stesso prospetta l’esistenza di un vasto movimento diretto a ricostruire il fascismo, contro il quale movimento il Governo manterrebbe un atteggiamento del tutto passivo, se non di aperta connivenza; che, inoltre, il film mentre discredita le pubbliche istituzioni, si presta, d’altronde, ad accese polemiche di parte, idonee a turbare, specie nel delicato momento che si attraversa, l’ordine pubblico, incitando, in special modo, a commettere attentati contro la libertà di stampa», come si legge nella motivazione vergata dal sottosegretario Andreotti.

Il film di Vergano è andato perduto.

 

 

n. 3377

Gioventù perduta

Italia 1947, b/n

 

R, s: Pietro Germi; sc: Pietro Germi, Paolo Pietrangeli, Mario Monicelli, Enzo Provenzale, Leopoldo Trieste, Bruno Valeri; fo: Carlo Montuori; mt: Renaldo May; mu: Carlo Rustichelli.

Int: Carla Del Poggio (Luisa Manfredi), Massimo Girotti (Marcello Mariani), Jacques Sernas (Stefano Manfredi), Franca Maresa (Maria), Diana Borghese (Stella), Nando Bruno (commissario).

Prod: Lux Film.

Revisione: 19.11.1947 (2351 m), respinto: 5.12,1947.

Riedizione: 16.1.1948 (2351 m), approvato: 18.1.1948.

Homevideo: Minerva (DVD, Italia).

 

Indagando su un omicidio commesso durante una rapina, l’ispettore Mariani si infiltra negli ambienti universitari: i suoi sospetti cadono sul giovane Stefano, fratello di Luisa, la ragazza di cui Mariani si è innamorato. È proprio Luisa, involontariamente, a fornire a Mariani le prove della colpevolezza di Stefano, membro di una banda di rapinatori per mantenere l’amante, la cantante di night Stella. Il giovane resta ucciso in una sparatoria con la polizia.

 

La seconda regia di Pietro Germi è il primo lungometraggio italiano a subire un attacco frontale da parte delle commissioni di censura nel corso della I Legislatura. Determinato non tanto, come ipotizzato da Mario Sesti, «dal realismo delle scene di violenza o da una presunta apologia della criminalità», né dalla «aperta parafrasi sarcastica di un motto del precedente regime fascista (“Libro e moschetto, bandito perfetto”)»1, ma dal realismo con cui il regista porta sullo schermo il fenomeno della criminalità giovanile nell’immediato dopoguerra: un segno dell’avversione della politica nei confronti del neorealismo, benché di fatto Gioventù perduta non sia affatto una pellicola neorealista tout court (come sottolineava anche, peraltro, un detrattore quale Gian Luigi Rondi nella sua feroce stroncatura sul «Tempo»2).

Inizialmente i commissari sono inclini a concedere il visto, a condizione che venga soppressa la battuta in cui il professore universitario – padre del criminale interpretato da Jacques Sernas –, al termine della lezione di statistica in cui ha affrontato il tema dell’aumento del tasso di criminalità giovanile, con l’ausilio di grafici, numeri e recenti esempi di cronaca tratti dalla realtà, preconizza la fine della società borghese. Dissente però il rappresentante del Ministero dell’Interno, il quale ritiene «che la pubblicazione di dati statistici relativi al progredire della criminalità sia da considerarsi inopportuna, anche perché tali, se non ufficiali, potrebbero anche non corrispondere alla realtà».

La Commissione di I grado propende per la concessione del nulla osta, a condizione che siano soppresse «1) tutte le scene relative alla lezione di statistica; 2) la parte relativa al commento del funzionario di P.S. quando questi chiede di essere dispensato dalle indagini e precisamente dalla battuta nella quale si fa il raffronto tra la criminalità di tempi più remoti e quella dei tempi attuali; dalla battuta in cui si parla dei 9/10 dei casi ecc.… sino alla “dentiera della madre”». Si tratta insomma di «attenuare l’assunto realistico del lavoro», come commenta il Presidente della I Commissione in un appunto per il sottosegretario Andreotti, spendendo comunque parole positive per la pellicola di Germi («Si tratta di un buon film italiano, che si propone di riprodurre il dramma di quei giovani che, travolti dal crudo clima della guerra, sono stati incapaci di darsi un senso morale e di trovare uno scopo costruttivo alla vita. Il soggetto risulta artisticamente realizzato. Veramente notevole la regia e la interpretazione»).

Ciononostante, la Commissione di II grado ritiene di dover riesaminare d’ufficio Gioventù perduta ai sensi dell’art. 14 del R.D. del 1923, e il responso è di natura opposta: la Commissione «ritiene che esso costituisca – sia pure senza volontà degli autori – una vera e propria scuola di reati, tanto più pericolosa in quanto efficacemente si riannoda alla psicologia ed al costume dell’attuale traviato periodo postbellico. E pertanto ritiene non potersi concedere il visto di programmazione ai sensi del comma D dell’art. III e il visto di esportazione ai sensi dell’art. IV del citato decreto».

La Lux ripresenta il film, dopo aver modificato i dialoghi nella «nota scena» della lezione di statistica: la battuta originaria «Non v’è chi non comprenda il tremendo monito di queste cifre. È lo sfacelo di una società. Una società che ci ha generati, e di cui, forse, giungeremo a vedere la fine» è diventata «Sono le basi della società che vengono così minate. Ed è tempo che le forze del bene – i singoli, la famiglia, lo Stato – si risveglino e lottino per la salvezza comune». Ma occorrerà una lettera aperta di Germi ad Andreotti, inviata alla stampa italiana e corredata dalle firme di altri 30 cineasti, perché il Sottosegretario ritorni sui suoi passi – non prima di aver risposto in maniera dura e sprezzante («forse il gridare contro inesistenti fantasmi rappresenta per qualcuno un confortante alibi…») – e conceda il nulla osta, il 16 gennaio 1948.

Germi avrà problemi analoghi, anche se non culminanti con il diniego del nulla osta, per Il cammino della speranza: la Commissione richiederà il taglio di tutte le scene in cui la moglie di Antonio si reca nei vari Commissariati di P.S. e nella Questura in cerca del marito, «in quanto tali scene sono da considerarsi offensive del decoro e del prestigio dei funzionari ed agenti della forza pubblica».

 

 

1 Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini&Castoldi, Milano 1997, pp. 158-159.

2 Gian Luigi Rondi, «Il Tempo», 7 marzo 1948.

 

 

n. 4282

Estasi (Exstase)

Cecoslovacchia 1933, b/n

 

R: Gustav Machatý; s: dal romanzo di Robert Horky; sc: Frantisek Horký, Gustav Machatý; fo: Hans Androschin, Jan Stallich; mt: Antonin Zelenka; mu: Giuseppe Becce.

Int: Hedy Kiesler [poi Hedy Lamarr] (Eva), Aribert Mog (Adam), Zvonimir Rogoz (Emile), Leopold Kramer (padre di Eva), Jirina Steimanová.

Prod: Elektafilm.

Revisione: 25.1.1947 (1701 m), 15.6.1948, 3.2.1949, respinto: 7.3.1949.

Homevideo: Image (DVD, Usa), Film & Kunst (DVD, Germania - versione rieditata), Vella Vision (DVD, Spagna).

 

Sposata a un uomo più vecchio di lei che non è in grado di soddisfarne i desideri, Eva si separa dal consorte e si rifugia nella casa di campagna del padre: qui si immerge nella sensualità della natura, e diventa l’amante del giovane ingegnere Adam. Il marito scopre l’adulterio e si suicida: per il rimorso, Eva abbandona l’idea di fuggire con Adam.

 

«Adesso si proiettano anche i film con le donne nude?», lo scandalizzato commento appartiene a un (apparentemente) turbato Benito Mussolini, reduce dalla produzione di una pellicola che sta facendo scalpore. Siamo nel 1934, e dopo la proiezione alla seconda Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia anche in Italia si fa un gran parlare di Estasi, il film del cecoslovacco Gustav Machatý che racconta l’insoddisfazione sessuale e la scoperta dell’eros da parte di una giovane donna sposata a un uomo più vecchio di lei e incapace di soddisfarla.

La splendida attrice, che si esibisce in un celeberrimo nudo integrale ed è protagonista della prima scena di sesso mostrata in una pellicola non pornografica (culminante nella rappresentazione dell’orgasmo femminile) è la diciannovenne Hedwig Eva Maria Kiesler, e di lì a poco intraprenderà una fulgida carriera hollywoodiana con lo pseudonimo Hedy Lamarr.

Girato come un film muto, con pochissimi dialoghi e un ampio utilizzo di immagini simboliche per raccontare l’insoddisfazione sessuale e la scoperta dell’eros da parte della protagonista, Estasi è uno dei film-scandalo per eccellenza della storia del cinema, e fin dalla prima proiezione pubblica, il 20 gennaio 1933, ha problemi censori in vari paesi. In Germania viene proiettato (col titolo Symphonie der Liebe) solo nel gennaio 1935, mentre negli Stati Uniti – dove pure la protagonista Hedy Lamarr diventerà una diva – il distributore Samuel Cummins attende invano dieci mesi che gli venga concesso il sigillo d’approvazione per la pubblica proiezione: il presidente del Production Code Administration, il temuto Joseph Breen, lo definisce «pericolosamente indecente». Alla fine Estasi ha distribuzione limitata negli States, senza aver ottenuto il nulla osta dell’Ufficio Hays, perlopiù solo in alcuni stati, mentre in altri (come la Pennsylvania) è bandito.

A Venezia, Estasi ottiene ampio consenso di critica (è tra i candidati alla Coppa Mussolini per il miglior film straniero), e causa tanto scalpore che lo stesso duce vorrà visionarlo in privato dopo la riprovazione dell’arcivescovo di Venezia (anche Pio XII lo condannerà pubblicamente), sancendone poi il divieto. E a tale proposito la galante postilla al commento che la vulgata attribuisce a Mussolini («Però, che gran bella donna quella Hedy Lamarr!») sa di falso storico, ché la diva avrebbe cambiato nome solo dopo la fuga dall’Europa negli Usa1.

Il film di Machatý torna in auge nell’immediato dopoguerra, in una vicenda che si trascina per un paio d’anni. Viene ripresentato in censura il 25 gennaio 1947 dalla Capitani Film, che chiede l’autorizzazione al doppiaggio, in una copia in lingua francese proveniente dal Belgio (di lunghezza pari a 1701 m, circa 62’ contro gli 85’ originali), nella quale, si legge, «erano già stati apportati numerosi tagli ordinati dalla censura cinematografica di quella nazione».

La Commissione per la revisione, che esamina il film in data 29 gennaio, non ritiene di dover mantenere il veto alla programmazione e concede l’autorizzazione al doppiaggio con nota n. 1755 del 18 febbraio 1947, ma «per maggiore precauzione» domanda che «siano eliminate tutte quelle sequenze suscettibili di offendere la morale». In particolare, si specifica che «la scena dell’amplesso dei due amanti dovrà essere quasi completamente eliminata, facendo apparire la figura dell’attore soltanto all’inizio ed alla fine della scena stessa», e si richiede di «attenuare quanto più possibile la scena in cui la protagonista appare nuda o quasi, ed eliminare del tutto, quella ove, in attesa che le vengano gettati i suoi indumenti, appare nuda, sia pure un po’ coperta dal fogliame», riservandosi inoltre ulteriori decisioni sui dialoghi in sede di revisione definitiva della pellicola doppiata.

Il capo dei servizi cinematografici scrive che il film «di cui molto a sproposito si è occupato il quotidiano «Momento Sera» del 28 marzo 1947», è «realizzato con squisito senso d’arte e con ammirevoli mezzi tecnici. La scabrosa materia erotica del racconto è trattata con originalità e garbata finezza. L’accorta regia ha saputo eludere le non poche tentazioni di lubricità e morbosità, nelle quali si sarebbe potuta impigliare se si fosse valsa di metodi unicamente veristici. Così come il film è stato presentato rimane invece quasi sempre nell’ambito della vera arte». È dunque l’insistenza sui simbolismi (come l’immagine iniziale del novello sposo che fatica ad aprire la porta di casa, a preannunciarne l’impotenza), oggi irrimediabilmente datata, a dare al film quell’alone artistico che ne potrebbe risollevare le sorti in sede censoria.

Nel frattempo, però, in seguito a una diffida di Machatý (apparsa su «La Cinematographie Française» e riprodotta anche su una rivista italiana), il quale si dichiarava unico possessore dei diritti di esclusività per tutto il mondo, la società italiana scopre che la ditta estera cedente non possedeva i diritti di esclusività per il nostro Paese, e il film non viene importato. Curiosamente, in un appunto per il Sottosegretario Andreotti, il direttore generale per lo Spettacolo fornisce una diversa motivazione alla mancata uscita: decurtato dagli ulteriori tagli, Estasi «avrebbe avuto una lunghezza sensibilmente inferiore alla lunghezza normale dei film spettacolari».

L’anno successivo, Estasi viene programmato in occasione di una Settimana del film cecoslovacco a Roma2, manifestazione nata come gesto di reciprocità dopo un’analoga iniziativa del governo di Praga che ha permesso la distribuzione in Cecoslovachia di Sciuscià e Il sole sorge ancora. Il Direttore Generale per lo Spettacolo Nicola De Pirro esprime parere favorevole alla proiezione della pellicola («ormai un film classico»), per evitare «un motivo di aspre censure da parte degli ambienti cinematografici e soprattutto delle sinistre». il 15 giugno 1948, è la società Ameritalia Film a richiedere un nuovo nulla osta per l’opera di Machatý. Estasi viene visionato dal sottosegretario Andreotti l’8 luglio.

In un appunto al Sottosegretario datato 28 luglio 1948, sollecitando notizie sull’esito della revisione, il D.G. chiede di «esaminare l’opportunità di immettere in circolazione un film il quale, dopo i tagli sopportati, risulterebbe seriamente pregiudicato nella sua consistenza e non offrirebbe più quegli elementi di spettacolo che hanno reso famoso il film stesso, il che potrebbe provocare proteste e reazioni da parte della stampa e del pubblico».

Nel frattempo è rispuntata la Capitani Film, che – in data 5 luglio 1948 – rivendica il diritto di priorità sul film, asserendo di avere intrapreso trattative con il regista per lo sfruttamento in Italia dell’opera. Il 3 febbraio 1949 la Capitani chiede di poter presentare nuovamente Estasi in censura preventiva per ottenere conferma del nulla osta. La copia presentata dalla ditta è stata sottoposta «a delle variazioni in rapporto all’edizione originaria a suo tempo presentata in censura, in quanto il film è stato sensibilmente modificato ed attenuato per quello che concerne le sequenza più scabrose, sia per quanto riguarda il finale, ora risolto sotto un lato morale, e cioè, con il matrimonio dei protagonisti». Si tratta presumibilmente della medesima edizione uscita nelle sale statunitensi, in cui la sequenza del bagno di Hedy Lamarr è quella parzialmente oscurata girata da Machatý per il mercato tedesco, le immagini di due cavalli impegnati in un amplesso sono state eliminate e il film rieditato in modo da far intuire che Eva abbia ottenuto il divorzio dal marito, legittimandone in tal modo la relazione adulterina con Adam. Cummins aveva aggiunto anche una scena con la Lamarr e un bambino, così da suggerire un lieto fine in cui Eva e l’ingegnere si erano sposati.

L’esito è però negativo: con decisione datata 7 marzo 1949, la IV Commissione dichiara che «se il regista ha saputo mettere in luce tutti i particolari […] senza scendere nel volgare, purtuttavia non ha potuto evitare che il lavoro uscisse dalla sua predominante atmosfera di eccitamento dei sensi. La Commissione, pur riconoscendo che il film si eleva in una forma di vera arte […] lo ha ritenuto lesivo della morale e del buon costume», esprimendo parere sfavorevole per la programmazione al pubblico.3

 

 

 

1 Di contro, il primo marito di Hedy, l’industriale austriaco Friedrich Mandl, era un rinomato fabbricante d’armi dai legami con i regimi nazista e fascista. Secondo quanto la stessa Lamarr scrive nella sua autobiografia Ecstasy and Me: My Life as a Woman, tanto Mussolini quanto Adolf Hitler frequentavano le feste che Mandl dava nella sua faraonica dimora, Schloss Schwarzenau.

2 La retrospettiva comprende anche Sirena (Siréna, 1948, di Karel Steklý, vincitore quell’anno a Venezia), I racconti di Čapek (Capkovy povidky, 1947, di Martin Fric), La frontiera rubata (Uluopená hranice, 1947, di Jirí Weiss), Uomini senz’ali (Muži bez křídel, 1946, di František Čáp), Violino e sogno, Il morto tra i vivi.

3 Estasi avrà negli anni una circolazione limitata al circuito festivaliero. Sul piccolo schermo, «Fuori Orario» ne ha trasmesso la versione rieditata dal regista.

 

 

n. 4475

Olimpiadi di Londra 1948

(XIV Olympiad: The Glory of Sport/The Olympic Games of 1948)

Gb 1948, col.

 

R: Castleton Knight; mu: Guy Warrack; narr: Ted Husing, Bill Stern.

Prod: Castleton Knight per Rank Organisation.

Revisione: 12.8.1948 (3765,5 m), respinto: 17.11.1948.

Riedizione: 22.12.1948 (3438 m), approvato: 24.12.1948 (n.o. 5049).

 

Dopo un’introduzione dedicata alla storia delle Olimpiadi nell’antica Grecia, il film illustra prima i giochi invernali in Svizzera, quindi le Olimpiadi di Londra del 1948, svoltesi perlopiù nello stadio di Wembley. Le riprese – con particolare enfasi sull’atletica leggera – sono a colori.

 

Una delle vittime più bizzarre della Commissione di censura è il documentario sulle XIV Olimpiadi appena svoltesi a Londra dal 29 luglio al 14 agosto 1948, la prima edizione ufficiale dopo quella di Berlino ’36 (l’assegnazione avvenne poco dopo la fine delle ostilità, nell’agosto 1945) e la prima a essere seguita in contemporanea dalla televisione. L’Italia conquista 27 medaglie, di cui otto ori.

Presentato in censura il 12 agosto, Olimpiadi di Londra 1948 viene bocciato (in data 17 novembre) in quanto, si legge testualmente, «manca un’adeguata documentazione della partecipazione italiana alle Olimpiadi e delle sue notevoli affermazioni e pertanto si temono reazioni del pubblico e delle masse sportive che possano turbare l’ordine pubblico».

Anziché ricorrere in appello, la Eagle-Lion ripresenta il film in revisione il 22 dicembre 1948 dopo aver apportato rilevanti modifiche, con la soppressione di scene per un totale di 427,50 m. (oltre 16 minuti) e l’inserzione di altre per 100 m (3’38”). Tra i tagli effettuati: la sfilata delle nazioni concorrenti ai giochi invernali (chiesta poiché la rappresentanza del nostro Paese non era visibile), la scena in cui lo speaker annuncia che la squadra italiana si è classificata trentunesima nella gara di sci di fondo, disco sul ghiaccio (in cui l’Italia è arrivata ultima), pattinaggio e salto con lo sci, tutte discipline che avevano visto i concorrenti italiani ottenere risultati mediocri. Parimenti, vengono inserite le sequenze della vittoria di Adolfo Consolini nel lancio del disco (benché la ripresa non sia stata fatta in Technicolor), la vittoria di Ghella nel ciclismo e il giro d’onore nonché la vittoria italiana nel 2000 m tandem. Così modificato, il documentario ottiene parere favorevole da parte della I commissione.

 

 

n. 4535/4651

Il diavolo in corpo (Le Diable au corps)

Francia 1947, b/n

 

R: Claude Autant-Lara; s: dal romanzo di Raymond Radiguet; sc: Jean Aurenche, Pierre Bost; fo: Michel Kelber; mu: René Cloërec; mt: Madeleine Gug.

Int: Micheline Presle (Marthe Grangier), Gérard Philipe (François Jaubert), Denise Grey (Mme Grangier), Jean Debucourt (Monsieur Jaubert), Palau [Pierre Palau Del Vitri] (Mr Marin), Jean Varas [Jean Lara] (Jacques Lacombe), Jacques Tati (ufficiale).

Prod: Transcontinental Films.

Revisione: (v.o.) 31.8.1948 (3036 m), approvato: 7.9.1948 (n.o. 4535 - v.m.16); (v.it.) 6.10.1948, approvato: 13.10.1948 (n.o. 4651 - v.m.16); revocato: 18.11.1948-6.12.1950-30.5.1951.

Riedizione: 16.10.1963 (3233 m), approvato: 8.11.1963 (n.o. 41516 - v.m.18).

 

Primavera 1917. L’infermiera Marthe si innamora, ricambiata, dello studente François. Ma la donna è promessa sposa di Jacques Lacombe, che combatte al fronte, e il loro amore è osteggiato dai genitori di entrambi. Quando i due si ritrovano, nonostante Marthe sia sposata, vengono travolti dalla passione. Marthe scopre di aspettare un bambino da François, che però non sa prendersi le sue responsabilità. La donna muore di parto, e l’ignaro Lacombe accetterà il bimbo come proprio. Intanto, la guerra ha finalmente termine.

 

Inizialmente, la trafila censoria del film di Claude Autant-Lara, tratto dal celebre romanzo di Radiguet e accolto entusiasticamente in numerose passerelle internazionali, non pare eccessivamente probematica, sebbene le cronache riportino che al festival di Bruxelles un ministro belga abbia abbandonato la sala scandalizzato, trascinando via moglie e figlia. Importato dalla S.C.I. (Società Cinematografica Importazioni) e presentato in revisione in edizione originale per la censura preventiva dalla distributrice Fincine il 31 agosto 1948, Le Diable au corps ottiene il 7 settembre dalla Commissione presieduta da Scicluna-Sorge parere favorevole alla programmazione in pubblico, senza tagli ma con divieto ai minori di 16 anni «in considerazione del soggetto morboso».

L’edizione italiana arriva in censura il 6 ottobre, è revisionata il 12 (presidente Della Valle) e ottiene il nulla osta con analogo divieto. Ma neppure un mese dopo il film di Autant-Lara ritorna in censura ai sensi dell’art. 14 del R.D. n. 3287/1923, che prevede la possibilità di richiamare in qualsiasi momento le pellicole, anche se già munite di nulla osta, e ottenere una revisione straordinaria davanti alla Commissione di appello. Vale la pena riportare il racconto della ditta distributrice sulle vie poco ortodosse per cui la Direzione Generale dello Spettacolo si è mossa: «pochi giorni or sono, un impiegato della Fincine ricevette la richiesta telefonica, da parte di un funzionario della Presidenza, di una copia del film, in via del tutto breve ed amichevole, così che egli ritenne trattarsi di una delle non infrequenti richieste di carattere amichevole a scopo di visioni private e, senza nemmeno informarne i dirigenti, esaudì senz’altro la richiesta inviando la prima copia che trovò disponibile». Il 18 novembre, la Commissione di II grado presieduta dal D.G. De Pirro per delega di Andreotti e composta dal solo consigliere di Cassazione Beniamino Leoni (il vice Prefetto Giuseppe Bilancia è assente per malattia), ritenendo «il contenuto del film e anche alcune scene di esso offensive della morale e del buon costume», delibera il ritiro del nulla osta.

A causare il provvedimento sono stati i reclami pervenuti da enti e privati, che lamentano il contenuto osceno, l’immoralità della vicenda e la licenziosità di alcune sequenze: non solo si parla di adulterio, ma il cornuto della situazione è un valoroso soldato al fronte. A far scoccare la scintilla è un articolo comparso sul genovese «Nuovo Cittadino», cui fa seguito una campagna battente da parte della stampa cattolica, che fin da subito non lesina toni scandalizzati: «Sta succedendo sullo schermo ciò che si verifica nella cronaca dei giornali. Con l’idea di descrivere la vita, se ne sottolineano i lati meno nobili» scrive il «Quotidiano». «Di modo che nello scorrere le pagine dei giornali e nell’assistere alle pellicole del così detto neorealismo, dobbiamo convincerci dell’idea che la vita è brutta, brutti gli uomini che la recitano, orrende le cose che si compiono. E ciò è tanto più grave quando, nel film in esame, si deve ammirare dal punto di vista estetico il prestigio di tanta arte e di tanta potenza narrativa, messe a servizio d’una causa così poco nobile».1 E se per «Il Popolo» Il diavolo in corpo costituisce una «grande offesa ai più elementari principi di moralità, «L’Osservatore Romano» sentenzia: «[…] il film di Lara è da scartare e da riprovare aspramente, sia per la licenziosità di alcune immagini, sia per la costruzione dei personaggi […], sia, soprattutto, per quel trionfo dei sensi che circola violentemente in tutto il film». Da rilevare come la condanna morale si accompagni, nelle recensioni, al plauso alle qualità artistiche dell’opera. «Ed ecco che in sede tecnica […] appunto quel lato negativo desta stupore e ci rivela in Lara un regista eccezionale» aggiunge l’articolista dell’«Osservatore Romano». «Condannato, non una ma mille volte condannato quel senso di morbosità fisica che pervade il film, non ci si può non domandare con quali mezzi, con quanta abilità il regista sia riuscito ad ottenerlo, a ridarlo tanto vivo ed evidente […]. Il film penetra nell’animo […]. Tanto più grave, quindi, per il suo influsso nocivo sul pubblico; tanta più necessaria la esclusione del pubblico dalla visione; tanto più triste per chi vede in Autant-Lara un uomo che sa cosa è la tecnica cinematografica e ne Il diavolo in corpo un grande film»2. Inutile a dirsi, il giudizio del CCC è: escluso.

La Fincine, che riceve dapprima una scarna e irrituale comunicazione telefonica dell’avvenuto e quindi una breve nota in cui si comunica che il film «non potrà più essere programmato essendo stata revocata l’autorizzazione per la sua presentazione in pubblico», denuncia l’arbitrarietà e l’ingiustizia del tutto, chiedendo una sospensione della revoca e invitando la Direzione Generale a dare esatta comunicazione del provvedimento e della sua motivazione. «Ci risulta che già alcuni Uffici di Pubblica Sicurezza hanno di autorità fatto sospendere gli spettacoli di detto film, facendo anche chiudere delle sale cinematografiche […]. Pur ignorando ancora la natura e le cause del provvedimento annunciatoci telefonicamente, dobbiamo ritenerlo a priori ingiusto ed inammissibile. Il film in questione è stato sottoposto ed approvato in Censura per ben due volte: una prima in edizione originale […] e poi nell’edizione italiana. Il film è già stato programmato a Roma, Genova e in molte altre città in varie visioni senza dar luogo ad alcun incidente o inconveniente. […] Persino “L’Osservatore Romano”», prosegue la ditta, «ne ha riconosciuto ed esaltato le eccezionali “Qualità Artistiche”. Ricordiamo altresì che numerosi film recenti (Roma città aperta, Tombolo, Gioventù perduta, Senza pietà, Amore, La casa del maltese, Il ladro di biciclette [sic!], Germania anno zero e Duello nel sole [sic!]) presentano situazioni e scene (morali e di rappresentazione) molto più discutibili».

Si muove anche Walter Borg del Centre National de la Cinématographie, chiedendo lumi sul provvedimento. Una volta avuta notizia che la revoca è avvenuta ex art. 14 del regio decreto del 1923, la Fincine e l’importatrice Società Cinematografica Importazioni ricorrono al Consiglio di Stato (30 novembre 1948). Viene alla luce il problema di costituzionalità del suddetto art. 14, in relazione alle guarentigie costituzionali delle libertà individuali (artt. 21, 33 e 41 della Costituzione), per cui «si potrà eccezionalmente bloccare l’iniziativa artistica ed economica soltanto quando sia oggettivamente palese il danno o il pericolo di danno per le stesse fondamenta etico-sociali del popolo italiano, e non quando si tratti della mera possibilità, soggetta al mutevole apprezzamento ed alla diversa sensibilità individuale, di reazioni soggettive più o meno esagerate. Non può, pertanto, concedersi il diniego del nulla osta solo perché un film tratti di un adulterio, o perché contenga delle scene più o meno idonee ad apparire eccitanti per gli spettatori poco provveduti dal punto di vista morale», rilevando che «non è l’argomento trattato […] che può essere autonomamente rilevante, bensì la posizione morale assunta» rispetto ad esso, che nel caso di Il diavolo in corpo è «di fatale rigorosa condanna della relazione peccaminosa, dimostrata univocamente, oltre che dalla conclusione, dalla atmosfera di spietata sofferenza dei protagonisti». Secondo il ricorrente, dunque, il provvedimento denuncia «quel grave vizio di miopia intellettuale che è il maggior nemico di un ufficio estremamente delicato quale è quello della censura».3

La Presidenza del Consiglio, nella memoria consegnata all’Avvocatura dello Stato, si appoggia alla necessità di evitare «danni gravi ed irreparabili» derivanti «dal lasciare circolare, presso un pubblico meno provveduto e più suggestionabile, che non sia quello dei frequentatori delle sale di prima visione, una produzione ritenuta nella sede competente e responsabile moralmente nociva». Gli spettatori di seconda e terza visione, dunque, sono ritenuti alla stregua di minus habentes da proteggere, mentre il film di Autant-Lara «è tale da consentire legittime perplessità sotto il profilo dell’etica e della stessa decenza».

Prosegue la memoria: «La Commissione di Censura avvertì i pericoli cui tale film dava adito […]. Non si volle […] sin dal principio, adottare il rimedio del divieto generale di proiezione in considerazione dell’innegabile pregio artistico dell’opera: si considerò più rispondente al pubblico interesse lasciare circolare il film in attesa delle eventuali reazioni dell’opinione pubblica. In altri termini», continua la Presidenza plaudendo alla propria liberalità, «fu assunto un atteggiamento di cauta attesa». E conclude sottolineando come «sia la distinzione tra moralità “interna” e moralità “esterna” della produzione, sia l’asserzione che l’opera d’arte è sempre morale, sono concetti che ben possono trovare posto in una disputa di casistica etica, ma sono irrilevanti ai fini della giustificazione di un provvedimento di polizia dei costumi». E venendo all’oggetto del contendere, il richiamo in revisione straordinaria ex art. 14: «il film di cui trattasi suscitò reazioni e proteste da parte di singoli e di associazioni. L’Organo statale competente e responsabile non poteva non tenerne conto e non provvedere».

Intanto l’Azione Cattolica dà man forte al governo: il Segretario per la Moralità Mario Flatanna denuncia la prevista proiezione del film in quel di Catania e allerta le autorità competenti per «intervenire con la massima energia […] agendo anche nei confronti della casa Fincine che contravvenendo alle disposizioni della Commissione di Revisione lo noleggia».

Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 15 gennaio 1949, concordando che «i danni […] che l’impugnato provvedimento può apportare al ricorrente, sono certamente meno gravi di quelli indubbiamente irreparabili che può riportare la pubblica moralità a seguito della proiezione del film», respinge la domanda di sospensione del provvedimento da parte della Fincine. Nel frattempo la notizia guadagna spazio sui giornali: «La Voce Repubblicana», appaiando la revoca del null osta al diniego del visto di censura al lungometraggio sulle Olimpiadi di Londra, commenta: «solamente dei quaccheri – data la castità e la delicatezza con cui è raccontata la vicenda – possono rilevare “grave offesa ai più elementari principi di moralità”. Tale incidente riporta all’ordine del giorno il grosso problema della censura: quel problema che, dopo il caso Gioventù perduta, sembrava dovesse essere affrontato e sollecitamente risolto e che […] invece permane grave e di palpitante attualità».4 «La Repubblica d’Italia» è anche più esplicita: «dobbiamo ritenere che influenze estranee al Viminale abbiano lavorato successivamente contro il film: in parole povere, che la censura governativa prende ordini, e fa figure pietose, vergognose, come questa, dipendendo da una censura vaticana – vedi deplorazioni dei giornali cattolici al film – quindi ufficialmente straniera, che mortifica il nostro organo governativo, in maniera umiliante, indecorosa per esso e per la cultura italiana».5 «L’Avanti» titola ad effetto (La purga democristiana per il diavolo in corpo - L’ipocrisia al servizio della morale) un velenoso articolo dai toni sarcastici:

 

a due mesi dall’approvazione i pungoli del peccato hanno sfiorato i censori i quali, presi gli ordini dall’alto, ci hanno ora vietato il film peccaminoso. […] Quali ragioni postume hanno consigliato i poco accorti censori a proibire a centinaia di migliaia di spettatori di apprendere le vicende dei due amanti i quali, in definitiva, non fanno nulla di diverso di quanto fanno e hanno fatto le migliaia di amanti di che rigurgitano i film americani? […] Evidentemente qualcuno, uscito dall’interno del colonnato di San Pietro, se ne andò, quatto quatto, una sera, a vedere questo Diavolo in corpo. Lo scellerato film lo riempì d’orrore, i pungoli del peccato lo sfiorarono senza toccarlo, uscì dal buio della sala peccaminosa e telefonò a qualcuno che poteva far qualcosa per questo povero popolo cui bisognava assolutamente impedire la vista di un tale film.

 

E conclude: «Che importa salvare la faccia? Basta che la morale sia salva. Magari peccando d’immoralità e di ipocrisia».6

Gli strascichi arrivano anche in Parlamento, dove il senatore Amilcare Locatelli (PSI) presenta un’interrogazione in merito alla revoca del nulla osta.

La decisione del Consiglio di Stato arriva a oltre un anno e mezzo dal ricorso, il 28 giugno 1950: la IV sez. presieduta da Antonino Papaldo ritiene illegittima la deliberazione della Commissione in quanto avvenuta senza la presenza di tutti i membri, nonché il fonogramma trasmesso alla Fincine in quanto carente di motivazione. Di conseguenza, il Consiglio annulla la deliberazione del 18 novembre e la revoca del nulla osta datato 22 novembre 1948, condannando l’Amministrazione al pagamento delle spese di giudizio (50.000 lire). La decisione è pubblicata il 20 settembre 1950, e il 20 ottobre la Fincine avanza domanda di nuova revisione, senza fare alcun riferimento alla decisione del Consiglio di Stato e anzi impegnandosi formalmente a non dare pubblicità alla stessa, oltre che a rinunciare a qualsiasi azione da essa derivante.

Nonostante l’intercessione del presidente dell’ANICA Eitel Monaco presso Andreotti, la sorte di Il diavolo in corpo è segnata. L’ufficio studi e legislazione della Presidenza, commentando il provvedimento, suggerisce al Sottosegretario che «per il momento, e sino a quando la parte non inoltri nuovo ricorso per l’esecuzione della decisione predetta […], può non darsi esecuzione alla decisione di cui sopra. Intanto, tenuto conto della circostanza che il provvedimento di divieto è stato annullato unicamente per ragioni di forma, può provvedersi con un nuovo atto, che non riproduca i pretesi vizi del primo; e cioè che sia preceduto da una delibera della Commissione presa in presenza di tutti e tre i membri, e che sia comunicata alla parte con provvedimento motivato». In un appunto manoscritto di Andreotti per Leoni, si legge: «d’accordo nel soprassedere. Intanto gli uffici non diano il nulla osta. Verrà poi la nuova visione davanti ai 3 e ci regoleremo». E così, il 6 dicembre 1950, previa nuova riunione della Commissione di II grado al completo, ove si delibera che «il detto film, per il modo, le circostanze e le situazioni in cui viene presentata la vicenda di adulterio, nonché per il carattere morbosamente erotico di alcune scene ed episodi, è da giudicarsi offensivo della morale e del buon costume», il Sottosegretario dispone nuovamente la revoca del nulla osta al film di Autant-Lara.

Resta in circolazione l’edizione in lingua francese, dato che la revoca del nulla osta per l’edizione italiana non implica la revoca automatica di quello per la versione originale: anche nel caso di Manon di Henri-Georges Clouzot era stato concesso il nulla osta alla copia in francese, rifiutandolo invece a quella doppiata. E nel marzo 1951 la Fincine domanda al Sottosegretario l’autorizzazione a programmare Le Diable au corps in edizione originale e limitatamente ai locali adibiti alla visione in anteprima, per attenuare il danno economico. Si pone un problema di opportunità: «in considerazione del riconosciuto valore artistico del film nonché del ristretto pubblico cui è riservata la visione dello stesso in lingua originale», la D.G. è favorevole a confermare il nulla osta, ma Andreotti la pensa diversamente, ritenendo che «i gravi motivi addotti a fondamento della revoca […] giustificano l’adozione di un identico provvedimento anche per la edizione in lingua originale […] salvo che si voglia tener conto del suo valore artistico», dispone il Sottosegretario in data 9 marzo. E il 30 maggio anche la versione originale è richiamata in revisione straordinaria ex art. 14, con successiva revoca del nulla osta. Negli anni successivi la circolazione della pellicola è limitata alle sporadiche proiezioni private e riservate ai soci di circoli e cineclub, per iniziativa il segretario della UICC Franco Venturini.7

Passeranno tredici anni prima che Il diavolo in corpo ritorni in circolazione in lingua italiana. A ripresentarlo, il 16 ottobre 1963, è la Unidis di Giorgio Papi. Con sostanziali modifiche rispetto alla precedente versione, come richiesto dall’art. 15 della nuova normativa, riguardanti i dialoghi italiani (riscritti dal futuro regista Tonino Valerii8) e il montaggio. La Commissione, che lo revisiona il 7 novembre, concede il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni, «motivato dalla tematica generale del film e dalla presenza, in particolare, di scene, situazioni e dialoghi che, puntualizzando scabrosamente un adulterio del tempo di guerra, risultano controindicati – sotto il profilo morale – alla particolare sensibilità dei minori e alle specifiche esigenze della loro tutela».9

Nel novembre 1972 Il diavolo in corpo è ripresentato per la revisione dalla Transcontinental, in un’edizione destinata alla programmazione televisiva, con tagli per un totale di 220 m (otto minuti) che colpiscono particolari di Marthe e François che giacciono a letto (50 m), il risveglio dei due amanti (60 m), Marthe e François intenti a bruciare nel caminetto le lettere del marito (60 m) e ancora i due a letto (50 m). La V sez. concede il nulla osta il 24 novembre.

 

 

1Anonimo, Le prime del cinema: Il diavolo in corpo, «Il Quotidiano», 17 ottobre 1948.

2 «È quindi triste, sommamente triste» scrive il quotidiano «dover affermare dopo tutto ciò che tanta abilità, tanta genialità siano state messe a servizio di una cattiva causa». P.R. [Piero Regnoli], Prime visioni, «L’Osservatore Romano», 16 ottobre 1948.

3 La Fincine ipotizza addirittura che il richiamo del film e la revoca del nulla osta siano avvenuti «non soltanto senza intervento, ma addirittura all’insaputa del Sottosegretario: lo lascia pensare il modo e la forma in cui ha avuto luogo, in sordina ed alla buona, la richiesta dell’esemplare del film […] da parte di persona non qualificata né agente in nome del sottosegretario»: ipotesi irrealistica, considerando il controllo esercitato da Andreotti nell’esercizio delle sue funzioni. Un altro punto-chiave è la labilità delle motivazioni addotte ad accompagnare i provvedimenti: la Fincine lamenta che il fonogramma ricevuto «si limitava ad indicare […] la norma di legge in base alla quale il provvedimento era stato adottato, ma non conteneva alcuna menzione dei motivi dell’atto», né dell’avvenuta deliberazione della Commissione di revisione straordinaria.

4 C. [Gaetano Carancini], Pas trop de zéle signori della censura, «La Voce Repubblicana», 20-21 novembre 1948.

5 P. J. [Paolo Jacchia], Per il Diavolo in corpo umiliata la censura da un veto altrui, «La Repubblica d’Italia», 21 novembre 1948.

6 Anonimo, La purga democristiana per il diavolo in corpo - L’ipocrisia al servizio della morale, «L’Avanti», 21 novembre 1948.

7 Anche il film successivo del regista arrivato nel nostro Paese avrà qualche noia coi censori: Arriva Fra’ Cristoforo (L’Auberge rouge, 1951), dopo la solita lunghissima trafila burocratica, è approvato nel febbraio ’53 previa mutilazione del finale.

8 «”Di Il diavolo in corpo esisteva già una prima edizione, con dialoghi curati da Gian Luigi Rondi, che però erano improponibili, e che rifacemmo [probabilmente Valerii si confonde con L’uomo e il diavolo, N.d.A.]. Quando mi chiesero di fare un ‘prossimamente’, feci presente che il film era bellissimo ma un po’ datato. Oltretutto era molto parlato, anche se la scena clou era quella famosa del caminetto, la prima volta in cui i protagonisti fanno l’amore: Gérard Philippe e Micheline Presle si baciano sul letto, la cinepresa fa una panoramica a illustrare la camera fino a inquadrare un caminetto in cui arde il fuoco. Dissolvenza incrociata: la fiamma è spenta, la cinepresa riprende la panoramica fino a tornare sui due amanti ormai esausti dopo l’amore. All’epoca fece scalpore”. Per cercare di rendere appetibile il film, Valerii suggerisce di ingaggiare Mario Serandrei, uno dei più grandi montatori italiani, per preparare una presentazione a effetto. Serandrei, che chiede trecentomila lire, si fa proiettare il film a velocità doppia. Alla fine il responso è: “Guarda, Valerii, l’unica cosa che possiamo fare è farlo sembrare un film di Antonioni”. “Magari!” è la risposta». Dichiarazioni raccolte da Roberto Curti, giugno 2008.

9 La Unidis presenta appello (7 dicembre) contro il divieto ai minori della presentazione (il trailer), facendo presente che «nella ideazione e realizzazione della presentazione ha deliberatamente evitato di fare comunque apparire scene un poco spinte o comunque scene che potessero svelare al pubblico la storia stessa del film. Una presentazione vietata ai minori di anni 18, è una presentazione che non può essere praticamente programmata in alcuna sala». Domanda respinta ai sensi dell’art. 5 u.c. della l. n. 161/1962, per cui la presentazione deve seguire la stessa sorte del film cui si riferisce.

 

 

n. 4692

La questione russa (Russkij vopros)

Urss 1948, b/n

 

R, sc: Mikhail Romm; s: dalla commedia di Konstantin Simonov; fo: Boris Volchek; mt: Yeva Ladyzhenskaya; mu: Aram Khachaturyan.

Int: Vsevolod Aksyonov (Smith), Yelena Kuzmina (Jessie), Mikhail Astangov (MacFerson), Mikhail Nazvanov (Guld), Boris Tenin (Morfi), Mariya Barabanova (Meg).

Prod: Mosfilm.

Revisione: 15.10.1948 (2586 m), respinto: 3.5.1949.

 

In seguito alla mutata politica statunitense nei confronti dell’Urss, il giornalista Harry Smith viene incaricato da MacFerson, il proprietario del giornale in cui lavora, di scrivere un libro diffamatorio sul regime comunista da cui dovrà risultare l’intenzione dei sovietici di scatenare un nuovo conflitto. Harry temporeggia, e accetta a malincuore l’incarico: ma al ritorno da un viaggio di tre mesi in Russia, si rifiuta di scrivere le bugie volute da MacFerson, anche se la sua ribellione gli costerà la felicità e la donna che ama.

 

Il film dell’esperto Mikhail Romm, palese opera di propaganda antiamericana, è presentato una prima volta in censura nell’ottobre 1948 dall’Associazione Italia-Russia, e revisionato il 15 ottobre: ritenendo che nel film «si denigra certa stampa americana che, vincolata al grande capitalismo, divulga notizie false in Russia al fine di creare psicosi di guerra», la IV Commissione esprime parere contrario alla proiezione in pubblico, reputando che se ne possa consentire solo la visione privata, per casi eccezionali e in edizione originale.

La Sovexportfilm presenta domanda di revisione il 22 novembre 1948. Nel frattempo, un’altra Commissione ha dato il nulla osta al film americano Il sipario di ferro (The Iron Curtain, 1948, di William A. Wellman, con Dana Andrews e Gene Tierney), pellicola di propaganda antisovietica ispirata al caso di Igor Gouzenko, incentrata sulla rete dello spionaggio russo negli Usa. In un appunto per il D.G. a opera del Direttore Capo della Divisione Revisione, «si ravviserebbe la opportunità di esaminare, per ragioni di equità, il modo come poter ovviare al differente trattamento usato ai due film stranieri». Dietro richiesta della Direzione Generale per la cinematografia, in febbraio la Sovexportfilm deposita una seconda copia, accompagnata dalla lista dialoghi italiani, per un ulteriore esame.

Segue un periodo di silenzio, interrotto solo dalle inquiete richieste per iscritto della compagnia, che sollecita una decisione in merito. La quale avrà luogo solo alcuni mesi dopo: la Commissione, revisionata l’opera il 3 maggio 1949, esprime parere contrario alla proiezione pubblica in quanto «la pellicola, presentando aspetti non veritieri sulla vita politica americana, la fa apparire ispirata a concetti contrari alla libertà», e di conseguenza in grado di turbare i buoni rapporti internazionali: consente tuttavia la proiezione in visione privata. Nel giudizio si rimarca come il film di Romm non abbia qualità degne di rilievo: «la fotografia è spesso difettosa. I dialoghi risultano piuttosto pesanti e l’intonazione dello spettacolo è più teatrale che cinematografica».

Da una lettera della Sovexport del 12 maggio, indirizzata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si intuisce che la società non ha però ricevuto l’esito dell’esame. «Ci è noto che questo film è stato visionato però non sappiamo ancora le decisioni che avete preso al riguardo» si legge. «Vi preghiamo di farci sapere la decisione della Commissione circa detto film e di comunicarci quando potrete restituircelo». Pochi giorni dopo, avuta notizia della bocciatura, la Sovexport presenta ricorso in appello. Che però non avrà comunque luogo, poiché la società in un secondo momento ritira la pellicola.

 

 

n. 5340

La lunga lotta

Italia 1949, b/n

 

R: Carlo Lizzani; op: Giovanni Pucci; mu: Virgilio Chiti.

Prod: Confederterra Nazionale.

Revisione: 16.2.1949 (691 m), respinto: 2.3.1949-7.1.1950.

 

Documentario sulla lotta dei contadini per le loro rivendicazioni salariali.

 

Prodotto dalla Confederterra, l’organizzazione nazionale dei lavoratori agricoli costituita nel 1946 e legata alla CGIL, La lunga lotta viene visionato dalla III Commissione di I grado presieduta da De Tomasi in data 2 marzo 1948, che lo giudica «mediocremente realizzato» e ne stigmatizza l’«assunto decisamente polemico», respingendolo in quanto «fazioso, incitante all’odio fra gli italiani e pertanto pericoloso per l’ordine pubblico».

La Confederterra presenta immediatamente appello (10 marzo), e attende. Il giudizio di II grado però tarda, ma la Confederazione non rimane con le mani in mano: il Segretario generale, senatore Ilio Bosi, scrive ad Andreotti il 28 aprile e il 27 luglio (senza risposta), e l’ufficio di segreteria sollecita ripetutamente i vari funzionari della Direzione Generale – anche per riuscire a programmare il documentario in occasione del congresso nazionale del 21-23 settembre a Reggio Emilia –, ma senza esito. In un’ulteriore lettera, datata 19 ottobre e indirizzata al Sottosegretario, lamentando le lungaggini cui è soggetta la pratica, la Segreteria nazionale (formata dai senatori Bosi e Mancinelli e dal dottor Vidimari) mette in dubbio la «serenità» nello svolgimento della pratica stessa, e avanza l’ipotesi che la Direzione generale stia cercando dei cavilli per protrarre la sua definizione. A pensare male si fa peccato…: a conferma che le preoccupazioni di Bosi non sono infondate, in un telegramma firmato Andreotti e inviato al Prefetto di Reggio Emilia, si legge: «Comunicasi che documentario La lunga lotta può essere presentato ove nulla osti da parte codesta prefettura in visione privata e dietro inviti personali non a mezzo stampa o affissi murali» (la dicitura «non a mezzo stampa o affissi murali» è aggiunta con calligrafia di De Pirro).

Passeranno quasi tre mesi prima che il documentario di Lizzani arrivi al secondo grado di giudizio. La Commissione d’Appello, riunitasi il 2 gennaio 1950, ritiene detto giudizio «fondato e pienamente meritevole di conferma», ribadendo il parere contrario alla proiezione in pubblico ai sensi dell’art. 3 lett. b) del regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923.

 

 

n. 5981

Le vie del carcere/Malerba (City Across the River)

Usa 1949, b/n

 

R: Maxwell Shane; s: dal romanzo The Amboy Dukes di Irving Shulman; sc: Dennis Cooper, Maxwell Shane; fo: Maury Gertsman; mt: Ted J. Kent; mu: Walter Scharf.

Int: Stephen McNally (Stan Albert), Thelma Ritter (Katie Cusack), Luis Van Rooten (Joe Cusack), Jeff Corey (Tenente Louie Macon), Sharon McManus (Alice Cusack), Sue England (Betty Maylor), Peter Fernandez (Frankie Cusack), Richard Benedict (Gaggsy Steens), Al Ramsen (Benny Wilks), Anthony [poi Tony] Curtis (Mitch), Mickey Knox (Larry), Richard Jaeckel (Bull), Joe Turkel (Shimmy Stockton).

Prod: Universal.

Revisione: (v.o.) 14.6.1949 (2528 m), respinto: 8.7.1949; approvato condizionatamente: 9.8.1949.

Riedizione: (v.it) 10.11.1949 (2528 m), approvato: 17.11.1949 (n.o. 6758 - v.m.16).

 

Brooklyn. Il bravo studente sedicenne Frankie Cusack entra a far parte dei «Duchi», teppistelli dediti a eccessi violenti e al soldo del gangster Gaggsy Steens, e gli sforzi del capo della comunità scolastica Stan Albert e della sua fidanzata Betty per farlo uscire dalla banda sono vani. La situazione precipita quando Frankie assiste all’omicidio accidentale di un professore da parte di un membro della gang, Benny, e cedendo alle pressioni di Stan rivela alla polizia il nome dell’assassino. Benny cerca vendetta e aggredisce Frankie, ma trova la morte. Frankie viene arrestato.

 

Tratto da un celebre romanzo di Irving Shulman (Gioventù bruciata, West Side Story), di cui offre una versione edulcorata a beneficio del grande pubblico, il film di Maxwell Shane fa parte di quell’ondata di drammi dai tratti veristi sfornati da Hollywood nell’immediato dopoguerra, e si può considerare un anticipatore dei film sulla delinquenza giovanile che di lì a pochi anni avrebbero catturato il pubblico, da Gioventù bruciata a Il seme della violenza. Ma il risultato è stereotipato e poco credibile, iniziando dal personaggio del paterno assistente sociale interpretato da Stephen McNally, versione appena sporcata del padre Flanagan di Spencer Tracy in La città dei ragazzi, mentre tra i teppistelli – tutti piuttosto improbabili come sedicenni – fa capolino un ventiquattrenne Tony Curtis al suo secondo ruolo per lo schermo.

Il film viene presentato il 14 giugno 1949 in edizione originale dalla Universal Film, distributrice italiana delle pellicole Universal International. Il titolo pensato per il mercato italiano è Le vie del carcere - I traviati. La commissione di revisione di I grado, con decisione datata 8 luglio 1949, esprime parere contrario alla programmazione «perché il film riproduce scene, fatti e soggetti offensivi della morale e tali da essere di scuola e di incentivo al delitto»: tra le scene incriminate c’è probabilmente quella in cui Benny (Al Ramsen) fabbrica una rudimentale pistola con cui ucciderà un professore.

La Universal ricorre in appello il 20 luglio 1949 per poter procedere al doppiaggio per l’edizione italiana; in una lettera al Direttore Generale per lo spettacolo Scicluna, il responsabile della casa distributrice Emanuele Zama scrive: «Personalmente ho esaminato il film e posso assicurarLa che comprendendo il dialogo a fondo non vi si può trovare alcunché di censurabile», ipotizzando che la bocciatura sia avvenuta a causa della visione di una copia in lingua inglese, di modo che «è sfuggito il senso altamente moralizzatore di tutto il film». A comprova di ciò, Zama allega addirittura alla missiva il libro di Shulman. A supporto delle parole del distributore, il film di Shane si apre col tipico pistolotto didascalico che spesso negli Usa introduceva pellicole dai contenuti giudicati controversi, ed è punteggiato da una pedante voce off.

L’appello ha luogo il 9 agosto: stavolta la Commissione esprime parere favorevole, ma condizionato al taglio e alla modifica di scene.

La Universal ripresenta la pellicola in censura, col titolo Malerba e in versione doppiata, il 10 novembre: stavolta l’esito della revisione, in data 17 novembre, è positivo, ma il nulla osta è accompagnato dal divieto ai minori di 16 anni per le «scene eccessivamente brutali e violente».

 

 

n. 6002

Manon (Manon)

Francia 1949, b/n

 

R: Henri-Georges Clouzot; s: dal romanzo Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut di Antoine-François Prevost; sc: Henri-Georges Clouzot, Jean Ferry; fo: Armand Thirard; mo: Monique Kirsanoff; mu: Paul Misraki; scen: Max Douy.

Int: Cécile Aubry (Manon Lescaut), Michel Auclair (Robert Desgrieux), Serge Reggiani (Leon Lescaut), Andrex [André Jaubert] (trafficante), Raymond Souplex (M. Paul), André Valmy (tenente Besnard), Henri Vilbert (comandante della nave).

Prod: Paul-Edmond Decharme per Alcina.

Revisione: 3.6.1949 (2800 m), respinto: 4.7.1949.

Riedizione: 22.8.1950 (m n.d.), approvato: 27.8.1950 (n.o. 8464 - v.m.16).

Homevideo: M6 Vidéo (DVD, Francia).

 

Su un piroscafo diretto in Palestina, dove vengono accolti alcuni clandestini ebrei, si nascondono anche due fuggiaschi, Manon Lescaut e Robert Desgrieux, quest’ultimo ricercato per omicidio. I due raccontano al capitano della nave la loro storia. Si incontrano sul finire della seconda guerra mondiale – lui è un partigiano, lei una collaborazionista – e si innamorano. Robert abbandona i suoi e fugge con Manon a Parigi, da dove vorrebbe tornare al paese natale per sposarla; ma la ragazza, appoggiata dallo spregiudicato fratello Leon, finisce in un ambiente di trafficanti, e giunge a prostituirsi in una casa d’appuntamenti. Robert le perdona tutto, e per mantenerla nel lusso si dedica anch’egli a traffici illeciti. Manon però sposa un ricco americano, con cui dovrebbe partire per gli Stati Uniti. Robert cerca di impedirlo, ma Leon gli tende un tranello, e lo fa prigioniero: Robert lo uccide, si libera e fugge verso Marsiglia. Manon, che lo ama ancora, lo raggiunge e si imbarca con lui. Lasciati liberi dal comandante della nave e sbarcati con i clandestini, sono assaliti da un’orda di arabi, e Manon viene uccisa. Desgrieux le scava la tomba su una duna, dove si sdraia in attesa della morte.

Incentrato su una storia d’amor fou assolutistica, l’adattamento in chiave contemporanea del celebre romanzo dell’abate Prévost a opera di Henri-Georges Clouzot si ricollega alla predilezione dell’autore francese per lo scavo psicologico di rapporti ai confini della patologia (l’incompiuto L’enfer, 1964; e l’ultimo film da regista La prigioniera, 1968), e rispetto al realismo scabro del precedente Legittima difesa privilegia i toni del mélo a forti tinte. Presentato in censura dalla Artisti Associati nel giugno 1949, Manon si vede negare il visto di censura in I grado. La Commissione esprime parere contrario «in quanto in esso sono riprodotte numerose scene offensive della morale e del buon costume, nonché scene spesso improntate ad eccessiva crudezza e spesso impressionanti». Nell’appunto per il sottosegretario Andreotti datato 4 luglio 1949 si fa presente, in una nota manoscritta, l’opportunità per quest’ultimo di visionare il film, visto che la decisione non è ancora stata comunicata agli interessati in quanto Manon è stato selezionato per partecipare alla Mostra di Venezia e la pellicola si trova in dogana.

Accade però che il film di Clouzot vince il Leone d’Oro. E la bocciatura in prima istanza fa discutere, anche perché il film, a mesi di distanza, è ancora fermo in censura. Il 22 dicembre 1949 il senatore Amilcare Locatelli del Partito Socialista presenta un’interrogazione a risposta scritta alla Presidenza del consiglio dei ministri, per sapere «per quali precisi motivi si è vietato il film», che nell’appunto trasmesso alla D.G. dello Spettacolo diventa Mignon, «magnifica e umana opera d’arte, premiata al festival di Venezia». La risposta del D.G. puntualizza:

 

1) che i film italiani e stranieri che vengono presentati alla Mostra Cinematografica Internazionale di Venezia sono esenti dal visto per censura in quanto esibiti in una sede di carattere eccezionale ed a carattere internazionale.

2) la Giuria che attribuisce i premi […] è composta di persone del tutto indipendenti e che danno il proprio giudizio secondo criteri di carattere artistico cinematografico. Quindi, l’attribuzione del gran premio internazionale al film Manon […] non può vincolare lo Stato e gli Organi della Amministrazione dello Stato, quali le Commissioni di Revisione Cinematografica, ad uniformarsi a detto giudizio perché le ragioni della revisione cinematografica sono ragioni diverse.

 

Il D.G. cita ad esempio Estasi e La grande illusione, premiati dalle giurie in due Mostre di Venezia ma ai quali fu negato il permesso di circolazione nel territorio nazionale.

Alcuni mesi dopo la situazione non si è ancora sbloccata. Nell’aprile 1950 il distributore Ferruccio Caramelli (Icet-Artisti Associati) contatta De Pirro, rimettendogli copia di una lettera da lui inviata, l’ultima di una serie, al sottosegretario di Stato Andreotti, a cui non ha ancora ricevuto risposta. «Edotto purtroppo da ormai vecchia esperienza, non vorrei che anche questa mia ennesima rimanesse lettera morta» scrive Caramelli a De Pirro, pregandolo di «muovere le “acque stagnanti”» e accennando al danno economico (80 milioni anticipati ai produttori francesi, da recuperare) che lo stallo del film gli sta procurando.

Manon, in edizione originale, è entrato in programmazione a Milano (al cinema Missori) con esiti ragguardevoli (Caramelli accenna a 30.000 spettatori con un incasso di 13 milioni): «risultato eccezionale, considerato che il film viene proiettato in lingua originale», sottolinea Caramelli nella lettera ad Andreotti, «ma ciò che più mi preme portare a Sua conoscenza è il fatto che nessuna benché minima reazione contraria è apparsa nella stampa delle varie tendenze ed anzi negli ambienti ecclesiastici sia di Roma […] che di Milano […] si è mostrata molta meraviglia per la non ancora avvenuta concessione del visto alla copia italiana».

Da un fonogramma dello stesso Andreotti, datato 6 maggio 1950, che autorizza la proiezione del film in lingua originale in un paio di sale romane, condizionata ad alcuni tagli e vietata ai minori di anni 16, si capisce meglio a quali scene in particolare fosse dovuta la mancata concessione del nulla osta. Il Sottosegretario richiede l’eliminazione della scena del bacio in chiesa, che Clouzot commenta a mo’ di contrappunto ironico secondo la lezione di Ėjzenštejn con inquadrature delle statue votive semidistrutte all’interno dell’edificio sacro (più tardi farà specchiare Manon nell’acquasantiera, catturandone il sorriso malizioso, e accosterà l’immagine della ragazza rannicchiata durante un bombardamento alla statua di un angelo); il Sottosegretario richiede anche il taglio di quella in cui figura il santo nella casa abbandonata1, nonché «di far finire prima che si arrivi allo spegnimento del lume», quando cioè Manon e Robert si coricano per fare l’amore per la prima volta. Ma è possibile che tra i motivi della bocciatura vi sia anche il tema scottante (e assai caro a Clouzot, viste le polemiche legate a Il corvo) del collaborazionismo: quando Desgrieux incontra Manon, la ragazzina sta per essere rapata a zero da un gruppo di donne, il segno che contraddistingueva le donne che facevano le spie (o, come nel caso di Manon, si concedevano) ai soldati tedeschi.

In un appunto datato 8 maggio, De Pirro lamenta con Andreotti che «le pressioni per risolvere la situazione di Manon sono continue. D’altra parte i danni finanziari che la Ditta distributrice ha subito dalla sospensione del film nell’edizione italiana potrebbero essere limitati ove il film potesse essere ora immesso in circolo. Con i numerosi tagli apportati forse la Commissione di Appello potrebbe riesaminare la cosa». E, sottolineando che Manon è «ormai in circolazione in tutto il mondo, essendogli stato concesso il visto anche nel Canadà ed in Svizzera», auspica la convocazione del Comitato di Appello.

Il 22 agosto 1950 la Artisti Associati sottopone alla Direzione Generale dello Spettacolo una nuova versione del film, a cui ha apportato ulteriori modifiche:

− nella prima parte, nella scena del piroscafo, la battuta di Manon al cambusiere: «Mi dia ancora questa notte» è stata sostituita con «Mi lasci entrare ancora una volta», ed è stata eliminata la scena del confessionale nella chiesa semidistrutta dai bombardamenti, nella quale Manon – nascosta da Robert per sottrarla alla giustizia dei partigiani – e Desgrieux si parlano attraverso la grata (è chiaro che i censori sono disturbati dall’apparizione di Manon nel posto che spetta al sacerdote, e dall’intento sottilmente ironico della scena, in cui la ragazza chiede a Robert «Perché l’hai fatto?» e l’altro risponde «Non ne ho idea», a replicare il meccanismo della confessione);

− nella seconda parte è stata ridotta la scena della casa di campagna in cui Manon e Robert si sono rifugiati dopo il bombardamento, fino alla battuta di Manon: «Un giorno saremo sposati», eliminando la parte di dialogo successiva in cui lei gli confessa che è la prima volta che resta sola in camera con un ragazzo («Gli altri pensavano solo a toccarmi, non sapevano dire le parole giuste. Tu sì»), e i due si coricano sul letto. Ed è ridotta la scena in cui Manon appare sul letto con le gambe scoperte prima dell’ingresso del padre di Robert;

− nella terza parte, è stata eliminata la scena dell’anziano cliente che esce dalla casa di tolleranza incrociando Robert sulle scale, nonché la scena e il dialogo della padrona della casa di tolleranza che mostra al giovane l’album fotografico delle ospiti; soppressa anche la battuta successiva tra Manon e Robert: «Niente fa schifo quando si ama»;

− nella quarta parte è stata soppressa la frase pronunciata da Manon rivolgendosi a Robert, alludendo all’americano: «Mi crede vergine», e ridotta la scena dello strangolamento del fratello di Manon;

− nella quinta parte è stata ridotta la sequenza relativa all’episodio di Robert che trascina Manon morta sulla duna di sabbia.

 

Questa volta la Commissione di II grado, riunitasi il 27 agosto, presieduta da Andreotti e composta da De Pirro e dal consigliere di Cassazione Beniamino Leoni, esprime parere favorevole: Manon può finalmente uscire nelle sale in versione doppiata. Susciterà comunque polemiche anche in questa versione purgata: il 25 novembre 1950 uno spettatore presenta un esposto alla Questura di Roma:

 

Ho visto il film Manon all’Adriano e sono rimasto disgustato della sua scurrilità e delle sconcezze che si vedono e si odono. E non solo io ne ho avuto tale impressione, ma pure altri presenti. Detto film non doveva essere permesso, mi sorprende che sia stato lasciato passare, e prego vivamente che ne sia sollecitamente vietata la continuazione.

 

Purtroppo per lui, l’esposto non ha effetti sulla circolazione del film di Clouzot.

 

 

1 Nella scena della casa abbandonata in realtà non si vede nessuna figura di santo: possibile che Andreotti si riferisse a una delle inquadrature raffiguranti i santi nella chiesa semidistrutta? Strano che il Sottosegretario non si sia appuntato uno scambio di battute in un’oasi sulla strada per la Palestina tra Manon, che si bagna le gambe in una polla d’acqua, e Desgrieux: «Sembra di essere in Paradiso» «Sai com’è il Paradiso?» «Certo, l’ho visto sul mio libro di catechesi.»

 

 

n. 6343

Dédée d’Anvers (Dédée d’Anvers)

Francia 1948, b/n

 

R: Yves Allégret; s: dal romanzo di Ashelbé [Henri La Barthe]; sc: Jacques Sigurd, Yves Allégret; fo: Jean Bourgoin; mt: Léonide Azar; mu: Jacques Besse.

Int: Bernard Blier (Monsieur René), Simone Signoret (Dédée), Marcel [Marcello] Pagliero (Francesco), Marcel Dalio (Marco), Marcel Dieudonné (il trafficante), Mia Mendelson (Prostituta col pappagallo), Denise Clair (la padrona del Caffè Karel).

Prod: Les Films Sacha Gordine.

Revisione: 2.8.1949 (mt: n.d.), respinto: 18.8-31.10.1949.

Homevideo: René Chateau (DVD, Francia).

 

Dédée è una prostituta che esercita in un bar di Anversa di proprietà di monsieur René e frequentato da marinai. Stanca del violento protettore Marco, un losco trafficante di droga, la donna si innamora di Marcello, un marinaio napoletano, e progetta di fuggire con lui. Ma Marco uccide il rivale per derubarlo: Dèdée si vendicherà.

 

Da un romanzo di Henri La Barthe (autore, con lo pseudonimo Détective Ashelbé, del più celebre Pépé Le Moko), il secondo film di Yves Allégret va incontro a numerosi problemi. Il copione del regista e di Jacques Sigurd – risalente al 1939 – sceglie di esplorare tematiche e atmosfere sgradevoli e agli antipodi dal clima dominante in cinema francese dell’immediato dopoguerra, figlio di un periodo storico (la IV Repubblica) che tende a ostracizzare gli estremismi politici ed esprime una cinematografia spesso addomesticata nei temi trattati. Definito una «metamorfosi decadente» del realismo poetico di Carné e Prévert – a tratti pare una versione da incubo di Il porto delle nebbie – il film di Allégret è immerso in un compiaciuto fatalismo noir, ed è dominato dalla prova della Signoret, all’epoca moglie del regista. In patria la critica comunista lo accoglie con risentimento, e il sindacato dei lavoratori portuali protesta per la rappresentazione di questi ultimi come buzzurri maneschi e rissosi.

Dédée D’Anvers è presentato in Commissione in versione originale, per la revisione preventiva per il doppiaggio, dal distributore Manenti Film il 2 agosto 1949. Verrà respinto il 18 agosto poiché «in esso sono riprodotte scene, fatti e soggetti offensivi al pudore, alla morale, al buon costume e alla pubblica decenza ed inoltre scene truci, ripugnanti e di crudeltà». La Commissione di II grado conferma il parere contrario in data 31 ottobre.

Due anni dopo, il 18 giugno 1951, la Italfrancofilm, che ha acquistato il film di Allégret all’interno di un pacchetto di pellicole francesi da sfruttare in Italia in versione originale, richiede una nuova revisione al fine di poter effettuare eventuali tagli, assicurando preventivamente che il film non verrà mai doppiato in italiano. La richiesta viene però rifiutata dal Sottosegretario di Stato sulla base dell’esaurimento dei due gradi di giudizio in base alla normativa vigente.

A posteriori, l’accanimento bipartisan al di qua e al di là delle Alpi su Dédée D’Anvers è significativo di un momento politico. Come noterà Mino Argentieri, «le sinistre, oltre Alpe, erano state infastidite da alcuni sfondi, che contrastavano con le loro aspirazioni a veder idealizzata la classe lavoratrice secondo uno schema perbenistico; la destra italiana aveva gridato allo scandalo per l’affollamento di figure disdicevoli».1

Dédée d’Anvers si vedrà in Italia solo nell’estate del 1978, sul piccolo schermo, trasmesso dalla Rai.

 

 

1 Mino Argentieri, Dédée d’Anvers, «Cinema 60», n. 124, novembre-dicembre 1978, p. 56.

 

 

n. 6585

Brevet fra afdøde

Danimarca, 1946, b/n

 

R: Johan Jacobsen; sc: Arvid Müller; fo: Karl Andersson; mu: Kai Møller; mt: Edith Schlüssel.

Int: Eyvind Johan-Svendsen (dottor Arne Lorentzen), Gunnar Lauring (architetto Poul Friis Henriksen), Sonja Wigert (Gerd Lorentzen), Inge Hvid-Møller Signorina Steen), Axel Frische (Thorsen), Karin Nellemose (Vibeke).

Prod: Palladium Film.

Revisione: 10.10.1949 (2206 m), respinto: 12.10.1949.

 

Copenaghen. Durante la guerra, la giovane Gerd e l’architetto Poul si incontrano in un rifugio antiaereo. Si ritrovano alla fine del conflitto: e Poul, per un equivoco, crede che Gerd sia sposata un medico rimasto vedovo in circostanze misteriose. Invitato a casa del dottor Lorentzen per un ricevimento, Poul batte la testa e nel delirio immagina che Lorentzen abbia reso morfinomane la prima moglie spingendola al suicidio, e stia per fare lo stesso con Gerd. Riavutosi, l’architetto scopre che la ragazza è in realtà la nipote del dottore, e che ha rotto il fidanzamento precedente perché innamorata di Poul.

 

Macchinoso melodramma che seppellisce un plot giallo all’interno di una pretestuosa cornice onirica, il lavoro di Jacobsen (il cui titolo significa «la lettera della morta») viene presentato in revisione in lingua originale il 10 ottobre 1949 dalla International Filmhandel. Questo il responso della Commissione di I grado, che lo revisiona il giorno seguente: «fosco e tetro nella trama, il film è tutto intessuto di scene morbose incentive al suicidio per mezzo di stupefacenti; ambiente oppressivo e malsano, anche se riproduce un sogno». Ed esprime parere contrario alla programmazione, «in quanto in esso sono presentati fatti immorali e scene di crudeltà». La pellicola resta inedita in Italia.

 

 

n. 6744

Adamo ed Eva

Italia 1949, b/n

 

R: Mario Mattoli; sc: Marcello Marchesi, Vittorio Metz; fo: Aldo Tonti; mu: Pippo Barzizza; mt: Giuliana Attenni.

Int: Erminio Macario (Adamo), Isa Barzizza (Eva), Gianni Agus (Paride), Arnoldo Foà (Achille), Riccardo Billi (Abu Hassan), Nunzio Filogamo (naufrago francese), Mario Riva (naufrago russo), Riccardo Garrone, Memmo Carotenuto, Enzo Garinei.

Prod: Lux Film.

Revisione: 9.11.1949 (2350 m), approvato: 15.11.1949 (n.o. 6744, revocato: 19.12.1949).

Riedizione: 22.2.1950 (2250 m), approvato: 22.2.1950 (n.o. 7364).

 

In Paradiso, per alleviare la solitudine di Adamo, gli angeli gli tolgono una costola e creano Eva, la quale vuole subito mangiare il frutto proibito. La voce della coscienza avverte Adamo delle future sciagure che questo atto comporterà, dalla guerra di Troia ai suicidi di Antonio e Cleopatra, dal conte di Essex decapitato per amore di Elisabetta a Luigi XVI ghigliottinato per Maria Antonietta, via via fino al futuro: nel duemila, in un mondo postatomico, ancora Eva è causa di litigi, facendo uccidere a vicenda i sopravvissuti alla catastrofe. Adamo tentenna, ma Eva lo convince con il pianto. Adamo chiede il permesso al pubblico di compiere il peccato e addenta la mela.

 

La commediola di Mario Mattoli, presentata in censura nel novembre 1949, non pare causare troppi patemi ai commissari che la visionano il 15 novembre: «è un film rivista, la cui comicità dovrebbe scaturire dalla rappresentazione parodistica di noti avvenimenti storici […] originati dall’elemento “donna”. In realtà la parodia non è sempre di buona lega ed il film langue spesso nella banalità. La Commissione, non avendo riscontrato elementi censurabili, ha espresso parere favorevole alla proiezione in pubblico».

Senonché la vicenda ambientata nel Paradiso terrestre, da cui si dipana un excursus semiserio sulle sciagure provocate dal gentil sesso nella storia dell’umanità, provoca le ire del mondo cattolico. Il Direttore del Segretariato Diocesano per la Moralità, Fausto Lechi, scrive all’Ufficio Centrale per la Cinematografia, facendo presente che la pellicola

 

ha suscitato vive proteste e sdegno in molte persone, e non soltanto cattoliche di stretta osservanza, per i seguenti motivi:

a) perché dà del peccato originale e del Paradiso terrestre una visione e una interpretazione, non burlesca, ma schernevole, con grave offesa alla Bibbia e all’insegnamento tradizionale della Chiesa;

b) perché nel seguito del film sporge a piene mani la derisione sul concetto nobilmente umano e cristiano dell’amore, della donna e della famiglia, tutto riducendo a rapporti di causa e d’effetto tra piacere e capriccio;

c) perché le donne che agiscono nel film, a cominciare dalla protagonista stessa sono presentate in abbigliamenti scandalosamente ridotti e atteggiamenti sguaiati;

d) perché nello svolgimento del film abbondano i doppi sensi, le frasi e le allusioni oscene e scandalose.

 

E suggerendo esplicitamente al Ministero di avvalersi dell’art. 14 del regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923.

Detto fatto: Adamo ed Eva viene ritirato di circolazione e sottoposto a revisione straordinaria il 19 dicembre. La Commissione presieduta da Andreotti, «ritenuto che il soggetto del film, la sua impostazione ed il suo intero svolgimento appaiono chiaramente offensivi della credenza religiosa popolare e, come tali, contrari all’ordine pubblico; che scene ed episodi essenziali costituiscono offesa evidente alla morale, al buon costume ed alla pubblica decenza» esprime parere contrario alla proiezione in pubblico, revocando il nulla osta1. E alla Lux – che inizialmente aveva pensato di ricorrere al Consiglio di Stato2 – non resta che rimontare completamente la pellicola, eliminando la cornice ambientata in Paradiso e approntandone una nuova: Macario è Adamo Rossi, un parrucchiere per signore che non crede all’amore della sua commessa Eva. Da un battibecco tra i due partono, rievocati dall’uomo, gli episodi storici che formano il cuore del film. E alla fine, anziché domandare il permesso al pubblico di mordere la mela, Adamo chiederà di poter sposare la donna. Il responso della revisione, avvenuta il 22 febbraio 1950: «trattasi di un mediocre film. La Commissione, non avendo riscontrato elementi censurabili, ha espresso parere favorevole».

 

 

1 In Parlamento alcuni deputati (i comunisti Antonio Giolitti, Bruno Corbi e Luciana Viviani) e il senatore socialista Amilcare Locatelli, presentano interrogazioni sull’accaduto, chiedendo «se è vero che influenze estranee hanno consigliato il provvedimento».

2 «Cinema» n. 30, gennaio 1950, dove si ipotizza anche che sia stata una segnalazione del vescovo di Bergamo a provocare il riesame.

 

 

n. 6868

Alessandro Nevski/Aleksandr Nevskij (Aleksandr Nevskij)

Urss 1938, b/n

 

R: Sergej M. Ėjzenštejn; s, sc: Sergej M. Ėjzenštejn, Pjotr Pavlenko; fo: Eduard Tisse; mt: Sergej M. Ėjzenštejn, Esfir Tobak; mu: Sergei Prokof’ev.

Int: Nikolaj Cerkasov (Aleksandr Nevskij), Nikolaj Ochlopkov (Vasili Buslai), Andrei Abrikosov (Gavrilo Oleksich), Dimitrij Orlov (Ignat), Varvara Massalitinova (Amelfa Timoferevna), Vera Ivashova (Olga Danilovna), Aleksandra Dalinova (Vasilisa).

Prod: Mosfilm.

Revisione: 30.12.1946 (3058 m), respinto: 31.7.1948.

Riedizione: 26.11.1949 (3035 m), respinto: 13.12.1949.

III edizione: (v.o. sott.) 17.3.1960 (2721 m), approvato: 24.3.1960 (n.o. 31310); (v.it): 21.6.1960 (2721 m), approvato: 26.6.1960 (n.o. 32219).

Homevideo: General Video (DVD, Italia), Criterion (DVD, Usa).

 

Russia, prima metà del XIII secolo. Il paese è invaso a sud-est dalle orde mongole, e ad ovest dai cavalieri teutoni. Un uomo, sfuggito alla distruzione del proprio villaggio, racconta sulla piazza di Novogorod la crudeltà degli invasori. La popolazione chiama in soccorso Aleksandr detto Nevskij, discendente del principe Riurik, che ha già battuto in battaglia gli svedesi. Nevskij, che ha rifiutato l’invito dei mongoli ad unirsi a loro, accetta la chiamata del popolo russo: forma reparti di volontari e si prepara alla battaglia decisiva. In un primo tempo, nonostante la bravura tattica di Aleksandr, i teutoni hanno la meglio, ma la battaglia sul lago ghiacciato dei Ciudi termina con il trionfo dell’esercito russo. A Novgorod si festeggia, e Nevskij arringa il popolo, invitando chiunque a venire in Russia purché in pace, mentre «chi viene con la spada morirà di spada».

 

Per Stalin, il progetto Aleksandr Nevskij ha il valore di una consacrazione: un canovaccio epico, il più grande regista vivente dietro la cinepresa, le musiche composte appositamente da Prokof’ev. E Ėjzenštejn tornato in patria dopo il chiacchierato viaggio in Occidente, e visto con sospetto da Stalin che aveva bloccato Il prato di Bežin, è seguito nella lavorazione da un funzionario del regime. Il risultato è ligio alle esigenze del realismo socialista, in primis il culto della personalità, con al centro del film una figura d’eroe (il principe Nevskij, trasformato da monaco guerriero in eroe laico) anziché una massa, e numerosi rimandi al presente: il discorso finale di Nevskij è un chiaro monito alla Germania nazista. Ėjzenštejn, per una volta esecutore di lusso, mette il freno alle sperimentazioni e alle lungaggini (concluderà le riprese con cinque mesi d’anticipo) e si pone al servizio del «piccolo padre». L’enorme successo in patria e la propaganda autocelebrativa che frutterà al cineasta l’Ordine di Lenin non scacciano le perplessità su un «capolavoro annunciato» a uso e consumo del regime. «Non esiste forse film che nella sua splendida riuscita formale sia più falso e manieristico» scriverà Giovanni Buttafava1, che definisce la celeberrima sequenza della battaglia sul lago ghiacciato «il disumano, sterminato tempo di una sinfonia accademicamente studiata nei minimi effetti orchestrali […] Il più grande successo pubblico di Ėjzenštejn è anche, in un certo modo, la sua più grande sconfitta».

Il film arriva nel nostro Paese, il titolo italianizzato in Alessandro Nevski, il 30 dicembre 1946, in edizione originale, per iniziativa della Sovexport Film di Mosca. La revisione ha però luogo in data 31 luglio 1948, con esito sfavorevole. L’opera viene ripresentata il 26 novembre 19492: nel verbale originario la IV Commissione, in data 13 dicembre, esprime parere favorevole purché siano eliminate alcune scene che «appaiono di particolare crudeltà: a) il massacro della popolazione ed in particolare dei bimbi di Pskov; il ratto delle donne [la sottolineatura è nell’originale, N.d.A.]; l’uccisione degli uomini e l’impiccagione di un notabile; b) le scene della distruzione della tenda, il massacro dei sacerdoti e la morte del cardinale; c) l’incitamento di Nevski alla vendetta ed il successivo linciaggio dei due prigionieri». In allegato, nel giudizio della Commissione stessa si legge: «film a carattere storico in cui si avverte l’abile regia di Eisenstein [sic!]. Questi, tuttavia, in alcuni punti si è lasciato prendere la mano dalla retorica falsando la realtà storica per giungere a porre sulla scena i soliti motivi di propaganda». In un appunto per il Direttore Generale in cui viene segnalato il parere favorevole condizionato, si legge una nota di pugno del Sottosegretario: «vada in appello». E, in un nuovo verbale riscritto ad hoc, il parere da favorevole muta in contrario «in quanto vi appaiono scene particolarmente truci e ripugnanti ed inoltre viene falsata la realtà storica per scopi di propaganda». Una coda che suggerisce la motivazione reale del provvedimento.

Aleksandr Nevskij torna all’esame dei censori il 17 marzo 1960, in versione originale con sottotitoli italiani, per iniziativa della Cinelatina. Si tratta di una nuova edizione ampiamente modificata, con tagli per ben 383 m (quasi 14’)3. La Commissione, visionata la pellicola il 23 marzo 1960, esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico. Pochi mesi dopo Aleksandr Nevskij viene presentato in revisione per la prima volta in versione doppiata: si tratta della medesima versione accorciata, che viene revisionata il 25 luglio 1960 ottenendo il nulla osta.

 

 

1 Giovanni Buttafava, Il cinema russo e sovietico, (a cura di Fausto Malcovati), Biblioteca di Bianco & Nero-Marsilio, Venezia 2000, pp. 80-81.

2 Nel frattempo vengono autorizzate occasionali proiezioni gratuite e a scopo culturale, organizzate dall’associazione italiana per i rapporti culturali con l’Urss.

3 La Cinelatina indica il metraggio originario in 3044 m, stima in realtà differente sia dalla versione del 1948 (3058 m) sia di quella dell’anno successivo (3035 m).

 

 

n. 7047

424 milioni per l’Unità

Italia 1950, b/n

 

R: non indicata; op: Giorgio Merli, Spartaco Maggi, Giorgio Orsini.

Prod: Libertas Film.

Revisione: 4.1.1950 (684 m), respinto: 9.1-19.2.1950.

 

Documentario sulle varie manifestazioni per la Festa dell’Unità (organo del Partito Comunista Italiano). In particolare le riprese si soffermano sulla festa di Firenze.

 

Documentario di circa 25’ presentato al vaglio della censura dalla Libertas Film. Respinto il 9 gennaio 1950 «ai sensi dell’art. 3 lett. b) e c) del R.D. 24 settembre 1923, n. 3287, presentando il film scene che possono incitare all’odio di classe e sovvertire l’ordine pubblico». La condanna è confermata in sede d’appello.

 

 

n. 7048

Via della libertà

Italia 1950, b/n

 

R, s: Sergio Grieco; op: Carlo Carlini, Giorgio Merli.

Prod: Libertas Film.

Revisione: 4.1.1950 (652 m), respinto: 9.1-19.2.1950.

 

Storia del movimento operaio dal 1912 ai giorni nostri.

 

Secondo Mino Argentieri, nel ricapitolare la storia del PCI a scopo divulgativo, il film di Grieco, prodotto dalla Libertas Film, «è il più agile di quella tornata» di cortometraggi propagandistici dell’immediato dopoguerra. «Il regista raggranella cinecronache e fotografie, sovraimpressioni e scritte in movimento, e con alcuni dettagli di mani e piedi, di divise e di oggetti (il materiale plastico), ricostruisce il Tribunale speciale e la cospirazione antifascista. Ma il rimando all’Unione Sovietica e al primo piano quinquennale è agiografico, il disegno storiografico semplificato, le omissioni incalcolabili. Il PCI e l’Urss sono riguardati con una visione eroica ed enfatica delle lotte contro il fascismo. Più che apporti alla conoscenza, il film ne reca a una mitologia intarsiata in riferimenti elementari, anche se non privi di calore».1

Presentato in censura il 4 gennaio 1950 assieme al precedente 424 milioni per l’Unità, è parimenti bocciato in I grado e in appello: la Commissione vi riscontra «elementi che possono turbare l’ordine pubblico e provocare incitamento all’odio di classe».

 

 

1 Mino Argentieri, L’immagine del Pci nel cinema di propaganda, «Cinema 60», n. 165, settembre-ottobre 1985, p. 30.

 

 

n. 7079

Accadrà ancora? (Will It Happen Again?)

Usa 1948, b/n

 

R: Dwain Esper; sc: Jean Oser, Doris Reichhart; mt: Jean Oser; mu: Edward Craig; narr: George Bryan, Phillip Stahl.

Prod: American Film Producers, Inc.

Revisione: 9.1.1950 (1655 m), respinto: 25.1-19.2.1950.

Homevideo: Sinister Cinema (DVD-r, Ntsc, Usa, 88’).

 

Una storia del Nazismo dall’elezione di Hitler a cancelliere alla seconda guerra mondiale fino al processo di Norimberga, realizzata con materiale di repertorio.

 

Dwain Esper (1892-1982) è una figura a suo modo leggendaria nella storia del cinema indipendente americano. Definito «il padre della moderna exploitation», è un tuttofare della settima arte: dirige e produce in proprio opere a bassissimo costo, spesso scritte dalla moglie Hildegarde, e si occupa del montaggio e della distribuzione, portando in giro di città in città le sue pellicole, caratterizzate da un tono moralistico di condanna alle atrocità o pruderie che nel frattempo però mostrano.

Will It Happen Again? è un tipico documentario a sensazione alla Esper, che a botta calda confeziona un excursus sul nazifascismo, riciclando rozzamente materiale da altre fonti con scarso riguardo all’obiettività storica e un’enfasi sospetta sulle atrocità di guerra: oltre ai filmini casalinghi di Hitler e Eva Braun, c’è spazio per filmati di campi di concentramento e immagini del cadavere di Mussolini a piazzale Loreto. Non manca il fervorino finale anticomunista, con spezzoni di una parata nella Piazza Rossa e il titolo originale sovraimpresso a fare da monito. Negli Usa fu distribuito con una manciata di titoli pruriginosi ad hoc (Love Life of Adolph [sic!] Hitler, Hitler’s Strange Love Life, The Strange Loves of Adolf Hitler: l’amore, spiega il narratore, è per il potere), guadagnandosi un’acida segnalazione da «Variety»1. Esper lo rieditò anni dopo con l’aggiunta di materiale su Mao.

In Italia il film è sottoposto alla III Commissione di revisione in edizione originale, il 9 gennaio 1950, con un metraggio accertato di 1655 m (poco meno di un’ora, quasi un terzo in meno della versione tuttora reperibile sul mercato homevideo statunitense). E viene respinto il 25 gennaio 1950 «in quanto presenta fatti e scene che possono turbare l’ordine pubblico», probabilmente anche con riferimento alle immagini di piazzale Loreto. La compagnia distributrice Telefilm, richiedendo l’esame della Commissione d’Appello, sottolinea che «il film è stato programmato nelle Americhe con notevole successo» e si dichiara disponibile a ogni tipo di modifica nel metraggio e nel commento narrato. Ciò però non vale a far mutare idea alla Commissione, che in data 19 febbraio conferma il giudizio di I grado.

 

 

1 «Il titolo scelto [Love Life of Adolph Hitler] è dozzinale e sensazionalistico. Senza dubbio stimolerà l’interesse dei clienti abituali delle grindhouse, ma le altre sale lo rifiuteranno.» («Variety», 3 marzo 1948, p. 3).

 

 

n. 7417

La nuova terra

Italia 1950, b/n

R: Anthony Simmons.

Prod: Libertas Film.

Revisione: 2.3.1950 (776 m), respinto: 6-27.3.1950.

 

Documentario dedicato alla Bulgaria, composto di vari brani di repertorio. Dopo alcuni cenni storici, vengono mostrati alcuni aspetti della resistenza contro il tedesco invasore. Ci si sofferma poi sulla rinascita della Bulgaria e sull’organizzazione democratica dei settori dell’artigianato e dell’agricoltura.

 

Documentario della Libertas Film della durata di circa 28’. Presentato in censura il 2 marzo 1950, viene respinto in I grado e in appello (6 e 27 marzo 1950): il parere contrario alla programmazione in pubblico è motivato «in quanto il commento contiene frasi che possono perturbare l’ordine pubblico».

 

 

n. 7732

Maya

Francia 1949, b/n

 

R, sc: Raymond Bernard; s: Simon Gantillon; fo: André Thomas; mt: Charlotte Guibert; mu: Georges Auric.

Int: Viviane Romance (Bella), Marcel Dalio (lo steward), Jean-Pierre Grenier (Jean), Jacques Castelot (Ernest), Valéry Inkijinoff (Cachemire), Philippe Nicaud (Albert), Louis Seigner (il contadino), Robert Hossein.

Prod: Isarfilm.

Revisione: 18.4.1950 (2100 m), respinto: 19.4.1950.

 

Bella, soprannominata Maya (illusione), è una prostituta in una città di mare, che dà ai marinai l’illusione d’essere la donna dei loro sogni. Quando Jean, un uomo di mezz’età, crede di ritrovare in lei una ragazza amata in gioventù da cui s’era separato e le propone di fuggire insieme, Bella vede nell’uomo l’occasione per abbandonare la propria sordida esistenza, e lo asseconda. Ma le sue speranze si riveleranno vane.

 

Nata Pauline Ortmans, già Miss Parigi nel 1930, con pellicole come La bandera (1935) e La bella brigata (1936) di Duvivier, Napoli terra d’amore (1937) di Genina e Rosa di sangue (1939) di Jean Choux, Viviane Romance (1912-1991) fu una delle dive francesi più popolari tra le guerre, spesso in ruoli di vamp, mangiauomini o prostituta; ma nonostante la sua popolarità oltreoceano non girò mai a Hollywood. Dopo la guerra la sua stella si appanna, e la Romance diventa produttrice di se stessa. Basato su una vecchia leggenda marinara, Maya è una pellicola su misura per la diva: dirà di lei il regista Raymond Bernard: «è molto raro che un’attrice sia riuscita a disincarnarsi fino a lasciarsi completamente abitare da un personaggio. Viviane arriva a rinunciare deliberatamente agli artifizi più comuni come ai più sottili di quella che si è soliti chiamare “l’arte dell’attrice”». Negli anni successivi la ritroveremo in L’uomo, la bestia e la virtù (1953) al fianco di Totò, mentre il suo ultimo ruolo al cinema è in Sterminate Gruppo Zero (1974) di Chabrol.

Maya arriva in censura in edizione originale il 18 aprile 1950, presentato dalla Lux Film. La III Commissione presieduta da Gianni De Tomasi, che lo revisiona il giorno seguente, sancisce che «pur giovandosi di una buona interpretazione e di un’ottima fotografia, è essenzialmente, nella sua tormentata vicenda, di carattere immorale» e lo boccia «in quanto riproduce scene e fatti offensivi del pudore e della morale». Maya resta inedito in Italia.

 

 

n. 7733

Autant en emporte l’histoire - La vie privée d’Hitler et d’Eva Braun

Francia 1949, b/n

 

R: Jacques Willemetz; mt: Victor Grizelin, Jacques Willemetz; mu: Edward Craig; narr: Jean Marin.

Prod: Olympic Films, Les Film Jacques Willemetz.

Revisione: 19.4.1950 (2000 m), respinto: 26.4.1950.

Homevideo: Lcj (DVD, Francia).

 

Documentario sull’ascesa e caduta del regime nazista, dagli anni ’20 al processo di Norimberga.

 

Benché accreditato a Jacques Willemetz, curiosa figura di produttore attivo nel dopoguerra (con titoli come Il segreto di Elena, Il letto rosa, Operazione tre gatti gialli) il cui nome spunta anche in Il gattopardo (direttore del doppiaggio per la versione francese) e Nella profonda luce dei sensi, Autant en emporte l’histoire - La vie privée d’Hitler et d’Eva Braun altro non è che un rimontaggio francese di Will It Happen Again? di Dwain Esper, di cui Willemetz deteneva i diritti in Francia, con una diversa voce narrante. Al di là dell’ironico titolo che fa il verso a quello francese di Via col vento (Autant en emporte le vent), restò celebre il poster originale, un disegno di Eva Braun che, prona su un letto, legge il Mein Kampf reggendo la testa mozza di Hitler con la sinistra.

Il film è sottoposto alla Commissione di revisione in data 19 aprile 1950, in edizione originale, dalla società modenese A.S.T.R.A.: verrà respinto il 26 aprile, con l’identica motivazione riservata alla pellicola gemella, ossia la potenziale turbativa dell’ordine pubblico, e resterà inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 7794/8181

Siero della verità/Fenomeni dell’inconscio

Italia 1950, b/n

 

R: Piero Lamperti.

Int: Nino Di Maggio.

Prod: Cinecultura.

Revisione: 3.5.1950 (800 m), respinto: 8-25.5.1950.

Riedizione: 7.7.1950 (1240 m), respinto: 10.7.1950-18.5.1951.

 

«Conferenza del Prof. Gabrici sul subcosciente (siero della verità) e l’incosciente (medianità) preceduta da una disquisizione sulla psiche umana accompagnata da disegni che illustrano nel nostro cervello la sede ricettiva delle percezioni sensorie e trasmittenti delle manifestazioni psichiche controllate dalla coscienza e non controllate per anestesia della coscienza stessa prodotta dal pentothal e da una concentrazione cosiddetta medianica.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

A proposito di Siero della verità, presentato in revisione nel maggio 1950, il presidente della IV Commissione scrive: «trattasi di un lungometraggio scientifico in cui vengono mostrati esperimenti col “siero della verità” ed alcune sedute medianiche». Dato l’argomento (scene di esperimenti ipnotici e medianici), la Commissione esprime parere contrario alla programmazione in pubblico ai sensi dell’art. 3 lett. d) R.D. 24 settembre 1923, n. 3287. Dalla domanda d’appello della società produttrice Cinecultura (8 maggio 1950), si evince che di fatto il film consiste nell’unione, per comodità di programmazione, di due distinti mediometraggi dal titolo Siero della verità ed Espressioni medianiche. L’appellante chiede che entrambi siano autorizzati ad essere proiettati in pubblico, «quanto meno in spettacoli esclusivamente culturali».

La Commissione di II grado, revisionato il film, esprime parere favorevole alla programmazione della prima parte Siero della verità, bocciando invece nuovamente Espressioni medianiche, in quanto riproduce fenomeni medianici. Vale la pena spendere due parole su questo lavoro diretto da Piero Lamperti e dedicato al medium Nino Di Maggio, un giovane milanese che vanta anormali facoltà di percezione extrasensoriale. Per bocca del sensitivo, parlano tale Aram, glottologo inglese del XVIII secolo, un poeta senese del ’400 (Di Maggio aveva anche pubblicato un libretto, Espressioni medianiche di Nino di Maggio. Le poesie di Ser Brunetto, contenente appunto le poesie «dettategli» dal poeta), il fisico napoletano cinquecentesco Giovanni Battista della Porta, il martire cristiano Claudio da Siracusa, una bambina uccisa da un bombardamento nel 1944. La voce fuori campo mette però in guardia, sottolineando che non è detto trattarsi di anime dall’aldilà, ma possibilmente di un’ispirazione «trasmessa sia dall’inconscio dello stesso soggetto, colpito da lontane impressioni, apparentemente dimenticate o ataviche, sia da menti terrene, che pensano alla personalità cui il soggetto s’ispira e la immaginano così come Nino Di Maggio la riproduce».

Espressioni medianiche viene rimontato e ripresentato in censura il 7 luglio 1950 col titolo Fenomeni dell’inconscio. Nonostante le rassicurazioni del produttore Mario Villa, secondo il quale il rimontaggio è stato fatto in modo da escludere «ogni e qualsiasi ombra di “medianità”» in modo da non incappare nell’ art. 3 lett. d) del R.D. n. 3287/1923 – il cappello introduttivo si rifà a una precedente «cine-conferenza» di Lamperti, dedicata al siero della verità, e cerca di confondere le acque paragonando il cervello a una stazione radio ricevente e trasmittente, mentre nella sinossi nella domanda di revisione si legge «descrizione degli encefalografi e del cervello umano in rapporto ai fenomeni di ispirazione dell’inconscio in seguito ad annullamento della coscienza per concentrazioni psichiche» – il mediometraggio, revisionato il 10 luglio, viene bocciato proprio ai sensi del suddetto articolo in quanto «si presentano sullo schermo dei fenomeni medianici e psichici». Villa non demorde e il 24 luglio presenta domanda d’appello. Ma il giudizio non muta: il 18 maggio 1951 la Commissione di II grado, «constatato ch’esso contiene la riproduzione di fenomeni ipnotici e medianici», esprime analogo parere contrario alla programmazione.

 

 

n. 8042

They Were Sisters

Gb 1945, b/n

 

R: Arthur Crabtree; s: dal romanzo di Dorothy Whipple; sc: Roland Pertwee, Katherine Strueby; fo: Jack E. Cox; mt: A. Charles Knott; mu: Hubert Bath.

Int: Phyllis Calvert (Lucy Moore), James Mason (Geoffrey Lee), Hugh Sinclair (Terry Crawford), Anne Crawford (Vera Sargeant), Peter Murray-Hill (William Moore), Dulcie Gray (Charlotte Lee), Barry Livesey (Brian Sargeant).

Prod: Gainsborough Pictures.

Revisione: 14.6.1950 (3136 m), respinto: 19.6.1950.

Homevideo: Odeon (DVD, Uk).

 

Nel periodo tra le due guerre mondiali, tre sorelle conducono vite assai differenti: Vera, frivola e viziata, si sposa senza amore e passa da un uomo all’altro; Charlotte è vittima di un marito crudele che maltratta lei e i figli; la saggia Lucy fa da madre alle altre due ed è l’unica ad avere un matrimonio felice. Dopo la morte di Charlotte, di cui il marito Geoffrey è indirettamente responsabile, anche la famiglia di Vera si sfascia. Lucy, impossibilitata a generare figli, si occupa di quelli delle sorelle.

 

Dal romanzo di Dorothy Whipple, «la Jane Austen del XX secolo» secondo J. B. Priestley, assai popolare in patria tra le due guerre, They Were Sisters – prodotto da una compagnia specializzata in drammi in costume – è il tipico melodramma destinato a un pubblico femminile: le tre sorelle protagoniste incarnano vari tipi femminili, e l’intento moralistico della pellicola è mettere in guardia sui pericoli di un atteggiamento troppo servile o al contrario indipendente.

Non la pensa tuttavia così la commissione di censura, che in data 19 giugno respinge il film di Crabtree (presentato in censura il 14 giugno 1950 in edizione originale) in quanto «presenta una vicenda nella quale appaiono sviluppi morbosi ed immorali». They Were Sisters resta inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 8094

Clochemerle

Francia 1948, b/n

 

R: Pierre Chenal; dal romanzo di Gabriel Chevallier; sc: Gabriel Chevallier, Pierre Laroche; fo: Robert Lefebvre; mu: Henri Sauguet.

Int: Félix Oudart (curato Ponosse), Saturnin Fabre (Bourdillat), Jean Brochard (Pléchut), Maximilienne [Henriette Adeline Genty] (Justine Putet), Roland Armontel (istitutore Tafardel), Jane Marken (baronessa di Courtebiche).

Prod: Cinéma Productions.

Revisione: 5.10.1950 (2600 m), respinto: 10.10-30.12.1950.

Riedizione: 22.3.1954 (2403 m), respinto: 27.3-9.4.1954.

 

Nel piccolo villaggio francese di Clochemerle, dopo la fine della prima guerra mondiale, sono in lizza alle elezioni due partiti, i radicali e i progressisti. Con la vittoria di questi ultimi, per dimostrare l’efficienza del nuovo consiglio comunale il sindaco ordina di costruire un vespasiano così da evitare l’imbrattamento dei muri. Nascono però due fazioni contrapposte, una delle quali desidera l’abbattimento dell’opera. Nel paese il clima s’arroventa e la stampa fa scoppiare il caso, al punto che interviene il governo inviando truppe a ristabilire l’ordine. Alla fine gli animi si riappacificano e la pace ritorna a Clochemerle.

 

Trasposizione del romanzo satirico di Pierre Chevallier (poi adattato nel 1972 in una miniserie della BBC con un cast prestigioso), il film di Chenal viene presentato in edizione originale dalla Magic Pictures. Tra i bersagli di Chevallier vi sono la politica (le due fazioni che si combattono prima a suon di propaganda – la costruzione del vespasiano come simbolo di una politica «del fare» – poi passando ai fatti), la religione (la figura del curato Ponosse), i costumi, in un crescendo farsesco che non risparmia le istituzioni.

La Commissione, il 10 ottobre, esprime parere contrario alla programmazione «trattandosi di un soggetto lesivo del pudore, della morale e del buon costume, infarcito di scene offensive della pubblica decenza». Nell’appunto per il Sottosegretario, il Presidente della II Commissione scrive: «il film vuole essere una forte satira della vita di provincia. Esso, però, si ispira ad un soggetto lesivo del pudore, della morale e del buon costume. Realizzato con spinte vivacità e volgare umorismo, esso è infarcito di scene offensive della pubblica decenza. Anche il dialogo è spesso poco corretto. Per i suesposti motivi la Commissione ha espresso parere contrario alla pubblica programmazione della pellicola».

La Magic presenta appello il 9 novembre, facendo presente di avere effettuato modifiche alla versione originale e confermando la propria disponibilità ad apportare modifiche sia ai dialoghi che alle scene. In calce a un appunto del D.G. che gli chiede di fissare il giorno e l’ora della revisione, il sottosegretario Ermini scrive di suo pugno: «appena potrò – purtroppo è così difficile ai francesi tenersi lontani da certe prese di posizione!». Il 30 dicembre 1950 la Commissione di II grado conferma il giudizio della precedente, «trattandosi […] di un soggetto lesivo del pudore, della morale e del buon costume, infarcito di scene offensive della pubblica decenza».

Clochemerle è ripresentato in revisione dalla Atlantisfilm tre anni dopo, il 23 ottobre 1953, sempre in edizione originale: la società presenta domanda d’appello e sostiene di avere effettuato rilevanti tagli per eliminare le scene che in qualche modo possono offendere la moralità e il buon costume. «Il film viene ripresentato nella sua edizione francese, con i tagli sopra indicati, poiché il doppiaggio in lingua italiana verrà effettuato dopo che l’on. Commissione avrà dato il suo parere» si legge nella domanda.

In un appunto per il D.G., in cui sono riassunte le vicende censorie dell’opera, si legge che «i giudizi espressi dalle Commissioni di revisione di I e II grado sono tali da far ritenere che, anche con sensibili variazioni, il film non possa aver valutazione favorevole nella eventuale revisione».

L’iter seguito non è però corretto: l’Atlantisfilm presenta nuova domanda di revisione (22 marzo 1954). Curiosamente, se nella descrizione originaria del soggetto si parlava della costruzione di un vespasiano evitando però l’aspetto di satira politica (la contrapposizione tra le fazioni radicale e progressista da cui prende il via la storia), nella sinossi allegata alla nuova domanda viene accuratamente evitata la menzione della funzione dell’edificio «di cui non si sentiva la necessità» che fa da fulcro alla vicenda. L’Atlantis si premura di specificare che il dialogo italiano, già predisposto, «è naturalmente completamente diverso sia nella forma che nella sostanza da quello originale, avendo dato all’opera cinematografica altro significato sostanzialmente diverso da quello primitivo» e prega i commissari di non tenere in nessun conto la colonna sonora originale («ci permettiamo suggerire di passarla muta») ma solo i «dialoghi modificati in modo da non offendere nessuna sensibilità».

Ma la Commissione, che lo revisiona il 27 marzo 1954, boccia nuovamente Clochemerle con motivazione pressoché identica alla precedente, «trattandosi di un soggetto lesivo del pudore, della morale e del buon costume, contenente scene offensive della pubblica decenza».

Presentando appello, l’Atlantis enumera nel dettaglio le modifiche apportate, che riguardano tanto le scene quanto soprattutto i dialoghi. In dettaglio:

 

1) modifica nel contenuto e nella sostanza di quanto esprime lo speacker [sic!].

2) modifica nella forma e nella sostanza dei dialoghi dei quali è stato addirittura cambiato il significato dando all’opera cinematografica un indirizzo completamente diverso […].

3) abolizione di tutte le frasi di sapore forte.

4) accorciamento di tutte le scene riguardanti l’inaugurazione del… monumento [sic!].

5) accorciamento delle scene di reazione da parte dei bevitori.

6) taglio di tutte le scene un po’ piccanti.

7) abolizione delle scene di violenza in Chiesa.

8) tagli limitati in quasi tutte le scene.

9) montaggio ex novo di alcune scene.

10) abolizione di tutte le scene ove il curato Ponosse possa anche minimamente dar adito a critiche. Non rimane che la umana figura dello stesso che è quella di un buon curato di campagna.

11) abolizione della scena del telegrafo ove il curato Ponosse telegrafa all’Abate Jouffe.

12) alleggerimento delle scene tra i soldati e i civili.

 

In conclusione, sottolinea il distributore,

 

al film è stato dato un significato completamente diverso da quello originale, lasciando tutto […] su un piano di satira politica in cui i dialoghi e le azioni non vanno oltre una cortina di arguzia e di critica. Nel complesso non solo non ci siamo limitati ad abolire talune espressioni e a sostituirne altre, non solo abbiamo cercato di equilibrare la situazione in modo che essa non offenda nessuna sensibilità, ma abbiamo modificato le battute dalla prima all’ultima sopprimendo tutte le scene che potessero anche lontanamente offendere la morale.

 

Tutto ciò non è comunque sufficiente: il parere contrario di I grado è confermato il 9 aprile dalla Commissione d’Appello presieduta dal sottosegretario Ermini. Clochemerle resta inedito in Italia.

 

 

n. 8110

I fatti di Celano

Italia 1950, b/n

 

R: Fabio De Agostini; fo: Leopoldo Piccinelli.

Prod: Libertas Film.

Revisione: 26.6.1950 (148 m), respinto: 28.6-18.7.1950.

 

Documentario sui funerali dei due contadini uccisi il 30 aprile 1950 nell’«eccidio di Celano».

 

Il 30 aprile 1950, nella piazza centrale di Avezzano, in provincia dell’Aquila, ha luogo un raduno di popolo per celebrare la vittoria contro il principe feudatario Torlonia: da tempo i braccianti del Fucino rivendicano il diritto al lavoro e l’applicazione dell’imponibile di mano d’opera ottenuto nel 1947, e dal febbraio di quell’anno si sono organizzati in uno «sciopero alla rovescia», una forma di protesta in cui i contadini lavorano per migliorare le condizioni dei latifondi, riparando le vecchie mulattiere e scavando canali di irrigazione. I braccianti ottengono l’imponibile, ma il prezzo che pagano è sanguinoso. Quella sera stessa nella piazza della vicina Celano, mentre i braccianti attendono di conoscere i turni di lavoro dell’indomani, le guardie di Torlonia, spalleggiate dai fascisti, sparano sulla folla. Sull’asfalto della piazza restano due morti, Antonio Berardicurti e Agostino Paris. L’imboscata dà il via a un’azione repressiva contro i lavoratori del Fucino, molti dei quali vengono arrestati, processati e condannati. La protesta però continua, fino a quando il 1 marzo 1951 viene pubblicato il decreto per la legge stralcio sul Fucino, che prevede l’esproprio del latifondo e l’assegnazione ai contadini che l’avevano in affitto.

Il cortometraggio (di soli 148 m, ossia circa 5’ e mezzo) documenta gli eventi del giorno successivo, il pellegrinaggio della popolazione locale e di delegazioni di tutta Italia alla camera ardente, mentre il commento riporta le parole del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio, che chiede: «Perché i lavoratori non possono vivere sereni, sicuri del loro lavoro?».

I fatti di Celano è presentato alla Commissione di I grado il 26 giugno 1950. In un appunto al Direttore Generale dello Spettacolo si legge che «sia nelle scene che nelle didascalie non vi sono elementi che possano giustificare la non approvazione. Il Rappresentante del Ministero dell’Interno ha però insistito che il documentario stesso fosse respinto per il fatto che la semplice rievocazione dei fatti può essere un motivo tale da provocare disordini». La Commissione dà quindi parere contrario, confermato in data 18 luglio in sede d’appello.

 

 

n. 8207

La mano nera/La legge del silenzio (Black Hand)

Usa 1950, b/n

 

R: Richard Thorpe; s: Leo Townsend; sc: Luther Davis; fo: Paul Vogel; mt: Irvine [Cotton] Warburton; mu: Alberto Colombo.

Int: Gene Kelly (Giovanni E. «Johnny» Columbo), J. Carrol Naish (Louis Lorelli), Teresa Celli (Isabella Gomboli), Marc Lawrence (Caesar Xavier Serpi), Frank Puglia (Carlo Sabballera), Barry Kelley (Capitano Thompson), Robert Blake (Enrico)

Prod: Metro-Goldwyn-Mayer.

Revisione: 12.9.1950 (2523 m), respinto: 5.7.1951.

Riedizione: 9.12.1955 (2232 m), approvato: 15.12.1955 (n.o. 20438 - 2205 m - v.m.16).

 

New York, 1908. Dopo avere denunciato alla polizia un’estorsione subita dalla Mano Nera, l’immigrato Roberto Columbo viene ucciso. La vedova Maria riporta il figlio Giovanni in Sicilia, e il bambino giura vendetta. Da adulto, Giovanni torna a New York, e cerca di convincere gli immigrati terrorizzati dalla Mano Nera a formare una lega per difendersi, aiutato dal detective Louis Lorelli. Quest’ultimo viene però ucciso quando si reca a Napoli per cercare informazioni negli archivi della polizia italiana, ma fa in tempo a spedire a Johnny un documento con i nomi dei capi dalla Mano Nera. Johnny viene catturato, ma riesce a sconfiggere i capi dell’organizzazione criminale.

 

Uno dei primi film hollywoodiani sulla mafia, vagamente ispirato alla figura di Joe Petrosino: l’impianto drammaturgico è ingessato, in una New York ricreata in studio, e i personaggi sono poco convincenti, nonostante l’impegno di Kelly (peraltro non molto in parte nel ruolo dell’immigrato italiano) e Naish.

La MGM italiana presenta la pellicola nel settembre 1950 in versione doppiata, col titolo La Mano Nera: ma la Commissione la revisiona solo nel luglio 1951, ed esprime parere contrario a maggioranza alla programmazione in pubblico in quanto l’opera riproduce scene, fatti e soggetti contrari alla reputazione e al decoro nazionale (n. 8207 del 5 luglio 1951). Il rappresentante del Ministero dell’Interno è d’avviso, invece, che il film può essere programmato a condizione dell’eliminazione di alcune battute e del cambiamento del titolo.

Le battute incriminate (tre) riguardano ovviamente i riferimenti all’Italia: 1) «Credono che noi altri non siamo fatti come loro. E cosa si legge infatti nei giornali di noi italiani? Che siamo degli assassini e sappiamo fare solo i manovali o i lustrascarpe, che non siamo capaci di fare niente altro. Che cosa scriveranno i giornalisti qui presenti sui giornali di domani? Teste impaurito si rifiuta di deporre. Vuoi che sia così?». 2) «Alla salute delle questure di Napoli, Italia… Lo sai, gli avrò mandato due o trecento telegrammi in vent’anni… Chissà com’è successo che a uno hanno risposto… dovrei mandare nome e dati di tutti gli italiani di tutta New York… chissà!». 3) «Questi “mangiaspaghetti”». Secondo gli altri membri della Commissione, invece, «la semplice soppressione delle battute di cui sopra, non avrebbe mitigato il tenore denigratorio di cui è permeato tutto il lavoro», stante la rappresentazione della comunità italiana come centro di omertà e delinquenza.

La MGM (in lettera datata 4 gennaio 1952) chiede lumi alla Direzione Generale della Cinematografia, sostenendo che il film era stato visionato in via preventiva in edizione originale ottenendo il via libera al doppiaggio, e dichiarandosi disposta ad apportare variazioni al dialogo o a scene del film. Sebbene puntualizzi che «il predetto film non era stato revisionato in edizione originale e pertanto la Metro ha equivocato, dichiarando nella sua precedente lettera, che il film stesso era stato sottoposto alla censura preventiva», in una lettera indirizzata al D.G. dello Spettacolo si sostiene che «questo Ufficio ritiene che con opportune modifiche il film in parola possa circolare».

Passeranno quattro anni prima che la pellicola di Thorpe arrivi sugli schermi italiani, con il titolo La legge del silenzio: la nuova versione, sensibilmente più breve della precedente, è ripresentata dalla MGM il 27 novembre 1955. Il doppiaggio ha mitigato i riferimenti negativi all’Italia, e spostato l’omicidio del poliziotto Lorelli interpretato da J. Carroll Naish da Napoli a Cuba (e i sicari da italiani diventano latinoamericani). Il film, coi tagli suddetti, è approvato dalla Commissione riunitasi il 14 dicembre, con divieto ai minori di 16 anni «in quanto presenta alcune scene impressionanti per i minori», previi ulteriori tagli. Le richieste della Commissione riguardano momenti giudicati troppo violenti, con una palese eccezione:

− Attenuare la scena in cui si vede il brigadiere morto e quella della coltellata al padre di Johnny Columbo.

− Nella scena che si svolge tra Johnny Columbo ed il sarto togliere i fotogrammi riproducenti l’azione di Johnny Columbo che punta il coltello sul collo del sarto stesso.

− Togliere la scena in cui viene percosso il bambino.

− Togliere i fotogrammi in cui si vede l’insegna con la scritta «Sestini Macellaio».

− Attenuare nella scena finale i fotogrammi seguenti il lancio del coltello da parte di Johnny Columbo.

 

 

n. 9201

No Orchids for Miss Blandish

Gb 1948, b/n

 

R, sc: St. John Legh Clowes; s: dal romanzo di James Hadley Chase; fo: Gerald Gibbs.; mt: Manuel del Campo; mu: George Melachrino.

Int: Jack La Rue (Slim Grissom), Hugh McDermott (Dave Fenner), Linden Travers (Miss Blandish), Walter Crisham (Eddie Schultz), MacDonald Parke (Doc), Danny Green (Flyn).

Prod: Renown Pictures.

Revisione: 27.10.1950 (2780 m), respinto: 20.1.1951.

Homevideo: Simply Media (DVD, Gb).

 

L’ereditiera Miss Blandish viene rapita da un paio di scalcagnati delinquenti, per poi passare nelle mani dello spietato gangster Slim Grissom e della sua famiglia. Grissom si innamora di Miss Blandish, e per far sì che la donna si assoggetti alle voglie di Slim, la madre la fa drogare da un vecchio medico. La polizia rintraccia il covo dei Grissom, ma Slim e Miss Blandish riescono a fuggire. Verranno raggiunti e circondati: Slim è ucciso dalla polizia, e la donna, in stato alterato dalle droghe, si uccide.

 

La prima trasposizione cinematografica del romanzo hard-boiled di James Hadley Chase1 – condannato da più parti all’uscita nel 1939 per l’enfasi su sesso e violenza, difeso da George Orwell che lo definì «un brillante esempio di scrittura», divenne il libro più letto tra le forze armate inglesi durante la seconda guerra mondiale – fu una delle pellicole britanniche più controverse degli anni ’40. Già nel 1942 ne era stato preparato un adattamento teatrale, e nel 1944 alla BBFC era stato sottoposto un copione, rigettato e presentato nuovamente nell’ottobre di quell’anno dopo drastiche revisioni. Il progetto rimane nel cassetto per quattro anni, fino a quando, approfittando di un clima più liberale in seno al comitato di censura britannico, una nuova sceneggiatura – con notevoli cambiamenti rispetto al romanzo – viene presentata e approvata.

All’uscita il film di Clowes – peraltro piuttosto brutto e rozzo, zeppo di attori inglesi che cercano goffamente di imitare inflessioni americane – diventa un caso celebre in patria. La BBFC (che lo esamina il 23 febbraio 1948) gli affibbia una «A» (per adulti), previi minimi tagli, per via della violenza e dell’allusione allo stupro ai danni di Miss Blandish (Linden Travers, già interpretate del ruolo a teatro) sotto l’effetto di droghe. Nessuno immagina il polverone che seguirà, in un paese dove l’opinione pubblica è in fermento dopo la decisione di sospendere per cinque anni la pena capitale, scossa dai timori di un’escalation criminale e di violenza giovanile. La stampa attacca il film con un’ostilità virulenta, culminante in una lettera aperta alla BBFC della giornalista Elizabeth Dilys Powell, secondo cui No Orchids for Miss Blandish dovrebbe essere marchiato con una «D» come «disgustoso», mentre il «Monthly Film Bulletin» scrive: «questa è la più nauseabonda esibizione di brutalità, perversione, sesso e sadismo che sia mai stata mostrata sullo schermo… è una svista straordinaria da parte della BBFC che a questa mostruosità sia stata concesso il nulla osta per la proiezione in pubblico con la “A”, il che significa che gli adolescenti e i ragazzini più determinati saranno in grado di vederlo». Si uniscono alla mattanza il vescovo di Londra e numerosi politici, vari consigli locali ne sanciscono il bando, e alcuni giungono a richiedere un’indagine sui metodi di lavoro della BBFC. Dapprima i censori si difendono come possono («Per quel che ci concerne, è un normale film di gangster, non più brutale di tanti realizzati a Hollywood»)2, ma alla fine il responsabile della commissione di censura inglese, Sir Sidney Harris, è costretto a chiedere pubblica ammenda per «non aver saputo proteggere il pubblico».

In Italia No Orchids for Miss Blandish è presentato in edizione originale dalla Artisti Associati il 28 ottobre 1950. La III Commissione, che lo revisiona il 20 gennaio 1951, non ha dubbi: «Trattasi di film che, dal principio alla fine, fa assistere a scene ripugnanti per l’efferatezza dei numerosi delitti commessi e per le continue violenze in esso rappresentate», si legge nell’appunto per il Sottosegretario di Stato. Il parere contrario è motivato «in quanto il film stesso riproduce fatti ripugnanti e di crudeltà e delitti e suicidi impressionanti». La Artisti Associati rinuncia all’appello, e la pellicola resta inedita da noi.

 

 

1 Altre tre ne sarebbero seguite: Grissom Gang (1971) di Robert Aldrich; Un’orchidea rosso sangue (1975) di Patrice Chéreau; nonché il televisivo Emmenez-moi au théatre: Pas d’orchidée pour Miss Blandisch (1978) di Claude Barma, basato sull’adattamento teatrale di Frédéric Dard.

2 James Crighton Robertson, The Hidden Cinema: British film censorship in action, 1913-1975, Routledge, Oxford 1993, p. 95.

 

 

n. 9524

La Rue (Gatan)

Svezia 1949, b/n

 

R: Gösta Werner; s: dal romanzo Birger Jarlsgatan di Nils Idström; sc: Mårten Edlund; fo: Sten Dahlgren; mt: Ragnar Engström.

Int: Maj-Britt Nilsson (Britt Malm), Peter Lindgren (Berrtil «Berra» Wiring), Keve Hjelm (Rudolf «Rulle» Malm), Naemi Briese (Vera «Gullan» Karlsson), Stig Järrel (Sven Andreasson), Åke Fridell (Gustaf Persson).

Prod: Kungsfilm.

Revisione: 20.2.1951 (2295 m), respinto: 26.2.1951.

 

La giovane orfana Britt, cresciuta dagli zii, è da loro costretta a lavori umili e faticosi. Dopo aver conosciuto un uomo di cui si innamora, fugge a Stoccolma, dove diventa l’amante del losco Berrtil, che la induce a prostituirsi. Dopo l’arresto di quest’ultimo, Britt cerca di rifarsi una vita sposando un bravo ragazzo: ma Berrtil esce di prigione e la spinge nuovamente sul marciapiede. Staccatasi finalmente da Berrtil, Britt torna dal marito, che la respinge: disperata, la donna trova la morte travolta da un’auto.

 

Gösta Werner (1908-2009) è stato uno dei registi più longevi della storia del cinema, dai trascorsi di documentarista e con all’attivo una filmografia sparuta ma spalmata lungo oltre cinquant’anni di attività, dietro la macchina da presa o alla cattedra dell’Università di Stoccolma, dove insegnava cinema.

Tratto da un romanzo di Nils Idström, all’epoca Gatan ebbe buone recensioni in patria, per l’interpretazione della Nilsson, che di lì a poco avrebbe lavorato con Bergman in Verso la città (1950), Un’estate d’amore (1951) e Donne in attesa (1952), e per lo stile di regia, che utilizza anche scene documentaristiche di una retata a danno di vere prostitute. La distributrice Capital Pictures presenta il film per la revisione, in versione doppiata, il 20 febbraio 1951. Giudicato «cupo e disperato, ambientato nelle più immorali sfere della vita», La Rue viene respinto dalla IV Commissione con decisione datata 26 febbraio 1951 in quanto offensivo del pudore, della morale e del buon costume. E resta inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 9543

Odette l’agente S/23 (Odette)

Gb 1950, b/n

 

R: Herbert Wilcox; s: dal libro di Jerrard Tickell; sc: Warren Chetham Strode; fo: Max Greene [Mutz Greenbaum]; mt: Bill Lethwaite; mu: Anthony Collins.

Int: Anna Neagle (Odette Sanson/Marie/Lise), Trevor Howard (Capitano Peter Churchill/Raoul), Marius Goring (Colonnello Henri), Bernard Lee (Jack), Peter Ustinov (Tenente Alex Rabinovich/Arnauld), Maurice Buckmaster (se stesso).

Prod: London Film.

Revisione: (v.o.) 21.2.1951 (3180 m); respinto: 23.2.1951; (v. it.) 3.10.1952 (3118 m), approvato: 2.12.1952 (n.o. 12879).

Homevideo: (DVD, Gb).

 

Dopo l’uccisione del marito in un’azione di guerra, Odette – una francese emigrata in Gran Bretagna – è reclutata come agente segreto e paracadutata nella Francia occupata per lavorare con l’operatore radio Alex Rabinovich e col capitano Peter Churchill. A causa del suo lavoro per la Resistenza francese, Odette viene arrestata e torturata dal colonnello Henri della Gestapo, ma si rifiuta di rivelare informazioni: viene allora rinchiusa in un campo di concentramento. Ma l’arrivo delle truppe americane la salva da morte certa. Tornata in Inghilterra, Odette sposa Peter Churchill e viene premiata con un medaglia al valore.

 

Il film di Wilcox, che racconta la storia di Odette Churchill, una delle più valorose spie della seconda guerra mondiale, ha vita travagliata nel nostro Paese, fin da quando viene rifiutato dalla Mostra di Venezia del 1950 per il contenuto offensivo di alcune scene che coinvolgono militari italiani. Per lo stesso motivo, presentato in revisione in edizione originale il 21 febbraio 1951 dalla Anglo American Film, ottiene parere favorevole «a condizione che siano eliminate le scene in cui appaiono soldati italiani (alpini) che stazionano fuori dall’albergo mentre si provvede all’arresto di Odette». Le nostre truppe compaiono anche nella scena successiva, in cui la protagonista è condotta nell’ufficio del comandante del campo di prigionia di Annecy, gestito dagli alleati italiani (la versione originale contiene un breve scambio di battute tra il comandante e due sottoposti).

Tuttavia, in un appunto per il sottosegretario Andreotti del 16 marzo 1951, il D.G. De Pirro obietta alla concessione dei nulla osta richiesti, «in quanto risulta che la edizione inglese proiettata a suo tempo in Gran Bretagna e in altri Paesi era fortemente offensiva per l’esercito italiano». Andreotti si dichiara d’accordo, e il nulla osta viene sospeso. Odette rimane nel limbo ministeriale per oltre un anno, nonostante le sollecitazioni del distributore italiano.

Quanto segue ha i contorni di una piccola crisi diplomatica. Wilcox protesta, e insiste perché venga concesso il visto, denunciando il grave danno economico conseguente; la London Film, nella persona di J. Peter Moore, scrive a De Pirro su insistenza del regista, il quale addirittura vorrebbe appellarsi ai funzionari dell’Ambasciata inglese a Roma, e minaccia di ricorrere a vie ufficiali. «Come Lei ricorderà, le obiezioni sollevate a suo tempo credo dal Dott. Scicluna della On. le Presidenza del Consiglio, si limitavano a due sole scene del film, scene che in primo tempo tagliai io stesso di mia iniziativa e che ora sono state di nuovo incluse nel film stesso perché Lei possa vederlo nella sua versione originale» scrive il produttore inglese in data 4 gennaio 1952.

De Pirro fa orecchie da mercante, e intima a Scicluna Sorge di comunicare a Moore che «non per ostacolare un film inglese, che [sic!] anzi i film inglesi sono da noi favoriti, ma perché le ragioni, che non permisero l’uscita del film a suo tempo, sussistono ancora non è il caso di insistere».

Ma a fare pressioni su De Pirro è anche il presidente dell’associazione dei produttori britannici Sir David Cunningham, anche alla luce di un possibile accordo italo-britannico sulle co-produzioni. E la London Film torna alla carica: prima è il responsabile della casa Taddei a scrivere al D.G. («posso contare sulla tua amicizia?»), quindi è la volta di Moore perorare con veemenza la propria causa presso Gianni De Tomasi, rievocando «le varie fasi della montatura fattasi attorno al film Odette, perché trattasi effettivamente di una montatura» (da una lettera del 16 ottobre 1952).

La vicenda assume i caratteri del tipico scaricabarile. Emerge che De Pirro, visionato personalmente il film, non vi ha trovato gli estremi per un giudizio sfavorevole. Il D.G. passa l’incartamento con il copione originale e l’adattamento italiano a Scicluna Sorge, il quale – scrive Moore – dichiara «che il pezzo incriminato era talmente irrilevante da destare le sue meraviglie per il chiasso che si era fatto intorno a questo affare».

Nel frattempo De Pirro sottopone la questione ad Andreotti:

 

Ho incaricato il Dr. Scicluna di revisionare il film nella sua edizione originale. Il Dr. Scicluna mi riferisce ora che effettivamente nel film vi sono brevissime scene nelle quali appaiono ufficiali e soldati italiani, in zona occupata francese […] collaborare con i tedeschi nella cattura di agenti inglesi. Le brevi scene, più che offensive non sono «simpatiche», ma non tali da farci persistere nel nostro atteggiamento. Comunque data la loro brevità, facilmente eliminabili. In considerazione pertanto della personalità di Sir Cunningham e per il fatto che la sospensione per un anno del visto, è stata sufficiente sanzione alle eventuali intenzioni «malevole» degli autori del film, in tutta coscienza propongo all’E.V. di voler autorizzare la programmazione del film nell’edizione purgata delle brevissime scene incriminate, come a suo tempo proposto dalla Commissione di Censura» (appunto del 23 luglio 1952).

 

Nella risposta manoscritta siglata da Andreotti si legge: «In materia di suscettibilità di questa specie non vorrei che si ripetesse – al verso opposto – la faccenda Rommel1. Desidero vedere il film, insieme a Leoni e al rapp. Dell’interno».

In seguito al parere favorevole di Scicluna e alle rassicurazioni di De Pirro, la London Film fa doppiare la pellicola per ripresentarla in censura il 3 ottobre 1952. Passate otto settimane senza risposta alcuna, Moore scrive un’altra lettera dal tono un po’ scocciato (12 novembre). Dopo un nuovo esame del film e ricevuti i chiarimenti dei produttori, in un appunto del 26 novembre, il D.G. De Tomasi propone nuovamente al Sottosegretario di autorizzarne la proiezione, previa purga delle brevissime scene incriminate. Nella risposta si legge: «le obbiezioni [sic] erano fondate sulle informazioni avute da Venezia – dove il film non fu accettato – circa una scena in cui nostri ufficiali non facevano buona figura. Visto e rivisto il film non si sono riscontrati gli estremi per un ulteriore divieto: il film aspetta ormai da due anni».

Tutto è bene quel che finisce bene: il sospirato nulla osta (n. 12879) arriva il 2 dicembre 1952, a condizione che la famigerata scena con gli alpini fuori dell’albergo venga eliminata.

 

1 Si fa riferimento a Rommel la volpe del deserto (1951) di Henry Hathaway, oggetto di polemiche da parte delle sinistre per la supposta glorificazione della figura di Rommel. Nell’intervento del sen. Cappellini del 10 giugno 1952, il rappresentante del Pci attacca Andreotti facendo riferimento al film di Hathaway: «Non solo si cerca di far prevalere gli elementi cosmopolitici dei fasulli film basati su una mentalità meschina ed idiota e sulla via di rinnovare i fasti dei telefoni bianchi dell’epoca fascista, ma si dà il via ai film fascisti e alle opere di propaganda di guerra. Si permette la proiezione di Rommel la volpe del deserto, che esalta la figura del massacratore e forse per questo, secondo lei, onorevole Andreotti, non “turba i buoni rapporti internazionali”.»

 

 

n. 9575

Ultima tappa/L’ultima tappa (Ostatni etap)

Polonia 1948, b/n

 

R: Wanda Jakubowska; s, sc: Wanda Jakubowska, Gerda Schneider; fo: Bension Monastyrsky; mu: Roman Palester.

Int: Tatjana Gorecka (Eugenia), Antonina Gordon-Gorecka (Anna), Barbara Drapinska (Marta Weiss), Aleksandra Slaska (sovrintendente del blocco femminile), Barbara Rachwalska (Elza), Wladyslaw Brochwicz (comandante di Auschwitz), Halina Drohocka (Lavinia).

Prod: P.P. Film Polski.

Revisione: (v.o.) 13.2.1951 (2380 m), respinto: 17.3.1951; approvato condizionatamente: 18.5.1951; (v. it.) 21.11.1951, approvato: 30.11.1951 (n.o. 10975).

Homevideo: Polart (DVD, Usa).

 

Marta Weiss arriva con un convoglio di deportati al campo di concentramento di Auschwitz, dove le viene assegnato il ruolo di interprete. Assieme alla dottoressa Eugenia e all’infermiera Anna, Marta cerca di assistere e difendere le compagne dai maltrattamenti delle aguzzine. Eugenia, sacrificatasi per far conoscere gli orrori di Auschwitz, è sostituita da Lavinia, che sottrae le medicine agli ammalati per rivenderle. Scoperta e scacciata, si vendica accusando Anna, che verrà torturata. Quando gli alleati si avvicinano ad Auschwitz, Marta riesce a fuggire, portando i piani per la distruzione del campo ai partigiani polacchi: ma viene ripresa e condannata all’impiccagione. Al momento di salire sul patibolo una mano le passa un coltello, e Marta si taglia le vene. Prima di morire lancia alle compagne un messaggio di speranza, mentre dal cielo arrivano i paracadutisti alleati.

 

Basato sull’esperienza della regista Wanda Jakubowska nel campo di concentramento di Auschwitz e girato in parte nei luoghi reali della vicenda, Ultima tappa arriva in Italia per iniziativa della Herald Pictures, a tre anni dalla sua realizzazione, nel febbraio 1951. La Commissione, che lo revisiona il 17 marzo in edizione originale, esprime parere contrario alla proiezione in quanto il film contiene scene truci e ripugnanti. Nel giudizio contenuto nell’appunto per il Sottosegretario si legge: «trattasi di un film di scarso valore artistico, la cui vicenda è avvolta quasi sempre, per il suo tono violento, in un’atmosfera da incubo». Una decisione in linea con l’atteggiamento dei commissari nei confronti di pellicole che rievocano una ferita ancora aperta quale è il nazismo.

La Herald presenta ricorso (7 aprile), obiettando che

 

1) Il film è stato proiettato con enorme successo di critica e di pubblico in quasi tutte le principali città degli Stati esteri trattandosi di produzione di classe artisticamente molto elevata e quindi al di sopra di ogni bassa speculazione commerciale […]. 2) Nel film non figura alcuna scena riguardante le uccisioni in massa nelle camere a gas né altre scene di eccessiva crudeltà. L’esposizione degli orrori avvenuti nel campo di concentramento è fatta in maniera equilibratissima e molto limitata. 3) In altri film del genere e nelle varie pubblicazioni a stampa i crimini commessi nei campi di concentramento sono stati esposti in maniera assai più cruda e realistica. 4) [in maiuscolo e rosso in originale, N.d.A.] Il film è stato prodotto sotto l’alto patronato dell’ufficio cinematografico dell’O.N.U. e quindi è da escludersi in modo assoluto che il film stesso possa avere altre finalità che non siano umanitarie e morali. 5) il rifiuto della concessione del visto ha già danneggiato enormemente la distribuzione del film.

 

La seduta d’appello ha luogo il 18 maggio: la Commissione esprime un parere positivo condizionato, ritenendo che debbano modificarsi numerose battute di dialogo, indicate con riferimento alle pagine dei dialoghi in italiano allegati alla domanda, e, «in generale, eliminare tutte le scene truci e ripugnanti, sopprimendo, in particolare, quelle della iniezione letale praticata ai bambini, della tortura alla donna e della donna chiamata fuori dai ranghi ed uccisa», riservandosi di concedere il nulla osta dopo ulteriore del film con le modifiche indicate.

Le autorità polacche si muovono attraverso i canali diplomatici per sollecitare il nulla osta. Il 18 giugno l’addetto culturale all’ambasciata polacca a Roma Maria Baranowicz fa pervenire a De Pirro copia del documento con cui l’ONU, nella persona di Jean Benoit-Levy, informa d’avere fornito il suo alto patronato al film1, e il delegato della direzione generale della cinematografia polacca Jan Korngold chiede udienza al D.G., ma senza risultato.

Il film viene ripresentato il 21 novembre 1951, in versione doppiata e col titolo L’ultima tappa, dalla ditta Donato Fratelli: oltre ai tagli sopraindicati, anche il dialogo, secondo Mino Argentieri, ha risentito di parecchie alterazioni, con l’eliminazione a ogni accenno alle truppe sovietiche, che hanno liberato il campo il 27 gennaio 1945.2 Finalmente, in data 30 novembre, la Commissione d’Appello concede il nulla osta al film della Jakubowska.3

 

 

1 Il testo della lettera di Benoit-Levy, direttore esecutivo del consiglio cinematografico delle Nazioni Unite, indirizzata a Korngold e datata 20 dicembre 1948: «Cher monsieur, J’ai le plaisir de vous informer que suivant votre demande le Conseil du Cinéma des Nations Unies, au course de la séance du 17 Décembre dernier, a accordé son patronage au film produit par votre organisation intitulé “La Dernière Etape”. Je suis heureux de vous transmettre cette décision qui répond au vif désir que j’avais de voir reconnue la valeur morale et artistique de cette oeuvre. Veuilles agréer, Cher Monsieur, l’assutance de mes sentiments trés dévoués».

2 Mino Argentieri, La censura nel cinema italiano, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 100.

3 Nel 1961 il film risulta in programmazione presso alcuni cinema col titolo Ultima tappa della Gestapo: la SIAE fa presente la cosa al Ministero, che non ha concesso alcuna autorizzazione al cambiamento del titolo.

 

 

n. 9809

La vittoria del popolo cinese (Pobeda kitaiskogo naroda)

Urss 1950, col.

 

R: Leonid Varlamov; fo: Ivan Lukinskij.

Prod: Studio dei documentari di Mosca e di Pechino.

Revisione: 13.4.1951 (2632 m), respinto: 24.4.1951-1.9.1953.

 

Documentario sui vari aspetti della guerra civile in Cina e sulla costituzione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Tipico documentario di propaganda dell’epoca staliniana: il regista, Leonid Varlamov, era uno specialista di questi prodotti «girati con spericolato patriottico entusiasmo dagli operatori combattenti, poi montati senza inutili formalismi e a volte con commovente immediatezza»1, avendo realizzato (con Il’ja Kopalin) un film sulla battaglia di Mosca e uno su Stalingrado.

Sottoposto a revisione il 13 aprile 1951 dalla Libertas Film, La vittoria del popolo cinese è bocciato (24 aprile) «poiché trattasi di un film costituito da avvenimenti che possono turbare i buoni rapporti internazionali ed essere di incentivo all’odio fra le classi sociali, nonché sovvertire l’ordine pubblico». L’11 maggio 1951 la Libertas Film presenta domanda di appello, ma la Commissione di II grado conferma integralmente il giudizio precedente, in data 1 settembre 1953, ossia a quasi un anno e mezzo di distanza. Con buona pace delle «vive premure» espresse nelle reiterate sollecitazioni della ditta.

 

 

1 Buttafava, Il cinema russo e sovietico cit., p. 83.

 

 

n. 9896

Comacchio piange

Italia 1951, b/n

 

R: Fabio Pittorru; fo: Antonio Sturla.

Prod: Padus Film.

Revisione: 30.4.1951 (158 m), respinto: 4.1.1952.

 

Cortometraggio sulla cerimonia funebre del bracciante Antonio Fantinuoli a Comacchio, sul delta del Po.

 

Prima regia di Fabio Pittorru, poi giallista di successo e sceneggiatore in coppia con Massimo Felisatti, Comacchio piange è un breve corto (5’30’’) incentrato sul funerale di un bracciante, revisionato dalla Commissione svariati mesi dopo la sua presentazione in censura e respinto poiché contenente scene che possono turbare l’ordine pubblico.

Da una scorsa al commento nulla fa intendere che Antonio Fantinuoli fosse un sindacalista ucciso, come in realtà avvenne, durante uno sciopero. Ma il documentario, senza farne mai menzione, mostra le misere condizioni di vita e lavoro dei braccianti, che diedero spinta alle lotte sindacali («più di 15.000 abitanti si dividono i frutti di 6115 ettari di terra. Terra ancora da bonificare, concimata solo dal sudore dei braccianti il cui guadagno non supera le 70-80 mila lire l’anno»). E la voce narrante si sofferma sulla parola «compagni»: «questi erano i compagni di Antonio Fantinuoli, compagni di lavoro, di fatica, di speranza» i quali, «deposto dalle spalle gli strumenti dei campi, le reti della pesca» hanno imbracciato le «grandi bandiere della solidarietà umana […] le bandiere della Bassa» che «assieme a quelle di tutta Italia per le strade silenziose di Comacchio accompagnano» il funerale del bracciante, a suggerire una processione di bandiere rosse. Visione, nonostante il bianco e nero, decisamente sgradita ai commissari.

 

 

n. 10176

Bar di porto

Italia 1951, b/n

 

R, sc: Pierluigi Muti, Cornelio Peragallo; fo: Cornelio Peragallo.

Prod: Filcor.

Revisione: 2.7.1951 (270 m), respinto: 3-15.7.1951.

 

Cortometraggio di 9’50” circa girato a Genova, che però, a detta degli esordienti realizzatori, «non ha un carattere strettamente documentario» sui bar del porto ligure, ma piuttosto cerca di rendere «la psicologia dell’ambiente in generale, dovunque vi sia un grande porto». La Commissione respinge il film in data 3 luglio 1951, ai sensi dell’art. 3 lett. a) del R.D. n. 3287/1923 («scene, fatti e soggetti offensivi del pudore, della morale, del buon costume e della pubblica decenza») dato il particolare ambiente rappresentato. Il co-regista Muti non si dà per vinto: il 10 luglio inoltra domanda di revisione e il 5 agosto scrive una lettera alla Direzione dello Spettacolo affinché la Commissione d’Appello esamini con particolare indulgenza il cortometraggio, adducendo la propria scarsa esperienza come causa di «una errata valutazione dei normali criteri di censura», e dichiarandosi disposto ad apportare modifiche. Troppo tardi: la Commissione di II grado, presidente Giulio Andreotti, ha già confermato il giudizio negativo di I grado in data 15 luglio.

 

 

n. 10246

Valzer celeste (Der himmlische Walzer)

Austria 1949, b/n

 

R, s, sc: Géza von Cziffra; fo: Ludwig Berger; mt: Henny Brünsch, Arnfried Heyne; mu: Alois Melichar; scen: Fritz Jüptner-Jonstorff.

Int: Elfie Mayerhofer (Angelika), Paul Hubschmid (Hans Lieven), Inge Konradi (Beate), Curd Jürgens (Clemens Weidenauer), Paul Kemp (Spaatz), Gretl Schörg (Lillian Lord).

Prod: Cziffra-Film.

Revisione: 14.7.1951 (2348 m), respinto: 16.7-28.8.1951.

Riedizione: 26.3.1952 (2274 m), respinto: 28.5.1952; approvato: 30.6.1952 (n.o. 11705).

 

Gli angeli sono in rivolta: non vogliono più portare le solite vesti. Uno di essi, l’ingenua Angelika, scende sulla Terra per esaminare i costumi da angelo che uno stilista sta preparando per una rivista teatrale. Per un equivoco, lo stilista strappa le ali ad Angelika, che perde le sue prerogative, e non potrà riacquistarle finché non avrà compiuto una buona azione. In seguito ad altri equivoci Angelika viene scambiata per un’aspirante attrice: il giovane Hans, musicista e compositore, la assolda come cantante per una sfilata, e Angelika viene scritturata come protagonista della rivista. Per aiutare Hans, il quale deve comporre un valzer, Angelika chiama a soccorso Strauss dal cielo: il grande compositore scrive per lei il «Valzer celeste». La rivista è un trionfo. Compiuta la buona azione aiutando Hans, Angelika può tornare in cielo: ma sceglie di restare col giovane, di cui è innamorata.

 

Il musical di von Cziffra, interpretato dalla soprano e attrice Elsie Meyerhofer, ha un plot molto simile al celebre Giù sulla terra di Alexander Hall, dove però il tema era adattato alla mitologia greca, con la discesa sulla Terra della musa Tersicore (Rita Hayworth). Tutto molto ingenuo e fatuo, il tipico film scacciapensieri adatto a un pubblico che vuole dimenticare per un paio d’ore le macerie del presente. Ma le vicende dell’angelo Angelika non piacciono affatto ai commissari che revisionano il film, presentato in versione doppiata dall’Italcine, il 16 luglio 1951: Valzer celeste viene bocciato perché «offensivo del sentimento religioso».

La Italcine, incredula, presenta appello (21 luglio), facendo notare che «il film già da mesi viene proiettato regolarmente in Francia, Austria e Germania, dove nessuna censura ha menomamente ravvisato un qualsiasi estremo di vilipendio a qualsiasi religione», e obiettando che in nessun modo la pellicola di von Cziffra contrasta col Comma VII del Codice della Cinematografia, in materia di religione.1

Intervengono anche la legazione austriaca, richiamandosi all’opportunità di mantenere scambi cinematografici tra Italia e Austria, e il presidente dell’associazione degli industriali della Provincia di Trieste Bruno Coceani («è zucchero d’orzo. Una favola candida, condotta con garbo, inoffensiva. […] La mancata approvazione destò veramente un senso di pena» scrive al Sottosegretario). Ma le pressioni non hanno effetto: in data 28 agosto la Commissione d’Appello, presieduta da Andreotti, conferma il parere negativo di prima istanza. Sul cattolico «Il Quotidiano» la notizia della bocciatura definitiva viene accompagnata da un commento di calorosa approvazione all’operato della Commissione, dove si esprime la speranza che l’esempio serva a rendere i produttori più rispettosi e cauti.

Valzer celeste torna in revisione nel marzo 1952: la Italcine afferma di avere effettuato rifacimenti tali da eliminare i rilievi delle commissioni. Senonché, come precisa De Pirro in un appunto per il Sottosegretario di Stato datato 18 aprile,

 

visionato tale film, si è però rilevato che la Ditta distributrice si è, in sostanza, limitata a far dire allo speaker, in veste di autore, la seguente presentazione del film stesso: «Un angolo remoto del Cielo; questo l’inizio della fiaba, una fiaba ingenua, romantica, assurda, se volete, ma eterna, una fiaba di tutti i tempi… un coro di graziose fanciulle, fanciulle con alette, si capisce, perché dicevo, si presuppone che la vicenda in parte si svolga in cielo… angeli? Chiamiamole pure angeli… tutte le belle fanciulle sono degli angeli… anche se gli angeli non sono argomenti da cinema… fanciulle, come tutte le fanciulle di questo nostro buon mondo… un po’ bizzose e capricciose… Ma ecco, guardate, guardate la più ardita…». Per il resto il film è rimasto quasi del tutto uguale alla primitiva edizione, compresi i riferimenti al Paradiso, a S. Pietro, agli angeli ecc.

 

D’altra parte» si osserva, «far precedere un film, sul quale la Commissione aveva avanzato le sue riserve, dalla semplice affermazione che esso deve essere considerato come una favola, può essere una soluzione troppo comoda e pericolosa da accettare, in quanto certamente costituisce un precedente che sarebbe adottato in situazioni analoghe, impostando tutto su presunti sogni, favole ecc.». Le preoccupazioni sopra espresse si basano sul comportamento precedente delle Commissioni, «che sono state molto severe nel vietare qualsiasi argomento che potesse comunque suonare poco riverente per il sentimento religioso» nei casi di pellicole quali Adamo ed Eva, Marakatumba… ma non è una rumba, e Totò e i re di Roma.

Ragion per cui, conclude il D.G., «avendo constatato che il film non può essere considerato nella attuale fattura come una nuova edizione ed avendo anzi riscontrato in esso gli stessi estremi per cui venne respinto […] ritiene di non poter esprimere un nuovo giudizio che altererebbe, tra l’altro, la decisione della superiore Commissione d’Appello».

Il D.G. sottolinea che l’approvazione di Valzer celeste da parte del Centro Cinematografico Cattolico con la classifica “adulti con riserva”» non fa venire meno le preoccupazioni in merito, «specie in considerazione delle eventuali valutazioni che potranno essere fatte dai produttori nazionali e più ancora per la eventuale valutazione di simili ripieghi, per presentare pellicole non del tutto ortodosse dal punto di vista religioso».

Di conseguenza, il Sottosegretario comunica agli interessati che i tagli e le modifiche non sono sufficienti e che pertanto anche alla nuova edizione si nega il nulla osta.

La Italcine presenta ricorso, e ancora una volta l’ambasciata d’Austria esprime vive premure presso il Ministero degli Affari Esteri per la sorte della pellicola. Allo stesso Ministero si rivolge la Sezione del Ministero Federale per il Commercio e la Ricostruzione. In una nota del D.G. Affari Economici alla Sezione Spettacolo, dal titolo «Difficoltà all’importazione di film austriaci in Italia», datata 23 maggio, si fa presente la situazione di Valzer celeste, allegando il parere della Katholische Filmkommission für Österreich, che ha ammesso il film seppure per adulti. Il D.G., dal canto suo, conferma che «nella nuova edizione questo nulla osta può essere concesso con tutta tranquillità essendo stato il film approvato dal Centro Cattolico Cinematografico».

Detto fatto: la pellicola ottiene finalmente parere favorevole alla proiezione in pubblico, in data 30 giugno 1952.

 

 

1 Qui di seguito il comma VII del suddetto Codice:

«Religione – 1) In nessun film può essere messa in ridicolo una qualsiasi fede religiosa. 2) I riti, le cerimonie, i precetti e i costumi di una qualsiasi religione debbono essere rappresentati con fedeltà e rispetto. 3) I ministri di ogni religione, nell’esercizio della loro missione, o nelle azioni comunque connesse con l’esercizio stesso, non debbono essere presentati come persone ridicole o malvagie. 4) La profanazione di luoghi o oggetti sacri, la bestemmia, le imprecazioni e i gesti o le parole che offendono la divinità sono proibite».

 

 

n. 10345

Il Re

Italia 1951, b/n

 

R: Massimo Di Massimo.

Prod: Massimo Di Massimo.

Revisione: 30.7.1951 (552 m), respinto: 7.8.1951.

 

L’abdicazione di Vittorio Emanuele III, il referendum tra repubblica e monarchia del 2 giugno 1946, le manifestazioni di popolo a favore della monarchia a Roma e Napoli, la partenza di Umberto II dall’Italia e il suo arrivo a Cascais, la giornata del re in esilio nella sua villa della località portoghese.

 

Il giornalista e scrittore Massimo Di Massimo fu uno dei personaggi più attivi della sponda monarchica. Così lo rievocava Giovanni Semerano, segretario generale dell’Unione Monarchica Italiana: «ricordo di avere imparato molto da questo uomo piccolo di statura, occhi vivaci, grande parlatore, variopinta intelligenza. Impaginatore veloce sul bancone della tipografia tra piombi e caratteri […]. Un giornalista dalla penna facile e di piacevole lettura, stile longanesiano. Quando Aldo Salerno mi chiamò alla codirezione della sua “Azione Monarchica”, Di Massimo si unì a me e insieme stampammo il settimanale che nel formato si trasformò nel primo tabloid politico italiano».

Redattore del settimanale «Italia Monarchica», successivamente direttore del settimanale «Qui Italia» e dei mensili «Il Conservatore», «La Mandragola» e «L’Intransigente» (quest’ultimo co-diretto da Aldo Salerno), Di Massimo fondò negli anni ’50 il Movimento dei Lazzaroni del Re, raggruppato attorno a «Nazione Monarchica» (sottotitolo: «Settimanale della Rivoluzione Monarchica») e caratterizzato dall’obbedienza a un decalogo aperto dal comandamento «il Re non si discute, si serve fino al sacrificio» e chiuso con «è meglio essere affamati sotto la Monarchia che sazio sotto la repubblica»1. Fu anche il primo giornalista a intervistare il Re nel suo esilio portoghese: girò sul posto un filmato, improvvisando con una Arriflex 35mm presa a noleggio a Roma, e documentando una giornata di Umberto II nella sua villa, le passeggiate in giardino, i giochi con i bambini.

Presentato in commissione il 30 luglio 1951, Il Re si vede negare il nulla osta in data 7 agosto perché suscettibile di turbare l’ordine pubblico, ma nei mesi che seguono trova un suo attento pubblico in giro per l’Italia. In una missiva alla Direzione Generale dello Spettacolo, su carta intestata di «Nazione Monarchica», dell’agosto 1951, Di Massimo specifica che «il detto cortometraggio non è a scopo commerciale ma semplicemente a scopo privato, poiché data la Costituzione non è possibile di portarlo in pubblico». E saranno numerose le richieste di proiezioni private che pioveranno negli uffici della Direzione Generale.

Il racconto di Semerano di una proiezione romana, avvenuta il 29 giugno 1951 e autorizzata in via eccezionale dal sottosegretario Andreotti nonostante il film non avesse ancora ricevuto il nulla osta, è emblematico del clima con cui Il Re veniva accolto. «Il documentario fu proiettato a Roma [il 26 giugno 1951, N.d.A.] a un affollato pubblico, al cinema Galleria, nella Galleria Colonna, in una memorabile serata rumorosa di applausi e vivace di sventolii di tricolori con lo Stemma Sabaudo, la vera Bandiera degli Italiani. Replica dopo qualche mese [il 19 agosto al cinema Eden, N.d.A.] a Napoli, si può immaginare con quanto scrosciante entusiasmo»1.

In un appunto per Andreotti datato 5 dicembre 1952, il Direttore Generale esprime preoccupazione, in seguito alla richiesta della Federazione del Partito Nazionale Monarchico di Bolzano di poter proiettare il film in visione privata al cinema Roma il giorno 7 dicembre («posti 600» specifica il D.G.), e a un’analoga richiesta da parte delle Organizzazioni Monarchiche del Piemonte (il luogo prescelto è il cinema «Casa del Popolo» di Monastero Bormida, posti 750, per il 9 dicembre), facendo presente che «per quanto riguarda Bolzano […] l’attuale momento è particolarmente delicato essendo in corso le elezioni amministrative». In un telegramma Andreotti dà alla Questura il nulla osta alla proiezione a condizione che la visione abbia «carattere privato et gratuito con inviti strettamente personali», anziché a pagamento «per beneficenza» come inizialmente previsto. In analoghe condizioni, Il Re viene proiettato anche a Pavia (2 novembre), Voghera (30 novembre) e Vigevano, nuovamente nell’Urbe al cinema Imperiale (sempre a scopo di beneficenza, il 14 dicembre), e un’ulteriore richiesta arriva dalla Federazione del P.N.M. di Roma-provincia per una proiezione a Velletri il giorno 28 dicembre.

Siffatta attenzione attorno al cortometraggio di Di Massimo – si presenta negli uffici della direzione il Vice Segretario Generale del P.N.M. in persona, per sollecitare il nulla osta alle domande giacenti – suscita qualche preoccupazione. «Saltuariamente pervengono a questa Direzione Generale da parte di Associazioni Monarchiche richieste di nulla osta per effettuate proiezioni, a carattere privato, con inviti strettamente personali, e gratuite ed in locali autorizzati, del documentario Il Re», scrive il D.G. in un appunto per Andreotti, concludendo sibillinamente: «si sottopone quanto sopra a V.E. per le disposizioni che intenderà dare al riguardo».

Si muove il Ministero dell’Interno, che chiede al Prefetto di Pavia notizie sulla proiezione privata e a inviti che ha avuto luogo nella città lombarda. Nella risposta, il prefetto specifica quanto segue:

 

Il cinema era gremito in ogni ordine di posti: vi hanno partecipato oltre 2000 spettatori.

Prima della proiezione, presentato dal segretario provinciale del partito nazionale monarchico Ing. Rinaldi, ha parlato il sig. Nino Della, direttore del giornale «Italia Monarchica».

L’oratore ha illustrato gli avvenimenti ed il comportamento di Casa Savoia negli anni decorsi, scagionando Vittorio Emanuele III ed Umberto II da ogni colpa.

Non ha polemizzato con alcun partito politico.

Ha chiuso il suo discorso augurando la pace e la concordia in Italia ed auspicando un ritorno pacifico della monarchia, con referendum popolare.

 

Il Ministero dell’Interno si informa sul contenuto e sull’autore di Il Re, e con riservata n. 2198/7085 del 28 gennaio 1953, esprime parere contrario alla concessione di autorizzazioni alla programmazione del documentario.

In seguito a richieste successive – come quella della Federazione provinciale del P.N.M. di Pavia (22 ottobre 1953) per la proiezione in 14 comuni della provincia, dove esiste «una vivissima richiesta ed attesa per la proiezione stessa da parte di larghi strati cittadini» – viene richiesto un nuovo parere al Ministero dell’Interno, che però non dà risposta. Nel frattempo il cortometraggio è passato di mano, da Di Massimo a Nazareno Antonucci, e infine al Partito Monarchico; e tre anni dopo la situazione si ripropone, quando nel gennaio 1956 l’on. Alliata di Montereale richiede l’autorizzazione di proiettare in privato Il Re a Genova. Il sottosegretario Brusasca chiede un parere al Gabinetto della Presidenza del Consiglio: dalla documentazione ministeriale non si hanno notizie sull’esito.

Per chi volesse approfondire, una copia della pellicola dovrebbe essere tuttora conservata nell’archivio dell’Unione Monarchica Italiana.

 

 

1 «Ideato e diretto da Massimo Di Massimo nacque allora nella nostra stessa tipografia Francioni in via del Gambero il nuovo settimanale “Nazione Monarchica”, organo della rivoluzione monarchica» racconta Semerano. «Contemporaneamente Massimo costituì il Movimento dei Lazzaroni del Re. Fu un caso che il nuovo Movimento aprisse la sua sede in via Crescenzio proprio di fronte al portone del palazzo dove era l’appartamento del ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Con il ministro Di Massimo stabilì buoni rapporti e intercorsero spesso visite di cortesia. Cosi il Re veniva informato periodicamente dell’attività dei Lazzaroni che seguiva con simpatia. Di Massimo tenne un applaudito comizio al cinema Capranica di Roma per annunciare la nuova formazione e giunsero numerose le adesioni anche da tutte le parti d’Italia. I Lazzaroni del Re aderirono in seguito al Fronte di Unità Monarchica che fu costituito dagli onorevoli Tommaso Leone Marchesano e Gianfranco Alliata» (http://monarchicinrete.blogspot.it).

2 Ivi.

 

 

n. 11144

Il secondo diluvio - Chinotto Neri

Italia 1951, b/n

 

R: non indicata.

Prod: Publicitas S.p.a.

Revisione: 2.2.1952 (257 m), respinto: 28.12.1951.

 

Il breve filmato pubblicitario del celebre chinotto, presentato dalla Publicitas S.p.a., tocca, a giudicare dal titolo, un argomento a rischio quale la religione. E difatti la commissione di I grado, che lo revisiona in data 28 dicembre 1951, esprime parere contrario per la programmazione in pubblico.

 

 

n. 11431

Le acque zampillano per tutti (W Uzdrowiskach Dolnos´la¸skich)

Polonia 1950, b/n

 

R: Jadwiga Wisnowska, Zbigniew Grotowski.

Revisione: 2.2.1952 (257 m), respinto: 26.8.1953-5.6.1954.

 

Documentario su varie stazioni termali in Polonia, dove i lavoratori della Repubblica Popolare si rilassano.

 

Come altri documentari del blocco sovietico importati dalla Libertas Film, anche il destino di Le acque zampillano per tutti è segnato, benché il primo responso della Commissione di I grado, il 5 marzo 1952, sia favorevole alla proiezione in pubblico «a condizione che nella pellicola venga soppressa la scena delle lavoratrici, le quali nuotano nude in una piscina». Un responso destinato all’oblio, ché il 10 giugno 1952, nel suo intervento al senato, Egisto Cappellini denuncia lo smarrimento della pratica: «Cosa ci può essere di compromettente, di grave perché il pubblico italiano non debba avere la possibilità di vedere un film che presenta i luoghi di cura di Paesi di nuova democrazia?».

Alla Libertas non resta che ripresentare la pellicola l’anno seguente. Ma il responso della commissione di I grado, il 26 agosto 1953, stavolta è risolutamente negativo, «trattandosi di un film che sotto l’apparenza di un documentario a carattere sociale svolge in realtà una propaganda contraria all’ordine pubblico, facendo nel complesso l’apologia e l’esaltazione di altri sistemi rispetto al nostro ordinamento politico e sociale». Parere ribadito dalla Commissione di appello presieduta dal sottosegretario Ermini, il 5 giugno 1954.

 

 

n. 11513

Un palmo di terra (Talpalatnyi föld)

Ungheria 1948, b/n

 

R: Frigyes Bán; s: dal romanzo di Pál Szabó; sc: Sándor Dallos; fo: Árpád Makay; mt: Félix Máriássy; mu: Sándor Veress.

Int: Ági Mészáros (Juhos Marika), Ádám Szirtes (Góz Jóska), Tibor Molnár (Tarcali Jani), Árpád Lehotay (Zsíros Tóth Mihály), Mariska Vízváry (zia di Zsíros), István Egri (Zsíros Tóth Ferke).

Prod: Magyar Filmgyártó Nemzeti Vállalat.

Revisione: 20.2.1952 (2900 m), respinto: 7.3.1952-27.8.1953.

Riedizione: 1.3.1956, respinto: 20.3.1956.

 

1930. Innamorato di Marika, che sta per sposare un ricco proprietario terriero, Jóska la rapisce il giorno delle nozze. Il marito medita vendetta, imponendo a Jóska di rimborsare le spese sostenute per il matrimonio e assumendolo nei lavori di costruzione di un lago artificiale. Ma Jóska viene licenziato quando aggredisce il sovraintendente ai lavori che sta per stuprare Marika, incinta. Jóska si dedica a costruire un pozzo per poter coltivare un piccolo appezzamento di terra, ma la siccità mette in ginocchio lui e gli altri coltivatori, che, esasperati, distruggono gli argini del lago artificiale. Nella lotta che segue Jóska uccide accidentalmente il sovraintendente: dopo un processo sommario viene condannato a 15 anni.

 

Votato tra i 12 migliori film ungheresi prodotti tra il 1948 e il 1968 da una giuria di critici e cineasti magiari nel 1969, Un palmo di terra è il primo risultato di un’industria nazionale che ha subìto forti cambiamenti dopo i disastrosi eventi di guerra, quando l’Ungheria si era dapprincipio alleata alla Germania nazista salvo poi tentare un disastroso cambio di fronte. Nell’immediato dopoguerra, dal 1945, vengono realizzati solo 14 film, mentre i membri della coalizione di governo lottano per il controllo dell’industria cinematografica, culminato nel 1948 nella nazionalizzazione da parte del partito Comunista. Con questa mossa la produzione si adegua alle direttive di Partito, analogamente a quanto accade negli altri paesi del blocco sovietico: pellicole all’insegna del realismo sociale, tanto nello stile quanto nei contenuti, e incentrate su tematiche di lotta di classe, con proletari buoni contrapposti a capitalisti cattivi, e storie che mettono in scena la vittoria del comunismo sui nemici. È il caso del film di Frigyes Bán, che racconta con stile aspro e potente una vicenda esemplare, al punto da concludersi con un riferimento al 1945, la data in cui l’Armata Rossa conquista Budapest.

Presentato in versione doppiata in Commissione il 20 febbraio 1952 dalla Libertas Film, Un palmo di terra viene respinto tanto in I (7 marzo 1952) che in II grado (un anno e mezzo più tardi, il 27 agosto 1953). La comunicazione della bocciatura di I grado alla Libertas Film non fa neppure menzione della motivazione, suscitando l’ira del senatore Egisto Cappellini – presidente della Libertas – che prende il film a esempio delle storture della censura nel suo intervento al Senato del 10 giugno 1952.

 

Volete sapere la curiosa motivazione della Presidenza del Consiglio? Dice: «In relazione alla domanda di revisione presentata da codesta società per il film Un palmo di terra di nazionalità ungherese, si comunica che questa Presidenza, su conforme parere espresso dalla Commissione di revisione cinematografica di primo grado, non ritiene concedere il nulla osta alla programmazione in pubblico del film stesso». È questa una motivazione? Si può accettare una decisione come questa? Mi appello alla serietà dei colleghi che mi ascoltano e a coloro che fuori di questa Aula avranno la possibilità di conoscere queste cose.

 

E ad Andreotti:

 

Certi che a noi si vorranno associare tutti coloro cui stanno a cuore le sorti della cultura, ci rivolgiamo a lei, che già altre volte personalmente intervenne per reprimere simili abusi, sicuri che ad Un palmo di terra verrà resa giustizia in sede di appello, ed invitandola a farsi promotore di una riforma della Commissione di censura, in modo che, tra i suoi componenti, possano venir compresi anche dei critici cinematografici e onesti1.

 

L’appello di Cappellini resta doppiamente inascoltato. Non solo Andreotti non mette mano alla riforma auspicata, ma la Commissione d’Appello, riunitasi con l’usuale tempistica (fine agosto 1953, un anno e mezzo dalla presentazione della domanda di revisione), sottolineando l’«evidente carattere propagandistico» del film, si richiama alla lett. c) dell’art. 3 del R.D. n. 3287/1923 in quanto la pellicola costituisce «apologia di un fatto che la legge prevede come reato ed incitamento all’odio tra le classi sociali»1. Il giudizio rispecchia quello del CCC, per il quale «la questione sociale è prospettata in modo tendenzioso; mentre il ratto di una giovane sposa è considerato un atto legittimo. L’impostazione erronea fa ritenere sconsigliabile la visione del film».

La Libertas Film (nel frattempo entrata in liquidazione) fa nuova domanda di revisione il 1 marzo 1956; e dopo un’ulteriore bocciatura in I grado ripresenta il film in appello – cui nell’edizione italiana sono state apportate «notevoli e sostanziali modifiche sia alla scena che al parlato» – il 24 marzo 1956. Senza esito.

 

 

1 Atti Parlamentari - Senato della Repubblica, DCCCXXXV seduta, martedì 10 giugno 1952 (Seduta pomeridiana), p. 34518.

2 In pendenza del giudizio di II grado, la Direzione respinge la richiesta di proiezione privata e gratuita avanzata dall’Associazione Italiana per i rapporti con l’Ungheria, da effettuarsi al Teatro Eliseo di Roma il 20 dicembre 1952, con motivazione pretestuosa (il locale non è autorizzato per proiezioni cinematografiche) dalla quale non è difficile cogliere la ritrosia a far circolare il film.

 

 

n. 11629

Il cavaliere della Stella d’Oro (Kavaler zolotoj zvezdy)

Urss 1951, b/n

 

R: Julij Rajzman; s: dal romanzo di Semen Babaevskij; sc: Boris Chirskov; fo: Sergej Urusevskij; mu: Tikhon Khrennikov.

Int: Sergei Bondarchuk (Sergej Tutarinov), Anatoli Chemodurov (Semen Goncharenzko), A. Kanayeva (Irina Lyubasheva), Boris Chirkov (Kondratyev), Pjotr Komissarov (Khokhlakov), Valdimir Ratomskij (Ragulin).

Prod: Mosfilm.

Revisione: 10.3.1952 (2948 m), respinto: 8.8.1953.

 

Di ritorno al villaggio natìo dopo la fine della guerra, in cui si sono comportati eroicamente, due reduci – Semen e Sergej – si trovano inizialmente a disagio. Ma Sergej comprende presto la necessità di mettersi al servizio del Kolchoz, impegnandosi nella costruzione di una centrale elettrica e trovando l’amore di una giovane del villaggio, Irina.

 

Tipico film di propaganda staliniano, nella sua rappresentazione idealizzata della vita nei kolchoz e nella celebrazione dell’elettrificazione delle campagne compiuta nel dopoguerra, il lavoro di Julij Jakovlevicˇ Rajzman – tratto da un romanzo di Semen Petrovic Babaevskij, e presentato al Festival di Cannes del 1951 – è interpretato da Sergei Bondarchuk, il più celebre divo del cinema di regime sovietico. Giovanni Buttafava lo giudicava uno dei lavori meno riusciti di un regista spesso interessante, che con il suo Zemlja zazdet (La terra ha sete, 1929) aveva influenzato addirittura King Vidor (Nostro pane quotidiano): «le leggi della “non-conflittualità”, del trionfalismo a tutti i costi, della “laccatura” (lakirovka) della vita reale sono inflessibili, stritolano personalità di ogni genere, come appunto Rajzman, nelle sue vere corde del tutto estraneo a questi modi espressivi, costretto a […] indigesti e pomposi drammi eroici come Kavaler Zolotoj Zvezdy».1

Il cavaliere della Stella d’Oro è presentato in censura dalla Libertas Film, in edizione originale, il 10 marzo 1952: lo attende un destino simile a quello di molte altre pellicole portate in Italia dalla stessa compagnia. La Commissione di I grado, riunitasi un anno e mezzo più tardi (l’8 agosto 1953), lo boccia, «in quanto, data l’impostazione del film stesso, [esso] può turbare l’ordine pubblico».

 

 

1 Buttafava, Il cinema russo e sovietico cit. p. 91.

 

 

n. 11724

Topaze (Topaze)

Francia 1951, b/n

 

R, s, sc: Marcel Pagnol; fo: Philippe Agostini; mt: Monique Lacombe; mu: Raymond Legrand.

Int: Fernandel (Albert Topaze), Hélène Perdrière (Suzy Courtois), Jacqueline Pagnol (Ernestine Mouche), Jacques Morel (Régis Castel-Vernac), Marcel Vallée (M. Muche), Jacques Castelot (Roger Gaëtan de Bersac).

Prod: Les Films Marcel Pagnol.

Revisione: (v.o.) 12.3.1951 (3900 m), approvato: 14.5.1951 (n. 9945); (v.it.)  29.3.1952 (2845 m), respinto: 4.4.1952.

Riedizione: 1.10.1953 (2837 m), approvato: 3.12.1953 (n.o. 15133 - v.m.16).

 

Licenziato per eccesso di zelo dal collegio dove insegna, il maestro elementare Topaze, ingenuo e bonaccione, accetta di fare da segretario a un poco di buono, Régis Castel-Vernac, per l’intercessione dell’amante di quest’ultimo, Suzy, da cui è attratto. Diventa il prestanome di una potente società commerciale che realizza vantaggiosi affari procurati da Castel-Vernac: ma col tempo Topaze, fattosi scaltro in seguito alle esperienze nell’agenzia, ne diviene il padrone effettivo, soffiando al rivale anche l’amante.

 

Terza versione della celebre commedia di Marcel Pagnol, già adattata per gli schermi nel 1932 (con Louis Jouvet) e nel 1936, dallo stesso Pagnol, con Arnaudy (versione andata perduta). Cucito su misura per Fernandel, ne patisce la personalità: più convincente nella prima parte, in cui Topaze è sprovveduto, che nella seconda, in cui avviene la trasformazione del protagonista in spregiudicato affarista.

Topaze è presentato in revisione una prima volta in versione originale nel marzo 1950, e approvato senza problemi. Diversa la sorte per l’edizione doppiata, depositata nel marzo 1952 dalla Italcine. Il 4 aprile la Commissione, a maggioranza e con il parere difforme del presidente Natale, esprime parere contrario considerando che «il soggetto del film sia offensivo della morale e faccia l’apologia della prevaricazione».

In un appunto per il D.G. De Pirro datato 7 giugno 1952 si fa presente che «la Società Italcine Cinematografica Italiana, distributrice del film di cui trattasi, ha, ora, inoltrato domanda perché detta pellicola venga revisionata in una nuova edizione modificata, dalla Società stessa apprestata. Ove la S. V. lo ritenga opportuno il film potrebbe essere revisionato in tale seconda edizione». L’appunto contiene una frase manoscritta siglata da De Pirro: «P.S. Il Sottosegretario ha chiesto di vederla: alla prima occasione gli si può mostrare questa ultima edizione e così sapremo il da farsi».

Il «da farsi», evidentemente, è l’usuale «troncare, sopire». Il film di Pagnol resta infatti nel limbo fino a quando la Italcine ne ripresenta una nuova edizione nell’ottobre 1953. Si apprende che in precedenza la ditta non era ricorsa in appello, «essendo stata informata», come si legge in un promemoria per la Presidenza del Consiglio, «che per il periodo elettorale era consigliabile tenere il film in sospeso. Passate le elezioni amministrative del 1952 sollecitò il visto. Superate ora anche le elezioni politiche, ripresenta il film». Con una serie di modifiche:

a) nel secondo rullo vengono eliminate le seguenti battute di dialogo:

Suzy: «E Picard?».

Castel-Vernac: «Picard? Oh no, cocchetta, no!».

Suzy: «È un ragazzo per bene, Picard! Molto serio e abbastanza disinvolto… perché non proviamo con lui?».

Castel-Vernac: «Perché è l’amante di mia moglie, e quindi la più elementare delicatezza…».

Suzy: «Beh, beh… non lo sapevo».

Castel-Vernac: «Beata innocenza! Tutti ne parlano e tu sei la sola a ignorarlo. Fra parentesi questo prova quanto ti interessi alle cose mie…».

Suzy: «Per l’esattezza, non ignoravo che tu fossi becco, ignoravo soltanto che era Picard a glorificarti»;

b) nel quinto rullo vengono eliminate le battute:

Topaze: «…se vorrò una bella cosa, una dentiera perfetta, il permesso di mangiare carne il venerdì; il mio elogio nei giornali o una donna nel mio letto, l’otterrò con la preghiera, la devozione o la virtù?…».

Topaze: «Ragazzi! I proverbi che vedete sui muri di questa classe in tempi passati corrispondevano alla realtà. Ogni giorno sembra, che servano solo a lanciare le folle su una falsa strada, mentre i furbi si spartiscono la preda; così che ormai il disprezzo dei proverbi può dirsi il principio della fortuna. Se i tuoi professori avessero saputo cosa è la realtà, questo ti avrebbe insegnato, e tu adesso saresti un povero illuso».

La Commissione di II grado, presieduta dal sottosegretario Teodoro Bubbio, esprime stavolta parere favorevole al nulla osta con divieto ai minori di anni 16.

 

 

n. 11756

La grande svolta (Velikij perelom)

Urss 1946, b/n

 

R: Fridrikh Markovitch Ermler; sc: Boris Cirskov; fo: Arkadi Koltsatij; mu: Gavriil Popov.

Int: Michail Deržavin (Generale Murav’ëv), Pëtr Andrievskij (Generale Vinogradov), Jurij Tolubeev (Lavrov), Andrej Abrikosov (Krivenko), Aleksandr Zrazevskij (Panteleev), Mark Bernes («Minutka»).

Prod: Lenfilm Studio.

Revisione: (v.o.) 31.10.1946 (n. 3185), approvato: 4.11.1946 (n.o. 3185); (v.it.) 3.4.1952 (2910 m), respinto: 26.8-29.10.1953.

 

Sul fronte di Stalingrado, la nomina del generale Murav’ëv in un momento di grande difficoltà per le truppe russe assediate dai nazisti si rivela decisiva per le sorti del conflitto: saputo che i tedeschi attaccheranno un villaggio, il generale prepara un’offensiva, ma nel frattempo deve tenere a tutti i costi Stalingrado. A prezzo di eroici sacrifici e nonostante il lutto per la scomparsa della moglie, Murav’ëv ha successo: il generale Von Klaus viene fatto prigioniero, e la battaglia di Stalingrado è vinta.

 

Sebbene le qualità maggiori della cinematografia sovietica coeva vadano cercate nel documentario (l’eccezionale La battaglia per l’Ucraina Sovietica, 1943, di Dovženko), il film di Ermler si contraddistingue per i toni aspri e drammatici, con la scelta di «raccontare la guerra attraverso la psicologia degli stati maggiori: le ansie, le contraddizioni, i dubbi di chi deve pianificare la strategia militare e prendere decisioni rapide e vincenti» (Paolo Mereghetti)1. Col risultato di acquistare una forza formale ai limiti dell’astrattismo – il conflitto è raccontato attraverso le carte geografiche, più che con le scene di combattimento (girate tra le rovine di Leningrado) – che ne fa un caso a parte in una cinematografia tendente alla celebrazione populista e trionfalistica.

Vincitore del Gran Prix al Festival di Cannes del 1946, La grande svolta arriva in Italia nell’autunno di quello stesso anno. Presentato in censura dalla Sovexportfilm in edizione originale e revisionato in data 31 ottobre 1946, ottiene il nulla osta il 4 novembre: «la pellicola, girata in massima parte nei luoghi stessi della battaglia, risulta di notevole efficacia, anche per l’ottima interpretazione» scrive il capo dei servizi della cinematografia nell’appunto per il Sottosegretario di Stato, concludendo che «poiché nulla vi è da eccepire dal punto di vista politico e morale, si ritiene che il film possa essere autorizzato sia alla programmazione in edizione originale, sia ad un eventuale doppiaggio».

Le cose però cambiano quando, sette anni dopo, nell’aprile 1952, La grande svolta viene sottoposto in versione doppiata alla revisione dalla Libertas Film. Che nel dicembre 1952 sollecita la Commissione a occuparsi della pellicola di Ermler, già pronta in edizione italiana da svariati mesi. Il responso della Commissione di I grado (3 aprile 1953) è negativo, in quanto «il film, indipendentemente dalla ricreazione di un episodio dell’ultimo conflitto mondiale costituisce nel complesso un’accesa esaltazione della potenza militare dello Stato sovietico atta a turbare i buoni rapporti internazionali e l’ordine pubblico».

La Libertas Film fa domanda d’appello in data 29 agosto; la Commissione di II grado, il 29 ottobre 1953, esprime nuovamente parere contrario alla programmazione in pubblico, confermando in toto l’avviso espresso in I grado.

In seguito alla bocciatura, la Libertas invia La grande svolta (assieme a Un palmo di terra) nel territorio libero di Trieste, dove le autorità locali ne autorizzano la programmazione. Successivamente le autorità sovietiche e italiane decidono di studiare il problema degli scambi cinematografici per arrivare a un accordo: Eitel Monaco, presidente dell’ANICA, si reca a Mosca ove, nel gennaio 1954, stipula un accordo con i dirigenti della Sovexportfilm. Accordo che però, denuncia il senatore Cappellini nel luglio 1954, giace ancora fermo presso il Ministero degli Affari Esteri senza che sia stato ratificato.2

 

 

1 Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014, Baldini&Castoldi, Milano 2013, p. 1352.

2 Egisto Cappellini, La verità sul cinema in Italia cit., p. 23.

 

 

n. 11912

Publio, Graziella e la maliarda

Italia 1952, b/n

 

R: Nello Bandinelli.

Revisione: 29.4.1952 (135 m), respinto: 3.5-17.5.1952.

Riedizione: approvato: 17.5.1952 (n.o. 12038).

 

«Questo cortometraggio pubblicitario […] narra in modo semiserio l’inseguimento di una ragazza da parte di un giovane; finiscono ambedue in un istituto di bellezza, dove, tanto il giovane (Publio) quanto la ragazza (Graziella) e un’altra donna (la maliarda) passano attraverso i vari trattamenti di bellezza e cosmetica, per finire con la presentazione dei prodotti di bellezza e cosmetici della Ditta società “RELOUIS”.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Stante la mancanza di motivazione nella documentazione ministeriale, la bocciatura del cortometraggio1 di Bandinelli – già operatore alla macchina durante il fascismo, qui all’unica regia –, si può supporre causata, vista la «maliarda» del titolo e l’ambientazione, da presunta contrarietà al buon costume. Il film è ripresentato a tempo di record e ottiene il nulla osta (n. 12038) il 17 maggio dello stesso anno, presumibilmente in edizione purgata, benché il metraggio dichiarato sia il medesimo.

 

 

1 Da notare che la prima edizione è presentata con il titolo Pubblio [sic!], Graziella e la maliarda.

 

 

n. 12041

Pace agli uomini

Italia 1952, b/n

 

R, s: Orengo Vladi; sc: Nelli, Orengo, Cristaldi; op: Canavero Alfieri; narr: Corrado Alvaro.

Prod: Vides.

Revisione: 16.5.1952 (296 m), respinto: 12.3.1953.

 

Documentario sui bambini che hanno subito mutilazioni in seguito ad azioni di guerra.

 

Prodotto nel gennaio 1952 dalla Vides di Franco Cristaldi e presentato in Commissione il 9 maggio 1952, Pace agli uomini è esaminato solo il 12 marzo 1953 e respinto in quanto «presenta scene truci e di crudeltà». La Vides ricorre in appello, facendo presente che il film ha subito due nuove edizioni, con tagli di scene e revisione del commento, in accordo alle indicazioni della Commissione. Ma anche la Commissione di appello, presieduta dal sottosegretario Andreotti, conferma il parere contrario in data 15 giugno 1953.

Al di là della motivazione ufficiale, comunque, in un appunto al Sottosegretario datato 12 marzo 1953, il presidente della III Commissione sottolinea come «nella parte introduttiva del documentario è molto abilmente specificato che “la propaganda per la pace non è monopolio di un partito…” e si fa inoltre vedere la testata di un giornale nel quale è messo in rilievo un discorso del Santo Padre sulla pace. In effetto, però, questo film contiene una sottile propaganda che riflette i noti argomenti dei “partigiani della pace”. In particolare si rileva l’accenno ai bombardamenti indiscriminati contro le popolazioni civili ecc. (è sottinteso [sic!] l’allusione alla Corea)». È dunque questo sottinteso politico, più che l’atmosfera «deprimente» del corto o le scene truci rimarcate nella motivazione, a determinare la bocciatura.

 

 

n. 12223/12494

Demone bianco (Bewitched)

Usa 1945, b/n

 

R, s, sc: Arch Oboler; fo: Charles Salerno, Jr.; mt: Harry Korner; mu: Bronislau Kraper.

Int: Phyllis Thaxter (Joan Alris Ellis), Edmund Gwenn (dottor Bergson), Henry H. Daniels Jr. (Bob Arnold), Addison Richards (Jon Ellis), Kathleen Lockhart (Mrs. Ellis), Francis Pierlot (dottor George Wilton), Horace [Stephen] McNally (Eric Russell).

Prod: Metro-Goldwyn-Mayer.

Revisione: (v.it.) 31.5.1952 (1782 m), respinto: 15.7.1952; (v.o.) 31.5.1952 (1782 m), respinto: 31.7.1952.

Riedizione: (v.it.) approvato: 6.12.1952 (n.o. 12223 - 1729 m - v.m.16).

Homevideo: Warner Archives (DVD, Usa).

 

In prossimità delle nozze con Bob, Joan inizia a comportarsi in modo strano: una voce misteriosa, che dice di chiamarsi Karen, la spinge ad abbandonare famiglia e fidanzato. Joan fugge a New York, ma la voce torna a perseguitarla: Eric, il suo nuovo amore, la spinge a rivolgersi a uno psicanalista, il dottor Bergson. Sotto l’influenza di Karen, Joan uccide Bob e viene condannata a morte, ma Bergson le diagnostica una personalità schizofrenica e cura la donna mediante l’ipnosi, salvandole la vita.

 

Attore, drammaturgo, sceneggiatore, romanziere, regista, Arch Oboler (1907-1987) è stato una figura curiosa della cultura popolare americana del XX secolo: prima di passare al cinema aveva lavorato in radio, imponendosi come uno degli innovatori del mezzo, in qualità di scrittore, produttore e regista dei radiodrammi della serie horror Lights Out, da lui curata per un paio d’anni, dal 1934 al 1936. Demone bianco, il suo debutto alla regia, è l’adattamento di un celebre radiodramma scritto da Oboler per il suo show, Alter Ego, e incentrato su una giovane donna dalla doppia personalità. Nonostante l’artificiosità della vicenda e le tracce dell’origine radiofonica, tanto nei dialoghi quanto nella costruzione narrativa, il film mostra tracce di un bizzarro talento che non avrebbe però mai trovato piena realizzazione sul grande schermo. In seguito Oboler avrebbe realizzato tra gli altri il pionieristico postatomico Anni perduti (1951), nonché il primo film americano a colori in 3D, Bwana Devil (1952).

Demone bianco è presentato in edizione italiana in sede di censura dalla società Distribuzione Cinematografica Nazionale il 31 maggio 1952. La IV Commissione, visionato il film il giorno stesso, esprime parere contrario alla programmazione «non solo per la morbosa atmosfera che gravita in tutto il film» ma anche ai sensi della lett. d) dell’art. 3 R.D. n. 3287/1923 («scene, fatti e soggetti truci, ripugnanti e di crudeltà anche se a danno di animali, di delitti e suicidi impressionanti; di operazioni chirurgiche e di fenomeni ipnotici e medianici, e, in generale, di scene, fatti e soggetti che possano essere di scuola e incentivo al delitto»).

In particolare i commissari hanno da ridire su due scene: l’uccisione di Bob (Henry Daniels Jr.), giudicata troppo impressionante, e la scena in cui il dottor Bergson (Edmund Gwenn) cura la protagonista Jean (Phyllis Thaxter) facendone emergere la doppia personalità sotto ipnosi. In una lettera al D.G. De Pirro, il distributore italiano, pur ammettendo che «con tutta la buona volontà non si riesce a vedere nella pellicola niente che possa giustificare i rigori della Commissione», si dice disposto a operare tagli a seconda delle esigenze della Commissione, e preoccupato del contraccolpo economico («si tratta di un film leggero che se perderà le uscite di prima stagione mi resterà fermo sei mesi con un danno non indifferente»): nell’impossibilità di eliminare in toto la prima sequenza, fondamentale nell’economia della pellicola, propone il taglio dei particolari di primo piano che sono sembrati impressionanti. Nel secondo caso ipotizza di «eliminare le inquadrature in cui appare la protagonista in trance, riducendo al minimo quelle in cui appare lo sdoppiamento della due personalità e trasformando radicalmente il dialogo in modo che ne risulti una differente interpretazione della scena», accludendo copia dei dialoghi per il nuovo doppiaggio. In un appunto per il D.G. datato 30 luglio, il Capo Divisione scrive che «così, come appare sulla carta, la nuova edizione del film appare tranquillizzante. Ad ogni modo la decisione si potrà dare dopo aver rivisto il film». Nel frattempo la versione originale è anch’essa respinta dalla Commissione sempre ai sensi della lett. c) del regolamento.

In data 6 dicembre, la Commissione di II grado esprime parere favorevole al nulla osta per la riedizione italiana così modificata, con divieto ai minori di 16 anni.

 

 

n. 12659

Amore, amor…

Italia 1952, b/n

 

R: Francesco Maselli; narr: Gino Cervi.

Prod: Antonio Cervi.

Revisione: 2.9.1952 (280 m), respinto: 22.10-8.11.1952.

 

Inchiesta sull’amore: dai giochi dei bimbi, alle prime apprensioni degli adolescenti. I primi appuntamenti, le prime passeggiate, i bisticci e le riconciliazioni nei giovani.

 

Prodotto da Antonio Cervi, figlio di Gino (che presta la propria voce al commento), il breve documentario del ventiduenne Citto Maselli, già autore di un certo numero di corti (tra i quali Tibet proibito, 1949; Finestre, 1950; Stracciaroli, 1951; Bambini, 1951), arriva in censura nel settembre 1952. Il responso della III Commissione, in data 22 ottobre, è negativo, ai sensi dell’art. 3 lett. a) del R.D. 3287 («scene, fatti e soggetti offensivi del pudore, della morale, del buon costume e della pubblica decenza»)1. Il produttore presenta appello nel novembre dello stesso anno, facendo presente che per gli impegni di noleggio assunti, la non approvazione comporterebbe gravi danni economici. Ma la Commissione di II grado conferma il parere contrario alla programmazione pubblica in data 8 novembre 1952.

 

 

1 In un appunto per il Sottosegretario di Stato, il presidente di Commissione attribuisce erroneamente la regia allo stesso Antonio Cervi.

 

 

n. 12973

Gibier de potence

Francia 1951, b/n

 

R: Roger Richebé; s: dal romanzo di Jean-Louis Curtis; sc: Jean Aurenche, Maurice Blondeau; fo: Philippe Agostini; mt: Yvonne Martin; mu: Henri Verdun.

Int: Arletty (Madame Alice), Georges Marchal (Marceau Le Guern), Nicole Courcel (Dominique), Pierre Dux (padre Quentin), Mona Goya (Henriette), Marcel Mouloudji (Ernest).

Prod: Films Roger Richebé.

Revisione: 15.10.1952, respinto: 17.10.1952.

 

Di ritorno dalla guerra, Marceau Le Guern ricorda il proprio passato. Cresciuto in un orfanotrofio gestito dai frati domenicani, quando lo lascia Marcel cade in miseria. Ma il suo bell’aspetto non sfugge all’attenzione di Madame Alice, che lo convince a posare per foto pornografiche destinate a donne anziane sole. Ben presto Marceau diventa un gigolo, ma la guerra e la prigionia pongono fine alla sua redditizia carriera. L’uomo vuole iniziare una nuova vita, tanto più che ha trovato l’amore nella persona di una giovane onesta di nome Dominique. Ma Madame Alice non vuol sentirne parlare…

 

Tratto dall’omonimo romanzo di Jean-Louis Curtis e interpretato dal divo Georges Marchal, Gibier de potence (ossia «pendaglio da forca») è degno di nota, oltre che per la tematica scabrosa (e con momenti piuttosto audaci per l’epoca, come la scena in cui Marchal e Nicole Courcel nuotano nudi nella piscina), anche per il modo in cui la storia ribalta l’abituale discesa agli inferni dell’ingenue di turno, essendo la vittima un uomo. E Richebé offre alla non più giovane Arletty un personaggio asessuato e di conturbante ambiguità, sulla cui relazione platonica col protagonista si fonda il film.

Gibier de potence non ha buona sorte presso la censura italiana. La Commissione di I grado, che lo revisiona il 17 ottobre 1952, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico, in quanto il film contiene «scene e fatti offensivi della morale, del pudore e del buon costume». La ditta distributrice non ricorre in appello, e la pellicola resta inedita nel nostro Paese.

 

 

n. 13010

La caduta di Berlino (Padenie Berlina)

Urss 1950, b/n

 

R: Michail Čiaureli; sc: Michail Čiaureli, Piotr Pavlenklo; fo: Leonid Kosmatov; mu: Dmitri Shostakovich; mt: Tatjana Likhachyova.

Int: Michail Gelovani (Stalin), Boris Andreev (Alexei Ivanov «Aliosha»), Marina Kovaliova (Natasha), V. Saveleev (Hitler), Jan Werich (Goering), Sofiya Giatsintova (madre di Alexei), Viktor Stanitsyn (Churchill), Oleg Frelikh (Roosevelt), M. Novakova (Eva Braun), M. Petrunkin (Goebbels).

Prod: Mosfilm.

Revisione: 20.10.1952 (3610 m), respinto: 13.8.1953-2.4.1954.

 

L’amore tra l’operaio modello Aleksei Ivanov e la bella Natasha è ostacolato dallo scoppio della seconda guerra mondiale, che separa i due giovani. Aleksei si distingue in battaglia per le sue imprese eroiche, mentre Natasha viene deportata e rinchiusa in un campo di concentramento. Ma dopo l’incontro di Yalta le sorti belliche volgono al meglio per la Russia, grazie all’acume strategico di Stalin. L’esercito sovietico entra a Berlino, e qui Aleksei riabbraccia finalmente la sua amata.

 

Primo film a raccontare la battaglia di Berlino e prima metà di un kolossal in due parti, che rilegge gli eventi bellici, La caduta di Berlino è uno dei più clamorosi esempi del culto della personalità che contrassegnarono lo stalinismo. Čiaureli, il regista preferito di Stalin, e lo sceneggiatore Piotr Pavlenklo, avevano già collaborato a Il giuramento (Kljatva, 1946), che al pari di La caduta di Berlino è intriso di riferimenti cristiani tali da identificare Stalin con Cristo: se nel film del 1946 Lenin era una figura apparentabile a Giovanni Battista, qui Hitler è l’anticristo. Enfatizzando il ruolo del dittatore russo nell’escalation che portò alla sconfitta della Germania nazista, Čiaureli e Pavlekno (e lo stesso Stalin, che intervenne di persona sul copione) riscrivono la seconda guerra mondiale a piacimento: tra le invenzioni più clamorose, Stalin (a dargli volto è il suo «ultracorpo» − come ebbe a definirlo Giovanni Buttafava – Michail Gelovani) che arriva di persona a Berlino, in aereo, sequenza modellata su quella dell’atterraggio di Hitler a Monaco in Il trionfo della volontà. E che, tra l’altro, salvò il regista dalle ritorsioni del «piccolo padre», così commosso dal risultato da sorvolare sull’ardire del regista, che aveva proposto l’idea – immediatamente bocciata – di includere la tragica storia del figlio di primo letto del dittatore, Jakov Džugašvili, morto in guerra nel 1943.

Presentato in edizione originale dalla Libertas Film il 20 ottobre 1952, La caduta di Berlino si vede negare il nulla osta per gli usuali motivi di ordine pubblico dieci mesi più tardi, in data 13 agosto 1953. La Commissione d’Appello, presieduta dal sottosegretario Ermini, ribadisce il parere contrario il 2 aprile 1954.

 

 

n. 13011

Colcos moderno

Urss 1951, b/n

 

R: E. Tylybieva.

Prod: Sovetsport Flim.

Revisione: 20.10.1952 (534 m), respinto: 4.9.1953-5.6.1954.

 

Documentario sulla giornata tipica in un kolchoz sovietico. Di prima mattina i colcosiani si recano al lavoro, felici di coltivare i campi per sé e non per i padroni. Inoltre essi hanno più tempo per riposare, divertirsi, studiare: il kolchoz offre loro un teatro, un cinema, un circolo ricreativo, una biblioteca.

 

Con la celebrazione del kolchoz «Ilič», chiamato così in onore di Lenin, istituito nel 1929 e insignito dell’ordine di Lenin, la massima onorificenza dell’Unione, Colcos moderno va incontro al medesimo destino di altri film del blocco sovietico presentati dalla Libertas Film: presentato in censura il 20 ottobre 1952, viene revisionato (e respinto) undici mesi dopo, il 4 settembre 1953, poiché a giudizio della Commissione di I grado «sotto l’apparenza di un documentario di propaganda e di sviluppo agricolo svolge in realtà una propaganda contraria all’ordine pubblico facendo nel complesso l’esaltazione e l’apologia del Regime sovietico rispetto al nostro ordinamento politico e sociale». Giudizio confermato dalla Commissione di II grado presieduta dal sottosegretario Ermini il 5 giugno dell’anno seguente, e sempre per motivi di tutela dell’ordine pubblico.

 

 

n. 13012

Gioventù contadina

Polonia 1952, b/n

 

R: non indicata.

Prod: Film Polski.

Revisione: 20.10.1952 (684 m), respinto: 4.9-11.2.1955.

 

L’ultimo giorno di scuola, in un liceo appartenente alla Federazione contadina di mutuo soccorso, gli studenti sono chiamati a scrivere un tema sulla loro scuola. Le risposte degli alunni mettono in risalto la conquista di un edificio scolastico accessibile a tutti, e il confronto con il passato enfatizza i benefici portati dal regime comunista alle nuove generazioni, come i nidi d’infanzia, l’assistenza medica gratuita. L’ultimo alunno esprime il suo proposito di contribuire, assieme ai compagni, all’ulteriore progresso del villaggio.

 

Documentario polacco di propaganda, come numerose altre pellicole dell’Est presentate dalla Libertas Film, Gioventù contadina si vede negare il visto: presentato il 20 ottobre 1952, viene respinto il 4 settembre 1953 ai sensi della solita lett. b) dell’art. 3 R.D. 3287: «sotto l’apparenza di un documentario culturale svolge in realtà una propaganda contraria all’ordine pubblico facendo nel complesso l’apologia e l’esaltazione di principi in contrasto con il nostro ordinamento giuridico ed economico», si legge nella motivazione. La Libertas non demorde e il 24 settembre presenta appello. La Commissione di II grado, presieduta dal sottosegretario Oscar Luigi Scalfato, conferma però il parere negativo alla proiezione in pubblico in data 11 febbraio 1955.

 

 

n. 13045

La Cina libera (OsvoboÏsdennyj Kitaj)

Urss/Cina 1950, col.

 

R: Sergej Gerasimov [e Ivan Dukinskij, non accr.]; sc: Sergej Gerasimov; fo: Mikhail Gindin, Boris Makaseiev, Vladimir Rapoport.

Prod: Stabilimento cinematografico Gorki/Studio cinematografico della Repubblica Popolare Cinese.

Revisione: 22.10.1952 (2523 m), respinto: 21.8.1953.

 

Documentario sulla Repubblica popolare cinese dopo la guerra civile che vide la vittoria dei comunisti di Mao Zedong. Con l’avvento del governo popolare, la Cina si mette al passo con le nazioni più progredite: l’industrializzazione del paese accelera, l’economia agricola si sviluppa in maniera esponenziale, e vengono innalzati argini per contenere il Fiume giallo. Per celebrare la Repubblica, il popolo dà vita a una grande manifestazione popolare.

 

Ex attore teatrale, Sergej Apollinarievič Gerasimov (1906-1985) diventa uno dei registi di punta del regime: negli anni ’30 dirige pellicole rivolte alle nuove generazioni e intente a esaltare il socialismo (I sette coraggiosi, 1936; Il maestro, 1939) e durante la seconda guerra mondiale si allinea ai dettami del realismo socialista, con pellicole fortemente ideologizzate; la sua opera più conosciuta in Italia è Il placido Don (1957, dal romanzo di Šolochov).

Il documentario di Gerasimov è presentato al Festival di Cannes del 1951, circola anche negli Usa (col titolo The New China) e sbarca in Italia grazie alla Libertas Film, che lo presenta in versione doppiata, il 22 ottobre 1952, col titolo La Cina libera. La Commissione, con i soliti tempi lunghi, esprime parere contrario in data 21 agosto 1953, in quanto «dietro l’apparenza di un documentario di un periodo storico svolge in realtà propaganda contraria all’ordine pubblico facendo nel complesso l’apologia e l’esaltazione di principi in contrasto con il nostro ordinamento giuridico-sociale», motivazione pressoché identica a quella dei precedenti documentari presentati dalla Libertas. Che, capita l’antifona, rinuncia all’appello.

Spezzoni di La Cina libera verranno riutilizzati (assieme ad altri da La vittoria del popolo cinese) nel documentario di Fernaldo di Giammatteo La lunga marcia per Pechino (1962).

 

 

n. 13563

Varsavia città indomita (Miasto Nieujarzmione/Robinson warszawski)

Polonia 1950, b/n

 

R: Jerzy Zarzycki; s: Czeslaw Milosz; sc: Jerzy Andrzejewski, Jerzy Zarzycki; fo: Jean Isnard; mu: Artur Malawski, Roman Palester; mt: Victoria Spiri-Mercanton, Janina Niedzwiecka.

Int: Jan Kurnakowicz (Piotr Rafalski), Zofia Mrozowska (Krystyna), Igor Smialowski (Andrzej), Jerzy Rakowiecki (Jan), Kazimierz Sapinski (Julek), Lucjan Dytrych (Obergruppenführer Fischer).

Prod: Polski Film.

Revisione: 22.1.1953 (2269 m), respinto: 12.2-5.6.1954.

 

Varsavia, 1945. Prima di ritirarsi i nazisti decidono di distruggere sistematicamente la città, iniziando con i ponti sulla Vistola. Tagliati fuori con il loro comando, tre partigiani ne approfittano per sabotare i piani tedeschi. Tra due ribelli, Krystyna – scampata al plotone d’esecuzione e curata da un anziano in uno scantinato – e Piotr, sboccia l’amore. Le azioni partigiane si intensificano con l’arrivo di un paracadutista sovietico, ma quando la loro situazione si fa troppo difficile i partigiani scelgono di attraversare la Vistola gelata, mentre Krystyna e Piotr restano sul lato occupato della città. Poco dopo Varsavia verrà liberata.

 

Presentato in versione originale il 22 gennaio 1953 dalla Libertas Film, Varsavia città indomita si vede negare il nulla osta dopo l’abituale melina, in questo caso di quasi tredici mesi. La bocciatura, in data 12 febbraio 1954, è motivata in quanto il film «contiene scene, fatti e soggetti truci e di crudeltà», ossia – come scrivono Mino Argentieri e Ivano Cipriani – i brani documentari sulla distruzione della città polacca tratti dagli archivi tedeschi1: ma non è azzardato pensare che le motivazioni siano anche di carattere politico, trattandosi di un prodotto dai toni di propaganda filosovietica (si veda la figura decisiva del paracadutista russo che aiuta i partigiani). Il giudizio è ribadito in appello, il 5 giugno 1954.

 

 

1 Mino Argentieri, Ivano Cipriani, Censura e autocensura, «Il Ponte», anno XIII n. 8-9, La Nuova Italia, Firenze, agosto-settembre 1957, p. 1350.

 

 

n. 13988

Girls in the Night

Usa 1953, b/n

 

R: Jack Arnold; s, sc: Ray Buffum; fo: Carl Guthrie; mu: Henry Mancini, Herman Stein; mt: Paul Weatherwax; narr: Jeff Chandler.

Int: Harvey Lembeck (Chuck Haynes), Joyce Holden (Georgia Cordray), Glenda Farrell (Alice Haynes), Glen Roberts [Leonard Freeman] (Joe Spurgeon), Patricia Hardy (Hannah Haynes), Jaclynne Greene (Vera Schroeder), Don Gordon (Irv Kellener).

Prod: Universal.

Revisione: 23.3.1953 (2258 m), respinto: 25.3.1953.

 

Ridotti in miseria, Hannah e Chuck Haynes sono costretti a vivere di espedienti. Quando però, dopo un tentativo di furto, Chuck è incriminato per un omicidio commesso in realtà da Irv, Hannah decide di indagare per conto proprio: si mette sulle tracce di Irv e della sua donna Vera, e con l’aiuto dell’amica Georgia progetta un piano per mettere la polizia sulle tracce di due criminali. Dopo un drammatico inseguimento, Irv e Vera pagano con la vita la loro colpa.

 

Primo lungometraggio a soggetto di Jack Arnold, Girls in the Night si distacca dai percorsi successivi della filmografia del regista di Il mostro della laguna nera: il film, vicenda di delinquenza giovanile dai toni aspri e realistici, si guadagnò anche un’entusiastica recensione sui «Cahiers» a opera di François Truffaut:

 

Se non sbaglio, Jack Arnold era uno sconosciuto qui da noi prima dell’uscita di Destinazione… Terra!, che non spingeva certo a scoprire di più riguardo al suo autore, e Girls in the Night, che smentisce quella prima impressione sfavorevole. Lasciamo da parte il film precedente […] e andiamo a Girls in the Night, che ci lascia in uno stato a metà tra sorpresa e delizia. […] Attraverso la tenerezza dell’autore nei confronti dei suoi giovani protagonisti (e senza sentimentalismo), l’incredibile violenza delle scene di lotta, il dinamismo dell’insieme, la bellezza dei rapporti tra i personaggi, il tono del film oscilla tra Le sedicenni di Becker e I bassifondi di San Francisco di Nicholas Ray. Ogni scena, sia essa la prima (l’assai vivace elezione di Miss 43esima strada in un cinema della zona), l’ultima (un inseguimento d’auto girato con grande cura), o una prodigiosa scena di ballo in un sordido night, ci fa pensare che fosse quella che l’autore abbia trattato con più amore; la direzione degli attori (tutte facce inedite) è perfetta. Jaclynne Greene e Don Gordon danno vita a una coppia di mascalzoni così convincenti che quando, dopo che la parola FINE ha seguito di poco la loro morte, si alzano per salutarci con un sorriso, non possiamo che sentirci liberati da un grande peso sulle nostre spalle.1

 

Depositato in censura in edizione originale il 23 marzo 1953, Girls in the Night viene respinto in data 25 marzo, in quanto «presenta scene, fatti e soggetti che possono essere di scuola e di incentivo al delitto». La Universal Film non presenta appello, e il film resta inedito in Italia.

 

 

1 François Truffaut, «Cahiers du Cinéma», febbraio 1954.

 

 

n. 14599

Latuko

Usa 1951, col.

 

R: Edgar M. Queeny; sc: Charles L. Tedford; fo: Edgar M. Queeny, Fort B. Guerin jr.; mt: William K. Chulak; narr: Paul E. Prentiss.

Prod: E. M. Queeny.

Revisione: 18.6.1953 (1346 m), respinto: 19.6.1953.

 

Documentario sugli usi e i costumi della tribù Latuko, del Sudan.

 

Girato in 16mm e poi gonfiato in 35mm, Latuko documenta la spedizione che Edgar Monsanto Queeny – presidente della Monsanto Chemical Company, compagnia leader nel settore agricolo, con una spiccata passione per l’esplorazione – guidò per conto del Museo Americano di Storia Naturale nel 19491, spingendosi fin nel cuore del Sudan per documentare usi e costumi della tribù Latuko.

Il documentario presenta il tipico approccio paternalistico, con l’esibizione compiaciuta dei rituali indigeni, accompagnati da un commento che ne sottolinea il primitivismo. Le scene delle cerimonie, con i nativi che bevono sangue e praticano l’automutilazione, erano piuttosto forti per i tempi, ma soprattutto fece scalpore la presenza di nudità maschili e femminili: «è un film in cui praticamente nessuno ha addosso i vestiti» si legge in un memorandum del Dipartimento per l’Educazione dello Stato di New York del 1954, in cui si cita Latuko come esempio di film a proposito del quale la divisione cinematografica del Dipartimento era stata «assediata di richieste e domande di riesame di pellicole che finora sono state considerate in contrasto con le presenti disposizioni dello statuto» con riferimento all’immoralità. In America, infatti, il documentario va incontro a varie vicissitudini: è bandito nello stato di New York, a Newark, nel New Jersey (dove il giudice accoglierà l’appello di Queeny, sostenendo che «solo una mente limitata o morbosa potrebbe trovare tracce di depravazione nel film»)2 e a Chicago, per via delle nudità e delle crudeltà verso gli animali. In altri stati è proiettato in varie versioni più o meno esplicite.

Presentato in revisione dalla Dear Film di Angelo Rizzoli, è bocciato dalla commissione ministeriale in quanto «contiene numerosissime scene offensive della decenza e altre impressionanti» (verbale del 19 giugno 1953).

 

 

1 Benché fosse rimasto nel Continente Nero solo tre mesi, Queeny trasse ben cinque documentari dalla spedizione: Baganda Music, Latuko, The Pagan Sudan, Wandorobo e Wakamba. Solo Latuko e Wakamba ebbero circolazione nelle sale. Queeny ritornò poi in Kenya e in Tanganika, portando con sé filmati sulla tribù Masai, per convincere costoro a lasciarsi filmare: e con il materiale risultante montò un sesto documentario, Masailand.

2 Jonathon Green, Nicholas J. Karolides, Encylopedia of Censorship, Infobase Publishing, New York 2005, p. 370.

 

 

n. 14753

Gioventù incompresa (Une Histoire d’amour)

Francia 1951, b/n

 

R: Guy Lefranc; s, sc: Michel Audiard; fo: Louis Page; mt: Monique Kirsanoff; mu: Paul Misraki.

Int: Louis Jouvet (ispettore Plonche), Dany Robin (Catherine Mareuil), Daniel Gélin (Jean Bompart), Georges Chamarat (Auguste Bompart), Yolande Laffon (Signora Mareuil), Renée Passeur (Léa).

Prod: Cité Films, Les Productions Jacques Roitfeld.

Revisione: 14.7.1953 (2400 m), respinto: 27.7.1953-18.6.1954.

Riedizione: 26.9.1955 (2180 m), approvato: 12.10.1955 (n.o. 19801 - v.m.16).

 

L’ispettore Plonche è incaricato dell’inchiesta sulla morte di due giovani, Catherine Mereuil e Jean Bompart, i cui corpi sono stati trovati su una spiaggia deserta. L’inchiesta si conclude con il verdetto di morte accidentale, ma Plonche non è soddisfatto. Interroga il padre di Jean, scoprendo che i due innamorati avrebbero dovuto sposarsi a breve, ma dalla madre di Cathérine comprende la verità: i genitori della ragazza, ricchi industriali, avevano fatto di tutto perché la loro figlia non frequentasse Jean, di famiglia povera e squattrinato, e avevano minacciato i giovani al punto da farli pensare al suicidio.

 

Presentato in edizione originale da Silvio Zuccotti, l’ultimo film del grande Louis Jouvet (che impose alla regia Lefranc al posto di Jean Gremillon) viene bocciato in I grado (27 luglio 1953) «in quanto esso poggia essenzialmente sul suicidio impressionante di due protagonisti». Il distributore presenta ricorso (2 agosto), dopo aver «apportato tutte quelle modifiche con tagli di scene e variazioni di dialoghi atte ad eliminare quelle scene sia al principio che al finale del film [che] accentuavano l’attenzione sul suicidio dei protagonisti», specificando che le medesime modifiche saranno attuate nella versione italiana. La Commissione d’Appello presieduta dal sottosegretario Ermini conferma però il parere di prima istanza, il 18 giugno 1954.

Zuccotti ripresenta il film in versione italiana, col titolo Gioventù incompresa, dopo avere sottoposto a sostanziale rifacimento i dialoghi. Nella nuova versione, come emerge dalla sinossi presentata in revisione, non si parla più apertamente di suicidio, e l’ispettore interpretato da Jouvet conclude la propria inchiesta «ammettendo che non c’è stato delitto, né suicidio, né reato punibile dalla legge, ma che la morte dei due giovani è moralmente imputabile ai genitori che non hanno sentito l’effettivo peso delle loro responsabilità». Questa volta la Commissione di I grado, che lo revisiona il 12 ottobre 1955, concede il nulla osta con divieto ai minori di 16 anni.

Nel gennaio 1956, Zuccotti chiede di cambiare il titolo del film (non ancora proiettato in pubblico e privo di visto censura) in L’amore che travolge su pressione del distributore Aretusa Film, per evitare confusione con altri titoli analoghi (e probabilmente per utilizzare un titolo più appetibile, visto il divieto ai minori): l’VIII divisione concede l’autorizzazione, condizionata alla verifica che non sia già stata fatta pubblicità al film col vecchio titolo, ma alla fine Zuccotti e l’Aretusa vi rinunciano. Nel frattempo, il 29 gennaio 1956, il distributore fa ricorso contro il divieto ai minori, ritenendolo ingiustificato. La Commissione di II grado conferma però la decisione precedente (15 maggio 1956).

 

 

n. 15819

Bagarres

Francia 1948, b/n

 

R: Henri Calef; s: dal romanzo Bagarres di Jean Proal; sc: André Beucler; fo: Michel Kelber; mt: Marguerite Renoir; mu: Joseph Kosma.

Int: María Casarès (Carmelle), Roger Pigaut (Antoine), Jean Murat (Baptiste), Orane Demazis (Martha), Jean Vinci (Gino), Édouard Delmont (Giuseppe).

Prod: Georges Legrand.

Revisione: 11.1.1954 (2490 m), respinto: 22.1.1954.

 

Carmelle, bellissima ragazza dal temperamento selvaggio, vive col fratello Angelin in una capanna ai piedi di una montagna. Per amore di Jacques, accetta di lavorare come domestica presso l’anziano possidente Rabasse e circuirlo: nel testamento Rabasse la nomina erede della sua fattoria. Quando però Jacques la lascia, Carmelle si innamora del cacciatore Antoine, che uccide il fattore Giuseppe quando lo sorprende nel tentativo di usare violenza alla donna. Antoine fugge verso il confine, e Carmelle lo raggiunge, abbandonando ogni ricchezza.

 

Tratto dal romanzo di Jean Proal e ambientato alle pendici del Mont Ventoux, Bagarres è un melodramma romantico su misura per la spagnola María Casarès, una delle dive del cinema francese dell’immediato dopoguerra, all’epoca al massimo della fama dopo le apparizioni in Amanti perduti di Carné e La certosa di Parma di Christian-Jacque. Il contenuto è piuttosto osé per i tempi: non solo Carmelle circuisce un facoltoso proprietario terriero molto più anziano di lei, tenendolo a distanza fino a che questi non la nomina sua erede, ma una sottotrama allude a una possibile relazione incestuosa tra la protagonista e il fratello.

La domanda di revisione del film, presentato in edizione originale da Gianfilippo Fuchs l’11 gennaio 1954 – con un computo dichiarato di metraggio nettamente inferiore a quello effettivo –, trova un responso negativo: la bocciatura è motivata «in quanto il film riproduce scene, fatti e soggetti offensivi del pudore e della morale» (22 gennaio 1954). La Commissione non deve aver gradito, per di più, che nel finale la protagonista non paghi per i propri peccati, ma anzi fugga con l’amante macchiatosi di omicidio.

Fuchs non presenta ricorso in appello, e la pellicola resta inedita in Italia.

 

 

n. 15896

Cronaca di due secoli (già Piazza S. Sepolcro)

Italia 1943, b/n

 

R, s, sc, mu e mt: Giovacchino Forzano; fo: Giuseppe Caracciolo.

Int: Osvaldo Valenti (Napoleone giovane), Vivi Gioi (la spia inglese), Raniero Barsanti (ufficiale della guardia napoleonica), Rossano Brazzi, Ermete Zacconi, Filippo Scelzo, Gualtiero Tumiati, Guido Notari, Carlo Romano, Alberto Capozzi, Jone Frigerio, Ernesto Sabbatini, Ugo Sasso, Giulio Tempesti, Augusto Marcacci.

Prod: Consorzio Produttori Tirrenia.

Revisione: 25.1.1954 (mt: n.d.), respinto: 27.1.1954.

 

Sono narrati in sintesi gli avvenimenti storici di due secoli: dalle origini dell’imperialismo inglese allo scoppio della rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche, giungendo poi sino ai nostri giorni.

 

Avvocato, drammaturgo, librettista, regista, Giovacchino Forzano (1883-1970) fu tra le personalità più versatili della cultura italiana del primo dopoguerra, nonché uno dei cineasti più fedeli al regime. Amico e collaboratore di Benito Mussolini, nel 1934 Forzano rilevò gli stabilimenti della Tirrenia Film e fondò gli studi Pisorno, la prima città del cinema italiana. Il suo ultimo film da regista, inizialmente intitolato Piazza S. Sepolcro, ebbe vicende tribolate1. Forzano inizia a girarlo nell’autunno 19422. Nel maggio 1943 il mensile «Si Gira» dà notizia del cast e pubblica una foto raffigurante uno degli interpreti, Ermete Zacconi; il mese successivo lo stesso periodico annuncia la fine della lavorazione. Poi, il silenzio. Occorrerà un decennio perché il film si riaffacci timidamente nel listino distribuzione della ENIC, nel «1° gruppo 1953-54». Come ipotizza Francesco Savio3, è assai probabile che la pellicola – ora intitolata Cronaca di due secoli ovvero gli Stati Uniti d’Europa, e descritta come «un’emozionante cavalcata attraverso la tormentata storia d’Europa» – abbia subito rimaneggiamenti e integrazioni, per stravolgerne l’originaria impostazione filo-regime. Intervistato nel 1955 per l’Enciclopedia dello spettacolo, Forzano dichiara che il film è ancora in attesa del visto di censura. Dai documenti di censura risulta che Cronaca di due secoli fu respinto nel gennaio 1954, presumibilmente per i trascorsi dell’autore. A tutt’oggi il film è irreperibile.

 

 

1 Stante l’irreperibilità della documentazione relativa alla pellicola al Mibac e all’Archivio di Stato, la maggioranza dei dati disponibili sono desunti da Ma l’amore no di Francesco Savio (vedi nota 3) e dal Dizionario del cinema italiano di Roberto Chiti e Enrico Lancia.

2 «Dopo lunga e accurata preparazione tecnica e artistica, ha avuto inizio la lavorazione di questo film realizzato dal Consorzio Produttori Cinematografici in collaborazione con l’Enic. Il soggetto, di Giovacchino Forzano, riassume in sintesi il ciclo degli ultimi due secoli della storia d’Europa. I maggiori interpreti del cinema italiano hanno offerto la loro partecipazione alla realizzazione di quest’opera cinematografica». Negli stabilimenti si gira, «Cinema» n. 154, 25 novembre 1942, p. 663.

3 Francesco Savio, Ma l’amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime (1930-1943), Sonzogno, Venezia 1975, pp. 408-409.

 

 

n. 16032

La mandragora (Alraune)

Rft 1952, b/n

 

R: Arthur Maria Rabenalt; s: dal romanzo di Hanns Heinz Ewers; sc: Kurt Heuser; fo: Friedl Behn-Grund; mu: Werner R. Heymann; mt: Doris Zeltmann; scen: Robert Herlth.

Int: Hildegarde Knef (Alraune), Erich von Stroheim (Jacob ten Brinken), Karl Boehm [Karlheinz Böhm] (Frank Braun), Harry Meyen (conte Geroldingen), Rolf Heeniger (Wolf Goutram), Harry Halm (dottor Mohn).

Prod: Carlton-Film, Deutsche Styria Film.

Revisione: (v.o.) 15.2.1954 (2800 m), respinto: 27.3.1954, approvato: 2.7.1954 (n.o. 16032); (v.it.) 20.10.1954 (2700 m), approvato: 8.11.1954 (n.o. 17596).

 

Impregnando artificialmente un ovulo appartenente a una prostituta di Amburgo con il seme di un impiccato – esperimento che gli costa la cacciata dall’università –, lo scienziato Jacob ten Brinken dà vita a una bimba, Alraune, che il professore cresce lontano da tutti, per paura che abbia ereditato la malvagità dei genitori. Di Alraune, diventata una bellissima fanciulla, si innamora, ricambiato, il nipote di Brinken, lo studente Frank Braun. La ragazza fugge dal convento dov’era reclusa e i due decidono di scappare insieme a Parigi. Ma in uno scoppio d’ira il professore racconta al nipote l’origine di Alraune, e Frank se ne va senza di lei. Per vendicarsi, Alraune seduce gli amici di Frank e ne provoca la morte, e riporta l’amato a sé: ma Brinken, folle di gelosia, la uccide.

 

La pellicola di Rabenalt è la quinta riduzione del romanzo di Hanns Heinz Ewers, pubblicato nel 1911 e a sua volta basato su una leggenda medievale teutonica, dopo le due datate 1918 (una diretta in Ungheria da Michael Curtiz e Edmund Fritz, oggi perduta, e la tedesca Alraune, die Henkerstochter, genannt die rote Hanne, di Eugen Illés), quella del 1928 di Henrik Galeen e la successiva versione sonora del 1930, diretta da Richard Oswald e come la precedente interpretata da Brigitte Helm. Tedioso e datato, il film vale unicamente per l’interpretazione di von Stroheim, mentre nel ruolo di Frank appare, in uno dei suoi primi ruoli, Karlheinz Böhm, il futuro protagonista di L’occhio che uccide.

La tematica del film, e in particolare il riferimento alla fecondazione artificiale, turba la Commissione di I grado: Alraune arriva in revisione il 15 febbraio 1954 in edizione originale grazie alla Variety Film, ed è respinto in prima istanza il 27 marzo, in quanto «contiene fatti offensivi della morale». La Variety ricorre in appello il 31 marzo, facendo presente che il film di Rabenalt è il rifacimento delle pellicole di Galeen e Oswald, le quali avevano ottenuto regolare nulla osta. La Commissione di II grado sospende il giudizio a causa, si legge in un appunto della Direzione Generale per il Sottosegretario di Stato, «di una certa perplessità dovuta al fatto che, in sede morale, gli aspetti dell’opera non erano ritenuti del tutto negativi; a causa anche delle qualità artistiche in essa riscontrati [sic!].»

L’11 giugno la Variety presenta un nuovo testo modificato del dialogo in lingua italiana, in cui la nascita di Alraune non è più il prodotto di una fecondazione artificiale bensì «una nascita dovuta ad un naturale accoppiamento tra due persone regolarmente sposate». La Variety precisa inoltre che nei titoli verrà dichiarata la discendenza dal romanzo di Ewers in modo da non causare confusioni nel pubblico con La Mandragola di Macchiavelli1. La Commissione d’Appello presieduta dal sottosegretario Ermini, preso atto delle dichiarazioni della Variety, concede il nulla osta in data 2 luglio 1954.

La mandragora è ripresentato in versione doppiata – di fatto una nuova edizione rispetto a quella in lingua originale – il 20 ottobre 1954. In data 8 novembre la Commissione esprime parere favorevole a condizione che il film venga vietato ai minori di 16 anni.

 

 

1 A leggere una prima versione del medesimo documento, in realtà, si intuisce che in confusione era caduto l’estensore, quando elencava tra le ragioni della perplessità in Commissione riguardo alla pellicola «la constatazione che essa non conteneva alcun riferimento all’omonima opera del Macchiavelli».

 

 

n. 16044

Totò e Carolina

Italia 1954, b/n

 

R: Mario Monicelli; s: Ennio Flaiano; sc: Age & Scarpelli [Agenore Incrocci, Furio Scarpelli], Mario Monicelli; fo: Domenico Scala, Luciano Trasatti; mt: Adriana Novelli; mu: Angelo Francesco Lavagnino.

Int: Totò (Antonio Caccavallo), Anna Maria Ferrero (Carolina De Vico), Antonio Foà (Commissario). Maurizio Arena (Mario), Tina Pica (la donna all’ospedale), Gianni Cavalieri (veneziano), Nino Vingelli (brigadiere), Enzo Garinei (dott. Rinaldi).

Prod: Rosa Film.

Revisione: 17.2.1954 (2959 m), respinto: 25.2-22.5.1954.

Riedizione: 12.7.1954 (2386 m), respinto: 17.7.1954, approvato: 8.12.1954 (n.o. 16044).

 

Roma. Durante una retata, l’agente Caccavallo, autista di una jeep della celere, raccoglie tra le altre prostitute anche la giovane Carolina. La ragazza, che non è una mondana bensì un’orfana fuggita dal paesino dopo essere stata sedotta, messa incinta e abbandonata, tenta il suicidio in commissariato. Per evitare ripercussioni presso la stampa, il commissario obbliga Caccavallo – vedovo e con un figlio piccolo – a riportare Carolina al suo paesello e affidarla a un parente. Ma Caccavallo non trova nessuno che se ne voglia sobbarcare l’affidamento: non il parroco, né la famiglia dove Carolina era al servizio, e neppure i carabinieri del luogo. Commosso dalla sua situazione, l’agente cerca di farla fuggire con un ladruncolo da lui catturato. Ma Carolina tramortisce Caccavallo, per poi tentare il suicidio: l’agente la salva ancora, e decide infine di tenerla con sé.

Totò e Carolina è uno dei casi più celebri dell’operato censorio negli anni del dopoguerra, prima della riforma legislativa del 1962. La V Commissione, che lo visiona il 22 febbraio 1954 – da notare che nella sinossi contenuta nella domanda di revisione non viene fatta menzione della gravidanza della protagonista –, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico del film di Monicelli «in quanto offensivo della morale, del buon costume, della pubblica decenza, nonché del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della Forza Pubblica» ex art. 3 lett. a) e c) del Regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923.

Nell’appunto del Presidente della V Commissione per il Sottosegretario di Stato si legge che

 

la motivazione iniziale trova riscontro nella prima parte del film ove una retata di peripatetiche attuata a Villa Borghese ed il successivo interrogatorio in Questura presenta elementi di spettacolo contrari alla morale, al buon costume e alla pubblica decenza.

Per quanto riguarda l’altra parte della motivazione, […] essa è riscontrabile nell’intero corso del film, che, tratteggiando in forma umoristica e caricaturale una figura di agente di P.S. (Totò), coinvolge in apprezzamenti negativi persone e ambienti della Pubblica Sicurezza.

 

Specificando che «i rilievi sono stati formulati sia sulla parte visiva del film che sulla colonna sonora», vengono indicati gli elementi «che hanno informato il suindicato parere» con riferimento alle pagine del copione.

La casa produttrice Rosa Film presenta immediatamente ricorso (26 febbraio), facendo presente di avere «apportato al film sostanziali modifiche, tali da poter togliere qualunque possibilità di falsa interpretazione od equivoci circa l’idea informativa degli autori del film, e soprattutto nei riguardi del personaggio principale, essenzialmente umoristico e umano». Ma il parere di prima istanza è confermato dalla Commissione d’Appello, presieduta dal sottosegretario Ermini e composta dal Consigliere di Cassazione Beniamino Leoni e dal Vice Prefetto Carlo Gerlini, in data 12 maggio 1954.1

Alla casa produttrice non resta che ripresentare il film in revisione, il 12 luglio 1954, con scene e dialoghi aboliti e tagli parziali2:

− tagli alle scene in esterno di Villa Borghese (Sulla sequenza iniziale è stata sovrimpressa la didascalia: «Il personaggio interpretato da Totò in questo film appartiene al mondo della pura fantasia. Il fatto stesso che la vicenda è vissuta da “Totò” trasporta tutto in un mondo e su un piano particolare. Gli eventuali riflessi della realtà non hanno riferimenti precisi, e sono sempre riscattati da quel clima dell’irreale che non intacca minimamente la riconoscenza ed il rispetto che ogni cittadino deve alle forze della polizia»);

− tagli alle scene in interno del Commissariato;

− tagli alle scene in esterno del Commissariato;

− tagli alle scene in interno in casa Caccavallo;

− tagli alle scene in interno della Chiesa;

− abolita la scena della confessione;

− tagli alle scene in interno della Sacrestia;

− abolita la scena in interno della Sacrestia (episodio dei «vini pregiati» e «caduta del Crocifisso in terra»);

− sostituito il canto «Bandiera rossa» con l’«Inno dei lavoratori»;

− taglio alle scene notturne in esterno sotto il ponte ferroviario;

− eliminate tutte le battute dell’agente Caccavallo «L’agente Caccavallo non l’ha fregato mai nessuno» e «L’agente Caccavallo non è un fesso».

Anche questa volta, tuttavia, la Commissione, in data 17 luglio, esprime parere contrario, «riconoscendone il contenuto – anche nella presente edizione – offensivo del decoro e del prestigio dei funzionari e degli agenti della forza pubblica». In un appunto per il Sottosegretario di Stato, secondo il Presidente della V commissione i tagli e le modifiche effettuati, pur eliminando gli estremi dell’offesa alla morale, al buon costume e alla pubblica decenza non sono sembrati sufficienti per rimuovere gli altri motivi che hanno determinato per la prima volta il divieto.3

La Commissione d’Appello, presieduta dal sottosegretario Oscar Luigi Scalfaro e da Leoni e Gerlini (ora Prefetto), che visiona Totò e Carolina l’8 dicembre 1954, esprime invece parere favorevole a una serie di condizioni:

1) eliminare o modificare completamente la scena dei gitanti che cantano inni politici e fischiano l’agente quando questi li sorpassa; il saluto a pugno chiuso dell’agente a quelli che lo vengono ad aiutare;

2) nella scena della camionetta che viene urtata dal torpedone di gitanti, modificare la scena in modo che l’agente si abbia semplicemente a scusare brevemente;

3) nella scena del confessionale cambiare la battuta «Che tempi, che tempi» che si può riferire ad una indiscrezione sul soggetto della confessione;

4) cambiare la battuta «Io sono abituata a mangiare quello che avanza ai padroni» in «Mangiavo quello che mi davano»;

5) cambiare la battuta in cui il protagonista dice: «Il suicidio non è fatto per la povera gente» e successivamente «Anch’io lo volevo fare ma poi… penso che devo mantenere una famiglia» ecc.;

6) togliere la sequenza nella quale si vede il prete nella chiesa che ha gesti carezzevoli verso la ragazza.

Nella stessa sessione, la Commissione esprime parere contrario all’esportazione, su domanda avanzata dalla Ponti – De Laurentiis, ai sensi dell’art. 4 del Regolamento, «in quanto il film stesso può ingenerare all’estero, errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese.

Le modifiche vengono effettuate come richiesto: Noi vogliam Dio e O bianco fiore (inno della Democrazia cristiana) cantate dai giovani cattolici scompaiono, i lavoratori comunisti intonano il canto alpino Di qua e di là dal Piave, Totò non è più esageratamente servile nei confronti del reverendo che col torpedone di boy scout ha urtato la sua jeep («Guardi che il dispiacere è tutto mio…»), i «compagni» diventano «giovanotti», l’anziano lavoratore che fa scappare Carolina non dice più «Hai menato il padrone, e allora abbasso i padroni» ma «Viva l’amore, viva la libertà», la battuta sul suicidio scompare, e così via. E Totò e Carolina può finalmente arrivare nei cinema.

 

 

1 In un articolo intitolato Solidarietà, a firma C. (Giulio Cesare Castello?) apparso su «Cinema» appena dopo la seconda bocciatura, si ipotizza una spiegazione alla severità delle commissioni: «Noi il film lo abbiamo visto e possiamo assicurare, in coscienza, il lettore: si tratta di una commediola tanto piacevole quanto innocua, nel gusto, su per giù, di Guardie e ladri […]. La cosa più grottesca è data dal “retroscena” che sembra nascondersi dietro al provvedimento poliziesco: anni or sono, infatti, il produttore Carlo Ponti, intenzionato di produrre un film basato sul romanzo di Moravia La Romana, venne “pregato” dall’on. Andreotti […] di rinunziare al suo progetto, che era sgradito in alto loco. Il Ponti aderì e diede assicurazione; qualche mese fa, tuttavia, essendo mutata la persona del sottosegretario, pernsì di dare corso al progetto momentaneamente messo in disparte. Ora, il “veto” che ha colpito Totò e Carolina, opera prodotta dallo stesso industriale, sembra debba considerarsi una “vendetta” ministeriale per la trasgressione ad una volontà dell’on. Andreotti». C., Solidarietà, «Cinema» n. 133, 15 maggio 1954, p. 253.

2 Per una comparazione dettagliata delle successive modifiche si rimanda al prezioso volume di Tatti Sanguineti, Totò e Carolina, Transeuropa, Milano 1999.

3 Una decisione che scombina i piani della distribuzione: nei cinema sono già affissi i cartelloni che annunciano il film come imminente, tanto che il 26 settembre 1954 il prefetto di Chieti chiede con urgenza al Ministero se il film è munito del nulla osta.

 

 

n. 16053

Strani mestieri di Napoli

Italia 1954, b/n

 

R: Giusto Vittorini; fo: G. Volpe.

Prod: Giorgio Patara.

Revisione: 18.2.1954 (250 m), respinto: 10.5.1954.

 

Cortometraggio documentaristico della durata di circa 10’ (250 m), diretto dal figlio di Elio Vittorini, partendo dall’intento di «cogliere la realtà di sorpresa»1, che illustra il mondo dei venditori ambulanti partenopei. Presentato in revisione il 18 febbraio 1954 dal produttore Giorgio Patara (specializzato in film di inchiesta attraverso le società Vette Filmitalia e Nexus Film), viene bocciato il 10 maggio in base al art. 3 lett. b) del R.D. n. 3287 del 22 settembre 1923, poiché «ponendo in rilievo i mestieri più umili e degradanti dei bassifondi napoletani, mostra scene, fatti e soggetti offensivi del decoro nazionale».

 

 

1 Brunello Rondi, Il documentario in Italia, «Cinema» n. 133, 15 maggio 1954, p. 266.

 

 

n. 16640

La Ronde (Carosello dell’amore)/La Ronde (La giostra dell’amore) (La Ronde)

Francia 1950

 

R: Max Ophüls; s: dal dramma Reigen di Arthur Schnitzler; sc: Jacques Natanson, Max Ophüls; fo: Christian Matras; mu: Oscar Straus; mt: Léonide Azar.

Int: Anton Walbrook (Narratore), Simone Signoret (Léocadie, la prostituta), Serge Reggiani (Franz, il soldato), Simone Simon (Marie, la cameriera), Daniel Gélin (Alfred), Danielle Darrieux (Emma Breitkopf), Fernand Gravey (Charles Breitkopf), Odette Joyeux (Anna), Jean-Louis Barrault (Robert Kuhlenkampf, il poeta), Isa Miranda (Charlotte, l’attrice), Gérard Philipe (il conte).

Prod: Films Sacha Gordine.

Revisione: 22.5.1954 (2600 m), respinto: 18.6-2.7.1954.

Riedizione: 7.1.1957 (2600 m), respinto: 31.1.1957-31.3.1958.

III edizione: 28.8.1958 (2238 m), respinto: 26.9.1958; approvato: 30.1.1958 (n.o. 27670 - v.m.16).

Homevideo: Second Sight (DVD, Uk).

 

Rientrando in caserma, un soldato è avvicinato da una prostituta con cui consuma un fugace rapporto. Di nuovo in libera uscita, il soldato conosce una cameriera con cui intreccia una breve relazione, salvo poi lasciarla per un’altra giovane. Per ripicca, la cameriera si concede al proprio padrone, uno studente, il quale a sua volta cerca un’avventura con una donna matura. Il marito di quest’ultima si concede una scappatella con una sartina, la quale ha una relazione con un poeta, che dal canto suo se la fa con la prim’attrice della compagnia. Quest’ultima, infine, si concederà a un nobile ufficiale…

 

Analogamente al girotondo da cui prende il titolo e che ne rappresenta il leitmotiv, la pellicola che nel 1950 Max Ophüls trae da Reigen di Arthur Schnitzler passa nel nostro Paese attraverso una ronde di divieti, tagli e rimaneggiamenti censori che dura ben otto anni. Un carosello che, nei passaggi di mano e nei rimpalli di responsabilità, nel succedersi dei volti e nomi (commissari, sottosegretari, ministri e governi) all’interno di una più generale immutabilità, rispecchia tanto il quadro politico dell’epoca, quanto uno spaccato di costume al cui centro non vi sono solo gli orientamenti e le idiosincrasie della censura cinematografica in Italia nel dopoguerra, ma più in generale l’immagine di una società ancora profondamente legata al passato fascista da un lato, e gravata dal peso delle influenze del mondo cattolico dall’altro. Ne risulta una giostra tutta italiana che non ha per oggetto, come in Schnitzler e Ophuls, l’eros e la seduzione, ma il potere, il suo esercizio e i suoi meccanismi. Il che è poi, forse, lo stesso.

Stampato privatamente nel 1900 in soli duecento esemplari, e reso pubblico nel 1903, il dramma di Schnitzler vende quattromila copie in soli undici giorni, per raggiungere le trentacinquemila unità tre anni dopo, e lievitando verso cifre ancora più consistenti nonostante traversie editoriali e provvedimenti giudiziari: nel 1904 il volumetto è sequestrato a Lipsia, e le rappresentazioni teatrali postbelliche suscitano polemiche e disordini, tanto che nel 1921 la compagnia che lo mette in scena è trascinata in tribunale con l’accusa di «aver sollevato pubblico scandalo con atti osceni», mentre Schnitzler, dipinto come un volgare pornografo, è bersaglio di virulenti attacchi dai toni antisemiti: «solo un ebreo – afferma la stampa nazionalista – avrebbe potuto mettere in scena qualcosa del genere»1.

Reigen arriva anche al cinema: la prima versione, datata 1920, è diretta da Richard Oswald e ha per interpreti Conrad Veidt e Asta Nielsen. A Schnitzler non piace affatto, trattandosi di un’operazione pretestuosa che con l’originale ha in comune il titolo e poco più: tanto che il drammaturgo ricorrerà a un’azione legale per tutelarsi contro lo sfruttamento commerciale della sua opera. Diverso il destino del film di Ophüls, considerato da Heinrich Schniztler la migliore riduzione dell’opera paterna, nonostante le sensibili interpolazioni del regista, prima delle quali l’introduzione della figura del presentatore-meneur de jeu interpretato da Anton Walbrook.

Girato in quarantatré giorni tra il gennaio e il marzo del 1950, La Ronde è accolto entusiasticamente alla Biennale di Venezia dello stesso anno, ottenendo due premi (miglior soggetto e dialoghi e miglior scenografia): nel 1951 sarà la volta dell’Oscar come miglior film straniero. Ma si fanno sentire anche le voci dissenzienti, le proteste della stampa cattolica, le accuse di oscenità. A Münster il film non viene proiettato dopo che l’episcopato ne ha stigmatizzato il contenuto immorale.

L’entusiastica accoglienza al Festival di Venezia del 1950, dove ottiene due premi (miglior soggetto e dialoghi e miglior scenografia; l’anno successivo sarà la volta dell’Oscar come miglior film straniero), non porta fortuna al capolavoro di Ophüls, le cui sorti nel nostro Paese saranno assai tormentate. Dopo Venezia, il film è proiettato a un festival torinese, è negato agli organizzatori di un festival milanese e quindi sparisce, «inghiottito dalla occhiuta voragine censoria» per citare le parole di Giulio Cesare Castello, il quale, su «Cinema» nel giugno 1951, riconduce le ragioni della mancata uscita italiana «alla psicologia dell’amore. Che è quella di cui i censori hanno paura». E auspica: «può darsi che un giorno i signori della Minerva Film riescano a far breccia, e ottengano quanto meno l’ipocrita soluzione che consenta di presentare il film in edizione originale con sottotitoli».2

E tuttavia passano altri tre anni prima che La Ronde venga presentato in revisione dalla D.R. Film (già A.N.F.I.) – terza ditta a farsi carico della distribuzione dopo la Minerva e la Cinegloria – il 22 maggio 1954, in versione doppiata e col sottotitolo Carosello dell’amore. Andreotti non è più sottosegretario con delega allo spettacolo: al suo posto si sono succeduti Teodoro Bubbio (in carica dal 27 agosto 1953 al 12 gennaio 1954), e Giuseppe Ermini. Al primo, un editoriale su «Cinema» del novembre 1953 (Promemoria per l’onorevole) ha inutilmente ricordato le sorti di altre illustri vittime del censore (oltre a Ophüls, è il caso di All’Ovest niente di nuovo e Il diavolo in corpo): «Vorremmo scommettere che Lei non li ha mai visti. Vorremmo pure scommettere che Lei non sa che nel nostro Paese essi sono stati, ad opera del Suo predecessore, messi al bando […] non si dica, per difesa, che la censura italiana combatte la pornografia, perché pornografici non sono La Ronde né tanto meno Le Diable au corps, ma, caso mai, Niagara, Un turco napoletano e cento altri che riempiono i nostri schermi»3.

Presumibilmente consci delle traversie che li attenderanno, Jacques Flaud e Walter Borg del Centre National de la Cinématographie si interessano al destino del film di Ophüls presso le figure competenti. Flaud si rivolge al sottosegretario Ermini, ottenendo risposta interlocutoria. Il secondo scrive al D.G. De Pirro e a Giovanni Ponti, già commissario straordinario della Biennale di Venezia e all’epoca ministro senza portafoglio per lo Spettacolo, turismo e sport del governo Scelba. La missiva a De Pirro fa intuire uno scenario fatto di «se», di «ma», di mezze promesse e commenti nebulosi, di insistenze francesi e di un Direttore Generale che si fa negare al telefono, mentre il Sottosegretario lascia cadere commenti favorevoli sul film (che definisce «cosa veramente molto fine, ambientata nella vecchia Vienna»), senza in realtà averlo visto. Insomma, una situazione alquanto frustrante per i francesi.

A leggere la lettera di Borg a Ponti, le ragioni di cotanto ritardo suonano nebulose: il francese scrive che «non è stato possibile, fin’ora, presentarlo in censura, perché esisteva una causa fra il produttore e il primo acquirente del film per l’Italia, causa regolata oggi definitivamente». In realtà, l’accordo fra Les Films Sacha Gordine e la Cinegloria, che ne aveva acquistato i diritti per l’Italia nel febbraio 1953, presumibilmente dopo che la Minerva aveva gettato la spugna, era stato risolto di comune volontà delle parti nel gennaio 1954: anche la Cinegloria, dopo aver atteso per quasi un anno il benestare del Ministero per l’approvazione del contratto, s’era arresa.

Con Ponti, Borg perora accoratamente la causa del film, attorno a cui «un equivoco ha creato […] una fama che [esso] non merita affatto». Aggiunge Borg: «Questa richiesta […] non deve essere considerata come le solite che le autorità francesi fanno alla Direzione Generale dello Spettacolo, per fare passare senza troppo danno un film in censura – come abbiamo dovuto spesso fare per certe produzioni nostre […]. Questo film non è stato visionato né dall’Avv. De Pirro, né da altre autorità, che si sono unicamente basate sull’equivoco, ingiustamente e inspiegabilmente creatosi dopo Venezia». Borg fa notare come nel resto del mondo La Ronde non abbia avuto problemi di censura (non esattamente vero, come rilevato sopra), e specifica che la versione doppiata «è stata leggermente rimaneggiata» e resa «completamente innocua». Ponti promette che non mancherà di vedere il film assieme all’On. Ermini, «senza preconcetti di sorta, anzi con la simpatia che ho per i lavori della Cinematografia francese». De Pirro mette le mani avanti con Flaud, rilevando «che, come Ella sa, pur essendo il film trattato con tanta maestria e competenza, svolge un argomento piuttosto delicato».

Nonostante le pressioni effettuate da un lato e le mezze promesse spese dall’altro, la Commissione di I grado, il 18 giugno 1954, boccia il film di Ophüls in quanto contenente scene offensive del pudore e del buon costume. Il 21 giugno la D.R. Films presenta domanda d’appello. Anche stavolta, a dispetto delle preghiere dei responsabili del Centre National de la Cinématographie la Commissione d’Appello, presieduta dall’On. Ermini, conferma in toto, in data 2 luglio, il giudizio di I grado.

A questo punto, il distributore scrive un’accorata missiva a Ermini (12 luglio) facendo presente le ingenti spese affrontate (quattordici milioni di lire) che porterebbero la società in rovina qualora il film non potesse circolare, e richiede che venga concesso il visto all’edizione originale con sottotitoli italiani, «cosa in precedenza già concessa per altri film scabrosi, e mettere così in grado la nostra azienda di non perire». La Commissione di II grado acconsente, in data 5 agosto 1954.

La Ronde viene ripresentato in versione originale il 27 novembre 1954, e, doppiato e con notevoli cambiamenti, il 7 gennaio 1957, sotto la reggenza Brusasca. In particolare, il distributore specifica che nel primo episodio è stata «tagliata l’ultima parte della scena che si svolgeva lungo il fiume e sostituita con una dissolvenza che si riporta alla precedente scena della caserma», mentre nell’episodio in cui lo studente Albert (Daniel Gelin) seduce la cameriera Marie (Simone Simon) è stata eliminata «tutta la parte che si svolgeva nella camera ed in cui lo studente faceva delle considerazioni soggettive che potevano essere ritenute scabrose». Ancora una volta il giudizio è negativo. Il 31 gennaio 1957 la Commissione di I grado respinge La Ronde «in quanto contiene scene offensive del buon costume». La D.R. fa domanda d’appello (25 febbraio), facendo presente che il film «è stato per ben tre volte ridialogato e varie scene sono state soppresse, con impiego non indifferente di capitale». Passa oltre un anno prima che la Commissione di II grado (presieduta dal sottosegretario Raffaele Resta, che nel frattempo ha preso il posto di Brusasca) si pronunci, confermando il parere espresso in prima istanza in data 31 marzo 1958.

L’odissea di La Ronde non ha fine: ripresentandolo con il sottotitolo La giostra dell’amore il 28 agosto 1958, il rappresentante della D.R. Danilo Ruggero fa presente che «al film sono state apportate notevoli modifiche sia nella sua parte visiva che nel dialogo e che pertanto […] può essere considerato nuova edizione rispetto alla 1a (di cui è inferiore di metri 385)».

I circa quattordici minuti in meno sono giustificati dai seguenti tagli:

− Scena tra il soldato (Serge Reggiani) e la prostituta (Simone Signoret), definita «ragazza» nei documenti ufficiali: quando nella caserma suona la tromba della ritirata, è stata eliminata la parte successiva in cui il soldato lascia in fretta la donna e corre via per rientrare in tempo in caserma; la prostituta lo rincorre apostrofandolo con «parole vivaci»; i due si scambiano invettive; il soldato corre verso la caserma; la scena riprende nel momento in cui alcuni soldati rientrano scavalcando il muro di cinta, e lo stesso fa il protagonista (tagliati 20 m).

− Mentre il soldato passeggia nel parco con la cameriera, sono state eliminate le scene di tre coppie «abbracciate in modo molto pronunciato e che avrebbero potuto disturbare la sensibilità dello spettatore» (tagliati 15 m).

− Quando la cameriera rilegge una lettera d’amore, è stata tagliata la parte in cui la ragazza si sdraia sul letto «in modo un po’ provocante» continuando a leggere. La scena riprende nel momento in cui suona il campanello (tagliati 10 m).

− Scena tra lo studente (Daniel Gélin) e la signora (Danielle Darrieux): quando lo studente vede la pelliccia della donna sul caminetto e corre verso la camera da letto, è tagliata tutta la parte successiva, in cui Ophüls racconta la defaillance erotica del giovane attraverso il guasto della giostra, che si inceppa costringendo il presentatore (Anton Walbrook) a ripararla; è sforbiciata anche la parte in cui i due conversano in pigiama a letto sulla teoria di Stendhal «e precisamente sulle circostanze e casi in cui un uomo può trovarsi in soggezione di fronte a una donna». Lo studente vince la timidezza, la giostra viene riparata e ricomincia a girare… (tagliati 156 m).

− Il signore (Fernand Gravey) e la commessa (Odette Joyeux) arrivano in carrozza al ristorante. Sono tagliate le «domande abbastanza salaci» che il cameriere fa al presentatore (10 m).

− Il poeta (Jean-Louis Barrault) e la midinette: il poeta declama versi e inizia a togliersi la camicia. A questo punto viene tagliata la parte in cui la donna, seduta sul divano, inizia a spogliarsi, e il dialogo amoroso tra i due, riprendendo dove il poeta continua a declamare in maniche di camicia (25 m).

− Il poeta e l’attrice (Isa Miranda): il poeta schiaffeggia la donna, poi l’afferra e la bacia. Il susseguente dialogo sull’amore è tagliato, e così la partenza dei due su una slitta (condotta dal presentatore) che arriva a una baita, da dove l’attrice, dopo un nuovo diverbio col poeta, fugge a casa. La scena riprende nel punto in cui il presentatore entra a casa dell’attrice, seguito dal conte (Gérard Philipe). (tagliati 70 m).

− Nella scena in cui l’attrice, a letto, sbottona il bavero della giacca al conte e lo attira a sé, è stato tagliato il lungo bacio che segue. Con involontario paradossale umorismo, la scena riprende nel punto in cui è il presentatore, armato di forbici e pellicola, a proclamare «Censura», tagliando a sua volta… (15 m).

− Infine, è sforbiciata quasi integralmente la scena in cui il conte si sveglia a casa della prostituta (Simone Signoret) e si riveste mentre lei è a letto. La copia italiana mostra il conte che esce a riprendere il suo cane, e salta a piè pari l’affettuoso dialogo tra i due amanti (64 m).

Le modifiche riguardano anche numerosi dialoghi: qualcuno è «completamente variato e reso dolce, fine e più coquette» come quello tra lo studente e la signora, altri sono stravolti con l’aggiunta di un significato positivo (come nel dialogo a letto tra marito e moglie, dove emerge che «il vero amore è quello tra coniugi e solo questo tiene saldo il vincolo famigliare»); in altre scene vengono eliminate le frasi più piccanti, e a corollario di tutto ciò è interamente cambiato il dialogo di chiusura del presentatore: «il nuovo testo ha voluto dare una conclusione positiva al contenuto del film esaltando i valori dell’animo e condannando le passioni».

Non basta: Ruggero precisa che «al fine di rendere il film di lunghezza più commerciale sono state inserite diverse volte le scene riproducenti il presentatore che fa girare la giostra accompagnandola col canto e la musica del motivo conduttore».

Ciononostante, La Ronde è bocciato per l’ennesima volta con la medesima motivazione dell’offesa al buon costume, in data 26 settembre.

Ruggero presenta ricorso il 15 ottobre 1958. La Commissione d’Appello, riunitasi il 30 ottobre, «constatato che al film sono stati effettuati numerosi tagli e riduzioni sia nella parte visiva che nella parte dialogata, per effetto dei quali risultano eliminate o notevolmente ridotte le scene offensive della morale e del buon costume», esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico, accompagnata dal divieto ai minori di 16 anni. Gian Luigi Rondi, già membro della Giuria che a Venezia premiò il film, aprirà la sua stroncatura su «La Rivista del Cinematografo», così:

 

Mettiamo subito le carte in tavola. La Ronde era un film che non doveva avere il nulla osta di visione in pubblico. Lo affermiamo qui […] per nulla timorosi che qualcuno possa ritenere incompatibile l’attività critica con quella censoria. […] solo una censura divenuta improvvisamente sorda ai problemi della moralità può avergli concesso il nulla osta, così come una censura altrettanto sorda a quegli stessi problemi lo ha concesso alla commedia di Schnitzler, Girotondo, da cui il film è stato tratto.

 

E, rincarando la dose:

 

quanto alla edizione italiana del film va detto subito che i tagli (qualcuno, sì, lo hanno fatto, nonostante il clima regnante) hanno in un certo senso giovato a portare alla luce i difetti del film […]. Alla morale, però, e alla decenza, hanno giovato ben poco: […] forse si vedono particolari meno indecenti, ma i pensieri di ogni persona che appare sullo schermo restano indecenti e tanto basta. Povero pubblico italiano!4

 

 

1 Luigi Reitani, Cambio di scena, Reigen nella regia cinematografica di Max Ophüls, in Luciano De Giusti, Luca Giuliani, Il piacere e il disincanto nel cinema di Max Ophüls, Il Castoro, Milano 2003, p. 92.

2 «Tra i film presentati alla Mostra Veneziana del 1950 due ve n’erano cui si prevedeva la censura avrebbe reso la vita difficile, in Italia. Il semieretico Dieu a besoin des hommes ha avuto via libera; i cattolici hanno cercato di farne propria la tesi, ed hanno concluso che un bel film, convenientemente interpretato da un punto di vista ideologico, poteva fare “buon brodo”. […] Il fatto sta […] che la Lux, importatrice di quel film, ha fatto un gran buon affare. […] Meno fortunata è stata la Minerva Film, che non è riuscita per ora a demolire le opposizioni a che La Ronde […] abbia libera circolazione nel nostro Paese. Il sesso spaventa i censori, evidentemente più che non la scelta, da parte delle coscienze, di un modo di comunicazione con Dio. Sarebbe, è chiaro, difficile per i cattolici annettere un film come La Ronde, darne un’interpretazione edificante». Giulio Cesare Castello, Max Ophüls in casa Tellier, «Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica» n. 64, 15 giugno 1951, p. 334.

3 C. [Giulio Cesare Castello], Promemoria per l’onorevole, «Cinema: quindicinale di divulgazione cinematografica» n. 122, 30 novembre 1953, p. 285.

4 Gian Luigi Rondi, La Ronde, «Rivista del Cinematografo» n. 1, gennaio 1959, p. 32.

 

 

n. 16753

San Miniato luglio ’44

Italia 1955, b/n

 

R: Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini; consulenza, commento e sc: Cesare Zavattini; fo: Renato Carmassi; mu: Mario Zafred.

Prod: Valentino Orsini.

Revisione: 3.5.1955 (320 m), respinto: 14.5-1.7.1955.

 

Cortometraggio che documenta il tragico eccidio avvenuto nella cattedrale di San Miniato il 22 luglio 1944. La macchina da presa ripercorre le strade attraverso le quali passarono le vittime sotto il fucile delle forze di occupazione. Nella seconda parte i familiari degli scomparsi parlano dei loro cari.

 

Per il loro esordio nel documentario, Paolo e Vittorio Taviani, assieme all’amico e collaboratore Valentino Orsini, scelgono di raccontare una storia del loro paese, San Miniato, nel pisano, dove erano vissuti dalla nascita fino al 1944, quando la loro casa venne distrutta dai nazifascisti. Nelle prime ore del mattino del 22 luglio 1944 i nazisti radunano la popolazione locale – centinaia di uomini, donne, vecchi, bambini – nella cattedrale, per poi allontanarsi in ritirata. Dalle 10 alle 10.30 l’area è bersagliata da colpi d’artiglieria. E poco più tardi una tremenda esplosione provoca più di cinquanta vittime: la più piccola ha 9 anni, la più anziana 83. Molti altri, il numero è incerto, trasportati negli ospedali dei paesi vicini moriranno per le ferite. Le inchieste avviate dopo la liberazione – a una di queste partecipa il padre dei Taviani, avvocato – giungono alla medesima conclusione: si tratta di una strage nazista, forse con una mina o una bomba a scoppio ritardato.

Preceduto dalla didascalia: «Il 22 luglio 1944 cinquantadue persone, tra uomini bambini e donne, morivano nella cattedrale di San Miniato, vittime della repressione nazista», San Miniato luglio ’44 si divide in tre parti. All’inizio una voce narra le vicende storiche culminate nel massacro; la cinepresa ripercorre poi il cammino delle vittime fino alla cattedrale; infine, quando la mdp è nella chiesa, si odono le voci dei testimoni che rievocano l’eccidio.

Patrocinato da un comitato cittadino costituito per celebrare il decennale della Resistenza, San Miniato luglio ’44 (la denuncia di inizio lavorazione è datata 31 maggio 1954) è osteggiato già in fase di riprese. Il 7 giugno un Commissario di pubblica sicurezza, constatato che queste sono iniziate senza dare avviso all’Autorità di P.S., denuncia Orsini e i Taviani per inosservanza dell’art. 76 della legge di P.S. e delle l. 22 aprile 1941 n. 633 e 20 dicembre 1949 n. 958, diffidando i registi dal continuare a filmare. Il montaggio è caratterizzato da numerose rinunce e cambiamenti rispetto al progetto iniziale.1

Per comprendere le ragioni di tale ostracismo vengono in aiuto alcuni documenti risalenti al periodo delle riprese. Il 5 luglio 1954, per incarico del vescovo di San Miniato, il vice presidente dell’ACEC (Associazione Cattolica Esercenti Cinema) Florio Luigi Ammannati fa pervenire al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giuseppe Ermini un promemoria in cui esprime le proprie preoccupazioni: «Il documentario vuol essere celebrativo della liberazione della città dai tedeschi, ma essendo preparato e realizzato da elementi filocomunisti si ha fondata ragione di ritenere che, con molta abilità, si voglia cercare di riportare in discussione un doloroso episodio occorso durante la liberazione di cui fu ingiustamente incolpato il defunto Vescovo», augurandosi che il destinatario «possa provvedere quanto possa essere opportuno in proposito».2 La Presidenza del Consiglio, girando il promemoria al presidente di Commissione De Tomasi, scrive: «sarà bene, in sede di esame da parte della censura del cortometraggio in questione […] fare la massima attenzione».

Anche il Prefetto di Pisa, che ha ricevuto – al pari del questore – analogo promemoria, scrive alla Direzione Generale dello Spettacolo a proposito del cortometraggio. I timori riguardano sempre il trattamento riservato dai cineasti alla figura di monsignor Ugo Giubbi, «in quanto, da parte di alcuni malintenzionati, fu accreditata, per speculazione di parte, la calunniosa diceria che il Vescovo […], allontanatosi, per caso, dalla Chiesa qualche attimo prima del cannoneggiamento, fosse connivente con il Comando tedesco», Si teme, insomma, «che si voglia profittare del documentario per speculare sulla calunniosa riferita accusa e per svegliare la sopita polemica […]. In effetti appare sospetto l’accanimento con cui le Amministrazioni predette sostengono l’iniziativa». Ce n’è anche per i Taviani,

 

noti esponenti del Comunismo locale e figli dell’avvocato Ermanno Taviani che fu una delle persone più attive nel diffondere, a suo tempo, l’assurda offensiva diceria […]. Nel copione del documentario infine che, a detta degli interessati si propone, tra l’altro, una quanto mai sospetta «riabilitazione» del Vescovo, figurano poi anche alcune interviste con persone un tempo molto accanite nel perseguitare ed offendere Mons. Giubbi e dalle quali non possono attendersi che manifestazioni di disprezzo e rancore. A parte i sospetti predetti, si giudica inopportuno che la rievocazione dei fatti […] rimanga affidata, nel quadro di una celebrazione di carattere nazionale che si svolge sotto l’egida del Governo, ad elementi di indiscussa fede comunista che non potranno prescindere, indipendentemente dalle contingenze illustrate, dalla loro preconcetta impostazione tecnica ed etica.

 

Rievocando l’episodio della denuncia dei registi, anche il Prefetto si raccomanda, in chiusura di missiva, «che ai predetti cineasti venga, al momento della necessaria richiesta, negato il […] nulla osta».

Il clima politico, del resto, è rovente. Proprio in quei giorni, nel decimo anniversario dell’eccidio viene scoperta sulla facciata del palazzo comunale di San Miniato una lapide dedicata alla memoria delle vittime, da cui però mancano alcune parole, staccate appena prima dell’affissione: si tratta della menzione – commissionata e poi eliminata all’ultimo momento – del comportamento del vescovo Giubbi.

San Miniato luglio ’44 vince il secondo premio al Festival del documentario di Pisa, ma non otterrà mai il visto di censura. Orsini lo presenta in censura il 3 maggio 1955: la Commissione, in data 13 maggio, esprime parere contrario «in quanto il soggetto e le scene del film stesso possono turbare l’ordine pubblico». Parere ribadito in data 1 luglio 1955 dalla Commissione di II grado presieduta dal sottosegretario Oscar Luigi Scalfaro e composta dal Consigliere di Cassazione Beniamino Leoni e dal prefetto Carlo Gerlini. La cosa curiosa è che la Commissione d’Appello aveva già visionato il film prima ancora che Orsini ne facesse richiesta il 20 giugno (menzionando incidentalmente il premio ricevuto), come risulta da un appunto per il Sottosegretario di Stato datato 28 giugno, in cui si chiede se sia necessario predisporre un verbale acconcio (e, aggiungiamo noi, postdatato, come appunto avverrà).

Conservato in copia unica presso gli stabilimenti Tirrenia, il documentario va perduto durante l’inondazione del 1966. I Taviani rievocheranno ancora il massacro in uno dei loro film più celebri, La notte di San Lorenzo (1982). Ma la storia dell’eccidio di San Miniato è destinata a riaprirsi nel 1994, quando l’armadio sui fascicoli dei crimini di guerra, l’armadio della vergogna, viene riaperto, ed emergono nuovi illuminanti documenti sulla strage. La spoletta di una granata viene identificata come appartenente a una bomba dell’esercito statunitense: il colpo fatale era dunque alleato, proveniente dal fuoco d’artiglieria concentrato sulla zona durante la ritirata dei tedeschi e fortunosamente penetrato nella cattedrale attraverso il rosone. Anche la figura di Monsignor Giubbi viene riabilitata: il vescovo, sebbene connivente con i fascisti, non ebbe alcun ruolo nella carneficina. Il 22 luglio 2008 viene affissa, non senza ulteriori polemiche, una seconda lapide commemorativa accanto alla prima, che corregge la verità storica. A inaugurarla è l’autore stesso del testo, il Presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

 

 

1 Vedi la lettera aperta di Antonio Taviani a Guido Aristarco, Morti proibiti, «Cinema Nuovo», n. 40, 1 agosto 1954, p. 41.

2 Le autorità ecclesiastiche avevano anche posto il veto alla testimonianza di don Ruggioni, che rammentava la morte del padre.

 

 

n. 16783

La notte del piacere (Fröken Julie)

Svezia 1951, b/n

 

R, sc: Alf Sjöberg; s: dal dramma di August Strindberg; fo: Göran Strindberg; mt: Lennart Wallén; mu: Dag Wirén.

Int: Anita Björk (Miss Julie), Ulf Palme (Jean), Marta Dorff (Kristin), Lissi Alandh (Contessa Berta), Anders Henrickson (Conte Carl), Max von Sydow (stalliere), Bibi Andersson.

Prod: Sandrews.

Revisione: 18.6.1954 (2400 m), respinto: 6.10.1954.

Riedizione: 29.9.1964 (2418 m), approvato: 2.10.1964 (n.o. 43871 - v.m.14).

Homevideo: Criterion (DVD, Usa).

 

Mentre la servitù festeggia la notte di San Giovanni, la volubile e insoddisfatta signorina Julie, figlia del conte Carl, stuzzica il maggiordomo Jean, la cui fama di donnaiolo la turba e la attrae, e che a sua volta la desidera. Julie finisce per concedersi all’uomo, ma la sua vita ne è sconvolta. Jean la convince a rubare al padre il denaro necessario per fuggire con lui. Ma il conte scopre il furto: e Julie, disperata, si uccide.

 

Presentato in versione francese dalla I.N.D.I.E.F., il film di Sjöberg – quarta versione del dramma di August Strinberg dopo quelle del 1919, 1922 e 1946: numerose altre ne saranno realizzate negli anni successivi –, vincitore nel 1951 del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes ex aequo con Miracolo a Milano, deve attendere oltre tre mesi prima del responso di I grado: giudicato offensivo del pudore e della morale e contenente scene ripugnanti, è bocciato il 6 ottobre 1954. Probabile che ai commissari, oltre alla franchezza nel mostrare i rapporti tra i sessi (e di classe), non sia piaciuto il modo in cui Sjöberg descrive la notte d’amore tra Julie e Jean, raccontata per analogia dai festeggiamenti del solstizio d’estate e con l’orgasmo evocato dagli spari festosi dei servi e dal vino che spilla da una botte ruzzolata a terra.

Passeranno dieci anni prima che la pellicola venga ripresentata in censura, in versione doppiata, col titolo La notte del piacere: nel frattempo molta acqua è passata sotto i ponti, e la passione tra la castellana e il maggiordomo descritta da Strindberg non scandalizza più nessuno, o quasi: il nulla osta è concesso con divieto ai minori di 14 in quanto «tutta la vicenda, che rappresenta una psicologia anormale, si riflette direttamente sull’esperienza di due bambini e fa trasparire talora una curiosità morbosa e un piacere di crudeltà». Il 18 novembre è approvata anche la versione francese La Nuit d’amour, col medesimo divieto.

 

 

n. 17093

Storia del Sex-Appeal

Italia 1954, col.

 

R: Vinicio Marinucci; fo: Giuseppe Ventimiglia.

Prod: Documento Film.

Revisione: 9.8.1954 (285 m), respinto: 3.9.1954.

Riedizione: 21.10.1954, respinto: 22.12.1954.

 

Prendendo lo spunto dai concorsi di bellezza si esaminano gli influssi del fascino femminile.

 

Cortometraggio a colori della durata di circa 10’ diretto dal prolifico Vinicio Marinucci1 e finanziato dalla Documento Film, una società di produzione fondata il 21 dicembre 1949 da Gianni e Giorgio Hecht Lucari. Di area democristiana, attiva prevalentemente nel campo del documentario e del cortometraggio, la Documento fu oggetto di non poche polemiche per le sovvenzioni ministeriali ottenute.2

Come scrive Tatti Sanguineti, «la ingentissima produzione» della società dei fratelli Hecht «funzionò da megafono della Ricostruzione. Principale compito ideologico di questo cinema di propaganda mimetizzata era quello di contrastare e smontare le false verità, la cosiddetta “autodenigrazione nazionale” del cinema neorealista»3.

Ma al di là dell’opera di propaganda, la Documento si avventurava talora su temi più disimpegnati. Come nel caso di Storia del Sex-Appeal, galante omaggio al gentil sesso presentato in revisione il 9 agosto 1954 e respinto il mese successivo perché giudicato «offensivo del pudore e della morale» (verbale del 3 settembre 1954).

Il 26 settembre la società presenta appello, allegando alla domanda una lettera in difesa del film redatta dallo stesso Marinucci, infarcita di retorica spiccia e moralismo d’altri tempi:

 

Quale regista del cortometraggio Storia del Sex-Appeal […] mi permetto di esporre a questa On. Commissione le finalità che hanno presieduto alla composizione del cortometraggio stesso. Il soggetto si informa ad una satira evidente dei concorsi di bellezza e mette in luce i pericoli ai quali si espongono le ragazze che vi partecipano. La conclusione vede un energico fidanzato appioppare un solenne ceffone a una ragazza con velleità di «miss», e quindi i due, sposi e felici, circondati da tre bambini. Richiamo esplicito, questo, alla legge divina che fa dell’attrazione sessuale un mezzo per assicurare la continuità della specie. Una morale quindi non soltanto positiva, ma addirittura polemica.

 

Quanto alla presunta oscenità, scrive Marinucci,

 

le uniche offese al pudore, poi, potrebbero essere recate da riprese di quadri del Botticelli, di Raffaello, del Tiziano, del Renoir, del Monet, della Venere di Cnido, che servono ad illustrare l’evoluzione della bellezza femminile attraverso i secoli per concludere con il concetto – burlescamente sottolineato da un disegno paradossale della Venere Ottentotta – della relatività e della vanità della perfezione fisica, dato che anche le brutte possono piacere.

 

La Commissione d’Appello tarda a revisionare l’opera, perciò la Documento Film appronta di sua iniziativa un’altra versione che presenta nuovamente al Ministero il 21 ottobre 1954, sottolineando, nella richiesta di revisione, che sono state escluse «le scene presumibilmente suscettibili di offendere il pudore e la morale.»

Ma nonostante gli sforzi, la Commissione d’Appello, presieduta dal sottosegretario Scalfaro, pone nuovamente il veto censorio, con decreto ufficiale del 22 dicembre 1954.

 

 

1 Giornalista, critico cinematografico e teatrale, autore televisivo, sceneggiatore tra i più prolifici fin dal 1949, Vinicio Marinucci (26 giugno 1916-18 febbraio 2001) ha diretto, tra il 1962 e il 1963, un paio di documentari sul genere dei «mondo di notte»: Le dolci notti e I piaceri nel mondo. Molto prolifica la sua attività di regista di video musicali destinati al circuito dei Cinebox.

2 «La “Documento Film” è quella dello scandalo del film documentario Dieci anni della nostra vita. Questo documentario è stato realizzato con materiale di repertorio dell’Istituto Luce, in gran parte dell’epoca fascista, ed è stato realizzato come film d’arte. Tale film-documentario fu raffazzonato in fretta e furia per scopi puramente elettorali e fu imposto alle sale di proiezione, in modo particolare a quelle dell’E.N.I.C., per la distribuzione in Italia. Fu decisa, con procedimento d’urgenza, la corresponsione del premio massimo del 18% sull’introito cioè quel premio che si dovrebbe accordare soltanto ai films di alto valore artistico e culturale. […] Sono decine e decine di milioni che si sono voluti regalare a questa “Documento Film”, perché faceva la propaganda per la Democrazia Cristiana». Egisto Cappellini, La verità sul cinema in Italia cit., p. 23.

3 Tatti Sanguineti, note in occasione della presentazione bolognese del progetto Il cinema ritrovato, 2-9 luglio 2005.

 

 

n. 17468

Il bruto (El bruto)

Messico 1953, b/n

 

R: Luis Buñuel; s, sc: Luis Buñuel, Luis Alcoriza; fo: Agustín Jiménez; mt: Jorge Bustos; mu: Raúl Lavista.

Int: Pedro Armendáriz (Pedro), Katy Jurado (Paloma), Rosa Arenas (Meche - v.it.: Lucia) Andrés Soler (Andrés Cabrera), Roberto Meyer (Carmelo González), Beatriz Ramos (Doña Marta).

Prod: Gabriel Castro, Óscar Dancigers, Sergio Kogan.

Revisione: 28.9.1954 (2307 m), respinto: 14.12.1954-4.4.1955.

Riedizione: 20.10.1955 (2022 m), respinto: 4.12.1955; approvato: 4.5.1956 (n.o. 17438 - v.m.16).

Homevideo: Dynit (DVD, Italia).

 

Città del Messico. Per sfrattare gli inquilini (tra cui la giovane Meche e l’anziano padre Carmelo) di una casa popolare che vuole abbattere, il potente Andrés Cabrera assolda il garzone di mattatoio Pedro, un gigante primitivo e violento che tutti chiamano «il bruto». Nel tentativo di intimidire Carmelo, Pedro ne provoca la morte con un pugno. La moglie del padrone, Paloma, si invaghisce del bruto e ne diventa l’amante, ma Pedro, nascostosi dalla polizia, si innamora della dolce Meche, figlia dell’uomo morto per causa sua. Paloma, folle di gelosia, lo denuncia e svela la verità alla rivale, per poi aizzare il marito contro Pedro, facendo credere d’essere stata violentata. Pedro uccide Cabrera a mani nude, ed è a sua volta ucciso dalla polizia chiamata da Paloma: Meche piange il corpo senza vita mentre Paloma resta sola e forse pazza.

 

«Melodramma sublime» per Ado Kyrou (ma con insoliti sprazzi di commedia), «film di corpi e di carne»1, Il bruto è in apparenza una pellicola al servizio dei divi Armendáriz e Jurado; ma è pervaso dai segni distintivi del regista, tanto nei simbolismi quanto nelle aperture surrealiste. Il soggetto del regista e Luis Alcoriza voleva raccontare la presa di coscienza di un «bruto» (personaggio ispirato al Lenny di Uomini e topi di Steinbeck) che passa dalla parte dei padroni a quella degli oppressi, ma fu stravolto dalla produzione. Ulteriore scempio viene effettuato dal distributore italiano dopo la bocciatura in sede di censura. Presentato in versione doppiata dalla C.E.I.A.D. il 28 settembre 1954, Il bruto viene respinto dalla Commissione, che lo revisiona il 14 dicembre, «poiché il film, di evidente intonazione antiborghese, si ispira ad un soggetto che costituisce incentivo all’odio fra le classi sociali, generando nell’animo dello spettatore sentimenti che possono turbare l’ordine pubblico e contiene scene di violenza e di brutalità, nonché altre contrarie alla morale».

La domanda d’appello della C.E.I.A.D. è presentata il 12 gennaio 1955. La Commissione di II grado, presieduta dal sottosegretario di Stato Oscar Luigi Scalfaro e composta dal Consigliere di Corte di Cassazione Beniamino Leoni e dal prefetto Carlo Gerlini, visionatolo il 4 aprile, ribadisce il parere contrario di prima istanza.

La casa distributrice ripresenta Il bruto il 20 ottobre 1955, in una nuova edizione «completamente modificata nel dialogo e con l’eliminazione di molte scene in dipendenza delle modifiche del dialogo», scorciata di quasi 10 minuti e mezzo (285 m). Cadono i passaggi più scopertamente politici, ossia scambi di battute come «Vi avverto che siete tenuti ad osservare la legge» «La legge è per i ricchi, no? E non c’è niente da fare», e «Sarà una lotta dura, ma la cosa importante è combattere uniti, perché uniti non ci potrete mai far niente» (in una scena dove Carmelo affronta il segretario di Cabrera che intima lo sfratto). Molti passaggi vengono ammorbiditi («luridi vagabondi» diventa «sporchi lazzaroni») o depurati dalle allusioni più scomode («con un pugno ti faccio salire in cielo» muta in «con un pugno ti mando sulla luna»). Ma il punto forse più significativo è forse quello in cui la frase «E tutto per colpa di questa politica» diventa «E tutto per colpa di quella politica».

Questa volta la Commissione, revisionato il film il 2 maggio 1956, esprime parere favorevole sebbene con divieto ai minori di anni 16, «trattandosi di un film contenente scene di violenza che possono turbare l’animo dei giovani».

Il 28 luglio 1977 Il bruto è ripresentato in censura per ottenere la derubricazione del divieto ai fini della trasmissione in TV, ottenendo il nulla osta in pubblico senza limiti di età: è stata tagliata una scena di seduzione particolarmente insistita tra Pedro Armendáriz e Katy Jurado nel secondo rullo, per un totale di 26 m (55” circa).

 

 

1 Alberto Farassino, Tutto il cinema di Luis Buñuel, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p. 178.

 

 

n. 17563

Il compagno Pulcinella

Italia 1954, col.

 

R: Luciano Perugia.

Prod: Produzione Santa Monica.

Revisione: 14.10.1954 (302 m), respinto: 29.12.1954.

 

Pulcinella, operaio nella fabbrica di scarpe S.A.S.P.S. che ha siglato un contratto con la Nato per la fornitura di stivali militari, viene raggirato dal segretario del partito Comunista, che lo convince a organizzare scioperi. Con il suo atteggiamento spregiudicato, Pulcinella fa chiudere la fabbrica, subendo una dura punizione da parte dei compagni e della moglie. Si fa avanti allora il partito Comunista, che propone al padrone della fabbrica di lavorare per la Russia a metà prezzo, promettendo che sebbene il guadagno sarà minore non vi sarà mai alcuno sciopero. Per aiutare il partito, Pulcinella propone ai lavoratori di fabbricare solo scarpe sinistre in modo che nessuno possa fare la guerra.

 

«Più cartoline e meno idee» sbotta il segretario del Partito Comunista, baffone di prammatica, nella scena iniziale. Ed è subito chiaro che il Pulcinella del cortometraggio, realizzato con l’uso di marionette, è al centro di un apologo di smaccata propaganda anticomunista. Il compagno Pulcinella è un ingenuo che dipinge un quadro idilliaco di un’Italia futura finalmente comunista: «mattina e sera maccarone co’ a pummarola in coppa, ma ‘na bella pummarola rossa rossa come la bandiera del partito nostro… questo è il comunismo!». Nei dieci minuti di durata non si risparmiano stoccate al blocco sovietico e ai suoi sostenitori nella penisola: in Russia tutti vincono al lotto e mangiano gli spaghetti (anzi, caviale e vodka!), e tutti lavorano: «a Russia è ‘o paradiso, ce sta scritto pure sull’“Unità”!». Ma quando la fabbrica è costretta a lavorare per l’Urss a prezzo dimezzato, un operaio sbotta: «prima guadagnavamo il doppio e facevamo sciopero, ora guadagniamo la metà e non possiamo fare sciopero!». E la colomba della pace regalata dal segretario del Partito Comunista a Pulcinella è il simbolo di un atteggiamento di ipocrita pacifismo che cela propositi guerrafondai: tanto che alla fine Pulcinella – riempito di botte prima dai compagni lavoratori giustamente infuriati per aver perduto il lavoro e quindi dai dirigenti comunisti a cui ha mandato all’aria l’affare, facendo produrre alla fabbrica solo scarpe sinistre – con quella colomba ci fa un bel brodo.

Il cortometraggio viene presentato in censura il 14 ottobre 1954, e respinto in data 29 dicembre 1954. Il verbale non riporta motivazione alcuna, ma si possono intuire le consuete ragioni di «ordine pubblico».

 

 

n. 17755

Le avventure di Giacomo Casanova

Italia/Francia 1954, col.

 

R: Steno [Stefano Vanzina]; sc: Steno, Emo Bistolfi, Sandro Continenza, Lucio Fulci, Mario Guerra, Carlo Romano; mu: Francesco Lavagnino; mt: Luciana Attenni.

Int: Gabriele Ferzetti (Casanova), Corinne Calvet (Louise de Chatillon), Nadia Gray (Marie-Thérèse), Marina Vlady (Fulvia), Carlo Campanini (valletto), Aroldo Tieri (tenente Ramirez), Ursula Andress.

Prod: Orso-Iris Film/C.F.P.C.

Revisione: 15.11.1954 (3000 m), approvato: 10.12.1954 (n.o.17755 - v.m. 16 - revocato: 1.3.1955).

Riedizione: 22.3.1955 (2790 m), approvato: 4.5.1955 (2516 m - v.m.16).

Homevideo: Ripley’s (DVD, Italia).

 

1760. Giunto ad Alcantara durante la fiesta, colpito da mandato di cattura, Giacomo Casanova viene arrestato. Nel suo bagaglio le guardie trovano il manoscritto delle sue memorie, dalla cui lettura si rievocano alcune avventure del seduttore. Casanova riesce a fuggire con l’aiuto di un servo e di una ragazza innamorata di lui, e si dirige in Francia, dove sarebbe al sicuro. Ma l’incontro con una bella donna diretta in Spagna gli farà cambiare nuovamente idea.

 

Una coppia passeggia davanti a un cinema. Il film proiettato è Casanova. Gli orari degli spettacoli: 16/16,15/16,30/16,45 e così via. «Vedi», commenta lui, «hanno rimesso in circolazione il film con qualche taglio della censura». La vignetta d’epoca, apparsa su «Il Travaso» del 15 maggio 1955 e riprodotta nel fondamentale Italia taglia a cura di Tatti Sanguineti1, ben esprime l’eco sul grande pubblico delle vicissitudini della pellicola di Steno.

È accaduto che, a norma del’art. 14 del R.D. n. 3287/1923, il 14 febbraio 1955 il sottosegretario di Stato Oscar Luigi Scalfaro ha richiamato il film per una revisione straordinaria da parte della Commissione di II grado da lui presieduta, e composta dal consigliere di Cassazione Leoni e dal prefetto Gerlini. I quali, il 1 marzo 1955, hanno espresso parere contrario alla proiezione in pubblico «perché il film stesso è offensivo del pudore, della morale e del buon costume» (da notare che lo stesso Scalfaro, di suo pugno, ha modificato la formulazione originaria del responso, ove si leggeva «contiene scene offensive del pudore ecc.», nella lettera destinata alla casa produttrice). Di modo che al film di Steno viene revocato il nulla osta rilasciato il 10 dicembre 1954.

Eppure l’iter della pellicola era stato accidentato già dall’inizio. Dopo la domanda per il consenso alla realizzazione di un film in coproduzione francese su Casanova (marzo 1954), nel giugno del 1954 ha luogo la revisione preventiva del copione, con il cambiamento del titolo (quello originario, Le avventure e gli amori di Giacomo Casanova, aveva di troppo l’allusione agli amori dell’eponimo protagonista) nonché l’eliminazione di alcune scene e battute di dialogo (ventidue tagli in tutto): alla fine l’opera è ammessa alla coproduzione. A lavorazione ultimata, la Produzione Associata Orso Film/Iris Film presenta la pellicola alla commissione d’autocensura dell’ANICA, che all’unanimità la approva e le accorda il marchio dell’associazione. Le avventure di Giacomo Casanova giunge in revisione il 15 novembre: la Commissione di I grado esprime parere favorevole, con divieto ai minori di 16 anni, e il film arriva nelle sale, distribuito dalla CEI-INCOM.

Nel febbraio 1955, con l’inizio dello sfruttamento nel circuito di seconda visione, iniziano i guai. In un appunto per Scalfaro, il D.G. De Pirro trascrive un telegramma del prefetto di Padova, Celona, dove si rende noto il «vivo risentimento» dell’ambiente cattolico di cui si è resa interprete la Curia vescovile della città. Si mobilitano le associazioni cattoliche di Treviso, le cui indignate proteste fanno sì che le autorità locali tolgano di circolazione il film, e i gruppi di Azione Cattolica di varie città – Brescia, Venezia, Viareggio, Torino, Cosenza, Macerata, Foligno… – bersagliano anche il ministro (senza portafoglio) del Turismo e Spettacolo Giovanni Ponti, il quale a sua volta gira le lamentele al Sottosegretario. E a questo punto Scalfaro opta per l’arma finale: l’art. 14 del vecchio regolamento fascista. Le avventure di Giacomo Casanova è ritirato di circolazione per una revisione straordinaria. Steno, suo malgrado, è stato buon profeta: il suo film si apre con una voce che ricorda come in Spagna nel 1760 fosse ancora attiva l’Inquisizione…

Il dibattito ferve. Sul «Corriere della Sera», Carlo Laurenzi scrive: «tale sequestro potrà essere magari, un errore, ma non involge un principio iniquo. È chiaro che nessuna censura è ammissibile, in un Paese libero, all’arte […]. Il cinema è qualcosa di molto diverso»2. La «Voce Repubblicana» critica la censura clericale, contro cui insorge anche il vice segretario del Partito Liberale Orsello, il quale sul «Tempo» si chiede se «con l’ausilio di leggi prettamente antiliberali e antidemocratiche […] si vuole clericalizzare lo Stato italiano»3, mentre quello stesso giorno, sul medesimo quotidiano, nella sua rubrica Curzio Malaparte osserva: «C’è voluto lo scandalo Scalfaro-Casanova, e la pubblica reazione che ne è seguita, per indurre i partiti laici ad alzare finalmente la voce contro la nuova sopraffazione della censura clericale». L’art. 14 è giudicato dai più norma

 

anacronistica e contraria allo spirito e alla lettera della Costituzione. […] I pericoli insiti in quell’articolo sono evidenti. […] è chiaro che ogni protesta di singoli cittadini, di associazioni private o di partiti, obbligherebbe la Presidenza del Consiglio a richiamare le pellicole già passate in censura […]. Ora che la procedura è nota a tutti, la proiezione dei film […] dipenderà […] da tante censure quante sono le opinioni e gli umori di gruppi, di enti pubblici o privati.4

 

Ma Scalfaro riceve il sostegno di privati cittadini ed esponenti del mondo cattolico. Tra i primi c’è l’ingegnere Vittorio Dell’Agli, che gli scrive una lettera in cui plaude a un atto che «non può non essere altamente apprezzato da chiunque sia pensoso e preoccupato, come cittadino e particolarmente come padre di famiglia, dalle funeste conseguenze di una produzione cinematografica corrotta e corruttrice che, purtroppo, ancora ha tanta diffusione nel nostro Paese». Manifestando un sentimento «più che d’approvazione, di riconoscenza» per il «benemerito gesto […] di coraggiosa applicazione delle disposizioni vigenti», il Dell’Agli si augura che esso non resti isolato, «nonostante la reazione inusitata, di cui si spiegano facilmente le ragioni, tenuto conto degli interessi economici colpiti e della posizione politica e ideologica degli autori», e che «gli interventi necessari delle Autorità vengano ripetuti, se del caso, e possibilmente con maggiore tempestività, per evitare il danno provocato dalla proiezione di pellicole immorali». Rispondendo, il Sottosegretario rinnova il suo impegno a che «la produzione cinematografica sia mantenuta su di una linea tale da costituire una sana ricreazione per il popolo».

Anche l’Unione Giovani di Azione Cattolica di Cave del Predil (Udine) scrive a Scalfaro per plaudire alla sua opera, «auspica che cotesto Ministero voglia sempre e severamente censurare quelle pellicole che sono offensive del pudore e della morale», e «fa voti che vengano moltiplicati gli sforzi per una maggiore produzione di pellicole per ragazzi». Anche la cattolica «Rivista del Cinematografo» si schiera di conseguenza, ammonendo che «resta sempre ai rappresentanti dei cattolici italiani il dovere di affermare senza titubanze, e senza pavidi o interessati compromessi, i diritti della vera libertà che non è licenza e di difendere le superiori esigenze della dignità umana e cristiana» e rivendicando «il coraggio di essere coerenti ai principi morali» professati, «a costo anche dell’impopolarità»5.

Di fronte al montare del caso politico, il Sottosegretario decide di spiegare l’accaduto all’opinione pubblica. In un comunicato radiofonico dell’11 marzo, ripercorre l’iter della pellicola, e conclude:

 

Comprendo come le persone interessate che vengano colpite nei loro interessi, abbiano a lagnarsi e proprio per questo ho cercato personalmente di vedere se fosse stato possibile in qualche modo attutire il danno medesimo, ma ogni persona sensibile alle leggi morali che stanno alla base di ogni sana convivenza umana dovrà convenire che avrebbe gravemente mancato chi, stando a questo posto, avesse trascurato una così imponente e vasta schiera di cittadini che credono nella necessità e nell’urgenza di tutelare la Società da ogni disgregazione morale e quindi civile.

Non un abuso, dunque, della Presidenza del Consiglio, ma il preciso dovere civico e morale di intervenire secondo una procedura prevista dalle leggi in vigore.

 

Dalla parte dell’industria c’è maretta. Dopo le esternazioni radiofoniche di Scalfaro, Sandro Pallavicini e Dario Sabatello della Orso Film indicono una conferenza stampa per il giorno successivo, in cui minacciano di fermare le nuove produzioni se non verrà posta in essere una «regolamentazione alla censura cinematografica», e inviano al Ministero un dettagliato e battagliero promemoria in cui ricordano che in sede di revisione preventiva la stessa Direzione Generale aveva

 

constatato che la sceneggiatura stessa era stata scritta in chiave di commedia leggera e scanzonata, senza alcuna morbosità […] Dalla sceneggiatura […] approvata, la Direzione dello Spettacolo era perfettamente a conoscenza della materia trattata […] e avrebbe potuto impedirne la realizzazione senza danno per i produttori, non ammettendo […] il film alla coproduzione […]. Sembra quasi inconcepibile che la stessa amministrazione e le stesse persone che solo due mesi fa non hanno trovato nulla da eccepire al film stesso, vogliano ora toglierlo dalla circolazione o mutilarlo in maniera irreparabile.

 

I produttori insistono:

 

eventuali proteste possono esserci state, ma le Società Produttrici sono sicure che si riferiscono ad una piccola minoranza del pubblico cinematografico italiano, mentre la stragrande maggioranza dei liberi cittadini protesterebbe ben più energicamente e in proporzioni enormemente superiori qualora un film come questo in oggetto, per nulla licenzioso, venisse ritirato dagli schermi italiani […]. Discussioni o tagli ai film prima che fosse stato loro accordato il visto di censura ce ne sono stati e ce ne saranno sempre finché non ci sarà, come in America, un preciso e dettagliato codice di censura che tolga soggettività agli eventuali provvedimenti, ma casi di film che sono già in corso di programmazione e vengono ritirati per provvedimento amministrativo sono rari, gravissimi e pongono perfino dei problemi costituzionali. […] Chi potrebbe o oserebbe in queste condizioni affrontare la realizzazione di un film […] con il rischio che il film stesso possa venire ritirato dalla circolazione per criteri personali o per la protesta di una percentuale minima della popolazione […]?

 

Ciò non vale comunque a far mutare avviso alla Commissione, cioè a Scalfaro. Nemmeno la proposta di ventotto tagli (420 m di pellicola, ossia oltre quindici minuti) è accolta con favore. Per il Sottosegretario non è questione di singole scene, ma dell’argomento complessivo del film, come si nota dalla modifica di suo pugno apposta alla comunicazione alla Orso Film. Il Casanova secondo Steno è un elogio dell’adulterio, punto e basta.

In seguito alla revoca del nulla osta, la produzione non perde tempo, e per tamponare ulteriori danni economici, una ventina di giorni dopo (22 marzo) ripresenta il film «dopo aver fatto eseguire alcuni tagli ed inserito alcune nuove scene».

Gli interventi, per la precisione, sono trentaquattro, cui si aggiunge l’inserimento di sei brevi scene (due di guardie che galoppano, una all’interno della caserma di Alcantara, un cavaliere al galoppo sulla spiaggia e altri cavalieri all’inseguimento, una carrozza al trotto su una strada mentre Casanova è in agguato per saltarvi sopra) per bilanciare il metraggio. A cadere sono dialoghi allusivi (Le Duc: «Come potete trovare un letto libero?»; Casanova: «Non c’è bisogno che un letto sia libero per dormirci dentro…»; Casanova che sbircia in una scollatura, mentre un bambino dice: «Un corpo immerso nell’acqua riceve una spinta…»), inquadrature troppo spinte («Accorciare la scena nella quale Angelica, cadendo dalla scala, lascia scoprire le gambe»), baci e via dicendo. Anche a costo di abbruttire lo stile («eliminare il bacio sul letto, spezzando la panoramica anche se dovremo eliminare la dissolvenza»). Cadono completamente, tra le altre, le tre scene relative all’avventura di Casanova nei panni di Alto Commissario della Morale («Cominciò per me peccatore una carriera impensata… quella di paladino della campagna contro il peccato…»).

Dove non è possibile sforbiciare, le battute vengono raschiate via dalla colonna sonora, come quella di Bettina che, alludendo a un appuntamento galante segreto con Casanova, si giustifica «Volevo fare un po’ di marmellata questa sera», e del barone Costanzi, il quale, a Casanova che – sfiancato dalle fatiche amorose, dovendo soddisfare tutte le donne di casa inclusa la baronessa – ha appena rassegnato le dimissioni dal ruolo di precettore, chiede: «Che c’è che non va? Forse il trattamento? O il troppo lavoro?».

La situazione è scottante. Scalfaro ha persino invocato l’intervento del Presidente del Consiglio Scelba, scatenando prevedibili ironie6. Poi, come intuibile, la vicenda si conclude come doveva concludersi, cioè all’italiana.

Il 4 aprile interviene Eitel Monaco, che scrive a De Pirro, inviandogli il testo di un comunicato stampa dell’ANICA in merito al Casanova e mettendo le mani avanti:

 

Tu sai che si tratta di una mia iniziativa personale, che sento di dover prendere sovrattutto per evitare qualsiasi malinteso nei confronti di organismi e di persone che hanno sempre dato ogni appoggio alla mia Associazione e alla industria che essa rappresenta.

Data pertanto la gravità degli interessi in gioco […] e data la necessità di non creare – in un momento così difficile per la nostra industria – divergenze tra l’azione dell’ANICA e quella delle Unioni che la compongono, sono certo che tu vorrai renderti interprete delle seguenti esigenze:

1) L’ANICA potrà diramare l’allegato comunicato quando tu potrai cortesemente confermarmi che il visto censura verrà concesso al film nell’attuale edizione, che, come sai, è il frutto di ben 28 tagli a suo tempo proposti dalla ditta, di ulteriori quattro tagli che erano stati successivamente richiesti, di quattro successive amputazioni [Monaco ha perso per strada un taglio, N.d.A.] e dell’aggiunta di alcune scene nuove. Penso che veramente ulteriori modifiche renderebbero improiettabile il film.

2) Il rilascio del nostro visto presenta carattere di assoluta urgenza, essendo già scaduto un ingente importo di effetti cambiari […].

La mia iniziativa non accompagnata dal rilascio del visto, nel corso di questa settimana, mi porrebbe in una situazione di estremo imbarazzo e di incompatibilità nei confronti dell’atteggiamento già assunto in mia assenza dai miei colleghi dell’Associazione.

 

Nel comunicato, oltre a scoprire l’acqua calda («effettivamente l’art. 14 della legge 16 maggio 1947, n. 379, non abrogato dalla successiva vigente legge generale sulla cinematografia, ha esplicitamente confermato la piena validità del regolamento […] annesso al R.D. 24 settembre 1923 n. 3287»), il Comitato Direttivo dell’ANICA segnala «l’assoluta necessità che questa disposizione venga abrogata […]. Soltanto infatti un evento eccezionale di forza maggiore […] può giustificare un atto che mette a repentaglio il credito e l’esistenza stessa delle Aziende cinematografiche colpite dal provvedimento di revoca». Un caso esemplare di cerchiobottismo: da un lato, per placare le case produttrici inviperite per la mossa di Scalfaro, che mette a repentaglio la loro stessa esistenza, si auspica l’abrogazione della norma fascista, dall’altro si ammette che «nel caso in esame il Sottosegretario […] e la Direzione Generale […] hanno seguito una procedura corretta, nella forma e nella sostanza, in conformità alle leggi vigenti».

La Commissione si riunisce il 14 aprile. Stavolta il responso è positivo, con divieto ai minori di 16 anni, previi ulteriori tagli:

 

1) Nella sequenza in cui Casanova entra nella stanza di Lucrezia limitare la scena fino al punto in cui Lucrezia scende dal letto.

2) Togliere la scena in cui l’orologio segna le ore due e la successiva scena in cui Casanova bacia Barbara al momento d’uscire dalla stanza della ragazza.

3) Eliminare quasi per intero l’episodio dell’harem con relativo commento dello speaker, da «Si fece intraprendere…» fino a «Ero ormai temprato».

4) Togliere la battuta del diario di Casanova: «La contessa stava…» fino a «… il suo corpo meraviglioso».

5) Nella scena della taverna togliere i primi piani iniziali della sposina e di Casanova a letto, ed eliminare i successivi movimenti dei personaggi fino al momento in cui Casanova scrive sullo specchio «Ma perché l’hai sposato?».

6) Togliere le due scritte sullo specchio vergate da Casanova: «Lo sapevi che russava?» e «Tu lo sai che io non sono tuo cugino?».

7) Eliminare la scena in cui Casanova e la sposina si scambiano sguardi d’intesa allorché il marito esce dalla finestra della camera.

8) Eliminare la scena in cui si vede la moglie del console che si agita seminuda nel letto.

 

Le avventure di Giacomo Casanova torna nelle sale, sbarbato pelo e contropelo: 2516 m, 92’ circa, quasi 500 m in meno della durata primigenia. Ma il decoro e la moralità sono salvi.7

 

1 Tatti Sanguineti (a cura di), Italia taglia, Transeuropa, Ancona-Milano 1999, p. 152. Dal medesimo volume sono riportate le citazioni dei quotidiani in questa scheda.

2 Carlo Laurenzi, «Il Corriere della Sera», 16 marzo 1955.

3 Anonimo, «Il Tempo», 31 marzo 1955.

4 Curzio Malaparte, «Il Messaggero», 12 marzo 1955. Da notare che Franco Giraldi, su «L’Unità», scrive che «nel dopoguerra, non vi è stato nessun caso di film italiano ritirato dalla circolazione», dimenticando però Adamo ed Eva di Mattoli.

5 Casanova e le avventure del cinema, «Rivista del Cinematografo», aprile 1955, pp. 3-4.

6 «L’on. Scelba (noto critico cinematografico) assisterà alla proiezione privata del film per decidere o meno di rimetterlo in circolazione. E intanto ne approfitta per gustarselo!», «L’Unità», 16 marzo 1955.

7 Nonostante l’eco delle vicissitudini censorie e un lancio pubblicitario che puntava sulla fama di scandalo, gli incassi del Casanova saranno magri. Il film otterrà comunque il contributo commisurato all’introito lordo e destinato ai film di nazionalità italiana. La versione uscita in DVD Ripley’s e restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia contiene, oltre al metraggio amputato, anche brevi scene di nudo (i seni della dama misteriosa nella scena in cui Casanova penetra nottetempo nella stanza della cameriera Bettina, nudi femminili parziali nella breve sequenza dell’harem) girate per l’edizione francese, come da prassi.

 

 

n. 17768

Contro l’Italia

Italia 1954, b/n

 

R: Costantino Bramini; s: Luigi Barzini Junior; fo: Mario Bava, Servolonghi [sic!].

Prod: Fulvio Lucisano.

Revisione: 29.10.1954 (470 m), respinto: 27.11-18.12.1954.

 

Documentazione polemica dell’attività, dei metodi e delle finalità del Partito Comunista in Italia.

 

Sottoposto alla Commissione il 29 ottobre 1954, il «documentario pubblicitario» – di fatto un cortometraggio di propaganda anticomunista – diretto da Bramini viene bocciato in data 27 novembre, ai sensi dell’art. 3 lett. b) del R.D. n. 3287/1923, in quanto contiene scene contrarie all’ordine pubblico. Il produttore Fulvio Lucisano non ci sta: chiede al segretario di Scalfaro, il professor Lacalamita, di essere ricevuto per far sì che costui interceda presso il Sottosegretario, dopo di che ricorre in appello (15 dicembre 1954); nel ricorso, Lucisano

 

all’uopo rende noto che a suo giudizio il documentario in oggetto non lede la morale né offende le istituzioni democratiche dello Stato Italiano. Inoltre tutto ciò che il fotografico mostra è documento vero e reale ed il testo del parlato è il commento logico del visivo, commento che altro non è che esposizione dei principi di libertà e democrazia sanciti nella attuale costituzione dello Stato democratico Italiano e che sono stati bene riaffermati anche dalle recenti riunioni del Consiglio dei Ministri.

 

La Commissione d’Appello conferma però all’unanimità il giudizio di I grado.

Lucisano non molla l’osso: assilla Lacalamita promettendo di apportare «notevoli modifiche». La comunicazione del parere è tenuta in sospeso, e Scalfaro riconvoca la Commissione, che ribadisce il giudizio originario.

Per perorare la propria causa, Lucisano prende carta e penna e il 21 giugno 1955 scrive un’accorata lettera al presidente del Consiglio Mario Scelba. Nella missiva, il produttore tratteggia una ricostruzione degli eventi piuttosto diversa dalla realtà dei fatti, e ovviamente pro domo sua, con una verve affabulatoria e una mistura di pietismo, allusioni, mezze verità e bugie, riferimenti a personaggi influenti e captationes benevolentiae che la rende un documento emblematico di un certo modo di fare e pensare all’italiana.

 

Eccellenza,

come ella è a conoscenza all’ottobre del 1954 giace presso la direzione Generale dello Spettacolo, senza poter ottenere il visto di censura, un documentario da me realizzato dal titolo Contro l’Italia. A tale documentario era stato in un primo tempo concesso il visto di censura e successivamente revocato, pare per disposizione dell’On. Scalfaro, proprio all’indomani dei famosi provvedimenti anticomunisti presi dal governo da Vs. Ecc. presieduto.1

L’On. Manzini, Mons. Galletto ed altre personalità che hanno visionato il documentario si sono congratulati con il sottoscritto per la buona riuscita dello stesso e dietro mia richiesta si sono interessai presso l’on. Scalfaro per far rilasciare il visto di censura.

Dopo dei mesi di anticamera sono riuscito a parlare con il Segretario dell’On. Scalfaro, prof. La Calamita [sic!], che dopo due mesi mi ha fatto sapere che i comunisti sono tutti fratelli che bisogna aiutare e che quindi il documentario non aveva uno scopo e che comunque il giudizio definitivo dipendeva dall’Ecc. Vostra.

Milito nella Democrazia Cristiana da giovanissimo e pur essendo cristiano ho dovuto constatare personalmente che se anche i comunisti sono dei fratelli, sono perlomeno dei fratelli cattivi.

Ritengo comunque che come libero cittadino e come militante nello stesso partito abbia il diritto di conoscere quali sono le ragioni di questo atteggiamento e sono sicuro che l’Ecc. Va./, nonostante gli impegni di governo superiori ad una piccola questione come la mia, vorrà benevolmente esaminarla.

La ringrazio vivamente per quanto potrà fare e contemporaneamente porgo all’Ecc. Vostra i miei distinti ossequi.

 

Se Lucisano sperava di impietosire Scelba o carpirne la solidarietà con i reiterati riferimenti ai «comunisti» e alla militanza democristiana, gli va male. Gli replica il Sottosegretario in persona, con una lettera circostanziata piuttosto scocciata dove Scalfaro riepiloga seccamente le vicende del film. Non che questo basti a fermare il combattivo produttore: in data 29 luglio 1955 dalla direzione centrale della Democrazia Cristiana giunge una missiva destinata al successore di Scalfaro, Giuseppe Brusasca, in cui il capo della Segreteria Politica Guido Ruffini (segretario DC dal 1951 al 1954) prega il nuovo sottosegretario di riesaminare il dossier.

Il parere degli avvocati e dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio non lascia scampo: ai sensi di legge «l’unica cosa da fare da parte dell’interessato è quella di ripresentarlo con variazioni (e ripagando la tassa di revisione) all’esame della prima istanza». Il che non si verificherà.

 

 

1 Lucisano si riferisce probabilmente allo sfratto di molte Case del Popolo sulla base di una deliberazione del 18 marzo 1954, che stabilisce il recupero allo stato dei beni di proprietà del partito fascista e di altri beni demaniali in uso a organizzazioni di parte. Solo a Bologna e provincia sono diciotto le Case del Popolo sgomberate: spesso gli sgomberi sono accompagnati da episodi di violenza e arresti. Alcuni sindaci contrari al provvedimento vengono destituiti.

 

 

n. 18245

La bella seduttrice (Une Fille dans le soleil)

Francia 1953, b/n

 

R: Maurice Cam; sc: Raymond Castans, Roger Thérond; fo: Philippe Agostini; mu: Raymond Legrand; mt: Jeannette Rossi.

Int: Myriam Bru (Maggy), Henri Génès (Virgile), Jacques Morel (Boisières), Yvette Eitévant (Paulette), Alexandre Amaudy (Bouzigues), Edmond Ardisson (Racalan).

Prod: Eminente Films.

Revisione: 30.12.1954 (mt. 2233), respinto: 25.1-14.4.1955.

Riedizione: 30.5.1955 (mt. 2045), approvato: 15.6.1955.

 

Virgile, giovane sindaco di Fontenac, paesino della Francia meridionale, è molto amato dai suoi cittadini, che apprezzano i miglioramenti apportati nel villaggio. Questa armonia è turbata dall’arrivo di una giovane e bellissima bionda, Maggy, presunta pupilla del locale castellano, in realtà sua amante. Il malcontento divide gli abitanti in due fazioni, proprio alla vigilia delle elezioni. Virgile corre ai ripari, decidendo di allontanare Maggy, ma è a sua volta attratto dalla fatalona. La situazione si risolve grazie all’intervento della maestrina del villaggio, che, segretamente innamorata del sindaco, persuade Maggy a partire. Virgile viene rieletto e trova l’amore.

 

Commediola maliziosa costruita attorno alla bella Myriam Bru, già nota nel nostro Paese grazie al ruolo da protagonista in Eran trecento… (1952) di Gian Paolo Callegari e in seguito interprete di film come Puccini, Ti ho sempre amato!, Appassionatamente, Vacanze ad Ischia e Nella città l’inferno di Castellani (l’ultimo suo film prima del ritiro dalle scene dopo il matrimonio con Horst Buchholz), La bella seduttrice è sottoposto a revisione in edizione doppiata dalla L.I.A. Film il 28 dicembre 1954, e bocciato in I grado, il 25 gennaio 1955 per via di «scene contrarie alla morale e al buon costume». Il 25 febbraio la ditta ricorre in appello, e il 4 aprile 1955 la Commissione di II grado, presieduta dal Sottosegretario Scalfaro, esprime nuovamente parere contrario alla pubblica proiezione, indicando le scene considerate offensive:

− tutta la scena del bagno;

− la scena nella quale il Sindaco parla con la protagonista, dopo la passeggiata (quando la Bru è appoggiata alla parete rocciosa ed il protagonista le parla dal basso).

La L.I.A. ripresenta la pellicola in censura il 30 maggio 1955, dopo aver apportato i tagli segnalati nonché altre modifiche (tagliata parte di un dialogo tra Maggy e il tutore sulla terrazza di casa, una scena d’amore, e quella in cui il sindaco porta in braccio la donna), per un totale di 188 m (quasi 7’), ottenendo il nulla osta con il divieto di visione ai minori di anni 16.

 

 

n. 18773

Mom and Dad

Usa 1945, b/n

 

R: William Beaudine; s: Kroger Babb, Mildred Horn; sc: Mildred Horn; fo: Marcel Le Picard; mu: Dave Torbett; mt: Richard C. Currier, Lloyd Friedgen.

Int: June Carlson (Joan Blake), Lois Austin (Sarah Blake), George Eldredge (Dan Blake), Jimmy Clark (Dave Blake), Haride Albright (Carl Blackburn), Bob Lowell (Jack Griffith), Francis Ford (dottor Rubin).

Prod: Hallmark Productions.

Revisione: 24.3.1955 (1017 m - 16mm), respinto: 12.4.1955.

 

Dan e Sarah Blake trascurano l’educazione sessuale dei figli Joan e Dave, che crescono nella completa ignoranza in materia. Innamoratasi di Jack, Joan lo frequenta all’insaputa dei genitori e perde la verginità con lui. Nel frattempo Blackburn, il professore di biologia del liceo, propone di tenere lezioni di educazione sessuale, ma viene espulso dalla scuola. Accortasi di essere incinta, Joan non riesce a confidarsi con la madre; dopo la morte in guerra di Jack, sarà Blackburn a rivelare la verità ai genitori. Grazie all’intervento di Dan, Blackburn viene riassunto nella scuola, ove tiene lezioni di educazione sessuale. Joan, ricoverata in ospedale, dà alla luce un bimbo che però nasce morto.

 

Mom and Dad è un titolo leggendario nella storia della cinematografia indipendente statunitense. Leggendario come il suo artefice, Howard W. «Kroger» (dal nome della catena di drogherie in cui aveva lavorato) Babb, personaggio mitico che pare uscito dalle pagine dell’Huckleberry Finn di Mark Twain. Gran bevitore, fisico massiccio, parlantina, «un misto tra un imbroglione, P. T. Barnum e W. C. Fields»1, Babb porta in giro per gli Stati del Sud le sue pellicole come un imbonitore da fiera, offrendo al pubblico emozioni proibite e argomenti tabù (l’educazione sessuale, la droga, le malattie veneree) sotto forma di pistolotti pseudo-educativi di celluloide, al di fuori dei circuiti commerciali occupati dalle pellicole di Hollywood e liberi dalle pastoie del Codice Hays, in quanto privi del sigillo d’approvazione dell’Hays Office.

Mom and Dad è forse il capolavoro di Babb, e di certo il suo progetto più redditizio. Per una volta, il produttore/imprenditore mira a uno standard qualitativo superiore ai suoi soliti filmini a bassissimo costo: allo scopo, ottiene dalla Monogram Pictures (uno degli studi di punta della cosiddetta Poverty Row, le case produttrici minori hollywoodiane) una troupe tecnica che comprende il regista William Beaudine (1892-1970), ex attore e cineasta tra i più prolifici di sempre – non a caso soprannominato «one shot» per l’abitudine di girare una sola ripresa di ogni scena. E nel cast c’è il veterano Francis Ford, fratello maggiore di John.

Con Mom and Dad, Babb offre al pubblico uno spettacolo «educativo» che comprende il film stesso, l’intervento di un medico specialista (il sedicente «Dr. Elliot Forbes»), accompagnato da un paio di infermiere, che interrompe la proiezione per effettuare letture da un libro sull’argomento (The Secrets of Sensible Sex) acquistabile al termine della proiezione. Al di là del plot moralistico (in cui la critica alla famiglia retrograda è bilanciata dalla punizione della povera protagonista, che non solo perde il fidanzato con cui aveva fatto sesso prematrimoniale, ma anche il proprio figlio nato morto), il momento clou sono le riprese della nascita di un bambino: vengono mostrati un parto naturale, uno cesareo e, infine, raccapriccianti esempi delle conseguenze di malattie veneree. L’ambaradàn orchestrato da Babb fa di Mom and Dad uno show multimediale di successo e duraturo: quando il film debutta a Baltimora, pur se condannato dalla Legione della Decenza, incassa 32.000 dollari nella prima settimana, in un’epoca in cui il prezzo di un biglietto è 25 centesimi, e continua a rastrellare fior di quattrini per anni.

In Italia Mom and Dad non ha altrettanta fortuna. Presentato in edizione originale il 24 marzo 1955, viene revisionato il 12 aprile 1955: la Commissione esprime parere contrario alla proiezione in pubblico poiché la pellicola «contiene lunghe scene di operazioni chirurgiche contrarie al pudore ed alla pubblica decenza, in quanto mostrano il modo come avviene un parto normale e un parto cesareo, nonché scene riproducenti persone affette da malattie veneree». Il responsabile della casa distributrice Bellotti Film chiede che vengano comunicate per iscritto anziché verbalmente le scene da tagliare per ottenere il nulla osta, in quanto nell’opzione ottenuta dal detentore dei diritti del film è previsto che, qualora il film non fosse stato approvato integralmente, il contratto d’acquisto non sarebbe stato perfezionato. La Direzione Generale replica che, essendo il film stato bocciato, l’unica via per la Bellotti è presentare domanda d’appello. La ditta rinuncia, e Mom and Dad resta inedito in Italia.

 

 

1 Vale, Andrea Juno (a cura di), Incredibly Strange Films, «Re/Search», n. 10, Re/Search Publications, San Francisco 1986, p. 102.

 

 

n. 18832 / 21778

Un ricordo… una speranza/Un ricordo di casa Savoia

Italia 1955, b/n

 

R: non indicata.

Prod: Partito Monarchico Popolare.

Revisione: 2.4.1955 (205 m - 16mm), respinto: 6.4.1955.

Riedizione: 14.5.1956 (250 m - 16mm), respinto: 15.5.1956.

 

«In principio viene revocata la partenza del Sovrano dall’Italia. Successivamente con pezzi di repertorio già autorizzati per la INCOM, appaiono le sequenze delle accoglienze di Napoli e di Roma ad Umberto II. Poi, prendendo lo spunto da un album sabaudo si ricordano i momenti più salienti della vita di Vittorio Emanuele III, di Casa Savoia e di Umberto II. Infine, dopo alcune inquadrature di Cascais, si rievocano la vita delle Principessine, la prima Comunione di Maria Gabriella ed il matrimonio di Maria Pia.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Il cortometraggio di propaganda prodotto dal Partito Monarchico Popolare arriva in censura il 3 aprile 1955, in occasione delle elezioni regionali in Sicilia: è destinato alla proiezione esclusivamente nell’isola, a mezzo autocinema, durante la campagna elettorale. La V Commissione, che lo revisiona il 6 aprile, esprime inizialmente parere favorevole alla programmazione, a condizione che vengano eliminate alcune battute del commento:

− l’espressione «ingiusto referendum»;

− il passaggio: «Nenni rivendicava i suoi meriti a Mosca convinto che, se Romita fu il padre della Repubblica, lui fu l’artefice del parto illegittimo. Mai conferenza stampa al Viminale fu più rapida e succinta; una ridda di cifre coniate dalle calcolatrici per annunciare la travagliata nascita della Repubblica, e poi Romita lasciò in fretta la sala sottraendosi alle imbarazzanti domande dei giornalisti»;

− «…ma i Magistrati della Suprema Corte si astennero con eloquente riserbo dal proclamare la forma istituzionale dello Stato».

Il parere è adottato a maggioranza, dato che il rappresentante del Ministero dell’Interno è invece contrario alla concessione del nulla osta per motivi di ordine pubblico. Data la mancanza di unanimità, il Sottosegretario Scalfaro, ripetutamente sollecitato dal D.G. e dall’ufficio stampa dei monarchici, delibera di soprassedere a ogni decisione, e il visto non viene consegnato.

L’anno seguente, il Partito Monarchico Popolare presenta in revisione una nuova edizione del documentario, rititolata Un ricordo di Casa Savoia. L’unica aggiunta riguarda la notizia delle nozze della figlia di Umberto II. La V Commissione esprime un parere identico a quello precedente: secondo il rappresentante del Ministero dell’Interno la pellicola va bocciata per ragioni di ordine pubblico, mentre per il rappresentante della magistratura e il presidente Rosario Errigo il film può essere approvato previa l’eliminazione delle battute già indicate in occasione del precedente passaggio in revisione.

 

 

n. 19086

Série noire

Francia 1955, b/n

 

R: Pierre Foucaud; sc: Pierre Gaspard-Huit; dial: Michel Audiard; fo: Paul Cotteret; mt: Jean Feyte.

Int: Henri Vidal (Léo Fardier), Monique Van Vooren (Elaine), Eric von Stroheim (Sacha Zavaroff), Robert Hossein (Jo), Dinan [Albert Dinan] (César Mariani), Louis Arbessier (Commissario Lefranc), Roger Hanin (Ménard).

Prod: Pathé.

Revisione: 12.5.1955 (2449 m), respinto: 25.5-1.8.1956.

 

Detenuto nella stessa cella del narcotrafficante César Mariani, quando ottiene la libertà provvisoria il rapinatore di banche Léo Fardier entra a far parte della sua banda, facendo innamorare di sé la donna del capo, Elaine. Ma dopo il fallimento di un’azione contro il rivale Ménard per l’intervento della polizia, Fardier è sospettato di essersi accordato con Ménard. In realtà il vero traditore è Jo, luogotenente di Mariani, che uccide il gioielliere Zavaroff, capo segreto della banda, fa ricadere la colpa su Léo e passa agli ordini di Ménard. Uscito di prigione, Mariani regola i conti con i traditori. Nello scontro finale le due bande si eliminano a vicenda: ma si scopre che Fardier è in realtà un poliziotto infiltrato.

 

Esordio di Pierre Foucaud – regista di soli tre lungometraggi e poi sceneggiatore negli anni ’60 con le serie «OSS117» e i tre Fantomas con Louis de Funès – Série noire si ispira già dal titolo alla famosa collana di Gallimard, e può vantare dialoghi firmati dal grande Michael Audiard e la partecipazione di Erich von Stroheim in uno dei suoi ultimi ruoli. La belga Van Vooren si sarebbe poi rivista, tra gli altri, nel Decameron di Pasolini e in Il mostro è in tavola, Barone… Frankenstein di Paul Morrissey.

Presentato in revisione il 12 maggio 1955 dalla Select Pictures, Série noire si vede negare il nulla osta in quanto «contiene scene offensive della morale, del buon costume e della pubblica decenza, nonché scene truci, di violenza e di crudeltà».

La casa distributrice presenta domanda di appello (4 aprile 1956), dopo aver operato sensibili tagli (sparatorie, lotte, una «sequenza notturna delle peripatetiche»), e facendo notare «che il film si risolve, nel finale, con la piena vittoria delle forze della Polizia sulle forze del disordine». Il che però non è evidentemente sufficiente a placare la severità della Commissione di II grado presieduta dal Sottosegretario Brusasca, che in data 1 agosto 1956 conferma il parere contrario alla proiezione in pubblico.

 

 

n. 19124

Rififi (Du Rififi chez les hommes)

Francia 1955, b/n

 

R: Jules Dassin; s: dal romanzo di Auguste Le Breton; sc: Jules Dassin, René Wheeler, Auguste Le Breton; fo: Philippe Agostini; mt: Roger Dwyre; mu: Georges Auric.

Int: Jean Servais (Tony), Carl Möhner (Jo lo svedese), Robert Manuel (Mario Ferrati), Janine Darcey (Louise), Pierre Grasset (Louis Grutter), Robert Hossein (Remi Grutter), Marcel Lupovici (Pierre Grutter), Marie Sabouret (Mado), Magail Noël (Viviane), Perlo Vita [Jules Dassin] (Cesare il milanese).

Prod: Pathé, Indusfilm, Primafilm.

Revisione: 18.5.1955 (3142 m), respinto: 26.5.1955-24.10.1956.

Riedizione: (v.o.) 12.1.1957 (3050 m), respinto: 15.1.1957; approvato: 18.1.1957 (n.o. 23397 - v.m.16); (v. it.) 30.1.1957 (3050 m), approvato: 30.1.1957 (n.o. 23523 - v.m.16).

Homevideo: General (DVD, Italia).

 

Uscito dal carcere dopo cinque anni di detenzione, Tony si reca dal vecchio amico Jo, sposato con Louise e con un figlio. Jo gli propone un colpo in una gioielleria con un loro amico, Mario. Tony però ha un vecchio conto aperto con Mado, la sua ex amante, ora compagna del gangster Pierre Grutter. Al furto nella gioielleria partecipa anche uno specialista in casseforti, Cesare. Il colpo riesce, ma Cesare tradisce involontariamente i compagni facendoli finire tra le mani di Grutter e dei suoi, che li massacrano. Tony stermina la gang rivale, ma è a sua volta ferito gravemente: prima di morire, riesce a liberare il figlioletto di Jo, rapito da Grutter, e a riportarlo alla madre.

 

La Lux Film presenta in revisione il film di Dassin, in edizione originale e fresco del premio alla miglior regia al Festival di Cannes, il 18 maggio 1955. Du Rififi chez les hommes viene revisionato dalla Commissione di I grado il 25 maggio e respinto per i seguenti motivi:

«a) le lunghe e numerose scene sulla preparazione e lo svolgimento del furto con scasso “descritto nei minimi particolari e con la massima aderenza alla realtà”, possono essere di scuola e incentivo al delitto» ex art. 3 lett. d) del regolamento annesso al R.D. 3287/1923;

«b) le scene raffiguranti il giovane cocainomane [Remi, interpretato da Robert Hossein, N.d.A.] che viene alimentato di droga dal capo della banda allo scopo di servirsi di lui come sicario e le scene in cui appare l’amante di un gangster in costume succinto, sono da ritenersi offensive della morale e del buon costume» ex art. 3, lett. a) del suddetto regolamento.

«c) le scene di numerosi omicidi, di cui alcuni a sangue freddo e con successivo infierimento sui cadaveri, sono da ritenersi crudeli ed impressionanti» ex art. 3, lett. d) del regolamento.

Ha colpito negativamente, in particolare, la lunga sequenza priva di dialoghi con cui Dassin descrive il furto, con minuzia di dettagli, come l’utilizzo di un ombrello da parte dei gangster per evitare la caduta di calcinacci nella gioielleria durante la perforazione dell’impiantito sovrastante.

La Lux presenta ricorso (17 giugno 1955): il rappresentante della ditta Renato Gualino fa presente, a proposito del punto a), che

 

in effetti il film contiene una tale descrizione, ma ha per oggetto o sistemi ormai di pubblico dominio (la tecnica del «buco» non è più un mistero per nessuno […] ed il film non vi aggiunge nulla di nuovo all’infuori di una trovata, priva di senso dal punto di vista criminale e valida solo agli effetti spettacolari, di un ombrello teso ad evitare la caduta di calcinacci nei locali della gioielleria), o strumenti che sono il frutto della fervida fantasia del regista. Quando si trattò infatti di girare le scene del forzamento della cassaforte, il produttore francese prese contatti con la Prefettura di Polizia della Senna che mostrò a lui e al regista gli strumenti più moderni e più perfezionati usati dagli scassinatori. Sia il produttore che il regista però, preferirono non usare tali strumenti in quanto avrebbero reso veritiera e perciò pericolosa la sequenza del furto ed inventarono uno strumento col quale nessuno riuscirebbe mai ad aprire una cassaforte.

 

L’appellante cita poi altri lavori incentrati su ladri e casseforti, come Giungla d’asfalto. «In questo film, che ha ottenuto regolare visto di censura senza alcuna condizione o limitazione, gli scassinatori fanno uso di nitroglicerina […], mettendo in atto ed illustrando un sistema di scasso più che attuabile e alla portata di tutti». Ricorda inoltre che le suonerie d’allarme mostrate nella pellicola sono «di tipo piuttosto antiquato e le sole che potessero permettere lo svolgimento del furto così come è stato pensato e descritto nel film e non ci risulta che alcun esemplare di questo modello esista in Italia».

Riguardo ai punti b) e c), Gualino precisa che nella copia sottoposta alla revisione di II grado le scene del cocainomane sono state accorciate, e del tutto abolite quelle dell’amante del gangster; parimenti accorciate le scene degli omicidi ed eliminato qualsiasi infierimento sui cadaveri. I tagli effettuati ammontano a complessivi 109 m, quasi 4’ di film.

La Commissione di II grado esamina Rififi il 27 luglio, senza peraltro prendere alcuna decisione definitiva. Nel dicembre 1955, dopo mesi di inutile attesa, la Lux sollecita la revisione: il capo divisione fa presente la cosa in un appunto per il D.G., ove è vergata la sibillina frase «è meglio non insistere ora». Sta di fatto che Rififi resta nel limbo per svariati mesi, tanto che oltralpe si comincia a mugugnare. Walter Borg del Centre National de la Cinématographie scrive al D.G. De Pirro per conto del Direttore Generale del CNC Jacques Flaud, lamentandosi delle difficoltà incontrate dal film di Dassin con la censura italiana, e riprendendo alcuni dei punti già evidenziati dall’appello:

 

Appare indispensabile che venga intrapreso un esame obiettivo e realista e valutare il vero significato degli ingiustificati reclami fatti a quest’opera di qualità. A questo proposito, ci permettiamo di portare a conoscenza della Commissione di censura i seguenti punti:

1) i procedimenti di neutralizzazione del sistema d’allarme e per l’apertura della cassaforte sono di nostra invenzione e non possono, in alcun modo, essere impiegati dagli scassinatori perché sarebbe assolutamente impossibile procedere a un’effrazione con lo spettacolare dispositivo che noi abbiamo fabbricato. Del resto, prima delle riprese, la Prefettura di polizia ha dissuaso dall’utilizzo di materiale che fosse già servito a degli scassinatori, ma ha consigliato di impiegare il sistema inventato dal produttore e dal regista in quanto totalmente inoffensivo;

2) la Centrale Catholique Française ha concesso il codice «4A» al nostro film, e le critiche, pubblicate sui giornali cattolici – in particolare «Radio Cinema» – sono state molto positive; hanno persino affermato certe qualità morali dell’opera.

3) Tutti i paesi d’Europa hanno accordato il visto censura a Rififi, considerando che in molti di questi paesi la censura è estremamente severa, come in Svizzera, Inghilterra, Olanda, Danimarca, Svezia ecc. Negli Stati Uniti, il film è stato autorizzato alla programmazione e ha raccolto critiche eccellenti, unanimi sul suo valore e sulle sue qualità artistiche.

4) Il nostro film ha ottenuto un premio al Festival di Cannes, assegnato da una giuria internazionale rappresentativa delle più alte competenze nel settore, e sarebbe straziante constatare che […] possa incorrere nei rigori della sola censura italiana.

5) In Inghilterra, il film ha ottenuto una critica estremamente elogiativa di cui è difficile trovare un equivalente negli ultimi dieci anni. Lo stesso in Olanda.

6) Infine, la censura italiana ha accordato il visto a pellicole molto più dure e immorali; ne citiamo solo una, Giungla d’asfalto di John Huston.

Dato quanto precede, pensiamo che sarebbe veramente deplorevole che uno dei pochi film francesi prodotti negli ultimi anni adatto a un pubblico internazionale sia proibito proprio in Italia, l’unico paese con cui la Francia, da molto tempo, ha le relazioni più sviluppate e più seguite nel campo cinematografico.

 

L’appello della CNC resta inascoltato. La Commissione di II grado, riunitasi finalmente il 24 ottobre 1956 e presieduta dal sottosegretario Brusasca, conferma il parere contrario alla proiezione in pubblico, coi medesimi motivi già visti in prima istanza.

Il 27 novembre, nuova lettera della CNC, destinata al Sottosegretario, vergata da Flaud in persona. Il quale, oltre alla soddisfazione per l’esito della XII Commissione mista franco-italiana sui rapporti cinematografici tra Francia e Italia, ricorda la questione di due «vittime» della censura quali La Ronde e Du Rififi chez les hommes.

Nel frattempo, la pellicola è stata rilevata per la distribuzione italiana dalla CEI-INCOM, il cui presidente Italo Gemini scrive a De Pirro: «essendo state apportate al film stesso delle sostanziali modifiche sia nella parte visiva sia in quella parlata, ti sarò vivamente grato se vorrai darci una mano per l’accoglimento dell’allegata domanda». Contestualmente la CEI-INCOM ripresenta infatti il film alla revisione di I grado, dapprima in versione originale (19 dicembre 1956). La Commissione di I grado la revisiona il 14 gennaio, esprimendo nuovamente parere contrario «in quanto contiene scene impressionanti di delitti». La versione presentata in appello (16 gennaio) è notevolmente manipolata dalla ditta distributrice.

Sono state alleggerite:

 

− ombre cinesi [La scena nel locale notturno, in cui durante la canzone eseguita dalla chanteuse sullo sfondo vengono mostrate le ombre cinesi di un uomo e una donna, N.d.A.];

− Servais che punisce Medo [Jo prende l’ex amante a cinghiate, dopo averla fatta spogliare, N.d.A.];

− minaccia con il rasoio [Grutter minaccia Mario con il rasoio, N.d.A.];

− apertura cassaforte;

− uccisione cocainomane [Tony prende di mira Remi che dorme, lo sveglia e gli dice che vuole che l’altro si renda conto di ciò che sta per accadergli, prima di sparargli a sangue freddo, N.d.A.];

− Notte di Mario con la cantante [forse qui si confonde Mario con Cesare, il quale è l’amante della cantante del night, NdA];

− Sono state eliminate la scena in cui l’amante di Mario fa il bagno e i massaggi del gangster. Oltre a ciò, è stata modificata la nazionalità dello stesso Mario, in originale Mario Ferrati, che da italiano diventa corso: ma anche il personaggio interpretato dallo stesso Dassin, che in originale è milanese, muta in marsigliese. Di conseguenza, cadono molti passaggi e parole del dialogo, come l’esclamazione «La Madonna…» e O Sole mio che Mario intona alla vista del grisbì.

 

La Commissione d’Appello, in data 18 gennaio, esprime stavolta parere favorevole alla proiezione in pubblico con divieto ai minori di 16 anni, a condizione che vengano effettuate nuove modifiche:

 

Attenuata la scena del furto della gioielleria, e precisamente:

− eliminare da quando i ladri si accorgono che la perforazione dell’impiantito è avvenuta sino al momento in cui si calano con la corda nell’interno della gioielleria [eliminando del tutto la celeberrima sequenza in cui i ladri utilizzano un ombrello per non far franare al di sotto i calcinacci, N.d.A.];

− eliminare la sequenza nella quale si vede il graduale rovesciamento della cassaforte, passare dall’inizio del rovesciamento alla visione della cassaforte già poggiata sui due sostegni di legno, in quanto scene da ritenersi di scuola ed incentivo al delitto […];

− eliminata completamente la scena della minaccia con il rasoio che viene posto sotto la gola del corso;

− eliminata la scena dell’uccisione di Cesare e quelle del cocainomane;

in quanto scene da ritenersi truci e ripugnanti.

 

La CEI-INCOM sottopone in revisione anche la versione doppiata – identica a quella originale successivamente ai tagli effettuati su richiesta del Ministero – il 30 gennaio. La Commissione, il giorno stesso, esprime parere favorevole alla programmazione in pubblico con divieto ai minori di 16 anni per le scene di violenza, e «a condizione che sia abbreviata la scena e il dialogo tra Pierre (Marcel Lupovici) e il fratello Remi (Robert Hossein) quando quest’ultimo tenta di scassinare il tiretto ove è la cocaina ed insiste per averne almeno un po’»: nell’originale Grutter dà al fratello la chiave e gli offre varie dosi di cocaina purché l’altro uccida Tony.

Si ignora se all’uscita italiana, così ridotto, Rififi sia stato di incentivo al delitto. Di sicuro, ispirerà la scalcagnata ghenga di I soliti ignoti, che al posto del grisbì dovranno accontentarsi di pasta e fagioli.

 

 

n. 20043

Malattie allergiche in otorinolaringologia

Italia 1955, col.

 

Prod: Carlo Erba.

Revisione: 19.10.1955 (230 m), respinto: 29.10.1955.

 

«Manifestazioni allergiche nella cavia e nel cane. Viene mostrata l’apparecchiatura completa per la determinazione della istaminemia e la protezione contro i fatti allergici in una cavia data dagli antistaminici. Orto botanico di Pavia con visione di un prato fiorito. Microbo di polline. Rinopatie stagionali da polline, vari ambienti in cui più frequenti si riscontrano le sensibilizzazioni verso le polveri professionali. Malattie allergiche dell’orecchio, disegni rappresentanti l’orecchio. In un ambulatorio si fa la diagnosi dell’allergopatia, le sue fasi. Medico che esegue delle cutireazioni. Brevi inquadrature della clinica otorinolaringoiatrica (ambulatori, laboratori e biblioteca).» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

La Commissione esprime parere contrario alla proiezione di questo corto (8’ e mezzo circa) d’argomento medico in lingua spagnola ai sensi dell’art. 3 lett. d) del regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923, in quanto «contiene scene di operazioni chirurgiche su persone, esperimenti scientifici su animali e presentazioni di parti anatomiche». La ditta Carlo Erba fa presente che il documentario non è destinato alla proiezione in pubblico bensì ai soli medici e studenti in medicina, in occasione di congressi scientifici, e che la domanda di revisione (del 19 ottobre) si riferiva all’esportazione in Brasile in occasione del congresso di malattie allergiche di Rio de Janeiro del 4 novembre 1955.

 

 

n. 21949

Timpanoplastica

Italia 1956, col.

R, fo: Piero Lamperti.

Prod: I.C.E.S.

Revisione: 13.6.1956 (300 m, 16mm), respinto: 15.6.1956.

Breve documentario che illustra la chirurgia funzionale dell’otorrea cronica, eseguita dal professor Luigi Pietrantoni.

 

Presentato il 13 giugno 1956 e revisionato il giorno successivo, il filmato riceve parere contrario ai sensi dell’art. 3 lett. d) del R.D. n. 3287/1923 in quanto mostra un’operazione chirurgica.

La commissione precisa che potrà essere concessa, di volta in volta e dietro richiesta condizionata, la proiezione a solo scopo scientifico.

 

 

n. 21950

Epilessia post traumatica

Italia 1956, col.

 

R, fo: Piero Lamperti.

Prod: I.C.E.S.

Revisione: 13.6.1956 (250 m), respinto: 15.6.1956.

 

Documentario che illustra un intervento operatorio al cervello effettuato del professor Pasiani.

 

Presentato in Commissione il 13 giugno 1956 e revisionato il giorno successivo, il cortometraggio di Lamperti si vede negare il nulla osta alla proiezione in pubblico in quanto mostra scene di un’operazione chirurgica, con la precisazione che «potrà essere di volta in volta e dietro richiesta consentita la proiezione a solo scopo scientifico».

 

 

n. 22219

Cavalcata bianca

Italia 1956, col.

 

R, s: Cesare Torri; collab. r: Sabatino Ciuffini; s: Cesare Torri; sc: professor Adalberto Pazzini, dottor Vittorio Romanelli, Sabatino Ciuffini, Cesare Torri; fo: Enzo Barboni, Giorgio Orsini; mt: Vittorio Solito; mu: Gino Marinuzzi Jr.

Int: Nana Noschese (Lia), Ezio Cristini (Enrico).

Prod: Zucchi & Salvadori.

Revisione: 9.6.1956 (2150 m), respinto: 24.7.1956.

 

Innamoratosi della compagna d’università Lia, conosciuta durante una visita all’Istituto di Storia della Medicina, lo studente di medicina fuori corso Enrico si impegna nello studio della microbiologia, stimolato dalla fidanzata, ma nonostante gli sforzi deve rimandare la laurea. Enrico e Lia si sposano, e il giovane inizia a fare pratica in una clinica dove si pratica la cobaltologia. Lia, incinta, partorisce con taglio cesareo il loro primo figlio. Enrico si avvia al conseguimento della laurea.

 

«Nessuno è più caro a Dio di colui che si prodiga nel dare la salute agli altri. Questo film è dedicato ai Medici e a tutti gli Scienziati cui l’Umanità deve somma gratitudine e ammirazione» si legge nella documentazione presentata al Ministero per Cavalcata bianca. La labile vicenda del film di Cesare Torri – nel cui cast tecnico figurano nomi dal luminoso futuro quali il direttore della fotografia Enzo Barboni e l’aiuto operatore Stelvio Massi – è del resto solo la scusa per una serie di sequenze documentaristiche d’argomento medico. Per questo motivo, la produzione chiede alla presidenza di essere esonerata dall’obbligo di legge della registrazione sonora diretta e delle riprese in teatri di posa. In data 20 luglio 1955, l’associazione nazionale dei tecnici del suono segnala a De Pirro che il film, essendo totalmente muto, non potrebbe essere ammesso a godere delle provvidenze previste dall’art. 10 della l. n. 958/1949: in un appunto per Scicluna si legge che «tutte queste segnalazioni vanno poi tenute presenti nei comitati tecnici». Nonostante le prestigiose consulenze tecniche sbandierate nei titoli e nei documenti presentati in accompagnamento al film il 9 giugno 1956, la Commissione, che revisiona Cavalcata bianca il 23 luglio 1956, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico a causa delle «scene impressionanti e ripugnanti (museo d’anatomia) nonché scene di operazioni chirurgiche (al rene e parto con taglio cesareo ed estrazione del neonato)».

 

 

n. 23994

Napoli capitale del Sud

Italia 1957, b/n

 

R: Antonio Grassi.

Prod: Enzo Raiano per Partito Monarchico Popolare.

Revisione: 13.4.1957 (195 m., 16mm), respinto: 17.5.1957.

 

Documentario sulla ricostruzione di Napoli sotto l’amministrazione di Achille Lauro.

 

Tra i mille aneddoti su Achille Lauro, sindaco di Napoli dal 1952 al 1957 e poi ancora nel 1961, è celeberrimo quello della scarpa sinistra regalata ai potenziali elettori: solo in caso di avvenuta elezione costoro avrebbero ricevuto la destra. Ma tra le inesauribili risorse elettorali del «Comandante» occorre contare anche la cinematografia: prodotto dal Partito Monarchico Popolare fondato dallo stesso Lauro nel 1954, Napoli capitale del Sud è uno spudorato esempio di propaganda elettorale in celluloide.

Presentato in revisione il 13 aprile 1957, è bocciato dalla Commissione di I grado il 13 maggio in quanto «evidentemente ispirato a criteri di parte capaci di provocare reazioni, con conseguenti turbamenti dell’ordine pubblico». Prima di pronunciarsi, i presidenti delle Commissione si rivolgono al D.G. per direttive in merito all’esame di documentari politici presentati dai partiti, in quei casi ove «sia necessaria una valutazione puramente politica circa la opportunità o meno di diffondere determinati aspetti di propaganda» (da un appunto per il sottosegretario Raffaele Resta datato 16 aprile 1957: in una nota manoscritta, quest’ultimo precisa che «è bene vederli per adottare poi i criteri da seguire»).

Successivamente Resta concede il nulla osta a proiezioni del film in campagna elettorale, a condizione che esse avvengano in cinema chiuso e per inviti, in alcune città del Meridione.

 

 

n. 24162

La postmaturità

Italia 1957, col.

 

R: Mario Scolari.

Prod: Carlo Erba.

Revisione: 10.5.1957 (200 m - 16mm.), respinto: 16.5.1957.

 

Il film affronta il problema della neonatalità allorché questa avviene oltre il periodo normale di gestazione, […] viene descritta la patologia del fenomeno e indicato il trattamento adeguato.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Il breve documentario scientifico (17’ circa) in 16mm è presentato ai fini dell’esportazione dalla ditta Carlo Erba che chiede il nulla osta ai fini dell’esportazione. La Commissione di I grado, in data 15 maggio, lo respinge in quanto contiene «scene di operazione chirurgica e scene di pezzi anatomici impressionanti».

 

 

n. 25681

La casa di Madame Kora (Méfiez-vous, fillettes!)

Francia 1957, b/n

 

R: Yves Allégret; s: dal romanzo Miss Callaghan Comes to Grief di James Hadley Chase; sc: René Wheeler, Jean Meckert; fo: Robert Juillard; mu: Paul Misraki; mt: Claude Nicole.

Int: Antonella Lualdi (Dany Dumont), Robert Hossein (Raven), Michel Cordoue (Fan), Jean Gaven (Petit Jo), Gérard Oury (Marcel Palmer), Georges Flamant (Mendetta), Elisabeth Manet (Stella Mendetta), Jacqueline Porel (Madame Cora), Jean Léfebvre (Matz), Jean-Claude Brialy (cliente del bar).

Prod: Silver Film, Agnes Delahaie Productions, Film Chrysaor.

Revisione: 14.11.1957 (2480 m), respinto: 23.1.1958.

Riedizione: 14.1.1959 (2480 m), approvato: 16.1.1959 (n.o. 28475 - v.m.16).

 

Uscito di galera dopo una condanna ingiusta, il giovane malavitoso Raven si vendica di coloro che l’hanno fatto imprigionare, Mendetta e la moglie Stella. Ma una vicina di Mendetta, Dany, vede uscire Raven dopo aver commesso il delitto. La testimone viene rapita da Palmer, che con la sorella Cora gestisce una casa di tolleranza, per poter ricattare Raven. Il quale, venuto a sapere della cosa, rapisce Dany: i due si innamorano. Ma la resa dei conti tra Raven e i rivali si concluderà tragicamente.

 

Già alla sua pubblicazione nel 1941, Miss Callaghan Comes to Grief di James Hadley Chase (inedito in Italia) aveva avuto noie con la censura, culminate con il bando per oscenità in Gran Bretagna e una multa di 100 sterline per lo scrittore e l’editore Jarrods, nonostante il supporto in tribunale di prestigiose figure del mondo letterario come lo scrittore H. E. Bates e il poeta John Betjeman. Bandito in Francia il giorno prima dell’uscita, salvo poi essere distribuito previi minimi tagli, l’adattamento firmato da Yves Allégret si guadagnò una stroncatura di François Truffaut: «Su questo argomento molto vasto, ci sono mille cose interessanti da filmare senza cadere nel melodramma (…) Ma di questo, Yves Allégret se ne frega e, senza dubbio, l’ignora, convinto che un film sul “milieu” non richieda una conoscenza concreta dello stesso».

La distributrice Nepi Film fa domanda di revisione il 14 novembre 1957, presentando Méfiez-vous, fillettes! in versione originale: la Commissione, il 15 novembre, lo respinge per via di «scene e fatti offensivi del pudore e della morale nonché scene di delitti impressionanti». Il 23 dicembre la Nepi rende note le modifiche apportate al film «a seguito dei rilievi amichevoli fatti a suo tempo da parte dei componenti la Commissione […] allo scopo di dare al film una maggiore serietà e dignità». In dettaglio,

 

1) È stata notevolmente tagliata la scena in cui la «novizia» si appresta al suo mestiere nella «pensione»; 2) Son state tolte, fino al limite del possibile, delle inutili scene con adescatrici notturne sulle strade; 3) È stata considerevolmente attenuata la scena in cui l’uomo tenta di possedere la Lualdi; 4) Si è resa meno fastidiosa la scena del tentato suicidio della Lualdi; 5) Son state sfrondate alcune scene con donne nella ‘pensione’; 6) Sono state tolte, per quanto possibile, le scene dello spogliarello; 7) Molte battute del dialogo son state modificate, rendendole meno crude, altre cambiando addirittura il significato della battuta originale.

 

Il film, col titolo italiano La casa di Madame Kora (il nome del personaggio è tuttavia Cora) è ripresentato in versione doppiata, il 13 gennaio 1959. La Commissione a questo punto concede il visto, in data 16 gennaio 1959, vietando la visione ai minori di 16 anni. La Nepi, il 4 febbraio, indica che sulle copie italiane sono stati effettuati due ulteriori tagli, riguardanti la scena in cui Antonella Lualdi si taglia i polsi con frammenti di vetro, e quella in cui la nuova arrivata alla casa di Madame Kora viene spogliata e rivestita di nuovi abiti.

 

 

n. 26181

L’Europeo, n. 1095

Italia 1958, b/n

 

Prod: C.I.A.C.

Revisione: 6.2.1958 (212 m), respinto: 6-11.2.1958.

 

Cinegiornale d’attualità. Gli argomenti trattati: il gen. Napoli è nominato nuovo capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica; l’inizio della campagna elettorale a Milano; una dimostrazione di universitari contro gli esami di stato; Rossano Brazzi riparte per l’America; Elsa Martinelli diventa mamma; nascita del satellite Usa Baby Luna; mostra romana del pittore Bruno Rovesti; echi del tentato suicidio di Belinda Lee.

 

A leggerne il sommario, riesce difficile capire cosa potesse esservi di così pericoloso per l’ordine pubblico nei 212 m di L’Europeo n. 1095. Non si aspettano di certo che il breve cinegiornale venga bocciato, quando il 6 febbraio 1958 presentano domanda di revisione, Ugo Forcesi e Giovanni Elli della C.I.A.C., tanto che il giorno precedente hanno pregato la Presidenza di comunicare con le Questure di Bologna e di Reggio Emilia dell’avvenuta concessione del nulla osta, e chiedendo contestualmente il rilascio di 30 copie del suddetto.

Quello stesso giorno la Commissione, visionato il cortometraggio, esprime parere negativo: «il commento alla parte visiva può in alcune parti determinare reazioni che possono turbare l’ordine pubblico». La C.IA.C. presenta appello con carattere d’urgenza, facendo presente che il ritardo pregiudicherebbe la circolazione del cinegiornale nelle sale, dichiarandosi disposta a effettuare tagli e modifiche. Il giudizio negativo viene però ribadito (senza l’inciso «in alcune parti») l’11 febbraio dalla Commissione d’Appello, presieduta dal Sottosegretario Resta e composta dal procuratore generale di Corte d’Appello Beniamino Leoni e dal prefetto Mario Micali.

Cosa avrebbe potuto turbare l’ordine pubblico, dunque? Scorrendo il testo che accompagna le notizie una per una, par di capire che a infastidire i signori della Commissione sia stato il tono del commento – strafottente, mordace, cattivello anzichenò, inconfondibile parto della penna di Gualtiero Jacopetti.

Del generale Napoli nuovo capo di Stato Maggiore, la voce off precisa che «c’è voluto un preciso ordine ministeriale per strapparlo dal suo aeroplano e trascinarlo tra le scartoffie di un ufficio»; a proposito dell’avvio di campagna elettorale, il commento si fa beffe dell’«attività oratoria dell’esuberante on. Malagodi», segretario del Partito Liberale, il quale «per certi suoi lucidi attacchi al Governo, per certe sue spietate accuse allo statalismo, ma soprattutto per la su accanita lotta tra le file dell’iniziativa privata […] ci ricorda qualcosa che i suoi predecessori ci avevano fatto dimenticare. E cioè che l’Italia di Pietro Micca, dei fratelli Bandiera, del Pascoli, di Marconi, di Verdi, del brigante Musolino, del Panettone Motta e delle Case Chiuse, l’avevano fatta i liberali». Gli studenti romani che protestano contro gli esami di Stato, di contro, «hanno saputo dimostrare alla cittadinanza un alto senso di responsabilità civile e, soprattutto, una profonda coscienza democratica». Meno scopertamente politiche, ma ugualmente sgradite, le frecciatine a Rossano Brazzi («Da oltre 5 anni Brazzi lavora esclusivamente in America; tanto che qui in Italia ce lo siamo quasi dimenticato. Dice che i produttori americani lo pagano il doppio di quelli italiani. Assai misterioso è peraltro il fatto che qui, i suoi films, non arriva neppure l’ombra [sic!]. Che gli americani lo paghino il doppio a condizione che non ne faccia? Comunque, doppio o non doppio, Brazzi è attaccatissimo alla sua metà. Magari un po’ abbondante…»), mentre nel resoconto della mostra del «pittore contadino» Bruno Rovesti, il racconto di un quadro dal titolo Povera maternità nella prosa sgrammaticata dell’artista è chiosato da un fulmineo velenum in cauda jacopettiano: «”Lei aspeta filio neonato. Tuto è grandissima miseria. Letto in messo a champania. Sorela preca che non piove. Poi viene Angielo con assegno…” Bah! Tutto può darsi ora che siamo sotto le elezioni…». Di nullo interesse per i censori, ma col senno di poi inquietante per i biografi jacopettiani, il servizio sul tentato suicidio di Belinda Lee, commentato con l’abituale cattiveria: l’attrice, che diventerà la compagna di Jacopetti, morirà tragicamente in un incidente stradale, tre anni dopo, sull’auto guidata dal regista, dal quale aspettava il primo figlio.

 

 

n. 26260

Tahiti ou la joie de vivre

Francia 1957, col.

 

R: Bernard Borderie; sc: Bernard Borderie, Yvan Audouard; fo: Henri Persin; mt: Armand Ridel; narr: François Périer.

Int: Georges de Caunes (il giornalista), Pascale Petit, Roland Armontel (caporedattore), Marcel Pérès, Maea Flohr (la Tahitiana).

Prod: CICC/Disci Film.

Revisione: 19.2.1958 (2587 m), respinto: 7.3.1958.

 

Allo scopo di scrivere un articolo per il giornale dove lavora, il giornalista Georges de Caunes si reca a Tahiti e nelle isole della Polinesia francese, per raccontarne gli usi, i costumi, le bellezze naturali. Scoprirà uno stile di vita miracolosamente preservato, fatto di piaceri semplici, un vero e proprio paradiso terrestre, al punto da dimenticare l’intento del suo viaggio. In seguito alle rimostranze del suo giornale, Georges torna con dispiacere in Francia.

 

Luis-Georges-Gustave de Caunes (1919-2004) è stato un noto giornalista radiotelevisivo, celebre per i suoi reportage e le sue iniziative avventurose e bizzarre: partecipa alle spedizioni francesi ai poli e in Groenlandia, si reca in Amazzonia, fonda la prima tv privata marocchina, la TELMA, e nel 1988 e 1990 si fa rinchiudere per 15 giorni in una gabbia dello zoo di sotto l’etichetta «homo sapiens» per osservare gli umani dal punto di vista degli animali in cattività.

Nel 1956 de Caunes si reca a Tahiti, e con Bernard Borderie pubblica un libro, Tahiti ou la joie de vivre (edizioni Pierre Horay) e un film, tesi a magnificare la «Nuova Citera». Des Caunes tornerà più volte nel «paradiso terrestre»: tra il 1962 e il 1963 si stabilisce per quattro mesi col suo cane su un’isola deserta nell’arcipelago delle Marchesi, documentando l’esperienza via radio, e nel 1980 vi ritorna per raccontare la modernizzazione dell’isola. A suo nome verranno istituiti il premio letterario G. De Caunes riservato ai libri di avventura, e il festival Georges de Caunes, Aventure Humaine et Sportive, che si svolge a Vallauris.

Presentato in edizione originale il 19 febbraio 1958 dalla distributrice italiana CEI-INCOM, viene revisionato il 6 marzo ottenendo parere contrario alla proiezione in pubblico per «l’atmosfera morbosa» e «scene contrarie alla morale». E resta inedito da noi.

 

 

n. 26637

Liebe, wie die Frau sie wünscht

Rft 1957, b/n

 

R: Wolfgang Becker; s: Alfred Güntzel; sc: Johannes Kai; fo: Kurt Hasse; mt: Friedel Buckow.

Int: Barbara Rütting (Renate), Paul Dahlke (professor Liborius), Thomas Reiner (dottor Althoff), Harald Maresch (dottor Neumann), Lucie Englisch (Gertrud), Gitta Lind (Kay Jensen), Günther Stoll (Toni).

Prod: Rapid Film/Transocean Film.

Revisione: 15.4.1958 (2500 m), respinto: 21.4.1958.

 

Renate, giovane figlia di un professore universitario, fa le prime esperienze sessuali con un coetaneo, ma si accorge che l’amante è solo in cerca di avventure. Di lei si innamora un avvocato presso il quale Renate lavora come segretaria, che la sposa. Ma il matrimonio non è felice: lui è troppo preso dal lavoro, lei ne soffre. Una sera Renate rivede l’amante di un tempo: ma il marito si accorge che il matrimonio è in pericolo, e si dedica di più alla giovane sposa.

 

Definito all’uscita da «Der Spiegel» «un film tedesco alla Kinsey», Liebe, wie die Frau sie wünscht [L’amore come lo vogliono le donne] si fa una domanda e si dà una risposta – inevitabilmente moralistica – sulla corretta natura dei rapporti tra i sessi. È degna di nota la presenza di Barbara Rütting, che al ritiro dalle scene intraprese una brillante carriera politica, come attivista per i diritti umani e l’elezione al parlamento tedesco.

La Globe Films International presenta Liebe, wie die Frau sie wünscht in revisione il 15 aprile 1958, in edizione originale: la Commissione, che lo revisiona il 19 aprile, boccia il film di Becker «dato il contenuto immorale del soggetto e svariate scene offensive del pudore e della pubblica decenza». La ditta distributrice non presenta neppure appello: il film resterà inedito in Italia.

 

 

n. 27335

Girls on the Loose

Usa 1958, b/n

 

R: Paul Henreid; s: Alan Friedman, Dorothy Raison, Allen Rivkin, Julian Harmon; sc: Alan Friedman, Dorothy Raison; fo: Philip H. Lathrop; mt: Edward Curtiss; mu: Irving Gertz, Henry Vars, Stanley Wilson.

Int: Mara Corday (Vera Parkinson), Barbara Bostock (Helen Parkinson), [Peter] Mark Richman (Ten. Bill Hanley), Joyce Barker (Joyce Johanneson), Lita Milan (Marie Williams), Abby Dalton (Agnes Clark).

Prod: Universal.

Revisione: 8.7.1958 (2184 m), respinto: 2.10.1958.

 

Una banda di rapinatrici (Agnes, Vera, Joyce, Marie) rubano 200mila dollari e li nascondono in una casa di campagna. Quando Agnes mostra di pentirsi, Vera la uccide. Il tenente Bill Hanley, incaricato delle indagini, interroga Vera e la sorella Helen, coinvolta suo malgrado nella rapina. Bill e Helen si innamorano, e Joyce tenta di sopprimere quest’ultima facendola cadere in un burrone, per poi uccidere Marie. Vera, per vendicare la sorella, affronta la complice, e nello scontro finale entrambe trovano la morte. Helen, una volta guarita, dimostrerà la propria innocenza e sposerà Bill.

 

Tipico noir di serie B del periodo, Girls on the Loose – diretto dall’ex attore triestino Paul Henreid – era piuttosto ardito per l’epoca, con la sua banda di gangster al femminile che il regista mostra spesso mentre fanno il bagno, si spogliano o girano per il set in camicia da notte. Ma non è per il blando contenuto erotico che il film cade in disgrazia presso i nostri censori.

Presentato in edizione originale (il titolo italiano previsto è Le rapinatrici) l’8 luglio 1958 dalla Universal Films – la quale però in una missiva dello stesso giorno chiede che in censura venga data precedenza ad altri due film della casa, L’infernale Quinlan e L’ovest selvaggio –, Girls on the Loose viene esaminato il 2 ottobre e ottiene parere contrario alla proiezione in pubblico, «poiché la trama del lavoro, che narra delle criminali imprese di una banda di rapinatrici, può essere di scusa e di incentivo al delitto» ai sensi dell’art. 3 lett. d) del R.D. n. 3287/1923. La Universal rinuncia all’appello, e il film rimane inedito in Italia.

 

 

n. 28915

I cugini (Les Cousins)

Francia 1959, b/n

 

R: Claude Chabrol; sc: Claude Chabrol e Paul Gégauff; mu: Paul Misraki; fo: Henri Decaë; mt: Jacques Gaillard.

Int: Gérad Blain (Charles), Jean-Claude Brialy (Paul), Juliette Mayniel (Florence), Guy Decombre (libraio), Geneviève Cluny (Geneviève), Michèle Méritz (Yvonne), Corrado Guarducci (il conte), Stéphane Audran (Françoise), Claude Cerval (Clovis).

Prod: Claude Chabrol.

Revisione: (v.o.) 21.3.1959 (2902 m), respinto: 26.3.1959; (v.it.): 2.4.1960 (2992 m), approvato: 25.11.1960 (n.o. 31798 - 2902 m - v.m.16).

Homevideo: Criterion (DVD, Usa).

 

Charles, ragazzotto timido e serio, si trasferisce a Parigi a casa del cugino Paul, per studiare legge. Paul è l’opposto di Charles: conduce una vita priva di regole, è cinico e fannullone. La convivenza li obbliga a frequentare le stesse compagnie e presto Charles si invaghisce della giovane studentessa Florence, la quale sembra ricambiare i suoi sentimenti. Ma Clovis la convince che non potrà mai essere fedele a un solo uomo e la spinge tra le braccia di Paul. Charles cerca allora consolazione nello studio, ma i suoi tormenti interiori non gli consentono di concentrarsi e agli esami verrà bocciato. Si convince allora che è Paul la causa dei suoi fallimenti e medita di ucciderlo. Il compiersi del delitto è affidato al caso: caricata la pistola con un solo proiettile, Charles spara contro Paul che sta dormendo. Ma il percussore batte a vuoto e il giovane ha salva la vita. Destatosi, questi impugna per gioco l’arma e spara contro Charles. Uccidendolo.

 

Secondo film di Claude Chabrol e uno dei titoli simbolo della , vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino, I cugini è «un melodramma allegro», secondo la definizione del suo stesso autore, dalla struttura narrativa speculare a quella dell’esordio Le Beau Serge, dove un giovane di città (Brialy) si recava in provincia ritrovando un amico d’infanzia (Blain). Nonostante la giovane età, Chabrol ha già un’invidiabile padronanza del mezzo e al tempo guadagna l’ammirazione della critica: «questa vicenda non è di per sé molto originale dopo che tanti film, da tutte le parti del mondo, ci hanno esposto i fasti e i nefasti dei giovani “bruciati” del dopoguerra» scrive Leo Pestelli su «La Stampa», «e tanto meno originale è l’addossare una gran parte di quelle colpe alle famiglie e alla società. Ma quel che conta, in questo come in altri film della nuova scuola francese, è il modo di raccontare, intenso, penetrante e caldo insieme, dove una quasi incredibile maestria di mestiere piega a effetti cinematografici l’intellettualismo stesso e la più spudorata letteratura».1

I cugini va da subito incontro a polemiche e fraintendimenti. Con riferimento al film, Simone de Beauvoir definisce i registi della come «anarchici di destra», mentre la critica transalpina non digerisce i riferimenti filonazisti del copione di Paul Gégauff (che fa riferimento all’associazione universitaria «Corps de droit» fondata da Jean-Marie Le Pen). Il film di Chabrol esce nelle sale italiane con molto ritardo, nel gennaio 1961, addirittura dopo A doppia mandata, l’opera successiva del regista. Non per colpa di una distribuzione poco attenta, ma a causa di una lunga trafila in sede di censura.

Dino De Laurentis, titolare dei diritti di sfruttamento, lo presenta in revisione il 21 marzo 1959, in edizione originale non doppiata. Quattro giorni dopo il film è respinto dalla Commissione di I grado

 

in quanto tutta la vicenda si svolge in un ambiente di giovani studenti d’ambo i sessi privi di ogni senso morale, la vita dei quali non solo non viene presentata apertamente in una luce sfavorevole, ma viene, anzi, descritta insistendo sugli aspetti più negativi ed avvalendosi continuamente di un dialogo scurrile. L’unico personaggio che dall’inizio appare in possesso di una certa dirittura morale, pur resistendo parzialmente con passività all’influsso dell’ambiente, è presentato in definitiva come un debole, che di fronte al fallimento delle sue aspirazioni non sa reagire e giunge quasi al delitto. Complessivamente, quindi, il film – che abbonda anche di scene del tutto immorali – ha un contenuto negativo e, pertanto, rientra tra quelli che, ai sensi dell’art. 3 lett. a) del regolamento annesso al R.D. 29/9/23 n. 3287, non possono ottenere il nulla osta.

 

De Laurentis rinuncia all’esame d’appello e, nell’approntare l’edizione italiana – i cui dialoghi sono curati da Vinicio Marinucci – stravolge completamente l’opera, al fine di ridurne il contenuto scabroso. Il film è preceduto da ritagli giornalistici sul fenomeno della «gioventù bruciata», e si apre con una citazione (apocrifa?) di Napoleone: «I destini dei popoli sono sulle ginocchia delle madri». Ed è solo l’inizio. La nuova copia è consegnata al Ministero il 21 aprile 1960, e la domanda di revisione è accompagnata da una lettera dove il produttore/distributore descrive nel dettaglio le modifiche apportate:

 

Sensibili come sempre ai problemi di censura, al punto che, liberamente, esplichiamo da soli una severa autocensura sui film di nostra produzione o anche di semplice nostra distribuzione, abbiamo sottoposto il film in oggetto ad una radicale trasformazione, sia nella impostazione generale che nelle singole scene: e ciò, sia in ordine al visivo che al parlato. Visivamente le scene più spinte sono state ridotte, eliminando le inquadrature più audaci e conferendo alle scene stesse un andamento pressoché normale. In particolare, la scena in cui la protagonista è convinta da un amico ad andare a letto con il cugino del suo innamorato è stata portata in una maniera priva di suggestioni e di morbosità, come una specie di «giuoco pericoloso» al quale ella finisce col soggiacere ma senza la profonda opera di seduzione che era nell’originale. Le modifiche al parlato sono poi state di una tale portata da poter fare quasi parlare di un nuovo diverso film: e comunque di un film dalla impostazione moralmente positiva. È stato, infatti, introdotto – come voce fuori campo2 – un nuovo personaggio: quello della madre di Charles, l’ucciso. Questo personaggio porta l’accento del racconto sul problema dell’educazione dei giovani e sulla responsabilità dei genitori nel loro traviamento. La madre confessa di avere avuto una falsa idolatria per la vita brillante di Parigi, alla quale aveva rinunciato per compiere un matrimonio d’interesse, in provincia. Così ella aveva mandato suo figlio Charles a studiare a Parigi, presso il cugino Paul, con l’intenzione che egli «imparasse» da questi e divenisse il più possibile simile a lui. Immerso quasi per forza in un ambiente a lui estraneo, Charles aveva finito col restarne schiacciato. Riguardo a Paul il suo atteggiamento amorale e da superuomo è spiegato attraverso le modifiche apportate, con un suo dramma famigliare: suo padre e sua madre vivono ciascuno «liberamente» ed egli sa di non essere in realtà figlio di suo padre, il quale è spesso lungamente assente. Questo sapersi un bastardo ha generato in lui una reazione di rivolta, di asserzione del proprio «io»: anche qui, pertanto, grava la responsabilità del cattivo esempio, dell’abbandono dei genitori. Ugualmente questa responsabilità è presente nel personaggio di Florence, che è diventata figlia di genitori divorziati […]. Charles a sua volta resta in casa di Paul – con il quale convive Florence – sperando nella redenzione di questa, nella possibilità di farle vedere il suo errore e di farle cambiare vita (nell’originale invece restava per «aspettare il suo turno»). Nelle parole del libraio e di altri personaggi, attraverso un opportuno adattamento del dialogo italiano, vengono costantemente ribadite le responsabilità dei genitori e la necessità di una più severa educazione dei giovani. La ragazza incinta alla quale è consigliato di abortire è in realtà vittima di un «falso allarme». Il personaggio del vizioso italiano [il conte interpretato da Corrado Guarducci, N.d.A.] è stato trasformato in venezuelano.

 

De Laurentis conclude sottolineando il fatto che «a seguito di queste radicali trasformazioni il film ha acquistato un deciso significato morale, una polemica sulle responsabilità della famiglia – accentuata anche da una premessa di didascalia e titoli di giornale riferentisi al problema dei giovani d’oggi – che cambia totalmente l’impostazione, il punto di vista e le ragioni del racconto. Infine dal dialogo sono state completamente levate le parole scurrili, che abbondano nell’originale».3

Nonostante i sostanziali interventi, il produttore, temendo un ulteriore veto censorio, chiede che la Commissione revisioni il film con scene e colonna italiana separate, in modo da investire nel mixage solo dopo aver ottenuto il nulla osta di circolazione. La commissione lo accontenta, ma a questo punto subentrano vari problemi: la saletta del Ministero non è attrezzata per una simile operazione, pertanto la proiezione viene spostata nella sede dell’ANICA, ma anche lì problemi tecnici impediscono la visione del film. Dopo qualche mese, la VI Commissione, presieduta dal giudice Picozzi e dal Viceprefetto Conti, riesce a revisionare I cugini presso gli stabilimenti della Fono Roma, ma non arriva a una conclusione: alcuni membri (il citato Picozzi, il dottor D’Erno) ritengono che la pellicola, con le giuste correzioni, possa circolare; altri sono nettamente contrari. Pertanto, nel verbale della seduta, verrà scritto: «la Commissione ha espresso l’avviso che pronuncerà il proprio parere definitivo soltanto sulla base della visione del film completo in ogni sua parte, così come peraltro prescrive la legge. […] ritiene di non potere attualmente esprimere il proprio parere considerato che la pellicola non è ancora completata e quindi non si ha la certezza che la copia definitiva sarà conforme a quella visionata con scena e colonna separata».

De Laurentis è quindi costretto a presentare al Ministero un’edizione doppiata in italiano, che è revisionata in data 19 novembre 1960. La Commissione esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta a condizione che ne sia vietata la visione ai minori di 16 anni «perché solo gli adulti sono in grado di comprendere quanto di positivo vi è nella vicenda, che tuttavia è sempre inadatta ai minori» e impone alcuni tagli di alleggerimento per complessivi 90 m (3’ 16’’). Di seguito l’elenco dei tagli, come riportati nel referto ministeriale:

 

− Eliminati i fotogrammi e i dialoghi successivi alla battuta di Geneviève «Spicciatela da te!!», e precisamente dalla battuta di Seppia «Un padre ideale» fino alla battuta dello stesso Seppia «Certo» (inclusa).

− Eliminati i fotogrammi e i dialoghi successivi alla battuta di Paul «Oh, sai Filippo è come dire me!» e precisamente dalla battuta di Paul «Credo che stavolta Filippo non la mandi giù» fino alla battuta di uno studente «Bene, me la filo» (incluse).

− Eliminati i fotogrammi in cui appaiono il Francese e il Venezuelano in atteggiamento sconcio, immediatamente successivi alla battuta di Filippo «Porco! Schifoso…» (che può restare), fino alla battuta di Charles: «Ma che succede?»

− Eliminati i fotogrammi dell’orgia studentesca dopo la battuta di Charles «A questo ci arrivo», fino alla battuta di Rivera «Te quiero!!» (compresa).

− Eliminati i fotogrammi in cui si vede Florence che prende il sole successivi alla battuta di Paul «Non dimenticarti pure di andare a letto!».

− Eliminati i fotogrammi dalla battuta di Paul «Ma Florence che ti prende? Non fare l’idiota!», fino alla battuta di Paul «Oh, non si può più parlare ora?».

− Eliminati i fotogrammi dalla battuta di Florence «No, il solletico», fino a Florence che canta.

 

1 L.P. [Leo Pestelli], «I Cugini» di Claude Chabrol, un classico della , «La Stampa», 15 gennaio 1961.

2 La voce off è affidata a Rina Morelli.

3 A proposito dei pesanti interventi sulla pellicola, Aldo Viganò riporta la motivazione addotta da Marinucci: «Bisogna sempre tener conto che il cinema è uno spettacolo, io sono per il rispetto dell’autore, ma non portato all’eccesso, cioè non quando si tratta di un autore di quarta serie. Cambiare un dialogo per un film mediocre non è un crimine… Se è un film d’arte, allora il discorso cambia: si può intervenire, ma non al punto di rovinarlo….». Aldo Viganò, Claude Chabrol, Le Mani, Recco 1997, p. 83.

 

 

n. 29386

L’isola in capo al mondo (L’île du bout du monde)

Francia 1959, b/n

 

R: Edmond T. Gréville; s: dal romanzo di Henri Crouzat; sc: Henri Crouzat, Edmond T. Gréville, Louis A. Pascal; fo: Jacques Lemare; mt: Jean Ravel; mu: Charles Aznavour, Eddie Barclay, Jean-Pierre Landreau, Marguerite Monnot.

Int: Magali Noël (Jane), Dawn Addams (Victoria), Rossana Podestà (Caterina), Christian Marquand (Patrick)

Prod: Riviera International Film.

Revisione: (v.o.) 27.5.1959 (2800 m), respinto: 6.6.1959; (v.it.) 14.9.1962 (2794 m), approvato: 21.9.1962 (n.o. 38388 - v.m.18).

 

Superstiti dal naufragio di una nave ospedale, il giornalista Patrick e tre donne (Jane, Victoria, Caterina) si ritrovano su una scialuppa e approdano su un’isola disabitata nel Pacifico. A terra, oltre al problema della sopravvivenza, la convivenza causa attriti, dato che le donne sono attratte dall’unico maschio, e se lo litigano. Jane, per non perdere Patrick di cui è diventata l’amante, frustra tutte le possibilità di lasciare l’isola; Caterina si allontana con una scialuppa ma muore nel tentativo; Victoria si allea con Patrick ma è uccisa da Jane. Costei e Patrick rimangono soli sull’isola, e la donna cerca di impedire che l’amante si accorga dell’arrivo di una nave soccorsi; non riuscendovi, si uccide. Patrick lascia l’isola da solo.

 

Ispirato al romanzo di Henri Crouzat, il curioso film di Gréville è un apologo sulla lotta dei sessi che all’epoca fece un certo scalpore: al di là della franchezza con cui viene svelato il nucleo erotico della vicenda (che ha numerosi punti di contatto con Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto della Wertmüller), l’edizione francese contiene una fugace scena di nudo della Noël.

In Italia la pellicola ha vita alquanto tormentata. La DEAR Film la presenta in censura il 27 maggio 1959 in edizione originale: la Commissione, in data 5 giugno, esprime parere contrario, in quanto «sia il soggetto che le numerose scene amorose e sensuali sono palesemente offensivo alla morale e al pudore». La Dear presenta appello il 28 giugno, ma la Commissione di II grado conferma in toto il giudizio precedente in data 21 ottobre 1959.

Il film di Greville è ripresentato in censura in versione doppiata dalla Mercurfilm, col titolo L’isola in capo al mondo, il 10 giugno 1962, approfittando della mutata normativa. La ditta che chiede di poter conferire con i membri della Commissione, specificando che «il film in esame oggi […] è un film completamente diverso da quello presentato due anni orsono da altra società, sia perché si è provveduto a tagliare trecentoquaranta metri [quasi 12 minuti e mezzo, N.d.A.] […] sia perché nella edizione italiana è stato notevolmente alleggerito il dialogo» [le sottolineature sono nel testo, N.d.A.]. La Commissione, che lo revisiona il 20 settembre, esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico, con divieto ai minori di 18 anni «in quanto il film contiene scene non adatte alla sensibilità e alle esigenze della pubblica morale» dei minori, ai sensi dell’art. 5, l. n. 161/1962.

L’isola in capo al mondo viene derubricato ai fini della programmazione televisiva il 5 ottobre 1993, previi alcuni tagli per un totale di m. 37,5 (1’19”).

 

 

n. 30525

Il colore della pelle (J’irai cracher sur vos tombes)

Francia 1959, b/n

 

R: Michel Gast; s: dal romanzo Sputerò sulle vostre tombe di Boris Vian; sc: Jacques Dopagne, Michel Gast, Louis Sapin; fo: Marc Fossard; mt: Eliane Bensdoro; mu: Alain Goraguer.

Int: Christian Marquand (Joe Grant), Antonella Lualdi (Lizbeth Shannon), Renate Ewert (Sylvia Shannon), Fernand Ledoux (Horace Chandley), Marina Petrova (Sheila), Jean Sorel (Elmer).

Prod: Josette Trachsler per Sipro, CIT.

Revisione: (v.o.) 9.9.1959 (2891 m), respinto: 15.1.1960; (v.it.) 25.3.1963 (2891 m), approvato: 24.4.1963 (n.o. 40231 - v.m.18).

Homevideo: INC Home Entertainment (DVD, Italia).

 

Memphis. Il nero di pelle bianca Joe Grant, fratello di un uomo impiccato per l’accusa ingiusta aver violentato una bianca, parte per la cittadina di Trenton, dove rileva la libreria di Chandler. Qui entra in conflitto con una banda di giovinastri capitanati da Stan Walker. Le sorelle Sylvia e Lizbeth si innamorano di lui: e Joe, che ama quest’ultima, le confessa d’essere un nero. I due progettano di fuggire, ma la banda di Stan si mette in caccia per vendicarsi di Grant. Durante la fuga Joe e Lizbeth investono Walker e due poliziotti: braccati dalle forze dell’ordine, vengono uccisi a colpi di mitra poco prima di passare il confine.

 

Basterebbe il celebre aneddoto (vero) della morte per infarto di Boris Vian – autore del libro da cui il film di Michel Gast fu tratto e che, detestando il risultato, cercò invano di far togliere il proprio nome dai titoli – durante la «prima», per consegnare J’irai cracher sur vos tombes alla categoria dei film nati male e finiti peggio. E se la pellicola soffre di una messinscena discutibile, a partire dall’improbabile ambientazione statunitense, e di un protagonista inadatto come il futuro regista Christian Marquand, anche il contenuto del romanzo-scandalo di Vian risulta notevolmente annacquato.

Non così la dovettero pensare i commissari di revisione, chiamati a giudicare il film (presentato in lingua originale dalla Lux Film il 9 settembre 1959), esprimendo in data 15 gennaio 1960 parere contrario alla proiezione in pubblico, motivato «dalla accentuata scabrosità della materia, nonché dalla presenza di numerose scene offensive del pudore, della morale, del buon costume e della pubblica decenza». In una comunicazione per il Sottosegretario, il D.G. De Nicola sottolinea come il giudizio negativo sia ampiamente motivato, e sarebbe difficile effettuare tagli, dato che «tutta la trama si svolge in un’atmosfera di eccitazione sessuale, volutamente forzata». In un appunto manoscritto si legge: «Il film è tratto da un romanzo – dal titolo omonimo – di contenuto ed espressione particolarmente volgare ed osceno». La Lux non presenta appello.

Quattro anni dopo, con in vigore la nuova legge sulla censura, la III sez. della Commissione si mostra più benevola con il film, ripresentato il 25 marzo 1963 dalla Mercurfin in versione doppiata (nonostante il metraggio dichiarato sia nettamente inferiore, la lunghezza effettiva è identica) e il titolo Il colore della pelle. Il 23 aprile 1963 i commissari concedono il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni «in considerazione non solo di singole scene in cui sono accentuati rapporti sessuali ed evidenziati atteggiamenti lascivi, ma principalmente per il complesso del film e il suo contenuto verbale, nella presentazione drammatica di contrasti di razze, di scene di violenza, di valutazioni morali non accettabili, di manifestazioni di istinti e di reazioni violente, che non possono non cagionare turbamenti nell’animo dei minori e determinare effetti negativi sulla formazione e lo sviluppo della età evolutiva».

Il film di Gast viene presentato nuovamente in revisione il 30 novembre 1993, con tagli per complessivi 60 m (2’11”): nel primo rullo sono state sforbiciate l’impiccagione del ragazzo nero e la scena in cui Joe ne brucia il cadavere, nel terzo rullo le scene in cui Joe e la ragazza amoreggiano nel fiume e nella casa.

 

 

n. 30847

Terzo sesso/La casa degli uomini soli/Processo a porte chiuse (Das dritte Geschlecht)

RFT 1957, b/n

 

R: Veit Harlan; sc: Felix Lützkendorf; mu: Erwin Halletz, Oskar Sala; mt: Walter Wischniewsky.

Int: Christian Wolff (Klaus Teichman), Paula Wessely (Cristina), Paul Dahlke (Werner), Hans Nielsen (Max Mertens), Friedrich Joloff (Boris Winkler), Ingrid Stenn (Gerda).

Prod: Arca Filmproduktion.

Revisione: 14.12.1959 (2500 m), respinto: 2.1-17.6.1960.

Riedizione: 13.6.1960, respinto: 17.6-24.9.1960.

III edizione: 25.10.1962, approvato: 30.10.1962 (n.o. 38770 - 2192 m – v.m.18).

Homevideo: Edition Filmmuseum 05 (DVD, Germania).

 

Lo studente Klaus Teichner passa le sue giornate incontrando altri giovani nella casa del professor Boris Winkler, un antiquario. Venuta a conoscenza che Winkler è omosessuale, Cristina, la madre di Klaus, si rivolge disperata al medico di famiglia per accertare le tendenze sessuali del figlio. Il dottore consiglia alla donna di fare in modo che Klaus frequenti il maggior numero possibile di ragazze, così che possa innamorarsi e smettere di frequentare quei torbidi ambienti. Cristina allora convince Anna, una giovane che vive con loro fin dall’infanzia, a farsi avanti con Klaus: la cosa sembra funzionare, e Klaus, invaghitosi di Anna, abbandona le frequentazioni in casa Winkler. Frattanto Werner, il padre di Klaus, querela l’antiquario, il quale accusa a sua volta Cristina di aver spinto la ragazza a prostituirsi. Il tribunale condanna Cristina a sei mesi di reclusione: la donna accetta la pena di buon grado, paga di aver riportato il figlio sulla retta via.

 

Primo film sonoro sul tema dell’omosessualità dopo Anders als die Andern di Richard Oswald, che nel 1919 veniva proiettato in Germania accompagnato da presentazioni e volantini del Movimento Nazionale di Liberazione Omosessuale. Diretto dal regista Veit Harlan (22 settembre 1929 - 13 aprile 1964), già autore di diversi film di propaganda nazista tra i quali il famigerato Süss l’ebreo (Jud Süß), Das dritte Geschlecht è una sorta di instant movie, girato poco dopo che il governo tedesco aveva confermato il discusso paragrafo n. 175 del codice penale, che considerava l’omosessualità maschile come un reato punibile dalla legge.

Nell’opera di Harlan gli omosessuali sono distinti in due categorie: quelli pericolosi per la società e per gli altri individui e quelli che lo sono diventati loro malgrado, per cause esterne; questi ultimi non sono da condannare, ma anzi vanno aiutati. Nella Germania del tempo una tesi simile è impensabile e le polemiche non si fanno attendere. L’opera è distribuita nella sua versione integrale solamente in Austria, mentre in patria è bocciata dalla censura. La società di produzione ne appronta allora una nuova edizione intitolata Anders als du und ich (alla lettera: «diverso da te e me»), apertamente omofoba e stravolta nella forma e nella sostanza, che ottiene il nulla osta di proiezione con il divieto di visione ai minori di diciotto anni. L’uscita del film è accompagnata da manifestazioni e proteste e Harlan è messo alla gogna dalla maggior parte dei critici, che lo accusano di aver mescolato l’arte (il cinema) con l’omosessualità.

In Italia le cose non vanno meglio. Presentato in censura il 14 dicembre 1959 dalla Atlantis Film del distributore Carlo Scala, Terzo sesso viene bocciato in I grado perché, secondo i membri della commissione «contiene scene e soggetti offensivi del pudore e della morale». Scala ricorre allora in appello e scrive una lunga lettera in difesa dell’opera:

 

Il film stesso non è una speculazione commerciale su un argomento, ma inquadra e limita un problema sociale, purtroppo esistente, nel ristretto dramma di due onesti genitori che si avvedono di una tendenza del figlio verso l’anormalità e quindi il film, che termina con il matrimonio del ragazzo, ha lo scopo evidente di additare ai genitori i pericoli che possono correre i figli adolescenti se abbandonati a loro stessi e di sottolineare la necessità su di una vigilanza nelle amicizie che i figli stringono nel momento critico dello sviluppo.

 

Scala inoltre asserisce di aver già «alleggerito» il film prima di presentarlo in revisione.

La data per l’esame d’appello è fissata per il 22 gennaio 1960. Poco prima, il temuto Ispettore Generale Annibale Scicluna Sorge scrive di suo pugno una lettera al sottosegretario di Stato Domenico Magrì:

 

La prima Commissione di Revisione, da me presieduta, ha espresso parere contrario alla proiezione in pubblico del film Terzo sesso. Trattasi, come si evince dal titolo, di un film (tedesco) sul problema degli omosessuali e sull’attrazione esercitata su certi giovani di oggi da quel mondo torbido mascherato per lo più da equivoci richiami para-culturali. L’aspra crudezza rappresentativa del film non esclude però la presenza di elementi didascalici indicativi e preventivi soprattutto per il mondo dei genitori. Si tratta però di una formula narrativa che seppur consona all’ambiente e alla mentalità germanica e nordica più aperta e spregiudicata in materia, appare del tutto sconsigliabile per il nostro pubblico, data la eccessiva libertà del linguaggio e data la fredda e documentata presentazione di ambienti torbidi e malsani (locali per omosessuali e luoghi privati di allettamento, di ritrovo e di incitamento alla pratica del terzo sesso), con chiari accenni alla colleganza internazionale, all’omertà e alla solidarietà dei suddetti ambienti. All’unanimità, la Commissione ha ritenuto di esprimere sul film parere nettamente contrario alla proiezione in pubblico.

 

Con questa lettera Scicluna Sorge consiglia velatamente al collega quale sia il giudizio da emettere. Infatti, poco dopo, la Commissione presieduta da Magrì, con la presenza del Procuratore Generale Beniamino Leoni e del Prefetto Mario Micoli, esprime parere negativo alla concessione del nulla osta di proiezione in pubblico.

Ma Carlo Scala non demorde: fa rimontare il film e lo presenta nuovamente al Ministero con il titolo La casa degli uomini soli, accompagnando la domanda di revisione con un’altra lettera, dove rende noto che un’ulteriore condanna potrebbe incidere in maniera molto grave sull’andamento economico della sua società. Fa inoltre presente che

 

al fine di poter rendere accettabile la pellicola sono state apportate modifiche sostanziali. In particolare è stato cambiato il titolo con uno di minore shock; è stata tolta completamente tutta la parte che riguardava la corruzione della ragazza, è stato cambiato il finale, facendo sposare i due giovani ed assolvendo la madre al fine di moralizzare l’intera vicenda. Sono state tolte tutte le frasi che in qualche modo potevano offendere la pubblica morale.

 

Nonostante gli sforzi fatti, il film è nuovamente respinto in prima istanza e in appello (17 giugno 1960 e 24 settembre 1960). In un appunto il sottosegretario di Stato Gabriele Semeraro scrive: «La Commissione non ritiene che il film, nonostante la diversa impostazione dell’agire della madre nel sottrarre il figlio ai richiami della deviazione sessuale, possa essere, per l’argomento trattato, proiettabile in pubblico».

Una terza edizione, ulteriormente rimaneggiata e rititolata Processo a porte chiuse, della durata di circa 79’ (2192 m), è nuovamente presentata in censura il 25 ottobre 1962. La società Arca, presentando la domanda per l’ottenimento del visto, dichiara «che la pellicola stessa viene per la prima volta sottoposta in revisione» sottacendone i reali precedenti. La Commissione non se ne accorge e, revisionato il film in data 21 ottobre, esprime parere favorevole al rilascio del nulla osta con divieto di visione per i minori, in quanto «tratta il problema del terzo sesso e ne trascrive, sia pure in maniera discreta, l’ambiente relativo, e che, inoltre, dal punto di vista educativo, la conclusione a cui il film arriva non riscatta l’argomento».

 

 

n. 30881

Che il bambino non ci muoia

Italia 1959, col.

 

R: Axel Rupp.

Prod: SEDI (Società Editrice Documentari Italiani).

Revisione: 18.12.1959 (280 m), respinto: 31.12.1959-2.2.1960.

 

Ispirato a una vecchia canzone popolare, un documentario sulla vita e il lavoro dei pastori sardi: la raccolta del foraggio, la ricerca dell’acqua, la tradizione del maggio negli ovili, il sonno, i sogni premonitori, il lavoro, la solidarietà tra pastori, che si esprime nella «paradura».

 

Veronese, classe 1924, Axel Rupp – fotoreporter per «Life», «Paris Match», «Epoca», «Il Mondo», architetto, documentarista – si è distinto per la sua opera dai tratti antropologici, senza filtri e compromessi nel raccontare e mostrare la realtà, in lavori come The City (1961) e Il respiro (1964). «Piuttosto che realizzare film che non si sentono, è meglio andare a vendere stoffe», dirà.

Per comprendere appieno le vicende censorie di Che il bambino non ci muoia occorre fare un passo indietro, a un antecedente che ne illumina significativamente la sorte. Vincitore al Festival di Salerno del 1958 con Un asino per un cristiano e Molti bambini a Bari vecchia, Rupp si vede boicottare la proiezione nientemeno che da Gianni De Tomasi in persona: il dirigente a vita della Fedic sale in cabina di proiezione cercando di convincere autore e dirigenti a non proiettare Molti bambini a Bari vecchia, come racconta Giorgio Trentin. «Di fronte al rifiuto di questi, preso da sacro furore censorio, de Tomasi minacciò l’intervento della P.S. se non si fosse accettato il suo “consiglio”: e la capitolazione venne». Il motivo della furia del dirigente è l’appartenenza a sinistra di Rupp, mal tollerata all’interno della Federazione Italiana dei Cineclub. «Ignazio Rossi, presidente del Festival di Salerno, si è sottomesso ed è entrato nel Consiglio direttivo della Fedic, mentre Axel Rupp ha continuato per la sua strada, e come conseguenza un suo documentario in 35mm, sulle condizioni ambientali sarde, è stato bocciato irrimediabilmente dalla censura».1

Il breve film di Rupp viene presentato in revisione il 18 dicembre 1959. La commissione, che lo visiona il 30 dicembre, lo rigetta in quanto «il commento tende a giustificare la violenza e la ribellione alla forza pubblica attraverso una colorazione che costituisce vera e propria apologia di fatti che la legge prevede come reati» ai sensi dell’art. 3 lett. c) del R.D. n. 3287/1923.

Ecco alcuni passi del commento incriminato, tratto da lettere, testimonianze e discorsi di autentici pastori pubblicati su riviste, giornali e volumi di etnografia:

 

A otto, nove anni, per mangiare, egli è costretto a lasciare la famiglia. Le notti fredde passate fra i temporali, le volpi, i ladri, sempre dormendo a terra, con la brina, tra i sassi, lo fanno adulto anzitempo. Vada pure a rubare un’altra pecora, se gli manca. […] La sua aspirazione è diventare proprietario del gregge. Allora ci vuole coraggio e fucile, cartucce, coltello e un po’ di vino. Meglio fare la bardana. Bardana è rapina. Si ruba qualche pecora per mangiarla, poi per venderla, e dopo alcuni anni di galera, di fatiche, di sogni si arriva alla proprietà. […] Ogni pastore sa che potrà un giorno diventare bandito. Ogni bandito sa di non essere altro che un pastore sfortunato. […] Li ho sempre educati bene i miei figli. Gli ho sempre detto: non dovete avere paura, devono usare il cervello, devono saper usare il fucile. Carabinieri, non li dovete temere. Poi mi hanno passato alla commissione di confino perché non facevo la spia al mio caro figlio. […] Questo bambino non ci muoia mai / meglio ci muoia questo agnellino / perché quando muore ce lo mangiamo / ma del bambino ce ne serviamo / lo mandiamo di qua e di là / questo bambino non ci muoia mai.

 

La SEDI presenta appello il 2 febbraio 1960. Contestualmente, Rupp invia alla Commissione di appello una dettagliata memoria/esegesi in cui si dichiara sorpreso del parere contrario espresso in I grado, frutto a suo avviso di un fraintendimento del senso del commento parlato.

 

Va, anzitutto, osservato che la connessione tra lo stato di miseria in cui vivono taluni ceti della popolazione nelle zone più depresse del nostro Paese e la frequenza in dette zone, di certi particolari tipi di reato contro il patrimonio e, in genere, il potere criminogeno della miseria, dell’assoluta inadeguatezza dei salari e dell’impossibilità di un’istruzione anche minima che la miseria comporta, sono universalmente ammessi […] da circa un secolo. […] È chiaro, quindi, che il presentare […] il dramma di una categoria come quella dei servi pastori (i quali spesso, per la miseria in cui vivono sono tentati di risolvere i loro problemi elementari di vita attraverso attività illecite e vengono a trovarsi, quindi, fuori della legge per effetto della imponenza delle cause ambientali e sociali che spesso li inducono in tentazione) ha proprio il valore preciso di una documentazione […]. È chiaro che la Commissione di Censura di I grado è caduta in un equivoco […]. Diversamente non sarebbe accaduto alla predetta Commissione di considerare alcune frasi del commento parlato (nel quale vi sono passi di commento in senso proprio e passi che ripetono meditazioni intime dei personaggi raffigurati ed aventi, perciò, valore di espressione della genesi spirituale di alcuni stati d’animo […]. La stessa frase «vada pure a rubare un’altra pecora, se gli manca» va interpretata – com’è reso evidente dalle inquadrature a cui è riferita e dalle quali il commento parlato non può essere artificiosamente staccato, appunto come un’intima voce interiore […]. È chiaro, inoltre, che la frase, nel suo forte tenore, è espressione letteraria […]. E non è certo […] una frase riferibile al regista o al commentatore, come incitamento o giustificazione di un fatto delittuoso che, tra l’altro, non è neppure riprodotto nel documentario. Quanto, poi, alla pretesa «apologia di fatti costituenti reato» basterà osservare che i fatti costituenti reato non vi sono nel documentario. […] Ma l’equivoco è ancora più evidente là dove il parere della Commissione attribuisce addirittura al commento parlato la tendenza a giustificare la violenza e la ribellione alla forza pubblica. […] Tutti sanno […] che l’espressione «Carabinieri, non li dovete temere» è un antico detto sardo […] di fiera coscienza della dignità e della libertà del cittadino. […] è evidente, quindi, che non può costituire giustificazione alla ribellione verso la forza pubblica il rilevare […] il clima di oppressione creato da misure poliziesche, incapaci di risolvere un problema ben più complesso e concordemente condannate da tutte le oneste coscienze democratiche.

 

Oltre a ciò, Rupp argomenta che le frasi incriminate sono contenute in un’inchiesta sui pastori sardi apparsa su «Nuovi argomenti» n. 10, ottobre 1954. E conclude: «Per la prima volta, infatti, nella storia del cinema documentario del dopoguerra – il tema dei pastori non è interpretato nel clima fittizio del pregiudizio romantico, ma riproposto con metodo di drammatica e palpitante realtà».2

Il giudizio è tuttavia ribadito dalla Commissione di II grado presieduta dal sottosegretario Magrì, il 2 febbraio 1960, benché la SEDI si dichiari disposta a modificare o addirittura abolire in toto il commento parlato sostituendolo con didascalie.

 

 

1 Giorgio Trentin, FEDIC: psicosi censoria, «Filmcritica», n. 96-97, aprile-maggio 1960, p. 290.

2 Tutte le sottolineature sono presenti nell’originale.

 

 

n. 31071

The Beat Generation

Usa 1959, b/n

 

R: Charles C. Haas; sc: Richard Matheson, Lewis Meltzer; fo: Walter Castle; mt: Ben Lewis; mu: Albert Glasser.

Int: Steve Cochran (Sergente Dave Culloran), Mamie Van Doren (Georgia Altera), Ray Danton (Stanley Garrett/Stan Hess), Fay Spain (Francee Cullorann), Louis Armstrong (se stesso), Maggie [Margaret] Hayes (Joyce Greenfield), Jackie Coogan (Jake Baron), Jim Mitchum (Art Jester), Cathy Crosby (cantante), Ray Anthony (Harry Altera), Dick Contino (cantante beatnik), Irish McCalla (Marie Baron), Vampira [Maila Nurmi] (poetessa), Billy Daniels (dottor Elcott), Charles Chaplin Jr. (Lover Boy), Regina Gelfan [Regina Carrol] (ballerina), Guy Stockwell (beatnik).

Prod: Albert Zugsmith Productions/MGM.

Revisione: 3.12.1959 (2584 m), respinto: 15.1.1960.

 

La polizia è alla ricerca di un criminale, conosciuto come Garrett, che si introduce con trucchi in casa di donne sole per derubarle e violentarle. Incaricato delle indagini è il sergente Dave Cullorann, che mette gli occhi su un beatnik, tale Art Jester, il quale si rivela innocente. L’interesse di Cullorann nel caso diventa personale quando Garrett gli aggredisce la moglie Francee. Ossessionato dalla caccia al maniaco, Dave tratta in maniera scostante Francee, che aspetta un bambino. Infine Culloran attira in una trappola Garrett usando come esca la sua ultima vittima, Georgia, e riesce finalmente ad arrestarlo. Nel frattempo la moglie dà alla luce la loro figlia.

 

Leggendario fin dal titolo (il cui copyright fu soffiato a Jack Kerouac dal produttore Albert Zugsmith), The Beat Generation non ha nulla a che fare con l’autore di Sulla strada, se non i riferimenti alla cultura beat, corteggiata dai grandi studios – un entusiasmo destinato a raffreddarsi dopo il flop al botteghino di La nostra vita comincia di notte di Ranald MacDougall (da The Subterraneans di Kerouac) – e utilizzata qui a mo’ di tappezzeria, come sfondo alle vicende della caccia a un maniaco sessuale (le cui abitudini sono solo alluse nel film). The Beat Generation è un noir secco e ben scritto (co-sceneggia Richard Matheson) dal cast memorabile, in cui spicca Louis Armstrong alle prese con la canzone omonima (di Walton Farrar e Walter Kent), e con un’incisiva prova di Steve Cochran nei panni del detective misogino e dalla psicologia tormentata.

Il film viene presentato in censura in edizione originale il 3 dicembre 1959, revisionato il 13 gennaio 1960 e respinto in quanto contiene scene offensive della morale e del buon costume. La Metro-Goldwyn-Mayer rinuncia all’appello: il film resta inedito da noi.

 

 

n. 31625

Ragazze dell’avanspettacolo/Ballerine di fila

Italia 1960, col.

 

R: non indicata.

Prod: Angelo Corridori per S.E.D.I. (Società Editrice Documentari Italiani).

Revisione: 31.3.1960 (387 m), respinto: 14.4-4.5.1960.

Riedizione: 30.5.1960 (250 m), approvato: 18.6.1960 (n. 32055).

 

Nella sala di ricreazione dei Bersaglieri a p.zza Rondanini a Roma, si riuniscono, sotto la guida di strani maestri impresari, le reclute dell’avanspettacolo. Le ragazze, destinati ai teatri di varietà della periferia e della provincia, provengono dalle classi sociali meno abbienti: spesso non hanno vocazione al mestiere, ma lo intraprendono nella speranza di cambiare vita.

 

Ragazze dell’avanspettacolo si apre con la didascalia: «le ragazze del varietà di terzo ordine sono spesso ballerine occasionali. Provengono dai mestieri più diversi e sono reclutate talvolta con sistemi discutibili. La loro vita non è facile. Quando lavorano guadagnano 1500 lire al giorno. Spesso non hanno né il fisico, né la salute né la volontà per ballare». Ma i propositi di denuncia sono uno specchietto per allodole: in realtà ciò che preme all’anonimo regista è mostrare fanciulle più o meno svestite impegnate in numeri da palcoscenico.

Presentato in revisione il 31 marzo 1960, il corto è respinto in data 13 aprile per scene «contrarie al buon costume e alla pubblica decenza». Il 4 maggio, previa richiesta di Angelo Corridori, rappresentante legale della ditta S.E.D.I., è revisionato dalla Commissione di appello composta dal sottosegretario di Stato Domenico Magrì, dal Procuratore di Corte d’Appello Beniamino Leoni e dal Prefetto Mario Micoli, la quale conferma il parere negativo espresso in I grado.

La produzione allora appronta una nuova edizione intitolata Ballerine di fila, sensibilmente più breve e con modifiche «per circa il 50%», e scrive una missiva indirizzata alla Commissione, dove sottolinea che le scene «causanti il diniego del nulla osta sono state sostituite da altre che non potranno assolutamente turbare la morale e la pubblica decenza. Esse sono: la sequenza d’inizio del cortometraggio illustrante la sala Bersaglieri in piazza Rondanini in Roma, l’intera sequenza dello “spogliarello”, nonché quella successiva del ballo in primo piano e di primi piani del pubblico “compiaciuto” dello spettacolo; ed infine la sequenza illustrante il ritorno a casa di una ballerina ed il colloquio tra questa e il suo protettore».

La Commissione questa volta esprime parere positivo.

 

 

n. 31785

La giumenta verde (La jument verte)

Francia 1959, col.

 

R: Claude Autant-Lara; s: dal romanzo omonimo di Marcel Aymé; sc: Jean Aurenche, Pierre Bost; fo: Jacques Natteau; mt: Madeleine Gug; mu: René Cloërec.

Int: Bourvil (Honoré Haudouin), Sandra Milo (Marguerite Maloret), Valérie Lagrange (Juliette Haudouin), Francis Blanche (Ferdinand Haudouin), Julien Carette (Philibert), Yves Robert (Zèphe Maloret), Marie Déa (Anais Maloret), Georges Wilson (Jules Haudouin).

Prod: Moris Ergas per Zebra Film.

Revisione: 14.4.1960 (2429 m), respinto: 16.5.1960-8.3.1961.

Riedizione: 12.4.1962 (2459 m), approvato: 14.7.1962 (n. 37364 - v.m.18).

 

Francia, Secondo impero. Nella fattoria degli Haudouin, a Claquebue, nasce una giumenta verde: l’evento arricchisce la famiglia del fattore, ma provoca l’odio delle famiglie vicine, tra cui quella di Maloret. Quando nel 1870 i Prussiani invadono la Francia e occupano il paesello, Zéphe Maloret denuncia il franco tiratore Honoré Haudouin al nemico: la madre di Haudouin si concede a un sottufficiale prussiano per salvare il figlio. Quindici anni dopo, Honoré cova ancora vendetta, ma la figlia si innamora del figlio di Zéphe, e la situazione si complica quando una lettera che racconta l’onta subita dalla madre va smarrita. Alla fine, Honoré consuma la propria vendetta, disonorando la figlia e la moglie di Maloret.

 

Tratto dal romanzo dell’umorista Marcel Aymé, sotto le spoglie da commedia farsesca La giumenta verde rivela «la vena più acida e sarcastica di Autant-Lara che […] dà fondo con una coraggiosa sincerità a tutto il suo spirito da misantropo e finisce per non risparmiare niente, né politica, né religione, né sentimenti»1. All’uscita in patria, il film causa un certo scandalo, al punto che il vescovo di Tulle ne ottiene l’interdizione nel dipartimento della Corrèze, mentre a Tours viene imposto un divieto ai minori di 21 anni e le proiezioni avvengono a luci accese (!), e il CCC (Comité Catholique du Cinéma) affibbia alla pellicola un « côte morale 5», la valutazione più negativa.

I guai italiani per il film di Autant-Lara iniziano già al momento della richiesta di riconoscimento della coproduzione per mancanza di requisiti: nonostante il parere favorevole del Centro Nazionale Francese, l’ufficio legislativo del Ministero dello Spettacolo, visionata la sceneggiatura, comunica al CNC e alla Zebra di Moris Ergas la decisione di soprassedere al riconoscimento, «a causa della particolare scabrosità della materia esposta e nel dubbio che il film potesse ottenere il visto di proiezione in pubblico». Visionata la pellicola nel febbraio del 1960, gli uffici del Ministero «pur riscontrando che alcune scene, che maggiormente avevano impressionato nella lettura della sceneggiatura, erano state tolte o attutite», esprimono parere contrario al riconoscimento della coproduzione, decisione comunicata il 16 febbraio.

La Zebra Film presenta La giumenta verde in revisione il 14 aprile 1960, in versione doppiata. In un appunto per il Sottosegretario di Stato datato 22 aprile, il D.G. dello Spettacolo fa presente che la pellicola è già stata visionata dal Ministro, e che l’ufficio produzione «ha rilevato che nel film, impostato su un argomento spregiudicato e boccaccesco, sono presenti scene, specie nella parte iniziale e in quella finale, di particolare crudezza».

E difatti la Commissione, che revisiona il film il 16 maggio, lo boccia «ritenendone il racconto, nel suo complesso, e lo sviluppo scenico, offensivi del pudore, della morale e del buon costume». Il presidente esprime invece parere favorevole alla programmazione con divieto ai minori di 16 anni per la scabrosità dell’argomento, a condizione che vengano effettuati alcuni tagli, in particolare:

 

1) Sia eliminata la scena del sergente prussiano, dal punto in cui egli spinge la madre di Honoré sul letto, fino al momento in cui, dopo l’uscita dei due, Toucher, rivolto ad Honoré, esclama: «E non guardarmi così…»;

2) Sia eliminato il commento dello speaker […]: «La madre non aveva rimorsi…» fino al punto «Amaramente… così amaramente che», lasciando solo le parole: «… in meno di sei mesi se ne andò all’altro mondo»,

3) Siano eliminate le seguenti battute, nella scena del campo, fra Margherita ed Honoré: MARGHERITA: «La mia non è la posizione più adatta per ricevere complimenti»; HONORÉ: «Infatti, è una posizione adatta a tutt’altro… e se ora volessi farti pagare il pedaggio»; HONORÉ: «Se io fossi tuo padre, non ti difenderesti troppo, dicono!»,

4) Sia eliminata la parte della scena, in cui Honoré palpa il sedere della moglie, che sta, ginocchioni, a lustrare il pavimento;

5) Sia eliminata la scena, in cui Honoré – alla presenza dei figli – conduce il toro verso la vacca;

6) Sia eliminata la scena, in cui Ferdinando, alzando la coda della vacca, esclama: «Guarda che la Fedele è in calore»; HONORÉ: «Diglielo al toro… oppure te ne vuoi occupare tu!?»;

7) Siano eliminate le battute nel punto in cui Adelaide, a letto, rinfaccia al marito di non avere più vent’anni: ADELAIDE: «Io lo so da un pezzo»; HONORÉ: «Non ti consiglio, cara, di permettermi di provare. Comunque, che ci sia qualcuno che fa l’amore con lei, mi piace come se fossi io…»;

8) Sia convenientemente ridotta la scena in cui Zéphe e Noel tentano di violentare Giulietta, con l’eliminazione di quella parte, in cui si vedono i due uomini buttare la ragazza sul divano;

9) Sia eliminata la battuta di Margherita, che, rivolta a Giulietta, esclama: «Non si vuole mai… e dopo si è contente»;

10) Che la scena fra Honoré e Margherita, nella casa del primo, sia tagliata nei punti, in cui Honoré palpa sconciamente la ragazza;

11) Che la scena fra Honoré e Anais sia tagliata dal momento che l’uomo spinge la donna sul letto, sotto cui è adagiato il figlio, fino all’arrivo dei familiari nel cortile.

 

La Zebra Film presenta appello il 20 maggio, ritenendo ingiustificata la decisione della Commissione, e facendo presente che «La giumenta verde, nella sua edizione integrale francese, ben diversa da quella purgata presentata a Codesto On. le Ministero, è già stata ammessa alle programmazioni in paesi profondamente cattolici e di seria e approfondita censura». Ma la Commissione di II grado, presieduta dal sottosegretario Renzo Helfer e composta dal P.G. di Corte d’Appello Beniamino Leoni e dal vice capo della Polizia Vincenzo Agnesina, ribadisce il parere contrario di prima istanza in data 8 marzo 1961.2

La giumenta verde viene ripresentato il 12 aprile 1962, alla vigilia dell’entrata in vigore della nuova legge sulla censura cinematografica. La ditta produttrice fa presente che il film «ha ottenuto il visto censura, nella versione originale francese, in tutti i paesi del mondo eccettuata la Spagna». Questa volta la Commissione (13 luglio 1962) esprime parere favorevole alla programmazione con divieto ai minori di 18 anni. Di conseguenza Ergas presenta nuova istanza (9 agosto 1962) per ottenere il riconoscimento della coproduzione. Neppure stavolta però il responso gli è favorevole.

La giumenta verde è ripresentato in revisione nel giugno 1997 da Mediaset per ottenere l’abbassamento del divieto per la programmazione televisiva, con tagli per complessivi 18,25 m (circa 40”). È stata ridotta la scena con Honoré e Anais sul letto sotto cui è adagiato il figlio della donna, che, riavutosi, ascolta i presunti gemiti di piacere dei due coperti dalla marcetta musicale.

 

 

1 Il Mereghetti 2014 cit., p. 1647.

2 La giumenta verde è al centro di un animato dibattito in aula al senato tra i senatori Granata, Busoni, Caruso e il sottosegretario Helfer, nella seduta antimeridiana del 18 ottobre 1961, dove tra l’altro si discute dei tagli a L’assassino in seguito alla pubblicazione dell’articolo di Tommaso Chiaretti Storia tragicomica di un film tra i labirinti della censura su «Il Paese».

 

 

n. 31808

The Leech Woman

Usa 1960, b/n

 

R: Edward Dein; s: Ben Pivar, Francis Rosenwald; sc: David Duncan; fo: Ellis W. Carter; mt: Milton Carruth; mu: Irving Gertz.

Int: Coleen Gray (June Talbot), Grant Williams (Neil Foster), Phillip Terry (dottor Paul Talbot), Gloria Talbott (Sally), John Van Dreelen (Bertram Garvay), Estelle Hemsley (Malla vecchia), Kim Hamilton (Malla giovane).

Prod: Universal International.

Revisione: 26.4.1960 (2142 m), respinto: 25.5.1960.

 

La vita di Paul e June – coppia sposata, con lei molto più anziana e trascurata dal marito endocrinologo – cambia quando Paul conosce Malla, una donna ultracentenaria che gli parla di un filtro magico per riottenere la gioventù. I due coniugi organizzano una spedizione in Africa dove scoprono che il filtro, ottenuto con la ghiandola cervicale di un uomo, dona giovinezza per una sola notte. June sacrifica la vita del marito pur di ringiovanire momentaneamente e, tornata in America, semina nuove vittime e seduce uomini più giovani, fino a quando viene scoperta.

 

Prodotto a basso costo dalla Universal, bisognosa di abbinare un secondo titolo alla programmazione americana di Le spose di Dracula, The Leech Woman presenta curiose analogie con I vampiri di Riccardo Freda, per il modo con cui svolge la tematica della ricerca della giovinezza da parte di una donna anziana (la Gray, ormai in declino dai tempi di Il bacio della morte e Rapina a mano armata) che fa perdere la testa a uomini più giovani: anche se rispetto al film di Freda le vittime sacrificali non sono giovani donne bensì i maschi stessi. Ma lo svolgimento è quello tipico di molti horror a basso costo statunitensi, con lunghe scene di dialogo, esotismo alla buona a base di materiale d’archivio (le sequenze nella giungla), e una regia statica e priva di guizzi.

Presentato in edizione originale il 26 aprile 1960 (il titolo previsto per la versione italiana è La sanguisuga), il film di Dein viene bocciato il 23 maggio dall’VIII divisione «per l’impostazione generale di morbosità del film che contiene inoltre scene di crudeltà e di violenza».

La Universal rinuncia a presentare appello: il film rimane inedito in Italia.

 

 

n. 32056

Bagno di Venus

Francia 1959, col.

 

R: non indicata.

Revisione: 30.5.1960 (15 m - 8mm), respinto: 1.6.1960.

 

Corto francese in 8mm importato dalla C.I.R.S.E. di Franco Gottardi, che mostra una ballerina danzare in acqua. Presentato in censura il 30 maggio 1960 è bocciato in quanto «contiene quasi esclusivamente scene offensive del pudore e della morale» (verbale del 31 maggio 1960).

 

 

n. 33283

Private Property

Usa 1960, b/n

 

R, sc: Leslie Stevens; fo: Ted D. McCord; mt: Jerry Young.

Int: Kate Manx (Ann Carlyle), Corey Allen (Duke), Warren Oates (Boots), Robert Ward (Roger Carlyle), Jerome Cowan (Ed Hogate).

Prod: Kana Productions.

Revisione: 21.10.1960 (2170 m), respinto: 13.2.1961-15.3.1961.

 

Due sfaccendati, il giovane Duke e l’amico Boots, timido e pieno di complessi sessuali, seguono una bella donna, Ann, fino alla sua abitazione. I due si introducono in una casa disabitata adiacente per spiare la donna, scoprendo la sua frustrazione nei confronti del marito. Duke si fa assumere come giardiniere da quest’ultimo e, approfittando di un’assenza dell’uomo, fa ubriacare Ann per gettarla nelle braccia di Boots. Il suo piano sembra avere successo, ma in un raptus di gelosia Duke uccide l’amico. Il marito di Ann arriva appena in tempo per salvare la moglie dalla furia di Duke.

 

Girato in 10 giorni, con un budget di soli 60.000 dollari, interamente nella casa dell’esordiente regista, il quale volle l’allora moglie come protagonista femminile, Private Property è un bizzarro melodramma che affronta con una certa originalità una tematica che, per gli impliciti riferimenti omosessuali, potrebbe ricollegarsi a certe cose di Tennesse Williams: spicca l’inusuale presentazione del legame tra i due protagonisti maschili, Duke e Boots, quest’ultimo interpretato da un giovane Warren Oates. Stevens, già sceneggiatore di Furia selvaggia di Arthur Penn, avrebbe raggiunto una certa notorietà come creatore della serie Tv The Outer Limits e per avere diretto l’unico film in esperanto della storia, Incubus (1966) con William Shatner. Il direttore della fotografia Ted McCord fu nominato all’Oscar per Tutti insieme appassionatamente, e il suo operatore Conrad L. Hall sarebbe diventato uno dei maggiori direttori della fotografia americani, con dieci nomination e tre statuette vinte.

Private Property è presentato, curiosamente in una versione in lingua francese, il 21 ottobre 1960, dalla Lux Film. La Commissione, che lo revisiona il 10 febbraio 1961, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico, giudicandolo contrario al pudore e alla morale e per via delle numerose scene di violenza, ex art. 3 lett. a) e d) R.D. n. 3287/1923. La Lux Film presenta appello il 2 marzo seguente, ma la Commissione di II grado presieduta dal sottosegretario Renzo Helfer conferma in toto il giudizio precedente. Il film di Stevens resterà inedito in Italia.

 

 

n. 33613

Sterilità e salute dei bovini

Italia 1960, col.

 

R: non indicata.

Revisione: 7.12.1960 (350 m - 16mm), respinto: 16.12.1960.

 

«Dimostrazione scientifica data dall’esimio prof. Lagerlof di Stoccolma dei vari sistemi per prevenire e curare la sterilità delle bovine e dimostrazione di come le bovine stesse possono contrarre malattie.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Cortometraggio didattico presentato in revisione in data 7 dicembre 1960 dalla società Alfa Laval. La Commissione nega il visto di censura (senza specificare i precisi motivi), ma dichiara di essere favorevole ad autorizzarne la proiezione, di volta in volta, a personale medico specializzato.

 

 

n. 33772

Luciano

Italia 1961, col.

 

R: Gian Vittorio Baldi.

Prod: S.E.D.I.

Revisione: 2.1.1961 (312 m), respinto: 14.3-19.4.1961.

 

Documentario su via dei Cappellari a Roma, una strada abitata da gente povera: artigiani, tappezzieri, mattonatori, imbianchini… e ladri. Alcuni di questi abitanti vengono intervistati: «Er Pagnotta», un oste, la prostituta Maria, l’impiegato Angelo Di Pietro, i bulli «Er Cagnara» e «Zizzi», il ladruncolo Luciano.

 

Il cortometraggio di Gian Vittorio Baldi, già vincitore del Leone d’Oro riservato alla categoria al festival di Venezia del 1958 con Il pianto delle zitelle e nel 1960 con La casa delle vedove (quest’ultimo anche candidato agli Oscar) trova ostacoli in censura per via del tono scabro e realistico con cui delinea uno spaccato di vita romana.

Presentato in censura il 2 gennaio 1961, Luciano è revisionato il 13 marzo 1961: la Commissione esprime parere contrario alla proiezione in pubblico «per il parlato offensivo della pubblica decenza, per il soggetto e scene contrarie al comune senso morale in quanto tendono a giustificare unilateralmente una vita delittuosa». In data 17 aprile 1961 la S.E.D.I. presenta appello, facendo presente la qualità artistica dell’opera e dei precedenti lavori del regista, e obiettando che

 

il protagonista, Luciano, è presentato come un personaggio la cui natura si presta più alla critica di costume, che ad ogni altra esaltazione, sia pure letteraria, e, perciò, alla pietà cristiana; da un certo punto di vista, egli può costituire un esempio negativo, per incitare i giovani, non all’emulazione, ma al contrario. Alla sua amoralità non viene trovata alcuna giustificazione, la sua miseria non viene resa «patetica». […] D’altra parte, in qualunque lavoro l’immoralità risulta dal significato d’insieme: e in questo lavoro non solo è stata volutamente evitata qualunque volgarità e insistenza, anche nell’unica immagine un po’ cruda, ma il significato del film è chiaramente morale. Infatti il male è accompagnato dalla miseria, dalla solitudine […] e il personaggio, così come è concepito, non può destare nessuna malsana ammirazione […]. Luciano […] rappresenta, come tutti i relitti sociali non una «classe», ma un individuo: rappresenta cioè solo se stesso.

 

La S.E.D.I. si dichiara disposta a modificare il parlato nelle parti in cui risulta troppo crudo, e a inserire in chiusura del corto una didascalia che «faccia ben comprendere quale sia stato il fine del medesimo e cioè di condanna a questo personaggio».

Parole al vento per la Commissione di II grado, che conferma in toto il giudizio precedente (19 aprile 1961).

Per il suo esordio nel lungometraggio, Luciano, una vita bruciata (1962), Baldi si ispirerà proprio al protagonista del suo controverso corto.

 

 

n. 33846

Omozigoti di San Donà

Italia 1961, col.

 

R: Filippo Paolone; fo: Giorgio Attenni

Prod: Film Giada s.r.l.

Revisione: 10.1.1961 (563 m), respinto: 24.3.1961.

 

Le applicazioni della genetica al progresso della zootecnica considerano l’allevamento e moltiplicazione di ceppi omozigoti (cioè geneticamente puri) uno dei mezzi più efficaci per aumentare e migliorare allevamenti di bestiame. Il documentario illustra il funzionamento esemplare di un centro di fecondazione artificiale e i risultati da esso conseguiti in senso produttivistico mettendo a disposizione degli allevatori di un’intera zona il seme di riproduttori di alta genealogia.

 

Uno dei tanti cortometraggi a carattere documentaristico diretti da Filippo Paolone (1917-1982), docente di Storia degli Strumenti dell’Informazione alla facoltà di Statistica dell’Università di Roma, redattore del periodico «Audio-Video», vicepresidente dello Studio Romano per la Comunicazione Sociale nonché membro del consiglio direttivo del premio David di Donatello. Omozigoti di San Donà è presentato in revisione il 10 gennaio 1961 e respinto il 23 marzo: «Si esprime parere contrario alla programmazione in pubblico, in quanto il film contiene scene offensive del pudore, ai sensi dell’art. 3, lett. a) del reg. annesso al decreto 23 settembre 1923 n. 3287». La produzione rinuncia all’appello e il documentario resta inedito.

 

 

n. 34099

Vento freddo d’agosto (A Cold Wind in August)

Usa 1961, b/n

 

R: Alexander Singer; s: John Hayes, dal romanzo A Cold Wind in August di Burton Wohl; sc: Burton Wohl; fo: Floyd Crosby; mu: Gerald Fried; mt: Jerry Young.

Int: Lola Albright (Iris Hartford), Scott Marlowe (Vito Perugino), Joe De Santis (Mr. Perugino), Clarke Gordon (Harry), Janet Brandt (Shirley), Skip Young (Al), Ann Atmar (Carol), Jana Taylor (Alice), Herschel Bernardi (Juley Franz).

Prod: Troy Productions.

Revisione: 21.2.1961 (m n.d.), respinto: 28.2.1961.

Riedizione: 17.4.1961 (2105 m), approvato: 20.6.1961 (n.o. 34620 - v.m.16).

Homevideo: MGM-MOD (DVD, Usa).

 

L’ex spogliarellista di Las Vegas Iris Hartford, ritiratasi a New York dove viene mantenuta dall’«amico» Juley, si invaghisce del diciassettenne Vito Perugino, figlio dell’amministratore del suo condominio. Tra i due ha inizio una relazione che vede Iris morbosamente attaccata al giovanissimo e geloso amante, ignaro della professione della donna. Tornata sulle scene nel New Jersey per aiutare l’ex marito, Iris viene riconosciuta da un amico di Vito che racconta tutto al giovane: dopo un furioso litigio, i due si separano. Qualche tempo dopo Iris, ancora innamorata di Vito, tenta di riavvicinarlo, ma si accorge che il giovane non la ama più, e anzi è ora attratto da una ragazza della sua età.

 

Tratto da un romanzo di scandalo per via della franchezza nella descrizione di una relazione tra una donna matura e un ragazzo non ancora maggiorenne, Vento freddo d’agosto è un prodotto a basso budget che nondimeno incontra all’uscita reazioni piuttosto positive dalla critica. Oggi il film dell’esordiente Singer (già cameraman di Day of the Fight dell’amico Stanley Kubrick e poi apprezzato regista televisivo) appare francamente invecchiato e a tratti ai confini del ridicolo, specie per la prova del ventinovenne Scott Marlowe negli improbabili panni del diciassettenne Vito Perugino, mentre la trasformazione del personaggio della Albright – eccellente nelle scene della seduzione e lodata da Pauline Kael – è reso in maniera poco convincente.

Presentato dalla Dear Film in versione doppiata il 20 febbraio 1961, Vento freddo d’agosto è revisionato il 27 febbraio dalla Commissione di I grado, che esprime parere contrario alla programmazione, poiché la pellicola contiene «moltissime scene offensive del comune senso del pudore». Il 7 marzo la Dear ricorre in appello, che però ritirerà, optando per una nuova domanda di revisione il 17 aprile.

Nell’approntare la nuova edizione della pellicola, la ditta sostiene di avere apportato «una radicale trasformazione al film stesso, eliminandone talune scene ed introducendone altre non comprese nella prima versione». Oltre a ciò, la Dear è intervenuta anche sui dialoghi, «attraverso i quali si è venuta a trasformare la natura di più di un personaggio e quindi il contenuto stesso del film sotto il profilo morale e spettacolare».

La Commissione, in data 19 giugno, questa volta concede il nulla osta alla proiezione in pubblico con divieto ai minori di 16 anni.

 

 

n. 34150

Ooh… diese Ferien

Austria 1958, col.

 

R: Franz Antel; s, sc: John Andersen; fo: Hans Heinz Theyer; mt: Arnfried Heyne; mu: Johannes Fehring.

Int: Heidi Bruhl (Monika Petermann), Georg Thomalia (Max Petermann), Hannelore Bollmann (Brigitte Petermann), Mara Lane (Baby), Michael Cramer (Willi Boltz), Rolf Olsen (Otto Muffler).

Prod: Cosmos Film Productions Gmbh.

Revisione: 25.2.1961 (2775 m), respinto: 5.5.1961.

Riedizione: 29.9.1961 (2494 m), approvato: 14.10.1961 (n.o. 35850).

Homevideo: Icestorm Entertainment (DVD, Germania).

 

Per un equivoco, i documenti che una banda di spie vuole trafugare all’estero finiscono nell’auto di un impiegato, Max, che intende passare le sue ferie in Italia con la famiglia. Gli spioni seguono i vacanzieri, e uno di loro si innamora della bella sorella di Max, mentre quest’ultimo perde la testa per Baby, una della banda. Alla fine, dopo molte peripezie, i cattivi vengono catturate e Max può godersi le sue ferie.

 

La commediola vacanziera di Franz Antel (alla lettera: «Oh… queste ferie!») è una delle vittime più incredibili della censura pre-legge n. 161/1962. Presentata in edizione originale dalla Dolomit Film di Merano per lo sfruttamento nelle zone in lingua tedesca dell’Alto Adige, il 25 febbraio 1961, si vede negare il nulla osta in prima istanza (5 maggio 1961) «in quanto […] contiene scene offensive del decoro nazionale» ai sensi dell’art. 3 lett. b) del regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923.

Ernesto Schmerel della Dolomit presenta ricorso in appello il 4 agosto. «Ritenendo che il parere contrario sia stato determinato dalla presenza nel film di scene che possono ritenersi offensive al prestigio dell’Arma dei Carabinieri italiani», scrive lo Schmerel, «ho provveduto ad eliminare dal film tutte le scene girate in Italia per un metraggio complessivo di 350 metri». La domanda è però rigettata, in quanto considerata improponibile per la scadenza dei termini di legge (30 giorni ex art. 11 del regolamento).

Schmerel rivolge allora (23 settembre) un’accorata protesta, da cui emerge che la scadenza dei termini fu dovuta a un errore da parte del Ministero:

 

Unitamente alla comunicazione della bocciatura mi fu verbalmente comunicato che il film era stato presentato per la prima volta alla revisione diversi anni fa e respinto. Questa comunicazione mi convinceva che un ricorso in Appello non avrebbe avuto alcuna efficacia. Informato, come di dovere, la […] Dolomit Film […], e da essa il produttore tedesco del film […], viene categoricamente negato che la pellicola fosse stata inviata in Italia e che pertanto, non era possibile che il film fosse stato presentato altra volta in revisione. […] Riferito quanto sopra al competente Ufficio di Revisione il giorno 3 agosto 1961, da una accurata indagine risultò che il film non era mai stato sottoposto a revisione. […] Con questa affermazione venivano ora a cadere quei motivi che a suo tempo inducevano a ritenere inefficace ed inutile appellarsi alla Commissione di Revisione di II grado.

 

La richiesta non viene però accolta. La Dolomit presenta allora una riedizione del film, da cui sono stati tagliati 281 m (10’15” circa), comprensivi di tutte le scene ritenute lesive in prima istanza. Questa volta Ohh… diese Ferien ottiene il visto in prima istanza, in data 13 ottobre.

 

 

n. 34154-34158

Sexy Girl - Blues ballet; Sexy Girl - Caravan ballet; Sexy Girl - Fantasy ballet; Sexy Girl - Tropical ballet

Italia 1961, col.

 

R: non indicata.

Revisione: 1.3.1961, respinti: 22.12.1961.

 

Cortometraggi a carattere musicale in 8mm, di 13 m di lunghezza ciascuno, raffiguranti danze coreografiche eseguite da una ballerina. Il produttore genovese Ludovico Rivaldi precisa che detti corti debbano essere «posti in vendita presso negozi di ottica e articoli fotografici e da questi venduti a privati (cineamatori o cinedilettanti). Viene fatto inoltre esplicito divieto di proiezione in pubblico o in locali accessibili al pubblico e tale clausola è stampata sulla pellicola stessa». La Commissione, con decreto del 23 dicembre 1961, li boccia perché «ritenuti offensivi del pudore (art. 3 lett. a del reg. annesso al R.D. 29/9/23 n. 3287»

 

 

n. 34197

Geneviève

 

Italia 1961, col.

R: non indicata.

Prod: S.I.F. spa.

Revisione: 3.3.1961 (28 m, 16mm), respinto: 15.3.1961.

 

Cortometraggio a carattere musicale in cui il cantante Giorgio Gaber, con accompagnamento musicale, esegue la canzone Geneviève.

 

Respinto in data 15.3.1961: «Parere sfavorevole alla proiezione in pubblico considerando che dette specie di pellicole vengono proiettate senza alcuna discriminazione per i minori e dato il suo contenuto inadatto ai giovani».

 

 

n. 34210

317

Italia 1961, col.

 

R: non indicata.

Prod: S.I.F. spa - Slogan Film.

Revisione: 3.3.1961 (117 m - 16mm), respinto: 15.3.1961.

 

Cortometraggio a carattere musicale in cui il maestro Trombetta con la propria orchestra esegue la canzone dal titolo 317.

 

«Revisionata la pubblicità il 15 marzo 1961 si esprime parere sfavorevole alla proiezione in pubblico per il contenuto inadatto ai giovani ed essendo destinato il presente cortometraggio ad un particolare tipo di proiezione indiscriminata» (verbale ministeriale del 15 marzo 1961).

 

 

n. 34393

Mandolino… mandolino

Italia 1961, col.

 

R: non indicata.

Prod: S.I.F. spa - Eurofilm.

Revisione: 29.3.1961 (36 m - 16mm), respinto: 8.4.1961.

 

Cortometraggio a carattere musicale destinato al circuito dei Cinebox, in cui il cantante Sergio Bruni esegue la canzone Mandolino… Mandolino.

 

Revisionato in data 7 aprile 1961: «parere contrario alla programmazione in pubblico in quanto contiene scene non adatte alla sensibilità dei minori».

 

 

n. 34398

Le ninfette (Les Nymphettes)

Francia 1960, b/n

 

R, s, sc: Henri Zaphiratos; dial: Bernard Chesnais, Henri Zaphiratos, Roland Guinier du Vignaud; fo: Roger Duculot; mu: Louiguy [Louis Guglielmi]; mt: Armand Psenny.

Int: Christian Pezey (Lucien), Colette Descombes (Joelle), Claude Arnold (Mireille), Mario Pilar (Mario), Jacques Perrin (Philippe), Adrienne Servantie (madre di Lucen), Corrado Guarducci (il produttore).

Prod: International Thanos Films.

Revisione: 22.3.1961 (2181 m), respinto: 5.5-8.11.1961.

Riedizione: 5.9.1962 (2181 m), approvato: 18.9.1962 (n.o. 38268 - v.m.18).

Homevideo: Vip, Fil à Film (VHS, Francia).

 

Lucien, ragazzo semplice e di buona famiglia, è innamorato di Mireille, ma una sera si accorge che la ragazza sfrutta la sua amicizia come paravento verso i genitori, onde poter uscire liberamente con il trentacinquenne Mario. Il ragazzo, disperato, gira senza meta per la città e incontra un’altra ragazza di nome Joelle, la quale lo invita a una festa in casa di amici. Alla fine della serata, Lucien invita Joelle in casa sua: i due fanno l’amore, ma al mattino la ragazza scompare, senza lasciare alcuna traccia. Lucien comincia a cercarla disperatamente per la città e quando la trova le confessa il suo amore. Intanto Philippe organizza una festa per la perdita della verginità dell’amico e Mireille, gelosa, scommette che riuscirà a riconquistare il suo ragazzo. I tentativi di Mireille non lasciano indifferente Lucien, ma il ragazzo la respinge, conscio di avere finalmente trovato in Joelle la ragazza della sua vita.

 

Iniziato da Michael Wicard e portato a compimento dal regista, produttore e distributore Henri Zaphiratos (qui all’esordio), Les Nymphettes – commediola giovanile sull’amore e la scoperta del sesso – viene vietato ai minori di 18 anni dalla censura francese a causa «della licenziosità del comportamento delle ragazze». L’interdizione, decisa il 3 agosto 1960, verrà revocata solo nel dicembre 1988.

In Italia invece il film va incontro a ben altre traversie.

Presentato da Cesare Canevari per conto della C.C.E.-Compagnia Cinematografica Europea, Le ninfette è revisionato il 21 aprile 1961. La Commissione, sentiti i rappresentanti della distribuzione, esprime parere favorevole al rilascio del nulla osta a condizione che siano eliminate «scene e […] battute […] offensive del pudore, della morale e del buon costume». Ossia:

 

− La scena delle due prostitute che offrono di accompagnarsi con Lucien con le seguenti rispettive battute: «Mi vuoi caro?» - «Vieni con me» (rullo 3).

− Joelle davanti a Lucien si esibisce in un numero di spogliarello (rullo 3).

− Scena che raffigura i due giovani amanti a letto (rullo 6).

− Battute: «Lucien è andato a donne» e «Se si festeggiasse l’avvenimento» (rullo 7).

− Alleggerire scena della piscina, eliminando dalla stessa il bacio dato alla ragazza in bikini, provocantemente distesa sull’orlo della vasca (rullo 7).

− Inquadrature che, mostrando Mireille nuda di schiena e, successivamente, mentre sfila gli indumenti dalle gambe nude, raffigurano come la stessa tenti di riconquistare Lucien con una provocante e impudica esibizione del proprio corpo (rullo 8).

 

Il sottosegretario di Stato Renzo Helfer, il cui parere è vincolante ai fini del rilascio del nulla osta, è però di tutt’altra opinione:

 

il film si presenta sovrassaturo di erotismo […] spesso morboso e quasi sempre compiaciuto. Si può dire anzi che questo sia il tema dominante in un mondo di gioventù bruciata dove nulla, o quasi nulla, può essere salvato. Il film deve essere giudicato nettamente in contrasto col comma a) dell’art. 3 del R.D.L. 24/9/1923 n. 3287, essendo intrinsecamente immorale e disseminato di scene, sequenze e dialoghi offensivi del pudore e del buon costume. La suspance [sic!] erotizzante è tale da renderlo inadatto anche a individui maggiori dei 16 anni. Né il film può vantare particolari pregi stilistici, estetici o di recitazione, mentre la sua lunghezza di poco superiore ai 2000 metri non consentirebbe gli abbondanti tagli di scene e di battute che sarebbero necessari per purgarlo almeno dei più vistosi elementi di oscenità. Perciò si respinge in toto.

 

Il 7 giugno la C.C.E. presenta un esposto al Ministero – non, si badi, un appello vero e proprio – «non ritenendo valido non solo il giudizio di carattere generale sul film, ma in particolare di dover procedere alla totale eliminazione delle scene indicate nel verbale».

 

La sottoscritta dopo un attento esame è venuta invece nell’ordine di modificare il parlato e di snellire con più tagli il visivo delle scene indicate1, in maniera che il film sia alleggerito di quella «suspance erotica» [sic!], che nel verbale è indicata come voluta. In particolare si è provveduto:

1) Per il taglio n. 1 a lasciare il visivo ed a sostituire le battute «Mi vuoi caro?» e «Vieni con me» con le battute «Dove vai tutto solo?» e «Ehi, come siamo tristi» (rullo 3).

2) Per il taglio n. 2 – lo spogliarello – a ridurre le scene a poche sequenze assolutamente castigate, eliminando tra l’altro le sequenze nelle quali Julie appare semi-svestita e lasciando cioè semplicemente quelle nelle quali appare completamente vestita (rullo 3).

3) Non è stata eliminata la scena che raffigura i due giovani a letto (rullo 6), ma è stata oscurata in modo da renderla non visibile: ciò è stato fatto per lasciare inalterato il dialogo, sul quale non sono stati avanzati giudizi negativi.

4) Le battute «Lucien è andato a donne» e «Se si festeggiasse l’avvenimento» (rullo 7) sono state sostituite con la battuta «Lucien il mio vero amico Lucien alla fine si è deciso: solo dopo molte esitazioni mi ha confessato di avere preso una cotta formidabile».

5) È stato eliminato nella scena nella piscina il bacio dato alla ragazza in bikini, distesa sull’orlo della vasca (rullo 7).

6) Sono state eliminate le inquadrature che mostravano Mireille nuda di schiena e notevolmente attenuate quelle nelle quali cerca di riconquistare Julien (rullo 8).

Inoltre per aderire ad un consiglio rivoltoci dagli uffici di questo On.le Ministero, abbiamo provveduto a sostituire completamente la battuta del sacerdote − peraltro non indicata tra quelle da eliminare − «Tu sei turbato, quel che ti è accaduto ti ha molto sconvolto! Altri giovani ci sono passati prima di te. Sono cose che succedono alla tua età» con «Tu sei turbato! Quello che ti è successo ti ha sconvolto, lo so. È un’età difficile la tua, figliolo! Purtroppo la moralità è in decadenza al giorno d’oggi. Ma tu l’ami questa ragazza?».

La Compagnia Cinematografica Europea ha voluto così dare una prova tangibile alla sua buona volontà […]. Confida perciò nel benevolo accoglimento della istanza, chiedendo soltanto che la decisione di questo On.le Ministero possa esserle comunicata con una certa urgenza, ed evitare ulteriori spostamenti delle date di programmazione del film.

 

Paradossalmente, la preghiera della compagnia ottiene l’effetto contrario, e dopo ben sette mesi dalla domanda di revisione, la C.C.E. attende ancora la sentenza della Commissione di II grado.

In data 26 ottobre il procuratore della compagnia Giuseppe Caputo lancia un accorato appello al Consigliere di Stato Vincenzo Bolasco, capo di gabinetto del Ministero del Turismo e dello Spettacolo:

 

Chiarissimo Consigliere, le rimetto – come d’accordo – un breve promemoria sulla pratica del film Le ninfette […]. Ho presso di me la raccolta o come l’ha preferita chiamare il Sottosegretario On.le Helfer «il malloppo» relativo ad un’ampia documentazione in materia di censura, ma non ho trovato in alcuna legge – passata e presente – comprese quelle divulgate dall’On.le Helfer, che le Commissioni di revisione siano consultive […].

Posso senz’altro condividere che il film Le ninfette poteva esserci risparmiato, per quanto decine di altri film, passati, sono molto più scabrosi e quindi l’esclusione de Le ninfette avvalorerebbe le voci che la censura in Italia ha un metro di diverse misure. Non posso però condividere né l’intervento del Sottosegretario in sede di verbale della Commissione di 1a istanza, né che egli abbia lasciato trascorrere ben sette mesi dalla data di presentazione del film in censura, senza ancora pronunciarsi.

La società è stata posta da pochi giorni in stato di liquidazione e i due titolari sono alla «disperazione». Sono convinto che un suo intervento varrà a sanare questa situazione, che veramente non ha precedenti tenuto conto anche della disposizione della C.C.E. ad accettare i tagli richiesti.

 

Nel promemoria allegato alla lettera emergono ulteriori dettagli della vicenda, che vale la pena riportare per meglio capire il modus operandi di Helfer:

 

il Sottosegretario di Stato On.le Helfer, in data 5 maggio 1961, malgrado il parere favorevole della Commissione […] con un’appendice al verbale ha ritenuto di non concedere il nulla osta di programmazione. In data 10 maggio i rappresentanti della C.C.E. furono ricevuti dal Sottosegretario, il quale li trattenne per oltre un’ora. Furono concordati i tagli, e al riguardo il Sottosegretario consigliò che venisse modificata la battuta del sacerdote, peraltro non elencata tra quelle da eliminare. A distanza di pochi giorni fu provveduto a portare al Ministero la copia del film modificata. Non si parlò di un vero e proprio appello e fu presentato infatti in data 7 giugno 1961 un semplice esposto, nel quale la C.C.E. comunicava di aver apportato le modifiche. Il film fu invece sottoposto alla Commissione di Appello, ma a distanza di oltre 5 mesi non si è riusciti a conoscere l’esito definitivo ufficiale. Il Sottosegretario ha avocato a sé la decisione ed ha la pratica sul suo tavolo. Trattandosi di una società con appena tre anni di attività la mancata concessione del nulla osta di proiezione, tenuto conto che il film già editato è costato 23 milioni di lire, ha provocato la messa in liquidazione della società stessa, che tra l’altro per mancanza di denaro ha dovuto sospendere da cinque giorni la lavorazione di un film in Iugoslavia, con la troupe italiana bloccata a Zagabria.

 

Il ricorso al Consigliere smuove le acque. In data 11 novembre 1961 un appunto siglato dal Direttore Generale e indirizzato al Capo di Gabinetto riporta:

 

si ritiene opportuno fare osservare al riguardo che questa pellicola potrebbe essere ridotta nella sua scena più pesante e cioè quando Luciano [sic!] e Joelle hanno il loro incontro d’amore che per Luciano è il primo, come egli stesso conferma. In tal scena si vede Joelle quando, sbottonandosi la chiusura lampo, si toglie il vestito; quando invita Luciano ad andare con lei a letto ed alla conversazione la mattina successiva. Ridimensionando detta scena in modo adatto, si potrebbe forse giungere alla conclusione di vietare il film ai minori degli anni 16. Quanto sopra si è segnalato trattandosi di una piccola casa di produzione che sarebbe molto danneggiata ove questo film fosse definitivamente respinto.

 

In calce allo stesso documento, un appunto scritto a mano dal dottor De Pirro riporta: «Il signor Ministro intende mantenere il divieto assoluto».

In data 22 novembre viene pertanto ufficializzato il responso della Commissione di Appello, che si è riunita in data 8 novembre sotto la presidenza dell’avvocato Alberto Folchi: «revisionato, nella nuova edizione, il film Le ninfette esprime parere contrario alla proiezione in pubblico contenendo il film scene, fatti e soggetti offensivi del pudore, della morale e del buon costume».

Il film viene rimontato e in data 30 agosto 1962, vigente la nuova normativa, è presentato nuovamente in revisione. Il liquidatore della C.C.E. Beniamino Zanin scrive:

 

La sottoscritta società è venuta nella determinazione di eseguire un lavoro di rimontaggio completo di tutta la parte visiva del film, sopprimendo – dove era possibile – alcune scene e sostituendo delle altre con altro materiale fatto pervenire dalla Francia, onde rendere l’opera il più conforme possibile al rispetto delle norme che vigono a tutela della moralità pubblica e del buon costume, come facilmente sarà riscontrato dalla Commissione a ciò preposta.

Ci si è fatti inoltre premura di modificare in qualche punto anche i dialoghi, sia per adattarli alle variazioni che sono risultate alla vicenda, sia, comunque, per eccesso di scrupolo, per ammorbidire qualche espressione. Ne è risultato in definitiva un’opera del tutto diversa da quella già sottoposta a revisione, della quale, pur mantenendo invariato il titolo e tutto il parlato, non ha conservato alcun elemento di riferimento né in ordine a particolari situazioni di ambiente né in ordine a specifici episodi della vicenda, dimodoché si rende necessaria la sua revisione trattandosi in conclusione di opera nuova non ancora sottoposta all’esame ed al giudizio degli organi a ciò preposti.

 

Nel dettaglio le modifiche riguardano:

 

Fotografico:

1) Tagli nello spogliarello di Joelle (rullo 4).

2) Eliminata tutta la scena di Joelle a letto con Lucien e quella successiva di Joelle che al mattino si alza dal letto nuda mentre Lucien dorme (rullo 5).

3) Eliminata la scena di Lucien che, alzatosi dal letto dove ha passato la notte con Joelle, strappa il lenzuolo e scopre Joelle distesa seminuda (rullo 6).

4) Eliminata la scena di Lucien che, dopo essersi rifiutato a Katy con la battuta «No, grazie ho troppo da fare», indugia, ritorna indietro e si infila nell’uscio dell’appartamento della stessa (rullo 6).

5) Sostituita la scena di Mireille che si esibisce nuda a Lucien, con altra scena uguale, già girata in Francia, ma con Mireille in mutandine e reggiseno (rullo 8).

 

N.B. Poiché i suddetti tagli riducevano notevolmente il metraggio del film si è ritenuto opportuno allungare l’inizio del film prima dei titoli di testa con riprese di alcune vie di Parigi e di ragazze a passeggio.

 

Dialoghi:

1) La battuta delle due prostitute «Mi vuoi, caro?» e «Vieni con me?» sostituite rispettivamente con le battute «Dove vai tutto solo?» e «Ehi, come siamo tristi!» (rullo 3).

2) Sostituita la battuta: «Dopo intenso travaglio ed innumerevoli esitazioni… Lucien è andato a donne» con la battuta: «Solo dopo molte esitazioni mi ha confessato di aver preso una cotta formidabile».

 

Revisionato in data 17 settembre 1962, Le ninfette è approvato con divieto di visione ai minori di 18 anni in quanto «contiene scene non adatte alla sensibilità e alla esigenza della tutela morale dei minori».

La C.C.E. accetta il responso e rinuncia all’appello.

 

 

1 Tutte le sottolineature sono presenti nell’originale.

 

 

n. 34944

L’amante di cinque giorni (L’Amant de cinq jours)

Francia/Italia 1961, b/n

 

R: Philippe De Broca; s: dal romanzo di Françoise Parturier; sc: Daniel Boulanger, Philippe De Broca; fo: Jean Penzer; mt: Laurence Méry-Clark; mu: Georges Delerue.

Int: Jean Seberg (Claire), Micheline Presle (Madeleine), Jean-Pierre Cassel (Antoine), François Périer (Georges), Carlo Croccolo (Marius), Marcella Rovena (Madame Chanut).

Prod: Filmsonor, Les Films Ariane, Mondex Film (Parigi), Cineriz (Roma).

Revisione: 9.6.1961 (2350 m), respinto: 21.7.1961.

Riedizione: 3.8.1962 (2333 m), approvato: 30.8.1962 (n.o. 38145 - v.m.18).

 

Antoine, mantenuto dalla matura Madeleine, si innamora della migliore amica di quest’ultima, Clara, sposata al pedante archivista Georges. Ma i due si mentono sulle rispettive condizioni finanziarie: lei finge d’essere una donna di mondo sposata a un riccone, lui recita la parte del benestante. Quando Madeleine scopre la relazione, fa in modo che gli amanti scoprano le rispettive menzogne. E tutto torna alla routine primigenia.

 

Tratto da Antoine ou l’amant de cinq jours di François Parturier, il film di De Broca rilegge una vicenda da commedia sentimentale alla luce delle innovazioni stilistiche della , con effetti di indubbia freschezza anche grazie alla verve del quartetto di interpreti.

Le vicende censorie italiane della pellicola hanno luogo a cavallo del cambiamento legislativo che ha luogo con l’entrata in vigore della l. n. 161/1962. Quando la coproduttrice Cineriz di Angelo Rizzoli presenta infatti L’Amant de cinq jours in revisione in versione originale, il 9 giugno 1961, la Commissione lo respinge (il 19 luglio) «per l’argomento del film e per numerose scene da ritenersi oltraggiose del pudore e della morale».

La Cineriz rinuncia all’appello, e il film viene ripresentato nuovamente il 3 agosto 1962, ottenendo questa volta – ai sensi della nuova legge – il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni «per la complessità delle questioni trattate e per i dettagli di alcuni episodi».

L’amante di cinque giorni è ripresentato in revisione da Reteitalia il 27 luglio 1992 per ottenere la derubricazione del divieto, accorciato di 17 m (37” circa) con l’eliminazione della sequenza in cui Antoine, avvicinatosi a Clara, la spoglia, facendola restare con il corpetto.

 

 

n. 36009

Non uccidere (Tu ne tueras point/Ne ubji)

Liechtenstein/Jugoslavia 1961, b/n

 

R: Claude Autant-Lara; s: Jean Aurenche; sc: Jean Aurenche, Pierre Bost, Claude Autant-Lara; fo: Jacques Natteau; mu: Charles Aznavour; mt: Madeleine Gug.

Int: Laurent Terzieff (Jean-François Cordier), Horst Frank (Adler), Suzanne Flon (Mme Cordier), Mica Orlovic, Marijan Lovric, Bekim Fehmiu.

Prod: Lovcen (Belgrado), Gold Film Anstalt (Vaduz).

Revisione: (v.o.) 21.10.1961 (3800 m), respinto: 9.11.1961.

Riedizione: (v.it) 28.3.1962 (3393 m), approvato: 14.4.1962 (n.o. 37144).

Homevideo: San Paolo (DVD, Italia).

 

Alla fine della seconda guerra mondiale, il seminarista tedesco Adler, arruolato nell’esercito, è chiamato a far parte di un plotone d’esecuzione che deve giustiziare un partigiano. A guerra conclusa, si costituisce presso le autorità militari; in carcere conosce il francese Cordier, anch’egli in attesa del processo: dichiarandosi obiettore di coscienza, s’era rifiutato d’arruolarsi. I due vengono giudicati lo stesso giorno, con esito paradossale: Adler è giudicato non colpevole per avere obbedito a ordini superiori, mentre Cordier è condannato per avere disubbidito alla legge.

 

Ispirato a eventi realmente accaduti (il caso dell’obiettore francese Jean-Bernard Morceau e del sacerdote tedesco Müller), da cui il regista avrebbe già voluto trarre una pellicola tredici anni prima1, a causa del suo tema scottante (la Francia è impegnata nella guerra d’Algeria) Tu ne tueras point ha una genesi particolarmente travagliata. Le noie iniziano in patria, prima ancora che le riprese abbiano inizio: la competente Autorità di Parigi nega ad Autant-Lara la licenza al film quale coproduzione italiana, costringendolo a rivolgersi all’estero. Racconta il regista su «Les lettres françaises»: «La giumenta verde era stata proibita in Italia e il suo coproduttore italiano, Moris Ergas, aveva di conseguenza perduto molto denaro. Egli mi propose di girare un altro film, per compensare questa perdita. Io gli suggerii il soggetto di Non uccidere. Quando Ergas accettò, non credevo alle mie orecchie. Partii immediatamente per l’Italia. Là avemmo altre noie. Il Ministero della Difesa, consultato preventivamente, respinse il progetto: “L’obiezione di coscienza? Noi militari siamo contro”». Quando Ergas chiede infatti di poter realizzare una coproduzione con la Francia, la richiesta viene respinta con la motivazione che da parte francese è stato dato parere negativo. In realtà il Ministero ha già un ampio incartamento sul progetto, con parere fortemente negativo dello Stato Maggiore, che lo giudica pericoloso per il morale della nazione e disfattista. «Allora ritenemmo opportuno recarci in Vaticano» prosegue Autant-Lara, «per sollecitare un intervento a favore del film. Mi ricevette un monsignore, un uomo molto fine e cortese, devo riconoscerlo. Egli esaminò lungamente la sceneggiatura del film. Poi ci disse: “La questione è delicata, ma è evidente che non possiamo essere contro questo argomento. È un bellissimo soggetto. Bisogna fare questo film”. Senza l’appoggio dell’autorità ecclesiastica, che ha permesso più tardi che il film fosse presentato a Venezia, il progetto sarebbe crollato definitivamente…»2

Quando si viene a sapere che la pellicola è stata selezionata (all’unanimità) al festival di Venezia, il governo francese protesta presso la Direzione Generale dello spettacolo, che a sua volta cerca di forzare la mano alla direzione della Mostra. Invano: i commissari minacciano le dimissioni pubbliche qualora Non uccidere venga escluso. Il ministro francese della cultura, André Malraux, minaccia di ritirare dal festival l’intera rappresentativa qualora la pellicola venga presentata come produzione transalpina.

Per evitare frizioni, il film – realizzato con l’apporto di capitali del Liechtenstein e girato in Jugoslavia, poiché il governo parigino non ha rilasciato neppure il permesso di lavorazione – viene inizialmente presentato come svizzero (provocando sorpresa e proteste)3 e quindi jugoslavo. Boicottato dalla delegazione francese, che lo accusa di propaganda antigollista, accolto entusiasticamente dal pubblico e con molte riserve dalla critica – che imputa al regista un trattamento eccessivamente retorico e un’enfasi predicatoria, specie nella figura di Cordier, «”cristiano senza chiesa” troppo ideologico e troppo oratorio»4 –, Tu ne tueras point vince la Coppa Volpi per la migliore attrice (Suzanne Flon, nel ruolo della madre di Cordier). Il Leone, per la cronaca, va a L’anno scorso a Marienbad di Resnais che, sebbene oppositore della politica algerina e nelle liste nere del governo, risulta meno sgradito ai gollisti di Autant-Lara.

Tu ne tueras point è presentato in revisione in edizione originale con sottotitoli italiani il 24 ottobre 1961. Pochi giorni prima, a un’anteprima romana organizzata dall’Associazione Europea degli Scrittori, gli invitati trovano le porte del cinema sbarrate dai poliziotti: la proiezione è stata sospesa. Il presidente del consiglio Fanfani, interpellato dal presidente dell’Associazione Gian Carlo Vigorelli, non ne sa nulla: a muoversi è stato il ministro della Difesa Giulio Andreotti, su pressioni dell’Ambasciata francese. La notizia suscita scalpore: non v’è alcuna norma che autorizzi l’autorità di pubblica sicurezza a bloccare una proiezione privata a inviti. Di lì a breve, lo stesso divieto colpisce una proiezione milanese. L’agenzia giornalistica di estrema destra Assi e l’andreottiana AES alimentano il tiro al piccione, chiedendo la proibizione di Tu ne tueras point e facendo appello alla magistratura perché blocchi il film nel caso il ministro Folchi, definito «arrendevole e remissivo», conceda il nulla osta.

Con l’aria che tira, l’esito della revisione è scontato. Sebbene la Zebra Film richieda un provvedimento d’urgenza, la Commissione si riunisce solo in data 6 novembre: e «pur rilevando che trattasi opera di alto livello artistico» esprime parere contrario alla programmazione in pubblico «nella attuale edizione». Per la Commissione «il film esalta in sostanza la figura dell’obiettore di coscienza e cioè del cittadino che chiamato alle armi si rifiuta di obbedire alle leggi in nome di un asserito imperativo categorico della propria coscienza», e quindi configura seppure indirettamente la fattispecie di cui all’art. 3 lett. c) del R.D. n. 3287/1923 (apologia di un fatto che la legge prevede come reato), ossia la «esaltazione di fatti costituenti reato, in modo da suggestionare altri a commetterli».

È una bocciatura che fa rumore. La stampa cattolica e di destra plaude: una nota dell’«Osservatore Romano» ricorda come il CCC abbia avanzato «le più nette riserve» sul film e l’OCIC l’abbia giudicato «escluso» all’unanimità, mentre il «Secolo» auspica la creazione di «lagher» dove rinchiudere gli obiettori di coscienza, definiti «dei vili, dei pavidi, degli esseri inferiori». Più sfumate se non problematiche le posizioni dell’«Avvenire d’Italia» e di «Italiamondo», i quali giudicano inaccettabile una censura che «cerca di impedire i discorsi sui temi più scottanti e che cerca di invogliare i registi a scegliere la strada dei temi della evasione e del non impegno». Sulla «Discussione», organo ufficiale della segreteria DC, si legge: «Un “no” Tu ne tueras pas [sic!] forse se lo meritava meno di tanti altri film decisamente più nocivi e pericolosi i quali sono invece bellamente passati indisturbati, con la benedizione di certi segretari che non ravvisano alcun male nelle commediole volgari o nei sottintesi erotici, ma gravi pericoli nei film di idee». Fernaldo Di Giammatteo e Giorgio Moscon curano un numero speciale della prestigiosa rivista «Il Ponte», Censura e spettacolo in Italia, che contiene la più completa disamina dell’istituto pubblicata fino ad allora nel nostro Paese, e in cui Lino Micciché si sofferma con dovizia di particolari sulle vicissitudini del film di Autant-Lara5.

La questione arriva anche in parlamento. Raffaele Leone (DC) riconosce la gravità del caso, Tristano Codignola (PSI) presenta un ordine del giorno di protesta, i gruppi parlamentari rivolgono interrogazioni parlamentari al Ministro dello Spettacolo, e circolano voci di un intervento in prima persona di Andreotti per impedire al film di uscire in sala. A seguito del diniego del nulla osta, il Ministero invia telegrammi esplorativi alle ambasciate estere per accertarsi se Tu ne tueras point sia stato acquistato e informarsi sulla possibilità di censure preventive a seconda delle norme vigenti in ciascun paese: a dimostrazione che l’intento è squisitamente politico. A Forlì, la federazione provinciale del Partito Repubblicano stampa manifesti che denunciano «il primo esempio di una censura ideologica e politica, assolutamente incompatibile con i principi della democrazia e della moderna civiltà», e protestano contro un provvedimento «evidentemente determinato dal proposito di un servile omaggio nei confronti delle esigenze della Politica ufficiale francese».

Il 18 novembre 1961 il sindaco di Firenze Giorgio La Pira organizza una proiezione della pellicola al parterre di San Gallo, osteggiata da boicottaggi più o meno sotterranei, come la falsa notizia di una presunta lettera di Fanfani al sindaco in cui si sconsiglia di dar luogo alla proiezione, ripresa dal «Quotidiano», e una nota dell’«Osservatore Romano» in cui tra l’altro si legge che Tu ne tueras point «è un contesto di motivi polemici contro la morale cattolica e la Chiesa; e all’offesa gratuita nulla toglie – anzi molto aggiunge – il valore artistico che, a quanto si afferma, il film avrebbe in grado elevato». All’evento partecipano circa settecento persone. Nell’occasione, Andreotti – che ha ricevuto un invito a presenziare da parte di La Pira – invia al sindaco un irato telegramma:

 

Tuo invito mi produce amarezza e stupore. Personalmente non conosco film in questione e neppure desidero vederlo essendo stato vietato da competenti organi statali e sconsigliato da competenti organismi cattolici. Non so dove andremo a finire mettendoci al di sopra della legge e della morale comune.

 

La risposta di La Pira:

 

L’invito è stato inviato per doverosa cortesia a tutti i ministri. Si tratta di visione privata per inviti personali […]. Dunque, non esiste violazione di legge. Il meditato giudizio teologico e di insigni moralisti cattolici, italiani e stranieri, ci garantisce sulla serietà del film. Dunque, non esiste violazione di norma morale. Non capisco perciò quale sia il fondamento della tua meraviglia, del tuo stupore e del tuo giudizio. Spero dunque che la tua amarezza si possa legittimamente trasformare in serenità e gioia.6

 

Alcuni giorni dopo, ancora il direttore dell‘«Osservatore Romano» Manzini si scaglierà direttamente – caso senza precedenti – contro La Pira in persona, in un fondo dove, pur ammettendosi la libertà d’espressione, si distingue tra «libertà della verità» e «libertà della falsificazione», quest’ultima riferita al film di Autant-Lara nella misura in cui mistifica la posizione della Chiesa e dei sacerdoti, e si condanna la proiezione fiorentina come parte di «una campagna che ferisce l’onesta ansia di difesa dei cattolici per il costume cristiano».

La distributrice Zebra Film ricorre in appello in data 22 novembre, facendo presente di aver effettuato modifiche ai dialoghi e allegando una lista aggiornata dei sottotitoli. La motivazione addotta in prima istanza è inoltre ritenuta manifestamente illegittima nell’impostazione di diritto e di fatto infondata, e la domanda d’appello espone minuziosamente le proprie argomentazioni in tal senso.

Secondo l’appellante, «l’apologia di reato suppone che si possa individuare un comportamento consapevolmente diretto ad esaltare il fatto come esempio che meriti di essere seguito concretamente […] di guisa che si possa creare nel pubblico la coscienza della liceità del fatto medesimo e della convenienza malgrado i rigori della legge». Senonché «il problema dell’obiettore di coscienza […] non è certo un problema che possa essere semplicisticamente risolto in modo adeguato o addirittura liquidato col semplice rilievo che il comportamento dell’obiettore può ricadere, in certe sue manifestazioni, nei divieti posti da norme penali». Si fa presente come in altri paesi l’obiezione di coscienza sia oggetto di specifica disciplina di legge, che prescinde dalla considerazione del fatto come reato.

«Manifestare o no le proprie simpatie verso l’obiettore di coscienza e verso i problemi di fondo che tale posizione comporta», continua il testo, «non significa fare l’apologia di un reato, ma tutt’al più porre le premesse di ordine morale e sociale che possono rivelare la opportunità di una più adeguata regolamentazione del fatto in sede di diritto positivo». Il film di Autant-Lara pone insomma, conclude l’appellante, un problema di politica legislativa, stante la mancanza in Italia di leggi sul tema da un lato e il principio costituzionale di libertà d’opinione dall’altro.

Riguardo l’insussistenza della base di fatto, si obietta che «la motivazione […] non presenta alcun addentellato con quello che è il contenuto e il significato» di Tu ne tueras point. Che «prospetta il fatto dell’obiettore di coscienza alla stregua di quella che è la disciplina positiva dell’ordinamento giuridico francese […] cioè come un fatto che la legge contempla come reato […]. E non vi è, nel film, nessun spirito polemico che faccia apparire moralmente deplorevole il comportamento del Giudice che applica la legge, ma se mai vi è una critica della norma […]. Ma […] il problema dell’obiettore di coscienza non costituisce affatto il contenuto essenziale del film», rappresentando piuttosto «uno spunto per impostare un problema più vasto ed a un livello ben più alto: il problema cioè della necessità dell’abolizione delle guerre […]. La valutazione morale della situazione dell’obiettore di coscienza è del tutto marginale nel quadro del film, il quale […] si risolve in una affermazione dei fondamentali valori morali dell’uomo e nella negazione delle forze brute che scatenano le guerre».

La Zebra però non allega copia del film stesso, e – come fa presente il D.G. al Ministro – in tal modo la domanda di appello vale solo come atto di interruzione del termine di 30 giorni entro i quali è possibile inoltrare ricorso. Le vecchie tattiche sono sempre valide, e Tu ne tueras point resta sospeso nel limbo. Ma non finisce qui. Su esposto del signor Giorgio Lai di Roma, il 4 gennaio 1962 il giudice istruttore Corrado De Biase apre un procedimento penale contro Giorgio La Pira per via della famigerata proiezione fiorentina: il sindaco avrebbe agito senza la licenza del Questore e nonostante il divieto della Commissione di censura nel corso di una riunione non avente carattere privato per lo scopo, l’oggetto e il numero degli intervenuti. All’istruttoria si presenta a deporre anche il regista.7

Ergas ripresenta il film in versione doppiata, col titolo Non uccidere, il 28 marzo 1962. La versione italiana si apre con una didascalia che indica come i fatti narrati siano realmente accaduti, in un processo celebrato il 5 maggio 1949 davanti al tribunale militare di Reuilly, e con due citazioni, la prima di Pio XII e la seconda di Giovanni XXIII.

Le modifiche apportate da Ergas sono cospicue:

 

a) i sottotitoli ai dialoghi in tedesco nel flash-back bellico sono stati modificati per indicare che Adler è un seminarista e non un prete; b) eliminata l’assoluzione (il segno del Pater Noster) nel momento dell’esecuzione; c) accorciata la scena in cui il giovane patriota è colpito col calcio del fucile; d) eliminata la scena in cui il superiore di Adler dichiara: «Anche in Germania abbiamo avuto un obiettore di coscienza. Ad Amburgo il Fuhrer gli fece tagliare la testa»; e) eliminata la scena in cui un sacerdote a cui si è rivolta la madre di Cordier tratta la donna con freddezza e cinismo; f) eliminata la scena in cui il superiore di Adler cerca di convincere quest’ultimo a indossare la tonaca prima del processo «con delle argomentazioni poco simpatiche»8; g) accorciata la scena finale in cui i due sacerdoti si abbracciano alla fine del processo; h) la dichiarazione riguardante Pax Christi è stata riscritta dal commediografo Diego Fabbri, con riferimento a «un congresso internazionale molto importante» formato da cattolici, «persone molto preparate e autorevoli convenute dal mondo intero. Nel corso dei lavori […] si è approvata anche una mozione […] che prevede per i fedeli sinceri l’obiezione di coscienza.

 

Oltre a ciò, Ergas propone altre modifiche, e si impegna a inserire un’ulteriore didascalia esplicativa, contenente alcune delle argomentazioni esposte nel ricorso in appello:

 

Questo film non si propone la esaltazione dell’obiettore di coscienza né ha lo scopo di esibire il suo comportamento come un esempio da seguire. Infatti la Costituzione della Repubblica Italiana, mentre afferma che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», stabilisce che: «il servizio militare è obbligatorio» e che «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». L’episodio raccontato nel film è soltanto uno spunto per impostare il vasto problema sull’abolizione della guerra; questo nobilissimo ideale è confortato da autorevoli insegnamenti provenienti da ogni fonte e per esso si battono tutti gli uomini di buona volontà.

 

La Commissione, che revisiona la nuova edizione il 7 aprile, «tenute presenti le variazioni che il produttore ha apportato alla copia in esame e le variazioni proposte per la copia definitiva; tenuto precedente che il film sarà preceduto dalla […] didascalia che apparirà dopo i titoli di testa», esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico. A una settimana dall’entrata in vigore della nuova legge sulla censura cinematografica, la concessione del nulla osta a Non uccidere è la prova di cui il ministro Folchi si fa vanto per dimostrare la liberalità del governo.

 

 

1 «È tutto pronto per iniziare la lavorazione del film quando», dice Autant-Lara, «dopo otto mesi di lavoro ininterrotto, Aurenche, Bost ed io apprendemmo dal produttore, tre giorni prima di iniziare le riprese, che non c’era denaro e che il film non si sarebbe fatto». In realtà era semplicemente successo che la direzione francese della cinematografia, informata del progetto, aveva fatto pressioni sul produttore per mandare a monte il film». Lino Micciché, L’intollerabile quinto comandamento, «Il Ponte», anno XVII, n. 11, La Nuova Italia, Firenze, novembre 1961, pp. 1665-66.

2 Argentieri, La censura nel cinema italiano cit., p. 190.

3 «Si cercò originariamente di mettere avanti la Svizzera quale paese produttore, ma essa rifiutò. Anche la Jugoslavia, pur avendo permesso che il film stesso venisse girato sul suo territorio con l’appoggio dei suoi impianti statali […] non volle assumersene la paternità. Così non rimase che Autant-Lara come nome […]. Ma è assai dubbio che […] venga mai proiettato nei cinematografi di un qualche Paese…» Heinz Ungureit, «Frankfurter Bundschau», 24 agosto 1961.

4 Il Mereghetti. Dizionario dei film 2014 cit., p. 2600.

5 La rivista si apre inoltre con un amaro editoriale dove tra l’altro si legge: «se a coloro che hanno perduto la vita nella lotta contro il fascismo e il nazismo fosse stato detto che un governo italiano che dovrebbe operare nell’ambito della Costituzione impedisce di far vedere un film come quello, […] non avrebbero potuto crederci. Se c’è un tradimento verso di loro perpetrato in questi anni nessuno forse è così esemplare». Non uccidere, «Il Ponte», La Nuova Italia, Firenze, novembre 1961, p. 1468.

6 Micciché, L’intollerabile quinto comandamento cit., p. 1664.

7 Nell’occasione, la difesa solleva questione di legittimità costituzionale sia in merito alle vigenti norme sulla censura cinematografica, perché in contrasto con l’ultimo comma dell’art. 21 della Costituzione, sia in merito agli artt. 668, 266 n. 3, del Codice penale, 68 del T.U. delle leggi di p.s. e 118 del relativo regolamento, perché in contrasto col diritto di piena libertà delle riunioni in luogo privato o in luogo aperto al pubblico, di cui all’art. 17 della Costituzione. Il Giudice istruttore presso il Tribunale di Firenze riconosce la non manifesta infondatezza della questione e la rilevanza della risoluzione di essa per la definizione del giudizio di merito, e ordina la sospensione del procedimento e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.

Nell’ordinanza si osserva che l’art. 21 della Costituzione consente misure preventive (nella specie, la censura) soltanto per evitare manifestazioni di pensiero contrarie al buon costume, e che questo va inteso in senso ristretto «come l’insieme delle norme che esigono il rispetto della pubblica moralità nel campo sessuale». Al contrario, la Commissione di censura ha vietato la proiezione del film Non uccidere per un motivo diverso da un’offesa al buon costume inteso nel senso sopraindicato.

La Corte, poiché nel frattempo la normativa sulla censura è stata innovata dalla l. n. 161/1962, con sentenza depositata 16 febbraio 1963 rimette gli atti al giudice a quo, perché riesamini – alla luce delle nuove disposizioni – la rilevanza della risoluzione della questione di legittimità costituzionale per la definizione del procedimento penale.

8 Ergas lamenta che «malgrado ciò non sia, dal punto di vista del racconto cinematografico molto esatto, rivediamo Adler già vestito».

 

 

n. 36013

La doccia

Italia 1961, col.

 

R: non indicata.

Revisione: 25.10.1961 (28 m), respinto: 25.10.1961.

 

«In una stanza da letto una ragazza si sta preparando per fare la doccia; entra in bagno, si bagna e quindi s’insapona. Quando deve sciacquarsi improvvisamente manca l’acqua. La ragazza si dispera, batte furiosamente contro il muro, manovra i rubinetti, ma l’acqua non torna e rimane insaponata. Segue codino pubblicitario con Tina de Mola che invita a bere Finsec.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Pubblicità reclamizzante un prodotto della ditta Grandi Marche Associate. Lo spot è bocciato dalla censura con decreto del 25 ottobre 1961 «in quanto nel breve short è raffigurata una ragazza che prende una doccia nuda (art. 3 comma a del reg. annesso al R.D. 24/9/1923 n. 3287)».

 

 

n. 36175

La canzone del Mandolino

Italia 1961, col.

 

R: non indicata.

Prod: S.I.F. spa - Eurofilm.

Revisione: 22.11.1961 (36 m - 16mm), respinto: 24.11.1961.

 

Cortometraggio a carattere musicale in cui il cantante Sergio Bruni esegue la canzone dal titolo Mandolino… Mandolino.

Si tratta presumibilmente di una riedizione di Mandolino… mandolino, già bocciato in censura nell’aprile dello stesso anno, e nuovamente respinto in data 24 novembre 1961 perché contenente immagini di due ragazze in succinto costume da bagno.

 

 

n. 38047

Il promontorio della paura (Cape Fear)

Usa 1962, b/n

 

R: J. Lee Thompson; s: dal romanzo di John D. MacDonald; sc: James R. Webb; fo: Sam Leavitt; mt: George Tomasini; mu: Bernard Herrman.

Int: Gregory Peck (Sam Bowden), Robert Mitchum (Max Cady), Polly Bergen (Peggy Bowden), Lori Martin (Nancy Bowden), Martin Balsam (Mark Dutton, il capo della polizia), Telly Savalas (Charles Stevens, il detective), Barrie Chase (Diane Taylor).

Prod: Melville-Talbot Productions.

Revisione: 30.7.1962 (2898 m), respinto: 23.3.1962.

Riedizione: 14.9.1962 (2858 m), approvato: 15.10.1962 (n.o. 38410 - v.m.18).

Homevideo: Universal (Blu-ray, Dvd, Italia).

 

Dopo aver scontato otto anni di prigione per maltrattamenti a una donna, Max Cady si mette alla ricerca di Sam Bowden, che fornì una testimonianza decisiva per la sua condanna. Deciso a vendicarsi di Bowden, Cady intraprende una serie di atti intimidatori che coinvolgono la moglie di quest’ultimo, Peggy, e la loro figlioletta Nancy. Nonostante Bowden chieda aiuto all’amico poliziotto Mark Dutton, Cady agisce sempre con astuzia e non si lascia mai cogliere sul fatto. Esasperato, Bowden organizza una trappola per il suo persecutore: conduce moglie e figlia in una casa galleggiante nei pressi della foce di un fiume – luogo denominato il promontorio della paura – e, con la collaborazione dell’investigatore Charlie Stevens, fa credere a Cady di averle lasciate sole, per attirarlo in loco. Nel faccia a faccia finale, è Bowden a prevalere.

 

Alla sua uscita, il teso thriller di J. Lee Thompson incontra notevoli problemi all’estero: nonostante la parola «stupro» non venga mai pronunciata, è chiaro cosa l’ex galeotto Max Cady voglia fare alla moglie e alla figlia dodicenne del protagonista, e la censura britannica non gradisce. La BBFC richiede numerosi tagli e alleggerimenti, per complessivi 6 minuti, e ciononostante bolla il film con una X (per adulti).

In Italia, dove viene distribuito dalla Universal, Il promontorio della paura è revisionato una prima volta il 28 agosto: la Commissione esprime parere contrario, considerandolo «offensivo del buon costume nel suo complesso, in relazione al soggetto e alla trama nella quale è posta in manifesta evidenza l’indiscriminata possibilità di azioni di brutali maniaci sessuali con desolante inidoneità della difesa della vittima predestinata da parte della società, ed in particolare a ripetute scene di sadica morbosità sessuale tanto da giungere a impressionanti tentativi di violenza carnale anche su minori».

Anziché ricorrere in appello, la Universal presenta (il 14 settembre) una nuova edizione del film, cui «sono state apportate sostanziali e numerose modifiche sia al dialogo che alla parte visiva».

Un’analisi delle battute di dialogo sostituite mostra come Cady venga trasformato da maniaco sessuale qual è in semplice violento. Quando Bowden ricorda l’episodio in cui salvò una ragazza dalla furia di Cady, viene aggiunto l’inciso «se non fossi arrivato in tempo l’avrebbe sicuramente ammazzata» al posto di «la ragazza trovò la forza di urlare con tutto il fiato che aveva»; e, più oltre «La ragazza restò all’ospedale per un mese» diventa «restò un mese in ospedale per le ferite». La vittima che in origine provava vergogna a rievocare la violenza subita rifiutando di testimoniare («Lei crede davvero che io sarei capace, anche se vivessi vent’anni, che sarei capace di ripetere, davanti a un altro essere umano, quello che quell’uomo mi ha fatto?»), ora ha paura «dopo le minacce che quell’uomo mi ha fatto».

Il racconto di Cady dell’umiliazione e del ricatto alla ex moglie è ammorbidito: «Le ho fatto scrivere un sacco di porcherie. E poi me la sono spassata con lei per tre giorni» diventa «Era una lettera molto divertente. E poi sono rimasto con lei per tre giorni», e «Le ho messo in corpo una bottiglia di whiskey, l’ho spogliata nuda, le ho tolto le scarpe e l’ho lasciata a mezza strada» diventa «Le ho fatto bere mezza bottiglia di whiskey… l’ho fatta sbronzare, poi le ho tolto le scarpe e l’ho piantata in mezzo alla strada».

La Universal si premura di togliere ogni accenno alle mire di Cady nei confronti della figlia minorenne di Bowden. La battuta di quest’ultimo, «Non vuole danaro da me: è Nancy che vuole» diventa «Non vuole danaro da me… vuole vendicarsi e far del male a Nancy». Inoltre è tolto il passaggio in cui Bowden dà a Cady del «lurido porco» dopo gli apprezzamenti dell’altro sulla propria figlia.

Anche la scena tra Bowden e la moglie viene considerevolmente alleggerita nel dialogo: «Hai mai visto una bambina interrogata su questo argomento? No, e ringrazia Iddio, Deve… deve dire tutti i particolari. E poi ci sono le domande, le domande che le verranno fatte e alle quali dovrà rispondere. E dovrà rispondere a tutte. Perché lui negherà tutto, finché non si proverà che è vero!», viene modificata come segue, con l’allusione alle domande imbarazzanti che diventa un accenno al timore della bambina davanti ai giudici: «Hai mai visto una bambina interrogata in tribunale? No… questo mai… sola davanti alla corte, è terribile. Sarebbe troppo per lei, trovarsi sola davanti al pubblico e davanti a quell’uomo… sarebbe una lotta impari perché lui negherà tutto finché non si proverà che è vero!».

La battuta di Cady che minaccia Bowden di stuprargli le donne di casa («Tua moglie e tua figlia, ho qualcosa in mente per loro. Ti ricordi quello che ti ho raccontato di mia moglie? Quella era roba da ridere, avvocato! Roba da ragazzi! A tua moglie e tua figlia ho riservato qualcosa che non scorderanno! Non se lo potranno mai scordare, e nemmeno tu, avvocato! Mai! Non te lo scorderai mai!»), diventa un più generico: «Tua moglie e tua figlia, starei molto attento se fossi in te. Ti ricordi quello che ti ho raccontato di mia moglie. Beh, potrebbe succedergli lo stesso. Ci siamo capiti, avvocato? Quindi sta attento a te o te ne pentirai amaramente e non te lo scordare… Non te lo scordare o te ne pentirai amaramente, non te lo scordare…».

Inoltre, è stravolta la battuta di Cady che ricatta la moglie di Bowden, chiedendole di concederglisi per salvare la figlia: «Io volevo farlo con Nancy, ma… ehm… posso anche rimandare la faccenda; sì, tra un mese, anche tra un anno. No, un momento, senti. Tu mi fai una proposta. Tu al posto di Nancy e ti prometto che non ti cercherò più. D’accordo? A meno che, che tu non voglia rivedermi. Tutto quanto con il tuo consenso», diventa: «Tu ci tieni a Nancy, vero? Beh, tu non vorresti che io gli faccia del male… ci tieni alla vita di tua figlia, vero? Andiamo, stammi a sentire… noi due facciamo un patto. Io lascio stare Nancy… e tu in cambio non dici niente a tuo marito. D’accordo? Insomma, gli dirai che io non ti ho costretta, che io l’ho fatto con il tuo consenso».

Il prosieguo della scena, con Cady che si accinge a stuprare la donna («Chiamalo pure ricatto se ti va! Ma pensa che stai salvando tua figlia Nancy! Vieni qui! Tu che ci rimetti? E tuo marito, lui capirà questo… nobile sacrificio, ma non riuscirà mai a scordarlo») e i commenti successivi («Dopo tutto, non credo che ne vorrai parlare troppo di questa faccenda, vero?» ecc.), è sforbiciato.

Questa volta la II sez., riunitasi il 13 ottobre, concede il nulla osta, seppure con il divieto ai minori di 18 anni «data l’atmosfera generale di tensione sessuale che, pur non estrinsecandosi in visioni di particolare audacia può esercitare influenza sfavorevole sui soggetti in età evolutiva».

In data 23 ottobre la Universal fa ricorso chiedendo che il divieto sia abbassato ai minori di 14 anni, per poi rinunciarvi in data 16 gennaio 1963, a causa presumibilmente dell’allungarsi dei tempi.

Una nuova edizione viene sottoposta il 10 febbraio 1989 da Reteitalia ai fini della derubricazione del divieto per i passaggi TV. È stata tagliata la seguente scena per un totale di 14,20 m:

 

Diane e Cady. Diane accarezza con desiderio Cady.

Diane: «Ma perché mi porti così fuori mano?».

Cady: «Per il panorama».

 

Diane: «Che te ne importa di queste cose, del panorama o di tutte le altre cose che fanno bella la vita, tu sei un animale violento, selvatico, forte e brutale».

Cady: «Continua a parlare, cocca, mi piacciono i complimenti di questo genere».

Diane: «Quello che mi piace di più di te è che sei all’ultimo gradino. Non mi aspetto che tu lo capisca, ma è consolante per una ragazza sapere che scendere più in basso di così, anche volendo, non si potrebbe».

Cady: «Già, continua a raccontarmi di quando eri la regina del balletto dei sette veli».

 

La Commissione, riunitasi il 7 giugno 1989, esprime parere favorevole alla revisione del giudizio, abbassando il divieto.

 

 

n. 38881

La donna nel mondo/La donna nel mondo (Eva sconosciuta)

Italia 1962, col.

 

R: Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara, Franco Prosperi; commento: Gualtiero Jacopetti; fo: Antonio Climati, Benito Brattari; mt: Gualtiero Jacopetti; mu: Nino Oliviero, Riz Ortolani; narr: Stefano Sibaldi (v. ingl: Peter Ustinov).

Prod: Cinematografica RI.RE., Tempo Film.

Revisione: 9.11.1962 (3076 m), respinto: 17.11-23.11.1962.

Riedizione: 18.1.1963 (2936 m), approvato: 23.1.1963 (n.o. 48261 - v.m.18).

Homevideo: Medusa (DVD, Italia).

 

Documentario sulla condizione e sui costumi della donna in varie parti del mondo.

 

Pensato già durante la lavorazione di Mondo cane1, il secondo frutto del triumvirato formato da Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi – definito «una specie di “geografia femminile”, diretta a fornire un quadro sulle condizioni di vita della donna dei diversi paesi del mondo» – viene di fatto realizzato per la maggior parte dai due collaboratori di Jacopetti. Anche il diario di Paolo Cavara accomuna i due film e le riprese (sebbene i trattamenti siano due), e sin dall’epoca del tremendo incidente d’auto (12 marzo 1961) che costò la vita all’attrice Belinda Lee, compagna di Jacopetti a cui il film è dedicato, i giornali scrivono che il giornalista stava lavorando a Mondo cane e La donna nel mondo, indistintamente. Nei mesi successivi Jacopetti resta a Roma, in convalescenza per i postumi dell’incidente, mentre le riprese sono ancora in corso.

La Cineriz di Angelo Rizzoli presenta La donna nel mondo in revisione il 9 novembre 19622: la Commissione, riunitasi il 16 novembre, lo boccia «poiché ravvisa in alcune scene e in alcune sequenze estremi di offesa al buon costume». Con ricorso del 22 novembre, la Cineriz chiede che il produttore venga ascoltato sia prima che dopo la proiezione, e fa presente che sono state eliminate la sequenza relativa all’uso della cintura di castità in un villaggio ottentotto e il dettaglio di un parto in un ospedale milanese, mentre è stato modificato il commento all’interrogatorio di due bambine di otto e dieci anni in un commissariato di Hong Kong.

La Commissione d’Appello, formata dalle sezioni II e III della Commissione di I grado e presieduta da Filippo Lonardo, si riunisce il giorno stesso. Vengono ascoltati Jacopetti, Carlo Casati e Prosperi. A grande maggioranza (2 favorevoli e 9 contrari) è confermato il giudizio negativo di prima istanza, poiché «sia in molteplici sequenze sia nel suo complesso» il film presenta

 

aspetti e valutazione della vita non conformi ai comuni sentimenti etici e al buon costume […]. Nel dettaglio, in ogni quadro presenta la donna in qualsiasi ambiente, nel suo aspetto deteriore: e attorno a questo aspetto costruisce un quadro di elementi che inducono a reazioni tutt’altro che spirituali, ponendo in rilievo gli aspetti volgari del sesso, non qualificati da uno scopo documentaristico e non presentati in modo da suscitare, invece che stimoli sessuali, giudizi di valutazione etica; il che sarebbe ancora poco se la cruda rappresentazione di detti elementi non costituisse anche rappresentazione di oscenità. Nel suo complesso poi, il film non costituisce una unità, una progressione quanto meno del deteriore verso il buono apprezzabile, in modo che se ne possa derivare una valutazione favorevole e un giudizio finale di riprovazione degli aspetti offensivi purtroppo abbondanti nel film. Né vale, tenuto conto anche degli accostamenti stridenti e quanto meno inopportuni fra immagini volgari e immagini di simboli o di figure cui si volge sempre riverente l’animo degli uomini civili, a trasformare la fisionomia del film che si respinge, il misticismo delle ultime scene [quelle cioè ambientate nel santuario di Lourdes, N.d.A.], il quale anzi nessun altro effetto produce, se non quello di porre in maggior rilievo e sotto ancora più fosca luce, quanto è contenuto nelle scene precedenti, che indubbiamente – si ripete – offende il buon costume e la moralità media del nostro Paese.

 

Il film di Jacopetti viene presentato in una riedizione, con diversi tagli e il sottotitolo Eva sconosciuta, ottenendo il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni in data 23 gennaio 1963. Analoga sorte tocca alla versione doppiata in tedesco (Alle Frauen Dieser Welt) per l’Alto Adige, che ottiene il nulla osta l’11 gennaio 1967.

La donna nel mondo viene derubricato per il passaggio televisivo da Reteitalia il 20 gennaio 1993, in seguito alle seguenti modifiche: alleggerimento delle immagini (commento dello speaker) relative alla prostituzione minorile femminile a Hong Kong (6,30 m); alleggerimento inquadrature relative ad un parto, con il bimbo che viene portato alla luce (2,30 m), e ad alcune partorienti che urlano (4 m), per un totale di 12,60 m.

 

 

1 Tesi confermata anche da Franco Prosperi. A detta di Jacopetti, invece, il film nacque in seguito alle pressioni di Angelo Rizzoli, ansioso di sfruttare il successo di Mondo cane (Daniele Aramu, Mondo cane… addio. Intervista a Gualtiero Jacopetti, «Nocturno Cinema», n. 9, marzo 1999, p. 49). Le affermazioni di Jacopetti sono smentite dai fatti riportati qui sopra: in realtà il produttore Angelo Rizzoli, sin dall’inizio delle riprese, fa pressione per avere due prodotti al posto di uno. E nel complesso il periodo delle riprese e la maggior parte delle location sono le stesse. Lo stesso Jacopetti cita la sequenza dei divorzi a Las Vegas, ultima sequenza girata negli Usa prima dell’incidente.

2 Come anche per Mondo cane, il Ministero nega alla pellicola il riconoscimento della coproduzione italo-francese. In un appunto del D.G. De Pirro per il neo-ministro Folchi datato 29 luglio 1960, si legge: «trattasi dei due noti film a carattere prevalentemente documentario […] le cui riprese […] saranno eseguite in varie parti del mondo. L’ufficio scrivente è del parere che per film di questo genere, che impegnano scarsamente artisti e tecnici italiani e niente affatto le nostre maestranze […] non sia il caso di accordare il riconoscimento della coproduzione. Va infatti tenuto presente che contro questi due film [Mondo cane e La donna nel mondo, N.d.A.] realizzati all’estero, dovremmo poi riconoscere la nazionalità italiana ad altri due film realizzati in Francia, con personale tecnico ed artistico esclusivamente francese […]. Insomma, avremmo quattro film, tutti e quattro godenti delle provvidenze governative italiane, senza peraltro un vero e proprio impegno industriale italiano e con un trascurabile apporto di lavoro italiano. […] Corre il dovere di ricordare che, in passato, film del presente genere sono stati ammessi ai benefici della coproduzione. Considerata peraltro la frequenza con cui si ripetono queste produzioni, sembra opportuno che vi si ponga una remora, escludendole, se non altro, dal riconoscimento della doppia nazionalità».

 

 

n. 38980

Gli italiani e le vacanze

Italia 1963, b/n

 

R: Filippo Walter Ratti; sc: Luigi Angelo, Luciano Ferri; fo: Vitaliano Natalucci; mt: Alberto Verdeio; mu: Mario Cantini, Italo Graco; commento: Achille Campanile; narr: Stefano Sibaldi.

Prod: King Film Productions.

Revisione: 28.11.1962 (2051 m), approvato: 30.11.1962 (v.m.14).

Riedizione: 21.2.1963 (3400 m), respinto: 2.3-19.4.1963.

 

Inchiesta cinematografica su come e dove passano le vacanze gli italiani, commentata satiricamente da Achille Campanile.

 

Presentato una prima volta in censura il 28 novembre 1962 e autorizzato alla proiezione in pubblico il 30 novembre 1962 con divieto ai minori di 14 anni «per scene e commento verbale non adatti alla sensibilità evolutiva». Gli italiani e le vacanze viene ripresentato dalla produttrice King Film in una seconda edizione il 21 febbraio 1963. La Commissione di I grado che la revisiona il 1 marzo 1963, questa volta esprime all’unanimità parere contrario, «ritenuto che la nuova edizione ha inserito, tra l’altro, due spogliarelli di asserito tipo comico e senza dialogo, di cui il secondo, quello relativo allo spogliarello della servetta, è particolarmente pornografico, cioè osceno».

La King presenta appello in data 16 marzo, dichiarandosi disposta a tagliare il secondo spogliarello, e il legale rappresentante Sergio Savini chiede di essere ascoltato. Ma la Commissione di II grado, in data 18 aprile, conferma il parere espresso in prima istanza «perché alcune scene, specie quelle dei due spogliarelli, sono decisamente pornografiche e, pertanto, contrarie al buon costume».

 

 

n. 39346

L’ape regina/Una storia moderna - L’ape regina

Italia/Francia 1963, b/n

 

R: Marco Ferreri; s, sc: Marco Ferreri, Rafael Azcona, da un’idea di Goffredo Parise; collab. sc: Diego Fabbri, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa; fo: Ennio Guarnieri; mu: Teo Usuelli; mt: Lionello Massobrio.

Int: Ugo Tognazzi (Alfonso), Marina Vlady (Regina), Walter Giller (padre Mariano), Linda Sini (Madre superiora), Riccardo Fellini (Riccardo), Igi [Gian Luigi] Polidoro (Igi), Achille Majeroni (zia Costanza), Polidor (frate Lorenzo).

Prod: Sancro Film (Roma), Cocinor, Les Films Marceau (Parigi).

Revisione: 7.1.1963 (2800 m), respinto: 15-30.1.1963.

Riedizione: 23.2.1963 (2456 m), approvato: 28.3.1963 (n.o. 39691 - v.m.18).

Homevideo: TF1 (DVD, Francia - versione integrale).

 

Alfonso, scapolo quarantenne e donnaiolo, è fidanzato con Regina, appartenente a una famiglia di devoti cattolici e contraria ai rapporti prematrimoniali. La ritrosia della donna finisce per vincere le resistenze di Alfonso, che la sposa. Dopo il matrimonio, Regina muta completamente atteggiamento, svelando appetiti sessuali voraci e sfiancando il povero Alfonso, che invano cerca di sfuggire almeno per qualche giorno alle pretese della sposa: il parentado e il consigliere spirituale padre Mariano lo esortano a compiere il proprio dovere coniugale. La salute dell’uomo ne risente visibilmente, ma Regina ha finalmente ottenuto il suo scopo: è incinta. Alfonso, esaurito e in condizioni fisiche sempre peggiori, è relegato in una squallida cameretta, mentre la moglie, che ormai lo tratta con distacco, si dedica all’amministrazione della sua concessionaria. E diventa ogni giorno più florida e più bella, mentre l’uomo pian piano si spegne. La nascita del bambino coinciderà con la morte di Alfonso.

 

Al ritorno in Italia in seguito all’«esilio» spagnolo, e dopo l’episodio «Gli adulteri» di Le italiane e l’amore, Marco Ferreri si balocca tra una serie di progetti irrealizzati (Il castello da Kafka, con Aznavour e la Signoret) e abbandonati (Viaggio in America, che, girato da Lattuada, diventerà Mafioso) prima di dedicarsi a uno spunto offerto da Goffredo Parise, che diventerà un casus belli dei più celebri nella storia della censura italiana. «Rispetto alle pretese di modernità che il Paese vorrebbe vantare la vicenda appare quantomeno fosca», scrive Tullio Masoni a proposito di L’ape regina; «se però la si osserva dal punto di vista del potere costituito, si deve prendere atto che […] assai raramente la storica alleanza tra Stato italiano e Chiesa era incorsa in una denuncia tanto radicale».1 Oltre a governare con grande fermezza l’apologo, Ferreri dimostra un occhio invidiabile per l’immagine fulminante, dalla celebre foto del supplizio del Leng T’che commentata da Bataille in Le lacrime di Eros che Alfonso (Ugo Tognazzi) scorge in una delle sequenze iniziali, a mo’ di memento (Bataille citato, a pochi mesi dalla scomparsa, in un film italiano: un unicum che testimonia le sensibili antenne culturali del regista) all’utilizzo geniale, e tipicamente ferreriano, di via della Conciliazione – dove Alfonso ha la sua concessionaria d’auto – come luogo simbolico delle nervature contraddittorie che animano la vicenda.

Il giudizio della Divisione Produzione della Direzione Generale dello spettacolo, dopo l’esame preventivo del copione (7 settembre 1962), esprime un giudizio cauto ma nel complesso favorevole:

 

il soggetto fornisce l’interpretazione in chiave di grottesco, […] tendenziosa ma cinematograficamente assai persuasiva, di un […] ipotetico caso matrimoniale. Ma il copione […] vuol essere anche una pittura di […] un particolare ambiente cattolico, popolato di uomini invadenti e affaristi, di donne osservanti ma voraci […]. È ovvio che, essendo anch’esso ritratto in chiave di grottesco, […] presenta caratteristiche assai più accentuate di quelle eventualmente riscontrabili nella più deteriore realtà. D’altronde il copione […] presenta» è l’ammonimento alle commissioni di revisione, «[…] nel suo insieme, un equilibrio e una coerenza che certo verrebbero compromessi qualora se ne volesse correggere la tendenziosità interpretativa. […] Un film come questo, proprio perché sostanzialmente ambizioso, potrebbe […] non raggiungere l’equilibrio espressivo a cui aspira […]. Si potrà pertanto solo attraverso il fotografico giudicare se l’obbiettivo perseguito è stato realmente raggiunto e decidere, in conseguenza, come giudicarlo.

 

L’ape regina arriva in censura il 7 gennaio 1963. La delicatezza dell’argomento è talmente ovvia che la stessa descrizione del soggetto presentato in revisione procede per cauti giri di parole. La Commissione (formata dal presidente Filippo Lonardo, Eraldo De Grada, Ludovico Alessandrini, Camillo Bruno, il regista Romolo Marcellini e Walter D’Avanzo) visiona il film di Ferreri il 14 gennaio e, sentiti i rappresentanti della società produttrice (Alfonso Sansone e Pasquale Festa Campanile), esprime a maggioranza parere contrario, «in quanto il film stesso, sia per l’impostazione del problema, sia per alcuni dialoghi, sia per numerose scene, si presenta decisamente contrario al buon costume [sottolineatura nell’originale, N.d.A.], anche in relazione alla comune concezione della morale coniugale» ai sensi dell’art. 5 della l. 161/62. Con provvedimento datato 15 gennaio 193 al film di Ferreri è negato il nulla osta.

In seguito all’appello della Sancro Film (23 gennaio), la Commissione di II grado si riunisce il 29 gennaio 1963. È formata dalle sezz. I e III e ne fanno parte, per la I sez., il presidente Giuseppe Loschiavo, Franco Penotti, Renato Filizzola, Luigi Volpicelli, Leandro Canestrelli, Carmine Punzi, Arnaldo Genoino; per la II sez., Ugo Guarnera, Mario Spasari, Mario Frittella, Goffredo Lombardo della Titanus, il regista Roberto Savarese, Lamberto Longhi. La Commissione d’Appello delibera a maggioranza la conferma del giudizio di I grado, col voto contrario dei due rappresentanti dell’industria cinematografica: un articolo della «Stampa» parla di «contrasti tumultuosi»2, e difatti il giorno seguente Lombardo, presidente dell’associazione dei produttori, si dimetterà dalla commissione in segno di protesta. La bocciatura di L’ape regina segue a stretto giro un altro episodio dagli strascichi polemici: il sequestro, da parte della Procura di Milano, di Viridiana di Luis Buñuel, che provoca una manifestazione di protesta promossa dall’ANICA e dal Sindacato giornalisti cinematografici, cui aderiscono numerosi scrittori e intellettuali. «Negli ambienti romani del cinema si osserva che il controllo sullo spettacolo da parte degli uffici preposti alla tutela del “buon costume” non è mai stato così severo» chiosa «La Stampa».3

E in effetti, basta leggere le «osservazioni» vergate dai commissari in aggiunta a quelle dei colleghi di I grado per rendersene conto:

 

Pur non presentando nel suo complesso una problematica suscettibile di valutazioni di disapprovazione etica e giuridica, problematica che potrebbe soltanto dedursi dal titolo del film – che per il richiamo ad una particolare situazione di rapporti tra maschio e femmina nel campo di una determinata specie di insetti e l’accostamento alla situazione di rapporti sessuali accesi e discostantisi dalla norma, relativi ad una coppia di coniugi, potrebbe apparire lesiva del buon costume in relazione al concetto medio del pudore e della morale riferentesi alla normalità dei rapporti tra coniugi e alla tutela del vincolo familiare – non può trascurarsi il rilievo che il complesso del film, prescindendo pertanto da una qualsiasi problematica offensiva, lede i sentimenti del pudore e della moralità comune e il buon costume nella sua duplice accezione: quella presa in considerazione dal codice penale limitata alla sfera sessuale e quella della Carta costituzionale di più vasta comprensione.

Continua poi la motivazione:

 

considerate poi singolarmente le scene e le sequenze che contribuiscono a formare quel complesso cui si è innanzi accennato, la Commissione rileva che parecchie di esse investono e si dilatano addirittura nel campo dell’osceno, che non può cambiare fisionomia soltanto perché coloro che si trovano a fare da protagonisti dell’avvicinamento dei sessi sono legati dal vincolo matrimoniale. Né va trascurata la constatazione fatta dalla Commissione che, nel maggior numero dei casi, il tono delle scene e del linguaggio è addirittura scurrile ed ha potere di deprimere e abbassare il livello di qualsiasi situazione, anche delle più semplici, di quelle che non presterebbero il fianco a giudizi di disapprovazione etico-giuridica. Senza dire che è sicuramente antipedagogico e del tutto diseducativo presentare un ambiente fuori della norma e degno tutto al più di interventi curativi dal punto di vista biologico e dal punto di vista spirituale, nel modo esclusivo che susciti da parte degli spettatori, non sentimenti di compatimento e di solidarietà umana, ma anzi grossolani di ilarità.

 

In conclusione, precisano i commissari,

 

anche se questo giudizio può apparire sovrabbondante per ciò che si riferisce ai compiti della Commissione, esso non può essere trascurato, perché serve a completare da ogni punto di vista il carattere e la fisionomia del film, che confronta con il comune sentimento del pudore e con la moralità media del nostro Paese.

 

L’ape regina è dunque di nuovo respinto con decreto datato 30 gennaio 1963.

Non è solo la Commissione di censura a deplorare la pellicola. L’11 gennaio, la Procura della Repubblica di Roma cita in giudizio per direttissima, con udienza fissata per il 16 febbraio, Beniamino Carucci e Ferreri ai sensi degli artt. 110 e 528 c.p. (concorso in pubblicazioni e spettacoli osceni, punito con reclusione da tre mesi a tre anni e multa non inferiore a ottomila lire)

 

per avere, in concorso tra loro e allo scopo di farne commercio e distribuzione, stampato, detenuto e messo in circolazione il volume Matrimonio in bianco e nero della collana di «Cinema 60»4 – di cui il Carucci è editore – contenente:

A) la sceneggiatura del film L’Ape Regina, stesa dal Ferreri, sceneggiatura che, secondo il comune sentimento, offende il pudore sia nel suo complesso sia per quanto concerne, in particolare, le scene 14 (pag. 96), 17/a (pag. 103-104), 24/a (pag. 109-110), 32 (pag. 121-122), 51 (pag. 147-148) […].

B) Le fotografie di alcune scene del film tra le quali le seguenti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore: fotografia raffigurante la protagonista Regina che si infila un pantaloncino, fotografia raffigurante i protagonisti Regina e Alfonso mentre si baciano distesi su un letto; fotografia in cui Regina mostra al marito una camicia da notte su cui è cucita la scritta «Non lo fo per piacere mio − ma per far piacere a Dio».

 

Le notizie della bocciatura in censura e del procedimento penale a carico di Ferreri sollevano un polverone. L’ANAC protesta nei confronti della Commissione e il 23 febbraio, in un furente telegramma al Ministero, il segretario Franco Solinas annuncia:

 

Ci siamo inutilmente adattati subire vostre reiterate raccomandazioni soprassedere ogni iniziativa denuncia ed agitazione pubblica contro censura Aperegina [sic!] stop ribadendo vostra responsabilità per sopravvivenza et assurdo funzionamento commissioni censura siamo decisi proclamare sciopero categoria ANAC nei modi et nei tempi più opportuni qualora Aperegina non ottenesse nei prossimi giorni nulla osta circolazione.

 

L’ape regina viene proiettato dai padri gesuiti di Napoli al centro cinematografico «Gustavo Lombardo» (intitolato al padre del neodimissionario Goffredo), alla presenza tra gli altri di padre Mario Casolaro, di Ferreri e di vari giornalisti e magistrati. I presenti riterranno all’unanimità ingiustificata la motivazione addotta dai commissari. «Se a tutti i costi dovessimo trovare degli addebiti in materia morale» dichiara il Procuratore aggiunto della Repubblica Vittorio Sbordone, «dovremmo solo dire onestamente che il film è una difesa della vera moralità».5 A proposito del procedimento contro la sceneggiatura, che oltre a Ferreri vede tra i coautori i non incriminati Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Diego Fabbri, «La Stampa» scrive: «sarebbe paradossale se l’imputazione venisse estesa – com’è probabile – a quest’ultimo. Per la prima volta, infatti, uno scrittore notoriamente di ispirazione cattolica, quale è Diego Fabbri, finisce sul banco degli imputati per difendersi dall’accusa di avere pubblicato un racconto osceno».6 Il processo si concluderà nel novembre dello stesso anno con l’assoluzione degli imputati perché il fatto non costituisce reato; Carucci e Ferreri saranno però ritenuti responsabili di «pubblicazione contraria alla pubblica decenza» e condannati a 15.000 lire di ammenda per le tre fotografie dal film contenute nel volume (in contrasto con le indicazioni del p.m., il quale aveva chiesto la condanna a due mesi e 80.000 lire di multa ma l’assoluzione per le fotografie, nonché la confisca di tutte le copie), nonché il dissequestro dello stesso.

Il 23 febbraio la Sancro presenta una nuova domanda di revisione: il film è ora intitolato Una storia moderna – l’ape regina e «con ampi rifacimenti sia nel fotografico che nella colonna sonora», come specifica la Sancro, che richiede vengano ascoltati il produttore stesso e Ferreri. La Direzione Generale, essendovi un procedimento penale nei confronti del libro contenente la sceneggiatura, avverte la ditta della necessità di produrre una dichiarazione certificante dell’Autorità giudiziaria competente da cui risultino i capi d’accusa nei confronti dell’autore.

A proposito del procedimento contro Matrimonio in bianco e nero, la Sancro specifica come il testo della sceneggiatura differisca notevolmente dal film finito, e nel caso di L’ape regina ventitré scene delle sessanta indicate nel copione non siano state girate o, se girate, non siano state inserite in montaggio (la n. 1-2-4-10-16-21-22-23-24-26-28-31-33-34-36-37-38-41-42-43-48-58-59), mentre molte altre sono state realizzate diversamente, come le cinque che hanno formato oggetto di rilievi da parte della Procura della Repubblica di Roma, e che dalla pagina al film sono del tutto mutate. Le differenze mostrano come Ferreri abbia ammorbidito certe situazioni potenzialmente sgradite alla censura durante le riprese.

 

Scena 14: Nella descrizione dei due personaggi il testo della sceneggiatura portava: «Alfonso e Regina sono alla fine di un amplesso. Alfonso è come spento, abbandonato su Regina». Nel film i due coniugi sono uno accanto all’altra, separati, e parlano tra loro scherzosamente. Alla fine della sequenza nella sceneggiatura si dice «egli mette la bocca aperta a ventosa sulle labbra e comincia a soffiare». In realtà nel film si tratta di un normale bacio, senza particolare rilievo.

Scena 17: La sceneggiatura non ha nessun riscontro nel film; vi è solo una esibizione di una camicia peraltro indossata.

Scena 24a: La scena è impostata in modo radicalmente diverso che nella sceneggiatura.

Scena 32: Anche questa è completamente diversa: nel film manca ogni asprezza di linguaggio. In particolare la scena è tagliata di circa due terzi, è omesso ogni riferimento allo «spadone» e cassata la frase «talvolta mi fai male».

Scena 51: è stata girata solo la prima parte, e non la seconda (quella che prevedeva accenni al bambino). Nella prima parte trattandosi di «piani medi» non si vede nulla.

 

In conclusione, «tra il testo della sceneggiatura che ha attirato l’attenzione della procura, ed il film non vi sono se non riferimenti indiretti».

In dettaglio, ecco le modifiche apportate alla nuova edizione:

 

− Soppresse le due sequenze iniziali (padre Mariano visita Alfonso; entrambi passeggiano nel chiostro parlando del fatto che Alfonso dovrebbe sposarsi).

− (pag. 5) Soppressa la battuta di Ribulski dell’Autosalone di Alfonso: «Oh, vedo… tanti auguri da parte di Sua Eminenza!…».

− Nella sequenza della benedizione pasquale, in italiano, la benedizione del letto matrimoniale («Benedici o Signore questo letto affinché coloro che vi giacciono possano ristabilirsi nella tua pace e perseverare nella tua volontà, e crescere e moltiplicarsi per molti anni e raggiungere il regno dei cieli») è stata sostituita con: «Oremus: Benedice Domine Deus Omnipotente domum istam, et haec beneditio maneat super hanc domum et super habitantes in ea nunc et sempre. Amen».

− (pag. 37) La battuta di Padre Mariano: «è un ricostituente leggero, ormonico; per il tono generale, lo prendo anch’io», è stata sostituita con «… lo prendono tutti».

− (pag. 40) Tagliata la scena nella quale si vede Alfonso che con il dito indice fruga nella apertura posta sul davanti in basso, di una vecchia camicia di notte che Regina gli sta mostrando. Soppressa anche la battuta di Alfondo: «Cos’è ‘sta roba?».

− Inserita una nuova sequenza dove si vede Alfonso che va a farsi fare un’iniezione in un ambulatorio:

DONNA: (si lamenta)

ALFONSO: «Ma queste punture fanno un male dell’accidenti, porca miseria… almeno servono a qualche cosa?».

INFERMIERA: «Sono estratti ormonici, dottore… di solito funzionano… piuttosto dovrebbe dimagrire… guardi che bel giovane così… guardi che ciccia…».

ALFONSO: «Eh…».

− (pag. 63) Le battute di Alfonso: «Ma perché, ti ho fatto male qualche volta?…» «Eh, sì eh… deve essere pericoloso sì»

sono state sostituite rispettivamente con: «Ma perché non me lo hai detto prima?» «Eh, sì… bisogna assolutamente evitarlo…».

− (pag. 64) La battuta di Riccardo «Quello stronzo di tuo cognato…» è stata modificata con: «Quella carogna di tuo cognato…».

− Tolte tutte le scene e le battute da pag. 67 a pag. 71. Nella sequenza del cimitero sono state eliminate le scene della benedizione della salma nell’interno della cappella della famiglia di Regina, durante la quale si svolge la lite tra Igi, il fratello di Regina e l’impresario delle pompe funebri. È stata anche eliminata l’inquadratura dell’esterno della cappella nella quale Igi mostra ad Alfonso i resti dei gioielli della madre defunta.

 

È inoltre stata aggiunta una didascalia iniziale:

 

Con questa amara favola ho voluto rappresentare in chiave paradossale e satirica quanto squallida è una vita matrimoniale intristita e deviata da una volgare ed egoistica concezione del piacere e da un formalismo bigotto, frutto di un’interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi ed immutabili principi della morale e della religione.

Marco Ferreri

 

La Commissione di I grado, che revisiona Una storia moderna - L’ape regina il 28 marzo, questa volta esprime parere favorevole al nulla osta, con divieto ai minori di 18 anni, «motivato dalla tematica del film che, per scene e dialoghi, risulta controindicato alla particolare sensibilità dei minori e alle specifiche esigenze della loro tutela morale».

All’uscita, i quotidianisti rinfocolano il dibattito sulla censura. «Assurde le due bocciature, contraddittorio (ma una volta tanto un arbitrio ristabilisce un criterio di giustizia) il nulla osta concesso dopo quelle» si legge sul «Messaggero». «La qual cosa prova, se ancora ce ne fosse bisogno, la assoluta inutilità dell’istituto censorio e la dannosità di esso sia in relazione alla libertà d’espressione sia sul piano meramente industriale dato che il provvedimento poi annullato, dopo aver ingiustificatamente umiliato i costituzionali diritti di libertà artistica ha provocato serie difficoltà economiche a chi ha prodotto e distribuisce l’opera del regista Ferreri».7 Di contro, nel recensire il film, definito «abbastanza volgare e, soprattutto, piuttosto noioso. […] un’opera modesta e un po’ faticata», Paolo Valmarana sul «Popolo» obietta alla sua partecipazione a Cannes, «anche perché saremmo curiosi di sapere in che edizione verrà presentata. In quella che ha ottenuto il visto della censura? Pare curioso che un autore accetti di presentare a un festival una sua opera con dei tagli. In quella integrale? E allora non si vede perché l’Italia debba partecipare a quella manifestazione con un’opera ritenuta, non a torto, lesiva della religione cattolica. La terza ipotesi: “va così com’è perché è un’opera d’arte”, è, e pensiamo che tutti siano d’accordo con noi, priva di fondamento».8 Sul «Tempo», Gian Luigi Rondi lascia recensire il film al suo vice, che lo liquida con freddezza, deplorando l’atmosfera funerea, colta invece in pieno come cifra tematica tipica del regista da Maurizio Liverani su «Paese Sera».

Il film di Ferreri continua a far discutere. Nel luglio 1963, l’On. Agostino Greggi (DC) rivolge ai ministri dell’Interno e della Giustizia un’interrogazione orale

 

per sapere se corrisponda a verità che gli organi di polizia giudiziaria hanno preso, o sono stati espressamente sollecitati a prendere, l’iniziativa di deferire all’autorità giudiziaria i responsabili della programmazione del film L’ape regina che, a giudizio quasi unanime di migliaia di spettatori, costituisce una continua offesa al buon costume, al pudore, alla decenza ed a sentimenti delicatissimi e riservati, come quelli dei rapporti matrimoniali e della nascita dei figli. L’interrogante chiede di sapere, in ogni caso, se le autorità di Governo del nostro Paese ritengano di poter rimanere indifferenti di fronte a casi tanto gravi di violazione di ogni buon gusto e di ogni buon costume.

 

Il 4 settembre 1979 la Sancro ripresenta il film in una nuova edizione destinata alla programmazione televisiva, auspicando che «dato il tempo trascorso e quindi la notevole evoluzione del costume nazionale», l’opera ottenga il nulla osta senza alcun divieto: sono state tagliate la sequenza della benedizione della camera nuziale con Padre Mariano, Alfonso, Regina e gli altri parenti della sposa e l’invito di Padre Mariano alla procreazione, e la conversazione tra il sacerdote e Alfonso su problemi di ordine sessuale da risolvere per poter arrivare al concepimento di un figlio. La Commissione, riunitasi il 26 settembre 1979, esprime parere favorevole al rilascio del nulla osta con divieto ai minori di anni 14 «in considerazione della tematica, imperniata sulla insaziabilità dei rapporti coniugali, che appare controindicata alla sensibilità dei predetti minori».

 

 

1 Tullio Masoni, Marco Ferreri, Gremese, Roma 1998, p. 31.

2 r.s., Le scene incriminate del film «Ape regina», «La Stampa», 31 gennaio 1963, p. 8. Dove inoltre si legge: «è probabile che i censori si siano lasciati adombrare da questa visione, piuttosto cruda, del matrimonio: l’anatema colpisce l’Ape regina per il suo contenuto, diciamo così, ideologico. Tanto più che in esso i commissari ministeriali forse hanno potuto vedere un’allusione, sia pure in chiave grottesca, a quella che essi hanno definito “la concezione normale della vita coniugale” […] Tutto il film si presta ad apprezzamenti molto diversi da quelli che sembrano avere orientato i censori. Pare infatti evidente trattarsi di una satira di un certo matriarcato […]».

3 r.s., Disagio nel cinema italiano per le condanne della censura, «La Stampa», 2 4 Il volume contiene inoltre scritti di Morando Morandini, Tommaso Chiaretti, Dino Criglia, Carlo Falconi, Camilla Cederna, Gabriella Parca.

4 c.g., Il film proibito «L’ape regina» proiettato a Napoli dai gesuiti, «La Stampa», 2 febbraio 1963, p. 3.

5 Guido Guidi, Perché il film «Ape Regina» è giunto davanti ai giudici, «La Stampa», 16 febbraio 1963, p. 10.

6 g.g.[Guido Guidi], Il regista del film «L’ape regina» assolto dall’accusa di offese al pudore, «La Stampa», 13 novembre 1963, p. 3. Gli avvocati di Carucci e Ferreri avevano sostenuto che il libro era «una pubblicazione tecnica, rivolta a una particolare élite» di registi, critici e studiosi di cinema, e che il copione doveva essere considerato opera d’arte e come tale non perseguibile.

7 «Il Messaggero», 25 aprile 1963.

8 P.V. [Paolo Valmarana], «Il Popolo», 25 aprile1963.

 

 

n. 39684

Italia notte n° 1/Italian sexy show

Italia/Argentina 1963, col.

 

R: L. De Mar [Luigi Latini De Marchi]; comm: Fabio De Agostini; fo: Romolo Garroni, Giorgio Orsini; mu: Aldo Piga; mt: Aurelio Pennacchia; narr: Elio Pandolfi.

Int: Roger Cotte, Ira Flabel, Franco Visconti, Giuliana Farnese.

Prod: Trans World Pictures.

Revisione: 23.2.1963 (2260 m), respinto: 26.2-23.3.1963.

Riedizione: 11.4.1963 (2105 m), respinto: 23.4.1963, approvato: 29.5.1963 (n.o. 40163 - v.m.18).

 

Su incarico di un settimanale, un giornalista svolge un’inchiesta sui divertimenti notturni di italiani e stranieri nel nostro Paese.

 

«In sintesi questa inchiesta è una sottile critica ed accusa al modo di divertirsi degli italiani nottambuli, i quali possono accedere in questi luoghi, definiti proibiti, con le modeste mille lirette» si legge nella presentazione del soggetto di Italia notte n. 1, carrellata di numeri di night e spogliarelli diretta da Luigi Latini De Marchi. Critica così sottile da sfuggire alla Commissione di censura di I grado. Presentato dalla Trans World Pictures il 22 febbraio 1963, e revisionato il 25 febbraio, Italia notte n° 1 viene bocciato in quanto

 

per tre quarti del suo svolgimento, è palesemente contrario al buon costume, sia come sequenze, sia come singole scene, sia dal lato del commento, in parecchie battute scurrile e volgare. Basta a convincersene sottolineare, tra le altre, come le più rimarchevoli, le scene al camping relative alla svestizione della tedesca prima del bagno; quelle del gioco dei tappi sulle bottiglie; l’altra del balletto di Zà la Morte [sic!]; quella del duo con relativo commento a doppio senso, sulla rottura del cuore; l’altra raffigurante la «scuola spogliarellistica»; la scena dello spogliarello sul letto di una femmina, mentre si intrattiene al telefono con il presentatore del film; ed infine, la scena ultima, e più conclusivamente contraria al buon costume, che si svolge sul lido del mare, su di una barca, nella quale figurano un’altra femmina ed un indigeno che comincia a spogliarla. Tutto ciò pone in risalto la chiara intenzione dello scopo immorale del film, specie ove si consideri che il regista si serve, nella maggioranza dei casi, delle scene di streap-tease [sic!] quasi come se queste si svolgessero in privato; laddove egli espone, invece, alla vista di tutti spettacoli, che, se figurano – come si è detto – in riservati locali notturni o in privato, non sono diretti, come sarebbero quelli del film, a milioni di spettatori, eccitandone istinti e sentimenti erotici (art. 6 legge 21/4/1962 n. 161).

 

La Trans World presenta ricorso in appello, il 1 marzo, chiedendo che vengano sentiti il regista Luigi De Marchi e l’organizzatore generale della società Vincenzo Armando Seidita. Ma il giudizio è confermato in data 22 marzo dalla Commissione di II grado (di cui fanno parte tra gli altri il produttore Mario Cecchi Gori e il critico Giacinto Ciaccio), la quale aggiunge che

 

il tono generale del film è fondato esclusivamente sulla sessualità e rivela come unica destinazione quella di suscitare nello spettatore l’istinto sessuale nel modo più suggestivo. Si può dire che tutte le scene siano la macroscopica evidenziazione di quelle parti del corpo femminile che sono specialmente oggetto degli appetiti sessuali e sono poste in primo piano, nella maggior parte dei casi, con accompagnamento della rappresentazione grafica di illustrazioni orali volgarmente allusive, che ne rinforzano la suggestione. Trattasi pertanto di un film pornografico, nelle immagini e nel linguaggio.

 

La pellicola viene ripresentata, col titolo Italian sexy show (Italia notte n° 1), in un’edizione alleggerita delle sequenze ritenute offensive (155 m, circa 5’35”) e nel commento. Benché Seidita si dichiari disposto a effettuare nuovi tagli, la Commissione di I grado (il 22 aprile) lo boccia all’unanimità, in quanto «il film – nella sua impostazione, nella successione delle scene e nel commento dialogato – risulta sostanzialmente identico» a Italia notte n°1, con l’aggravante di un nuovo titolo dal quale «si evince a chiare note che scopo del film stesso è quello di mettere in risalto scene di spogliarelli e sequenze pornografiche, quale fine a sé stesse e quale ragione determinante del film medesimo». Nuovo appello il 29 aprile: stavolta la Commissione d’Appello, riunitasi il 28 maggio, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta, con divieto ai minori di 18 anni.

Italian sexy show è anche uno dei primi esempi di versioni per le esportazioni «gonfiate» con materiale ad hoc: nel febbraio 1964 la Direzione Generale per lo Spettacolo scopre che una copia destinata all’esportazione in Belgio presenta in aggiunta uno spezzone muto (139 m, circa 5’) non figurante nella copia sottoposta a revisione, in violazione dell’art. 15 del regolamento d’esecuzione della l. n. 161/1962. La Trans World si giustifica addebitando all’inesperienza (è il primo film che produce) il mancato controllo, la Telecolor scarica l’errore sull’addetto alla consegna, ed entrambe liquidano il materiale extra come «positivo muto di lavorazione». Sta di fatto che nello spezzone figurano due scene «molto spinte».

 

 

n. 39699

Le Quatrième sexe

Francia 1961, b/n

 

R: Michel Wichard [e Alphonse Gimeno]; sc: Alphonse Gimeno, Jean Mitry; fo: Marcel Combes; mt: Georges Marschalk; mu: Louiguy [Louis Guglielmi].

Int: Brigitte Juslin (Sand Stevenson), Richard Winckler (Michel), Nicole Burgot (Caroline), Jean-Pierre Posier (Smith), Philippe Leroy (Paul).

Prod: Félix Films, Les Films Univers, Condor Films.

Revisione: 19.2.1963 (2525 m), respinto: 26.6.1963.

 

Sand, ricca pittrice americana a Parigi, vive una vita spregiudicata e priva di legami sentimentali, circondata da pettegolezzi. Una sera, in un night dove si è presentata in una mise mascolina assieme ad altre ragazze, è apostrofata dallo studente Michel come appartenente al «quarto sesso». Sand medita vendetta; invita la sorella di costui, Caroline, e la convince a posare nuda per un quadro. Quando Michel sorprende le due, scaccia la sorella e approfitta di Sand. L’esperienza fa sì che Sand si innamori a sua volta del giovane, abbandonando i suoi atteggiamenti mascolini.

 

Il film di Michel Wichard, tra i primi ad approfittare dell’allentamento delle maglie censorie francesi, guadagnò una certa notorietà grazie al titolo a effetto, che etichettava l’omosessualità femminile come «quarto sesso» (il terzo era quella maschile), secondo una nozione risalente agli antichi Romani (tertium genus) e assai popolare nella Francia del XIX secolo. José Benazeraf ne supervisionò la regia, mentre Radley Metzger girò scene aggiuntive (la sequenza in cui Sand dà un party in costume sul tema dell’antica Roma, durante il quale ha luogo uno spogliarello prima che il tutto degeneri in un’orgia) per l’edizione americana del film, distribuito nel 1962 dalla Audubon col titolo The Fourth Sex, e il sottotitolo Girls Who Like Girls.

Le Quatrième sexe è presentato in censura in edizione originale il 19 febbraio 1963 dalla DI.AS. Film. La descrizione del soggetto, che si conclude con un eloquente richiamo al «trionfo dei sentimenti semplici e naturali», evidenzia la chiusa moralistica (e ai limiti del ridicolo involontario) del film, in cui la protagonista «guarisce» dalla propria omosessualità, secondo un procedimento tipico delle pellicole exploitation, ossia la presentazione di temi e immagini osé veicolate attraverso un impianto narrativo che finge di voler condannare le perversioni mostrate. Cosa che non impedì al film di avere problemi in patria, presso l’OCFC (Office Catholique Français du Cinéma), dove Le Quatrième sexe venne «categoricamente rigettato in ragione del suo tema, l’omosessualità femminile».

La Commissione di I grado, il 25 giugno 1963, lo boccia in quanto «oltreché il contenuto chiaramente immorale, il film contiene numerose sequenze con presentazione di nudi integrali, di donne procaci e indecenti».

Il rappresentante della DI.AS. Film (23 settembre) dichiara di rinunciare all’appello, e la pellicola resta inedita in Italia.

 

 

n. 39869

Milano Nera

Italia 1963, b/n

 

R, sc: Gian Rocco, Pino Serpi; collaboratore alla sc: Pier Paolo Pasolini; fo: Riccardo Pierucci e Adriano Bernacchi; mu: Giovanni Fusco.

Int: Libero Cipriani, Giuseppe Fallica, Bruno Madrignano, Adriano Fossati, Umberto Rocco, Massimo Carapellese, Manfred Freyberger.

Prod: Mediolanum Film.

Revisione: 20.3.1963 (2282 m), respinto: 23.3-9.4.1963.

Riedizione: 19.7.1963 (2282 m), approvato: 20.7.1963 (n.o. 39869 - v.m.18).

Homevideo: Alan Young (DVD, Italia).

 

La notte di Capodanno, cinque giovani e un bambino percorrono le strade di Milano in lungo e in largo, e combattono la noia compiendo furtarelli e atti di teppismo. Al mattino, l’ennesima bravata costerà la vita al fratellino di uno di loro e la visione di quel corpo esanime riverso sull’asfalto porterà i giovani a prendere coscienza delle loro azioni.

 

«Venti atroci giorni chiuso in un alberghetto a lavorare come un cane.»1 Pier Paolo Pasolini sintetizza così, in un amaro resoconto pubblicato su «Paese Sera», la prima stesura di La Nebbiosa, copione commissionato dal produttore Renzo Tresoldi e incentrato sulle vicende di un gruppo di teddy boys milanesi. Tresoldi, industriale milanese «di famiglia ricca e onorata, da far conoscere a Gadda»2, prestato una tantum al cinema, chiede a Pasolini di sviluppare un soggetto – una notte di Capodanno, una gang di teppisti ne combina di cotte e di crude – abbozzato da Gian Rocco e Pino Serpi, semiesordienti registi con alle spalle solo l’esperienza di un documentario turistico, Carosello spagnolo.

Pasolini si era già occupato del fenomeno dei cosiddetti teddy boys – giovani ragazzi del Nord di buona famiglia, dediti a rapine e ad atti di vandalismo: declinazione italica della subcultura giovanile nata in Gran Bretagna negli anni ‘50 – sulle pagine di «Vie nuove» (in cui imputava l’esistenza di «una gioventù insofferente e incattivita» allo «sciocco paternalismo», alla «superficiale visione dei valori», al «represso sadismo» di quei padri ideali, i cui figli «non possono che nutrire disprezzo per la morale vigente»3) e in occasione della sua (marginale e non accreditata) collaborazione a Le notti dei teddy boys di Leopoldo Savona. In generale, l’approccio dell’opinione pubblica italiana al fenomeno è imbastardita da svariati fattori: se il tema della delinquenza giovanile spaventa la classe dirigente (al punto che fa scalpore il via libera in sede di censura a un film «dedicato alla violenza e al vizio» come Il seme della violenza), la cultura popolare restituisce un’immagine annacquata dei teddy boys: si vedano la canzone Teddy Girl di Celentano (i cui versi Pasolini citerà in La Nebbiosa: «Oh Teddy Girl pupa in technicolor / Oh Teddy Girl c’è un juke box nel tuo cuor») o innocui musicarelli come I teddy boys della canzone di Domenico Paolella.

Ben diverso il taglio che Pasolini vuol dare al tema: sociologico, aspro e realistico, e in linea con il pensiero dell’autore, che appaia gli enfants terribles meneghini ai ragazzi di vita delle «sue» borgate romane. «Il teddy boy è il prodotto di una società ad alto livello economico, sociale e civile, di tipo industriale; mentre il ragazzo di vita è il prodotto di una società a basso livello sociale, economico e civile» scrive Pasolini. «Il ragazzo di vita alligna dove c’è molto sottoproletariato, e la distanza tra una classe sociale e l’altra è rilevante. Il teddy boy appartiene ideologicamente alla classe borghese e la sua è una protesta di tipo moralistico contro la società che l’ha prodotto e non gli dà ciò che egli desidera… Non gli dà una fede nella vita e una fiducia nel proprio avvenire, gli crea attorno un senso di vuoto e di isolamento. Il ragazzo di vita delinque perché spinto dalla necessità economica. Mentre il teddy boy combina le sue azioni per una specie di spinta morale che ha trovato un indirizzo sbagliato.»4

Il copione prende forma nel novembre 1959: come da costume, Pasolini vuole immergersi nei luoghi che racconta, vuole conoscere studiare annusare i personaggi. Si trasferisce a Milano, frequenta i trani sui Navigli e la fiera di Senigallia, prende appunti. E si accompagna a veri teddy boys come il diciottenne Giuseppe Pucci Fallica detto Gimkana, amico dello scrittore e paroliere Umberto Simonetta (sua La ballata del Cerutti, per dirne una), e il compare Paolo Uguccione detto «El Lobo», che faranno da modello per i protagonisti e collaboreranno alla stesura dei dialoghi, secondo l’usuale metodo di lavoro pasoliniano. Pasolini se li porta addirittura a Roma, a sue spese, durante un giro di conferenze, per terminare il lavoro. «Era un pubblico di comunisti sfegatati e il suo linguaggio pacato li deluse» racconterà Uguccione. «Poi si andava a cena dai suoi amici e a nessuno mi presentava. Semplicemente imponeva la mia presenza, senza dare spiegazioni.» Gli amici di Pier Paolo di cognome fanno Bassani, Morante, Penna, Moravia, Caproni. «E tutti mi trattavano con riguardo, senza fare domande. Discuteva di filologia, o delle liriche greche che stava traducendo. Per me era più importante Little Richard.»5

A casa di Pasolini, i due teddy boys recitano se stessi, parlano, raccontano, mimano scene. Lui annota tutto («lavorava con una risma di fogli bianchi davanti. Scriveva, appallottolava e si lanciava la carta alle spalle. Sua madre, silenziosa, girava con un cestino dietro di lui e raccoglieva quelle pallottole di carta sparse. Poi ci preparava da mangiare» racconteranno Gimkana e il Lobo6). Di sera, Pasolini li porta nelle borgate: due mondi a confronto. Prende forma la sceneggiatura. L’ultima notte dell’anno, i sette delinquentelli – il Teppa, «Elvis», il Contessa, Mosé, Gimkana, il loro capo Rospo e il fratellino di quest’ultimo, Cino – ne combinano di tutti i colori, in una scorribanda che attraversa tutta Milano, dai trani a Metanopoli: rubano un paio d’auto; molestano una coppietta sorpresa a far l’amore; sottraggono i gioielli della statua della Madonna nella chiesa di Bollate, regalandoli a una vecchia barbona; si intrufolano in una villa signorile per un’abbuffata notturna; rapiscono tre signore-bene e danno vita a un’orgia; fanno una capatina in un night club (dove il copione prevede la presenza di Laura Betti, che però non seppe mai nulla del progetto); seviziano un omosessuale. Fino a una chiusa tragica e fatalistica, con la morte di uno dei sette, che anticipa Accattone. Il tutto in una metropoli che sta cambiando vertiginosamente, dove spuntano i primi grattacieli sfolgoranti di luci «come giganteschi diamanti, come colossali fantasmi pietrificati» e gli afrori del boom fanno girare la testa. Come nota Alberto Piccinini, la sceneggiatura di Pasolini è «piena di vezzi d’autore, dialoghi molto al di là della superficialità spettacolare nei confronti del “disagio giovanile”, poco adatti […] alla spiccia macchina-cinema italiana di quegli anni»7.

Ma tanto è affascinante (e tormentata) la genesi di La Nebbiosa, quanto fallimentare sarà lo sbocco cinematografico. A un anno di distanza Pasolini è già disilluso e rassegnato. Il pezzo su «Paese Sera» esce a inizi dicembre 1960: nessuna traccia del film e nemmeno del compenso pattuito con Tresoldi, che ha pagato a Pasolini solo la metà («la seconda metà l’avete vista voi?» scrive il poeta). Per di più, l’aspirante produttore, cui il copione non è proprio piaciuto, ha fatto rimaneggiare la sceneggiatura dai due registi, che smussano la durezza originaria, inventano un nuovo finale ambientato nello stadio di San Siro deserto all’alba, e stralciano i riferimenti politici.

Non è la prima volta che un copione di Pasolini viene stravolto: era accaduto anche con Morte di un amico di Franco Rossi, che presentava elementi in comune sia con Accattone che con La Nebbiosa. In quel caso Pasolini ne aveva preso le distanze, ritirando il proprio nome («tutto era stato involgarito, sfatto, smussato, addolcito»8); qui si vendica con l’arma del sarcasmo, apostrofando i registi con l’appellativo «i due ispirati». Secondo il poeta, Rocco e Serpi avrebbero persino cercato di montare uno scandalo fornendo a un rotocalco scandalistico delle foto di scena ad hoc, approfittando dell’arresto di uno dei teddy boys frequentati da Pasolini per la stesura del copione e cooptati come comparse nel film. Secondo il cugino e biografo di Pasolini, Nico Naldini, il poeta avviò anche una causa contro Tresoldi, chiedendogli il rimborso. Sta di fatto che, dopo lo sfogo su «Paese Sera» Pasolini si lascia l’esperienza di La Nebbiosa alle spalle: lavora ad altre sceneggiature (La giornata balorda di Bolognini, Il carro armato dell’8 settembre di Puccini, La lunga notte del ’43 di Vancini), fa l’attore in Il gobbo di Lizzani, esordisce dietro la cinepresa con Accattone. Passeranno tre anni prima che il film tratto da La Nebbiosa, intitolato Milano Nera, arrivi nelle sale. Dopo, occorre aggiungere, numerosi problemi in sede di censura.

Nella denuncia di inizio lavorazione, il film porta il titolo Una notte di capodanno (cambiato poi in Milano - Nera, perderà infine per strada il trattino9), e Pasolini non figura nei dati di produzione. Che quel nome sia assai sgradito nelle stanze ministeriali, lo si nota dai toni adoperati nel giudizio della VII divisione, che revisiona preventivamente la sceneggiatura. «Dalla lista degli sceneggiatori del film, dattiloscritto sulla copertina del copione, è stato, e neppure con troppa efficacia, cancellato a gomma il nome di Pasolini. Quali che fossero gli scopi reconditi di una simile proceduta, bisogna dire che l’accorgimento risulta, al dunque, del tutto inutile» è l’eloquente incipit. «Basta infatti scorrere le prime pagine del copione per accorgersi che i personaggi, anche se provvisoriamente iscritti all’anagrafe della metropoli lombarda, sono più o meno gli stessi che abbiamo conosciuto leggendo i libri del suddetto autore o assistendo ai film ai quali lo stesso abbia collaborato».

Pur definendo le vicende raccontate «sgradevoli e monocordi per il meccanismo psicologico in esse ricorrente», i commissari riconoscono tuttavia che le varie situazioni risultano «tratteggiate con mano sicura e con complessiva efficacia». Si richiama poi l’attenzione su alcuni punti delicati: la scena in cui il Rospo armato di cerbottana lancia contro il fratellino legato dei proiettili di carta muniti di uno spillo; alcune battute che i ragazzi si scambiano («Andiamo a pescarci tre donnette….» «Le portiamo da me; i materassi ci sono; tanto mia madre prima dell’Epifania non spunta» «Cos’è, un mezzo loffio?» «Anche le donne dobbiamo portarci; a me piacciono i letti del settecento…»); la rissa tra due dei ragazzi «con particolari di accentuata violenza e sadismo»; la scena in cui un vagabondo spia una coppia appartata in auto, e «dalla sua espressione di avido, stravolto piacere si riesce a immaginare quello che accade nella macchina», la «dissertazione psicologica del pederasta (Gino) e volo finale del medesimo, in mutande e canottiera, fuori della macchina in moto», la battuta del Rospo al fratellino «La mamma non pensa mica a te in questo momento… finirà come questa vecchia, puttana e pazza».

E il Direttore Generale conclude: «dato il carattere ed il contenuto spettacolare del film, gli Uffici dubitano che la pellicola, se realizzata negli attuali termini descritti nella sceneggiatura, possa essere approvata in sede di revisione. Il copione presenta infatti scene, fatti e soggetti contrari al buon costume».

Previsione quanto mai esatta. Presentato al Ministero dello Spettacolo il 20 marzo 1963, Milano Nera viene respinto dalla commissione di I grado. Nel referto si legge:

 

La III sez. di revisione cinematografica – dopo aver sentito, come da sua richiesta, il rappresentante della ditta produttrice – rileva che il film stesso, nel faticoso ordito di un argomento che si richiama alla noia in cui versano i giovani protagonisti, si concentra principalmente su tre episodi, i quali offendono direttamente il buon costume per il loro evidente carattere di oscenità. Essi sono quello dell’orgia che si svolge nell’ambiente squallido dei giovani protagonisti e alla quale partecipano tre donne raffigurate come appartenenti alla borghesia e tutte sposate; quello della sorpresa della coppia di amanti in automobile, nella quale l’uomo e la donna sono sorpresi in atteggiamenti erotici, anch’essi offensivi del pudore e infine quello dell’incontro con il pederasta, che viene sottoposto al denudamento forzoso. Svolgendosi tutto attorno a questi nuclei centrali, il film nel suo complesso è offensivo del buon costume e non vale a riscattarlo il finale drammatico, anche se questo presenta un contenuto etico apprezzabile. Pertanto unanimamente si esprime il parere che il film non sia idoneo ad essere proiettato in pubblico.

 

La produzione richiede la revisione in appello, accompagnando la domanda con una serie di ritagli di giornale dove sono descritti episodi di cronaca che hanno per protagonisti i teddy boys milanesi, la sceneggiatura originale di Pasolini con sottolineature in rosso sulle scene già soppresse in sede di riprese e una lettera dei due registi, che tentano di spiegare le ragioni del film:

 

I sottoscritti Gian Rocco e Pino Serpi, registi del film Milano Nera, fanno presente alla spettabile commissione di appello quanto segue: a) Il soggetto del film è stato scritto dai due registi alla fine del 1959, quando Milano era infestata da bande di teddy boys che scorrazzavano la notte per la città compiendo atti di violenza da codice penale: tutti i fatti da cui è stato tratto il soggetto sono veramente avvenuti (come comprovano alcuni ritagli di giornale acclusi alla presente) e niente è stato inventato dalla fantasia degli autori; b) Per la sceneggiatura di detto soggetto fu chiamato lo scrittore Pier Paolo Pasolini perché questi argomenti (anche se riportati alla città di Roma) erano stati da lui indagati in romanzi come Ragazzi di vita e Una vita violenta. In quel tempo (fine del 1959) il detto scrittore non era stato ancora implicato in fatti di cronaca a carattere scandalistico e quindi la sua presenza nel cast del film era più che normale, mentre oggi la sua presenza nel film può ritenersi nociva e creare – da parte di chi vede il film – dei sospetti sulla negatività dello stesso. A questo i due autori uniscono le pagine della sceneggiatura di Pasolini che, per spregiudicatezza di linguaggio, eccessiva audacia dell’azione ed inserimenti a carattere politico e sociologico, sono state spontaneamente autocensurate dai registi prima delle riprese. Anche il finale con la morte del bambino come espiazione e catarsi da cui dovrebbe iniziare un ravvedimento dei giovani protagonisti, è stato voluto – contro l’opinione di Pasolini – dagli autori per dare un preciso significato morale alla storia; c) Il film è stato girato, soprattutto nelle scene dell’incontro dei giovani con le tre donne, con una certa verecondia di linguaggio e con una certa astrazione che permette di uscire dal clima troppo realistico e quindi troppo decisamente sessuale. A questo proposito i due autori fanno presente che la scena della coppia in macchina – senza dubbio assai audace – non era stata mai montata nel contesto del film, ed è stata inserita successivamente in quanto la società distributrice – per contratto – impose l’aggiunta di detta scena; d) Gli autori, considerando valide le obiezioni della prima commissione di censura, hanno deciso di togliere: 1) La scena della coppia in macchina (quella più spinta); 2) La scena in cui una delle donne fa vedere troppo evidentemente l’anello e la battuta successiva; 3) La scena in cui il giovane con la barba e la donna ballano con i bacini troppo a contatto; 4) La scena finale della spogliazione del giovane invertito, in cui questo appare seminudo, e ciò per non dare adito al sospetto di eccessivo compiacimento sadico; e) Hanno infine posposto a un altro episodio la scena della danza su musica di Bach, che avveniva subito dopo la spogliazione del giovane, cercando con ciò di togliere quel carattere di apparente commento pietoso all’omosessualità che poteva essere inteso con il precedente montaggio.

 

La Commissione d’Appello, formata dalle sezioni II e IV (tra i membri il regista Antonio Racioppi), revisiona il film il 9 aprile 1963, ed esprime nuovamente parere negativo, invitando la produzione ad apportare tutte le modifiche già richieste in I grado. Cosa che puntualmente avviene: la nuova edizione di Milano Nera è presentata in revisione il 19 luglio, e oltre ai tagli nelle scene già elencate presenta vistose modifiche nel doppiaggio (le sottolineature sono nell’originale):

 

1) «Ches chi l’è vino del menga?» − Frase eliminata.

2) «Sii vegnù a rump i ball, culatoo» sostituita con: «Sii vegnù a rumpi scatul, mammul».

3) Eliminati tutti i riferimenti ai mariti, in modo che le donne snob non appaiano sposate.

4) Eliminata inquadratura nella quale Clara continua a rigirare l’anello. Cambiata battuta per la quale non risulta sposata.

5) Sostituita parola marito con amichetto.

6) Accorciato il ballo della trottola (parte finale).

7) Abolita battuta «Long de ball e curt de vista».

8) Tagliate due inquadrature sequenze donne con i ragazzi.

9) Ridotta sensibilmente scena abbraccio macchina.

10) Eliminata frase: «Rump no i ball, contessa».

11) Ridotta scena invertito denudato (parte finale).

12) Riunione intellettuali spostata (allo scopo di spezzare l’atmosfera di omosessualità).

13) Battuta «Che la Madonna ci abbia dato la bidonata?» sostituita con «Io non credo che abbiamo preso la bidonata».

 

Milano Nera riceve il nulla osta di proiezione in pubblico il 20 luglio 1963, con il divieto di visione ai minori di 18 anni. Esce nelle sale in 25 copie: stavolta il nome di Pasolini è bene in evidenza sui manifesti. Fa comodo. Non che serva a qualcosa: il (modestissimo) film di Rocco e Serpi resta in cartellone appena sei giorni e poi sparisce di circolazione. Inizialmente gli viene negato l’accesso alla programmazione obbligatoria e ai benefici di legge, in quanto «per la deficienza del montaggio e della sincronizzazione e per il diffuso dilettantismo della recitazione non presenta quei requisiti minimi di idoneità tecnica e artistica richiesti»; in seguito al ricorso della Mediolanum Film il verdetto di I grado verrà ribaltato.

Il film scompare senza lasciare traccia fino a metà degli anni ’90, quando il ritrovamento del copione originale – spedito da Pasolini alla rivista «Filmcritica», con cui il poeta collaborava, con l’autorizzazione a pubblicarne alcune scene, e lasciato a prendere polvere negli archivi prima di essere riesumato – fa rinascere l’interesse nei confronti di Milano Nera.

Pucci Fallica e Uguccione si rifanno vivi, raccontano al «Corriere della Sera» la genesi di La Nebbiosa, rivendicano con orgoglio la loro parte nella stesura dei dialoghi, svelano particolari pruriginosi (Uguccione: «Una notte dormimmo in macchina, dietro un cimitero. Tentò un garbatissimo approccio, senza insistere al mio rifiuto. Gli dissi: “Mi piacciono le ragazze, ma se un giorno cambiassi idea sarai il primo a saperlo”»10). Milano Nera – grazie anche a quel titolo che consente di spacciarlo per un poliziottesco ante litteram – viene finalmente riesumato in DVD nei primi anni Duemila da parte della Alan Young: ma la copia digitale, malgrado quanto dichiarato in copertina («restaurato dal negativo originale e integrale»), non rispecchia né la versione primigenia né la vulgata, bensì quella derubricata per lo sfruttamento televisivo, passata in censura il 9 settembre 1997 (n. 91725) e inficiata da ulteriori tagli per complessivi 10,35 m:

 

1) Eliminata battuta detta da uno dei ragazzi alla donna snob: «Si spogli tranquillamente».

2) Alleggerita sequenza in cui si vede uno dei protagonisti versare dello spumante in bocca alla donna che soggiace in modo equivoco.

3) Ulteriore alleggerimento scena dell’abbraccio tra i due innamorati.

 

Quale sorte per gli altri protagonisti di quella balorda avventura cinematografica? Tresoldi prenderà altre strade, e così Serpi, mentre Gian Rocco firmerà nel 1967 il western Giarrettiera Colt, girato a Oristano, con protagonista Nicoletta Machiavelli: uno dei tanti film inglobati e digeriti dall’onnivoro blob tarantiniano Kill Bill. E i due teddy boys pasoliniani, un tempo così a disagio nei salotti-bene? El Lobo, già leader del complesso Paolo e i Nordisti, diventerà presidente dell’Associazione Commercianti di corso Buenos Aires; ancora più paradossale, se possibile, la parabola di Giuseppe Pucci Fallica. Nel futuro dell’ex ribelle c’è un posto da dirigente Fininvest, ramo televendite, granello di quello stesso sistema che ha maciullato Milano Nera e altri film legati al nome di Pasolini.

Ancora una volta, con agghiacciante lucidità, la profezia pasoliniana si è avverata, e l’omologazione paventata ha compiuto il suo corso. Il repubblichino di Salò è diventato manager incravattato.

 

 

1 Pier Paolo Pasolini, Cronaca di una giornata, «Paese Sera», 2-3 dicembre 1960, in Romanzi e racconti I, Mondadori, Milano 2006, p. 1585.

2 Ivi.

3 Pier Paolo Pasolini, La colpa non è dei teddy boys, «Vie Nuove», n. 4, 10 ottobre 1959; in

4 Cit. in Giangiacomo Schiavi, La Milano segreta di Pasolini, «Corriere della Sera», 28 luglio 2007.

5 Elisabetta Rosaspina, Noi ragazzi di Pasolini nei trani a gogò, «Corriere della Sera», 14 febbraio 1996.

6 Ivi.

7 Alberto Piccinini, Prefazione, in Pier Paolo Pasolini, La Nebbiosa, Il Saggiatore, Milano 2013, p. 15.

8 Pier Paolo Pasolini, Puzza di funerale, «Reporter», 16 febbraio 1960.

9 Dal canto suo, lo stesso Pasolini aveva scartato un buon numero di titoli prima di approdare a La Nebbiosa: negli appunti originali figurano La rovina della società, La ballata del Teppa, La notte del Gogna, Il Rospo si diverte, I romanici, I goti, La polenta con le sevizie; Nico Naldini aggiunge al lotto anche l’evocativo Polenta e sangue.

10 Rosaspina, Noi ragazzi di Pasolini nei trani a gogò cit.

 

 

n. 40322

Timida bambina

Italia 1963, col.

 

R: non indicata.

Prod: S.I.F. Spa.

Revisione: 3.5.1963 (75 m), respinto: 10.5.1963.

 

Cortometraggio a carattere musicale in cui una ballerina esegue un parziale spogliarello, mentre un’orchestra suona una canzone dal titolo Timida bambina.

 

Presentato in revisione il 3 maggio 1963, è bocciato quattro giorni dopo «per la volgarità e scurrilità delle scene di spogliarello offensive del buon costume». La censura ne vieta anche l’esportazione.

 

 

n. 40891

Sexy che scotta

Italia 1963, col.

 

R: Franco Macchi; comm: Paolo Carletti; fo: Romolo Garroni; mt: Liliana Mezzogori; mu: Lallo Gori.

Int: Noel Sheldon e il suo balletto, Gisella O’Brien, Franco Leri e Gisella Goldmister, Milly, Helga Hagen, Diana Rabito, André Morel, Beryl Cunningham.

Prod: Globe Film.

Revisione: 31.7.1963 (2403 m), respinto: 2.8.1963.

Riedizione: 5.8.1963 (2064 m), approvato: 8.8.1963 (n.o. 40891 - v.m.18).

 

Balletti, numeri di varietà e spogliarelli ripresi in vari locali notturni di oriente e occidente.

 

Tipico documentario sexy di inizio anni ’60, fatto di balletti e casti spogliarelli, spacciati come filmati reali ripresi nei locali notturni di mezzo mondo, ma in realtà girati in studio nei teatri di posa dell’Istituto Luce (compaiono anche l’attrice C.S.C. Diana Rabito e Beryl Cunningham, futura moglie del regista Piero Vivarelli). Opera prima e unica del misconosciuto Franco Macchi (forse un alias del produttore Fabrizio Gabella, autore del coevo Questo mondo proibito), Sexy che scotta venne escluso dal circuito delle sale parrocchiali a causa della valutazione del CCC, che gli affibbiò la temuta E («film gravemente immorale e nocivo per ogni pubblico»):

 

Film osceno, forse non secondo la legge, ma certo secondo la morale cattolica che dichiara apertamente immorale l’esibizione voluta, ostentata e insistita, senza neppure il paravento dell’arte, di nudità quasi integrali, di atteggiamenti gravemente morbosi e provocanti, di un commento che dileggia con fatua superiorità ogni pudore e ogni senso morale. Nella completa condanna del film, sempre secondo la morale cattolica, è necessario indicare le gravi responsabilità di chi l’ha ideato, di chi l’ha prodotto, di chi vi ha collaborato e di chi lo lascia circolare.

 

Presentato in censura il 26 luglio 1963, Sexy che scotta viene bocciato a causa di scene «offensive del buon costume». La Globe Film, la società di produzione fondata da Fabrizio Gabella e Giovanni Sciscione, rinuncia all’appello, e appronta direttamente una nuova versione, priva delle sequenze più esplicite.

Il 2 agosto 1963 arriva al Ministero la seconda edizione di Sexy che scotta, accompagnata da una lettera scritta da Henry Lombroso (amministratore e rappresentante legale della società) in cui si evidenziano le modifiche apportate:

 

2° rullo: nel ballo di Gisella abbiamo eliminato (n. 4 tagli) tutte le pose e i movimenti lascivi; 4° rullo: nella sequenza della birreria sono stati eliminati alcuni primi piani di seni procaci [sic!] e numerose scene riguardanti amplessi e carezze lascive. Inoltre il ballo della ragazza è stato ridotto alla metà, eliminando la parte più orgiastica (n. 7 tagli); 5° rullo: nella sequenza del prestigiatore abbiamo eliminato le tre zoommate sulla ragazza e due scene di seni in primo piano (n. 5 tagli). È stata eliminata per intero tutta la sequenza relativa al campo dei nudisti; 6° rullo: Nella sequenza dello spogliarello del dondolo abbiamo eliminato la scena in cui la ballerina, sdraiata per terra, si accarezza il basso ventre; 8° rullo: nella sequenza dello spogliarello nella taverna di Hong Kong sono state eliminate tutte le scene in cui apparivano gesti osceni, nudità eccessive e carezze al basso ventre; 10° rullo: nella panoramica generale finale abbiamo eliminato tutte le nudità eccessive che vi apparivano. Con la speranza che detti tagli possano rendere accettabile il film, distintamente salutiamo.

 

Revisionato in data 5 aprile 1963, Sexy che scotta ottiene il nulla osta di proiezione con il divieto di visione ai minori di 18 anni «in quanto il contenuto di molte scene del film può turbare la sensibilità dell’età evolutiva dei minori stessi».

 

 

n. 40903

Le tentazioni della notte (Les Nus du désir/Tokyorama/Tokyo no yoru)

Giappone/Francia 1963, col.

 

R: Jacques Guymont, Reiji Ohno (altre fonti: J. Hashida).

Prod: The United Motion Pictures (Tokyo)/Pathé Overseas (Parigi).

Revisione: 31.7.1963 (2587 m), respinto: 3.8.1963.

Riedizione: 23.8.1963 (2497 m), respinto: 5.9.1963; approvato: 5.11.1963 (n.o. 41065 - 2311 m - v.m.18).

 

Michiko, una ragazza di Tokyo in principio di coricarsi, sogna a occhi aperti il mondo di gioia a cui non può partecipare. È il pretesto per una carrellata nei night club della capitale giapponese e nel resto del mondo, da Honolulu a Las Vegas, da Rio a Istanbul, da New Delhi a New York, e infine di nuovo a Tokyo, dove vengono mostrati alcuni aspetti della vita giapponese odierna.

 

Presentato dalla Panta Cinematografica in versione doppiata il 21 luglio 1963 e revisionato il 2 agosto dalla Commissione (che sente il legale rappresentante della compagnia Mario Saragò), Le tentazioni della notte – ennesima collezione di spogliarelli in locali notturni – è respinto all’unanimità in quanto palesemente contrario al buon costume, poiché «in massima parte costituito da numeri di varierà la cui caratteristica essenziale è una intollerabile oscenità, fine a sé stessa, nei nudi e nelle movenze» e che lo stesso commento «è in alcuni punti licenzioso».

La Panta rinuncia all’appello per ripresentare (il 23 agosto) una nuova edizione riveduta e corretta, sforbiciando dieci dei numeri contenuti nel film, per un totale di 97 m, con alcune modifiche al commento. In dettaglio:

 

Rullo I: «Strip-”Frappé”» – sono stati effettuati i seguenti 3 tagli: 1) Dall’inizio con il primissimo piano del sedere agitantesi; 2) movimento del seno scoperto e visibile attraverso le braccia; 3) movimento frenetico del dorso con visione del seno scoperto. Rullo II: «Danzatrice hawaiana» – è stato effettuato il seguente taglio: 1) frenetico movimento del dorso. «Danza della pantera» 1) Taglio dal momento in cui si alza con il seno coperto dalle sole coppette fino a quando spara il colpo di fucile. Rullo III: «Strip-”Il giuoco delle carte”» – Sono stati effettuati i seguenti tagli: 1) primo piano di un seno peraltro ricoperto da una coppa; 2) dialogo soppresso: «Finché non ho visto i tuoi»; «Carnevale a Rio»: 1) Primo piano della danzatrice che si è tolto il reggiseno; a partire da subito dopo e fino al momento che [sic!] si inchina a raccogliere la testa di gesso. Rullo IV: «Strip-”Velo”» – è stato effettuato il seguente taglio: 1) Scena ravvicinata in cui la danzatrice esegue movimenti provocanti; «Strip-”False giapponesi”»: 1) finale in cui le due danzatrici appaiono col seno in coppette; «Contorsionista» – è stata eliminata la battuta di dialogo: «Beh… saremo all’antica ma questi sono i capovolti che noi preferiamo…». Rullo V: «Strip-”La poltrona”» – è stato eliminato quanto segue: 1) scena in cui si toglie il reggiseno, peraltro coperto da coppe, fino alla fine della scena. Dialogo soppresso: «Ha preferito quindi sprecare tutto questo ben di dio, che ora cerca invano il conforto alla propria solitudine». Rullo VI: «Strip-”Frak”» – è stata eliminata la seguente scena: 1) scena dal momento in cui si toglie il reggiseno, peraltro coperto da coppette, fino al momento che [sic!] appare seduta in campo lungo. Rullo IX: «Strip-”Il ragno e la mosca”» – è stata eliminata la seguente scena: 1) scena della visione in profilo del seno nudo della «mosca» (fino al cambio scena).

 

Anche la nuova edizione, visionata il 4 settembre dopo avere ascoltato il responsabile della compagnia, viene bocciata, poiché «nonostante i tagli eseguiti […], alcuni dei numeri di varietà presentati (spogliarelli) sono caratterizzati da nudità e movenze che toccano l’oscenità e, pertanto, sono contrarie al buon costume». La Panta stavolta presenta appello (16 settembre), specificando che in occasione del giudizio di I grado riferito all’edizione precedente, la motivazione non precisava i punti ritenuti inaccettabili; e chiede d’essere udita in Commissione, rivolgendo a quest’ultima «la preghiera di voler indicare con esattezza al suo rappresentante le eventuali scene da correggere, in modo che questi, assistito da un proprio montatore possa compiere immediatamente i tagli alla fine della seduta», così da ottenere il nulla osta senza ulteriori ritardi e conseguenti danni economici.

Per non rischiare, la Panta ha effettuato spontaneamente nuovi tagli, elencati telegraficamente in una comunicazione al Ministero:

 

1) eliminazione numero «Frappè-strip»; 2) Primi piani retro danzatrice pavone; 3) Scena donna pantera su fucile e nuda con due pezzi; 4) p.p. Deris su poltrona e pelle orso; 5) finale strip-«Frak» dal punto seduta su poltrona e p.p. strip su sofà; 6) Strip-«Velo»: scena brache e seno scoperto; 7) Strip-«Giuoco»: scena retro scoperto seduto su carte; 8) False giapponesi: scena che [sic!] alzano ombrellino, p.p. retro; 9) Danza acrobata: p.p. gambe divaricate; 10) p.p. retro danzatrice frenetica; 11) Danza «Rio»: scena retro p.p. verso finale; 12) Strip su sedia: finale dal punto che [sic!] tolto reggiseno si gira; 13) Ragno e la mosca: seno p.p. «ragno» e p.p. «mosca» (donne) e scena ragno sdraiata per terra con gambe divaricate.

 

Riunitasi il 28 ottobre, la Commissione d’Appello ritiene a maggioranza di ammettere il film, così come esso risulta dai tagli effettuati, alla programmazione in pubblico col divieto ai minori di 18 anni.

 

 

n. 40905

I piaceri proibiti

Italia 1963, b/n

 

R: Raffaele Andreassi; s: Callisto Cosulich; sc: Callisto Cosulich, Ottavio Jemma, Raffaele Andreassi; fo: Giuseppe Aquari; mu: Piero Umiliani.

Int: Gina Mascetti, Giuseppe Prossimo, Armando Nanni, Liliana Palazzo, Anna Petti, Rosetta Bizzi.

Prod: Pubbli Italia.

Revisione: 31.7.1963 (3113), respinto: 7.8.1963.

Riedizione: 23.9.1963 (2607 m), approvato: 1.10.1963 (n.o. 41252).

 

Film a episodi: 1) «Il giorno più felice»: una donna disinibita si finge inesperta per fare rivivere a un vecchio vedovo l’emozione della prima notte di nozze; 2) «Il treno per il sud»: una ragazza in viaggio verso la Calabria ricorda le prime esperienze nelle grandi città; 3) «Incontro di notte»: un giovane cliente fugge dall’appartamento di una prostituta quando si accorge che la donna tiene con sé un bambino; 4) «La moglie»: un ingegnere invita in casa una prostituta e pretende che reciti la parte della moglie lontana; 5) «Le fotografie»: una donna finita sulla strada e costretta dal marito a non vedere i figli, assolda un paparazzo. Attorniata da centinaia di fotografie dei suoi bambini, ha la sensazione di averli sempre vicino a sé; 6) «Il padre»: recatosi a Roma a trovare la figlia, un anziano meridionale scopre che la ragazza fa la vita. Non avendo la forza di reagire, finisce col chiederle un prestito; 7) «Metamorfosi»: un giovane professore di matematica non trova migliore evasione di un’anziana prostituta per sfogare le sue nevrosi e rendere partecipe qualcuno del suo fallimento umano e famigliare; 8) «La borsetta»: una vecchia prostituta alle prese con gli scherni di giovani ricchi e ubriachi, al termine di una festa in villa.

 

Prodotto dalla Pubbli Italia di Lucio Marcuzzo e ideato dal critico cinematografico Callisto Cosulich, I piaceri proibiti (il titolo di lavorazione era Storie proibite) è un film-inchiesta sul mondo della prostituzione, diretto dal giornalista e poeta Raffaele Andreassi e pubblicizzato al tempo come «la più vera indagine sul mondo delle donne perdute».

Presentato al Ministero in una copia della durata di circa 114’, viene respinto in data 6 agosto 1963: «la Commissione di Revisione, a maggioranza, considerate: a) le sequenze disgustose ed oscene dell’episodio “Il treno per il sud”; b) le sequenze licenziose e sboccacciate [sic!] in cui sono descritte le resistenze della prostituta nell’episodio “Incontro di notte”; c) la nudità della modella nell’episodio “La fotografia”; d) la immoralità beffarda ed amara nell’episodio “La borsetta”, ritiene il film contrario al buon costume».

Marcuzzo rinuncia all’esame di appello e appronta direttamente una nuova copia del film, che presenta in revisione in data 23 settembre. Le scene modificate comprendono:

 

1) Episodio «Il treno per il sud»: apportato il taglio della scena quando l’uomo scopre la donna, eliminando la totale nudità posteriore; 2) Episodio «Il vagito»: eliminata la parola «mignotta» e reso incomprensibile il «vaffa…»; 3) Episodio «La borsetta»: a) invitati alla festa che si allontanano; b) prostituta stesa sul tavolo; c) primo piano prostituta stesa sul tavolo; d) uomo animatore della festa che spoglia prostituta; e) tutta la sequenza che si accanisce e beffeggia la prostituta stesa sul tavolo; f) tagliati circa 60 metri del finale, dal primo piano della donna fino al tunnel illuminato. Completamente rimosso, infine, l’episodio Metamorfosi, della durata di circa 15’ (355 metri).

 

Revisionato il 30 settembre 1963 I piaceri proibiti è approvato senza tagli, ma col divieto di visione ai minori di 18 anni.

Il 3 marzo 1982 Marcuzzo chiede la revoca del divieto, dichiarando di aver «corretto e tagliato sequenze dubbie» e la sostituzione del titolo in L’amore povero, che era quello originariamente pensato dagli autori1. La richiesta resta però inascoltata.

 

 

1 Ricorda Cosulich: «[Il film] doveva andare a Venezia, ma venne scartato perché nel frattempo il produttore l’aveva reintitolato I piaceri proibiti. L’aggettivo “proibito” era allora di moda nei titoli dei nostri film». Elisa Grando, Massimiliano Spanu (a cura di), Il coraggio della cinefilia. Scrittura e impegno nell’opera di Callisto Cosulich, EUT, Trieste 2012, p. 129.

 

 

n. 40924

Criminal Sexy (Jungle Street)

Gb 1960, b/n

 

R: Charles Saunders; s: da un racconto di Guido Coen; sc: Alexander Doré; fo: Walter J. Harvey; mt: Peter Bezencenet; mu: Harold Geller.

Int: David McCallum (Terry Collins), Kenneth Cope (Johnny), Jill Ireland (Sue), Brian Weske (Joe Lucas), Vanda Hudson (Lucy Bell), Edna Doré (Mrs. Collins).

Prod: Theatrecraft.

Revisione: 18.7.1963 (2270 m), respinto: 8.8.1963.

Riedizione: 30.8.1963 (2253 m), approvato: 4.9.1963 (n. 41103 - v.m.18).

Homevideo: Odeon Entertainment (DVD, Gb).

 

Il delinquentello londinese Terry Collins, innamorato della spogliarellista Sue, propone all’amico Johnny, appena uscito di galera, di scassinare la cassaforte del locale dove Sue si esibisce. Aperta la cassaforte, Terry tramortisce il complice, si prende tutto il denaro e chiede a Sue di fuggire insieme. Arrestato dall’ispettore Bowden, Johnny fa il nome di Terry. Bowden circonda la casa di Sue, dove Collins si è rifugiato: costui tenta la fuga attraverso la camera di un altro inquilino, uccidendolo accidentalmente. Finirà sulla forca.

 

Presentato in revisione dalla Taurus Cinematografica, il film di Saunders descrive con toni scabri e realistici le vicende di un delinquentello (David McCallum, all’epoca marito della protagonista femminile Jill Ireland, che poi sposerà Charles Bronson) nei bassifondi londinesi. Il titolo italiano, Criminal Sexy, ne enfatizza la componente pruriginosa, ammiccando ai coevi reportage del periodo. E difatti la IV sez., in data 8 agosto, boccia la pellicola non per la tematica violenta, bensì, si legge nel verbale, «per numerose scene di spogliarello molto provocanti con esposizione di nudità contrarie al buon costume»: uno dei primi esempi del mutato orientamento dei censori dopo la l. n. 161/1962.

Salvatore Amico della Taurus rinuncia all’appello (22 agosto) e ripresenta il film in una nuova versione in data 30 agosto, con una serie di sostituzioni e tagli:

− I spogliarello: sostituzione di tutta la parte centrale e finale.

− IV spogliarello: sostituzione e taglio di tutta la parte centrale e finale.

− V spogliarello: sostituzione di tutta la parte finale.

Stavolta la Commissione esprime parere favorevole al nulla osta, con divieto ai minori di 18 anni «per la violenza e morbosità di molte scene e sequenze che possono turbare la particolare sensibilità dell’età evolutiva».

 

 

n. 40974

Gli imbroglioni

Italia/Spagna 1963, b/n

 

R: Lucio Fulci; s, sc: Mario Guerra, Vittorio Vighi, Castellano e Pipolo [Franco Castellano, Giuseppe Moccia], Lucio Fulci; fo: Alfio Contini, Tino Santoni; mu: Carlo Rustichelli; mt: Gisa Radicchi Levi.

Int: Walter Chiari, Antonella Lualdi, Raimondo Vianello, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Dominique Boschero, Aroldo Tieri, Luciana Gilli, Mario Scaccia, Umberto D’Orsi, Xenia Valderi, Alberto Bonucci, Pietro De Vico, Lucia Modugno, Margaret Lee, Claudio Gora, Camillo Mastrocinque, Pepe [José] Calvo, José Luis López Vázquez, Seyna Seyn, Fanfulla, Margaret Rose Keil, Oreste Lionello, Maria Pia Luzi, Stefania Sandrelli.

Prod: Produzioni D.S. (Roma) / Tecisa Film (Madrid).

Revisione: 8.8.1963 (2648 m), respinto: 10.8.1963.

Riedizione: 31.8.1963 (2442 m), approvato: 13.9.1963 (n.o. 40974).

Homevideo: Surf/Cecchi Gori (DVD, Italia).

 

Un pretore deve giudicare una serie di buffi casi: due imbroglioni siciliani cercano di piazzare patacche e disturbano i comizi; un procuratore di calcio geloso della moglie, che ha fatto invaghire un collega, compromette un affare; una suora ricamatrice ha colpito un funzionario della guardia di finanza; due fidanzati sono succubi dell’avvocato di lui e della madre di lei, al punto da rompere il fidanzamento.

 

Aggiornamento di un classico canovaccio della commedia italiana (Un giorno in Pretura) piegato alla moda del film a episodi, Gli imbroglioni – affidato più alla verve degli interpreti che a una sceneggiatura povera di trovate comiche – ha impreviste noie con la censura. Presentato il 7 agosto 1963, il film di Fulci viene revisionato e respinto il giorno seguente: per la Commissione di I grado «contiene numerose scene contrarie al buon costume; inteso questo non solo nel senso ristretto di pudore o decenza sessuale, come eccepisce la minoranza, ma necessariamente esteso nella sua concezione costituzionalistica di rispetto ai valori morali consolidati nella tradizione e nell’ordinamento costituzionale italiano, e specialmente nell’episodio contenente la sconveniente parodia della cerimonia religiosa funeralizia e delle litanie dei defunti, mediante deformazione delle parole che la compongono, sostituendovene altre di tutt’altro genere».

La sequenza cui si fa riferimento è quella del corteo funebre (nell’episodio scritto da Castellano e Pipolo e interpretato da Walter Chiari): per essere presente al funerale di una zia della fidanzata (Luciana Gilli), il protagonista ha rinunciato ad andare allo stadio per vedere la partita Italia-Inghilterra, ma si è attrezzato con un auricolare collegato a una radiolina nascosta, per seguire almeno la radiocronaca. Gli altri uomini, che si sono accorti dello stratagemma, si stringono attorno a Chiari per ascoltare anch’essi la partita, lasciando le donne sole in testa al corteo; mano a mano che la partita procede i brusii aumentano (la concessione di un  calcio di rigore viene ripetuta di bocca in bocca, appunto come se fosse una litania funebre), fino a scoppiare in scomposta esultanza al momento del gol italiano, cui partecipa anche il cocchiere del carro funebre: i cavalli si impauriscono e fuggono, inseguiti dal corteo, con rimando (che qualche pur pedante esegeta fulciano pare non aver colto) a Entr’acte di René Clair. Inoltre, sempre nello stesso episodio, la Commissione segnala «altre sequenze manifestamente indecenti come la messa in evidenza dell’effetto di ammirazione manifestato dall’attore Walter Chiari al passaggio di procaci bellezze femminili con la vertiginosa elevazione dell’antenna della sua radio portatile e all’esecuzione da parte di tale attore di gesti sconci durante il detto funerale».

Il produttore ripresenta Gli imbroglioni in una nuova edizione il 30 agosto, dopo avere apportato al film e alla presentazione una serie di tagli:

 

1) L’episodio del sogno dell’harem tra Vianello, Tieri e la sig.na Boschero; 2) La scena dell’antenna radio che si alza durante il passaggio delle cinesi sulla spiaggia; 3) Il gesto col braccio di Walter Chiari durante il funerale; 4) Le litanie sia dette da Walter Chiari sia in coro da altri durante il funerale; 5) Il prete che corre davanti al carro alla fine del funerale; 6) La quasi totalità dei baci tra Walter Chiari e la cinese nella scena in cui sono sdraiati sulla spiaggia e nei momenti in cui Walter Chiari e la Gilli non parlano; 7) Alleggerimento del bacio tra Walter Chiari e l’infermiera nella scena dello studio medico prima del funerale.

 

Revisionato il film il 12 settembre 1963, la Commissione esprime parere favorevole alla programmazione in pubblico, senza alcun divieto ai minori. Il buon successo commerciale riportato (oltre 520 milioni di incasso) darà vita a un altro film sulla medesima falsariga, I maniaci (1964).

 

 

n. 40977

90 notti in giro per il mondo

Italia 1963, col.

 

R: Mino Loy; commento: Adriano Baracco; voce: Nando Gazzolo; fo: Floriano Trenker; mt: Daniele Alabiso; mu: Franco Tamponi.

Prod: Documento Film.

Revisione: 30.7.1963 (2680 m), respinto: 9.8.1963.

Riedizione: 12.8.1963 (2421 m), approvato: 23.8.1963 (n.o. 40977 - v.m.18).

 

Carrellata di numeri di locali notturni e curiosità da tutto il mondo.

 

Il film di Mino Loy − montaggio di spogliarelli intervallati da curiosità stile Mondo cane, commentate dalla voce di Nando Gazzolo −, prodotto dalla Documento Film di Gianni Hecht Lucari, non piace alla Commissione di I grado, che lo revisiona il 9 agosto 1963: il parere contrario alla proiezione è motivato «in quanto il film contiene numerose scene di spogliarello molto provocanti con esposizione di nudità contrarie al buon costume». Si citano nel verbale, come esempio, lo spogliarello di Fu Chi Sciò, il «balletto verniciato», lo spogliarello di Lulù Santiago, il balletto della negretta con tamburo, il balletto fantasma, lo spogliarello e l’intervista a Lolita, lo spogliarello amatoriale e, infine, uno spogliarello con riflettore.

La Documento presenta una nuova edizione del film (12 agosto), con tagli per complessivi 128,30 m (4’43” ca). In dettaglio le scene soppresse:

 

1. Lady Fu Chi Sciò: scene in cui la donna appare a seni nudi.

2. Balletto diavoli: scene in cui due ballerine appaiono a seni nudi riprese in piani ravvicinati.

3. Lulù Santiago: scene (3 in tutto) in cui la donna agita i glutei semiscoperti e scena in cui la donna appare a seni scoperti.

4. Lusy: scena in cui la donna è nuda in controluce e agita le gambe alzate.

5. Strip fantasma: scena in cui la donna agita i glutei semiscoperti; scena in cui il fantasma accarezza le donne; scena in cui la donna accarezza se stessa; scena in cui i due ballerini imitano l’atto del coito.

6. Lolita: scena in cui Lolita è nuda di spalle; scena in cui la donna appare a seni scoperti; scena in cui la donna si spoglia rimanendo a seni scoperti.

7. Spogliarello con lampada: scena in cui la lampada illumina i seni e i glutei della donna.

8. Strip d’amatori: scena in cui le donne si spogliano; scena in cui le donne appaiono a seni scoperti; scena in cui le donne, in campo lungo, appaiono nude.

Inoltre, si precisa, «dal film sono state comunque eliminate tutte le scene in cui le ballerine apparivano a seno scoperto e agitando scompostamente i glutei semiscoperti».

Infine, la produzione ha oscurato parzialmente l’inquadratura relativa all’intervista della spogliarellista Lolita.

 

Questa volta la Commissione concede il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni. Nell’aprile 1993 90 notti in giro per il mondo viene ripresentato in revisione da Reteitalia per lo sfruttamento televisivo, con alcuni tagli: l’alleggerimento del balletto di Sherry Young e della sequenza che mostra un combattimento tra un cobra e una mangusta, oltre a ulteriori tagli allo spogliarello di Lolita, per un totale di 10,50 m (21” circa). Nella domanda si fa presente «la vetustà del film, che lo rende superato (sia nei contenuti che sotto il profilo scenico/narrativo) rispetto ai numerosi documentati televisivi realizzati in questi ultimi anni», nonché «le consistenti modifiche apportate al film già nel 1963» e infine «i profondi mutamenti di costume verificatisi nella società italiana in questo sensibile lasso di tempo, con la conseguente evoluzione del patrimonio informativo dei minori degli anni 18».

 

 

n. 41043

Totosexy

Italia 1963, col.

 

R: Mario Amendola; sc: Bruno Corbucci, Giovanni Grimaldi; fo: Alessandro D’Eva; mu: Armando Trovajoli; mt: Jolanda Benvenuti.

Int: Totò (Ninì Cantachiaro), Erminio Macario (Mimì Cocco), Mario Castellani (Guardia carcercaria), Gianni Agus (Ispettore di dogana), Mario Pisu (l’impresario), Mimmo Poli (Galeotto), Franca Polesello, Carmen Aul, Ronnie Aul, Dodò d’Amburg, Laa Baghera, Maria Esther [Ester Masing], Gianni Morandi, Linda Sini, Toni Ucci.

Prod: Incei Film / Cinex.

Revisione: 22.8.1963 (2712 m), respinto: 22.8.1963.

Riedizione: 25.8.1963 (2467 m), approvato: 31.8.1963 (n.o. 41043 - v.m.18).

 

Due ex contrabbassisti improvvisatisi contrabbandieri, Ninì e Mimì, dividono la cella con altri tre detenuti. Ninì sogna donne bellissime, e racconta ai compagni di cella le sue avventure in tutta Europa assieme al compare, e le circostanze bislacche che hanno condotto i due in galera.

 

Come appare palese già dal titolo, Totosexy è un mero pretesto per legare insieme numeri di night club con gli sketch interpretati da Totò e Macario all’interno di un labile canovaccio firmato Corbucci/Grimaldi. Il film viene revisionato una prima volta il 22 agosto 1963, e bocciato in quanto «contiene numerose sequenze di danze provocanti ed esibizioni di parti nude offensive del buon costume, come ad esempio nel primo e secondo spogliarello, in una terza sequenza dove la ballerina resta con i seni coperti solo da un bottone, la scena della donna con la macchina, quella della giapponese e tutto il balletto con le funi».

Il 25 agosto 1963 la Incei Film ripresenta Totosexy in una nuova edizione, cui sono state apportate numerose modifiche per un totale di 253 m (oltre 9’), così elencate:

 

1) sul primo spogliarello eliminazione scene: ragazza di spalle che agita il guanto lungo la bassa schiena – che si toglie il vestito – che si rovescia bicchiere di champagne sul ventre mostrando petto nudo – scena quando si toglie il mantello. 2) nel secondo spogliarello eliminazione scene: ragazza bruna distesa che si agita sopra pelliccia di leopardo – stessa ragazza con petto coperto solo di bottoni – ultima parte dello spogliarello dalla scena Totò e Macario alla scena dei suonatori. 3) balletto dei negri, eliminazione scene primo piano ragazza negra distesa brandina che agita le gambe in aria. 4) spogliarello ragazza bionda auto eliminazione scene: ragazza che con movenze si agita tenendosi all’asta di un lampione – stessa ragazza con i seni coperti solo da bottoni, sola e vicina a Totò e Macario. 5) danza giapponese eliminazione: tutta scena ragazza in bikini con seni coperti solo da fiori. 6) balletto baghera [Laa Baghera, NdA] (funi) eliminazione scena ballerina in piedi con braccia alzate che si aggrappa ad una fune, fino al punto in cui appare in piedi tra le funi un po’ aperte – scena dal punto in cui la stessa è distesa a terra con la faccia nascosta dai capelli, fino al punto in cui è distesa a terra con il ginocchio alzato che si sorregge con le braccia alzate alle funi.

 

La Commissione, in data 29 agosto, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta con divieto ai minori di 18 anni. La Incei rinuncia all’appello.

Totosexy va incontro ad altre noie: il 21 settembre la Procura di Roma ne dispone il sequestro in quanto corpo di reato, per essere stato sottratto al vincolo pignoratizio cui era legato per effetto di ingiunzione dell’ufficiale giudiziario della Corte di appello di Roma.

Il 21 settembre 1992 il film viene derubricato per i passaggi televisivi dopo ulteriori tagli: l’alleggerimento dello spogliarello di una ragazza sul divano e un ulteriore alleggerimento del balletto dei due negri, per un totale di 10,75 m (21”).

 

 

n. 41104

In capo al mondo/Chi lavora è perduto

Italia 1963, b/n

 

R: Tinto Brass; collab. alla r: Franco Arcalli; s, sc: Tinto Brass; dial: Gian Carlo Fusco, Tinto Brass; fo: Bruno Barcarol; mt: Tinto Brass; mu: Piero Piccioni.

Int: Sandy Rebbot (Bonifacio), Pascale Audret (Gabriella), Tino Buazzelli (Claudio), Nando Angelini, Andreina Carli, Gino Cavalieri, Franco Arcalli, Piero Vida, Enzo Nigro.

Prod: Zebra Film.

Revisione: 30.8.1963 (2221 m), respinto: 11.8-2.10.1963.

Riedizione: 6.11.1963 (2213 m), approvato: 21.11.1963 (n.o. 41638 - v.m.18).

Homevideo: Raro (DVD, Italia).

 

Il ventisettenne fannullone Bonifacio, in attesa di ripresentarsi dallo psicanalista di una grande azienda per conoscere il responso sul colloquio d’assunzione che ha sostenuto, girovaga per Venezia, ricordando episodi e sogni di gioventù, ripensando alle domande dello psicanalista e dandovi risposte sincere.

 

Già all’apparizione alla Mostra di Venezia del 1963, dove concorre per il premio Opera Prima, l’opera prima di Giovanni Brass detto Tinto attira su di sé l’attenzione delle autorità. In un dettagliato dispaccio al Ministero dell’Interno, la Prefettura di Venezia menziona «scene pervase di un acceso erotismo che il pubblico ha mostrato di non gradire e che hanno suscitato perplessità negli ambienti cittadini: in una sequenza si vede il protagonista, ragazzo, che si confessa, mentre il sacerdote balbuziente lo accarezza: la scena ingenera nello spettatore il sospetto che il prete possa essere un invertito».

La Prefettura sottolinea poi gli sberleffi di Brass nei confronti dell’esercito e delle autorità:

 

Altre scene si riferiscono alle Forze Armate, verso le quali non solo non viene usato il dovuto riguardo, ma si giunge alla sottile offesa, senza tuttavia cadere nel vilipendio (il regista, che è anche soggettista del film, laureato in legge e figlio di un noto avvocato veneziano, conosce bene i limiti oltre i quali la satira diventa vilipendio). Alcuni giovani in servizio militare appaiono oggetti di graduale incretinimento ed abbruttimento [sic!], dovuto al giornaliero esercizio di quegli adempimenti che la vita militare comporta. Altro quadro di vita militare è uno pseudo, ridicolo generale la cui unica preoccupazione è quella di allevare fagiani per regalarli ai superiori.

 

È l’utilizzo del montaggio in chiave satirica a infastidire, come dimostrano le scene di cui viene fatta l’esegesi nel dispaccio:

 

Il regista […] ha adottato la tecnica […] di mascherare la macchina da presa e far recitare gli attori tra il pubblico ignaro, nonché di inserire nel film, in sede di montaggio, sequenze di documentari. Così un plotone di soldati delle Forze Armate al comando di un Ufficiale, si porta in Piazza S. Marco per la cerimonia dell’alzabandiera, che, come di consuetudine, viene tenuta nelle giornate festive; il plotone si schiera e l’Ufficiale ordina «tromba». A questo punto la scena cambia, la tromba suona il rancio e si vedono in Piazza S. Marco i piccioni mangiare il miglio, quasi che il picchetto rendesse onore al pasto dei volatili. La sequenza della Regata Storica, nella quale si vede il Presidente della Repubblica, On.le Segni, in atto di salutare, ed alcuni Generali, tra cui uno dell’Aeronautica, uno dei Carabinieri e uno della Guardia di Finanza, pur non risultando offensiva verso l’alta Personalità è comunque irriguardosa, in quanto, in sede di montaggio, l’atto di saluto del Presidente risulta rivolto al protagonista che immagina di tagliare vittorioso il traguardo della regata.

 

Nulla di tutto ciò, infatti, aveva turbato la Direzione generale al momento di esaminare il copione in via preventiva (18 ottobre 1962): pur notando lo svolgimento assai dissimile da Il posto di Olmi, si sottolineava lo «schema tra il favolismo e il surrealismo […] condito con commenti verbali, salaci e ironici, crudi e “realistici”, ritmati […] in vernacolo veneziano», senza muovere però alcun appunto al film.

Preceduto dal preoccupato bollettino della Prefettura, In capo al mondo è presentato in censura il 30 agosto ’63 dalla Zebra Film di Moris Ergas, e viene revisionato il 10 settembre: la Commissione, sentito il regista, esprime parere contrario alla programmazione in quanto il film «contiene scene e sequenze contrarie al buon costume, tra cui 1) la scena dell’uomo che si butta sopra la donna dietro la siepe presso la spiaggia; 2) Gabriella seminuda in un amplesso amoroso con Bonifacio; 3) gli stessi a letto in atteggiamento di amplesso; 4) atteggiamenti provocanti di donne seminude con relativi palpeggiamenti nel casotto-salotto». Da notare come non si faccia alcun riferimento né alla scena della confessione né all’offesa alle forze armate, quelle che avevano suscitato le preoccupazioni della Prefettura…

In seguito al ricorso presentato da Ergas il 19 settembre, la Commissione d’Appello, formata dalle sezioni I e VIII, si riunisce il 1° ottobre. E, ascoltati Ergas e Brass e «dopo opportuna discussione», conferma a maggioranza il giudizio di I grado, ribadendone i motivi. Ma non basta: essa rileva inoltre «che il film, il cui titolo originario era Chi lavora è perduto, oltre ad essere offensivo del buon costume sessuale è altamente offensivo del buon costume morale e sociale, particolarmente previsto nella Carta Costituzionale perché appare film programmaticamente distruttore di tutti i valori morali e spirituali, antisociale [e] scurrile nel linguaggio».

Il film viene ripresentato col titolo Chi lavora è perduto, in data 6 novembre 1963. La produzione ha effettuato una serie di tagli: oltre alle scene menzionate dalla Commissione di I grado, è stata eliminata anche parte della scena del confessionale. Sono state aggiunte altre sequenze di sola musica in compensazione. La IV sez., che revisiona la pellicola il 20 novembre, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta con divieto ai minori di 18 anni «per la ricorrenza di scene erotiche».

Nel marzo 1979 Chi lavora è perduto è ripresentato in revisione ai fini della programmazione televisiva: «nella nuova edizione sono state sostituite le scene a letto e al mare tra Gabriella e Bonifacio eliminando così i dettagli sessuali della precedente edizione», si legge nella documentazione. La Commissione esprime parere favorevole al nulla osta con divieto ai minori di 14 anni «per la rappresentazione di scene d’amore a letto e la particolarità della tematica».

 

 

n. 41780

Sexy Show/Carosello di notte

Italia 1963, col.

 

R: Elio Balletti; s, sc: Elio Balletti; fo: Angelo Baistrocchi; mu: Marcello Gigante; mt: Renato Caldonazzo; narr: Nico Rienzi.

Int: Maria Grazia Buccella, Annie Gorassini, Rita Himalaya, Susanne Loret, Lilly Parker, Erno Crisa, I Brutos, Duo Harlem, Fernando Rago e il suo balletto, Balletto Casino de Paris, Jean Clair, Umberto Zuanelli, Sergio Endrigo.

Prod: Vale s.r.l.

Revisione: 26.11.1963 (2331 m), respinto: 6-18.12.1963.

Riedizione: 31.1.1964 (2210 m), respinto: 10.1-14.2.1964.

III edizione (Carosello di notte): 10.3.1964 (2114 m), respinto: 17.3.1964; approvato: 27.3.1964 (n.o. 42474 - 2105 m - v.m.18).

 

Scorribanda nei locali notturni italiani, con riprese di balletti, spogliarelli e numeri di varietà.

 

Solita carrellata di spogliarelli e numeri di varietà nel tipico stile dei documentari sexy degli anni ’60. Realizzato in appena tre settimane di riprese dallo scenografo Elio Balletti sotto la copertura finanziaria della Vale s.r.l. di Vincenzo Petti e Valerio Valeri, Sexy Show è uno dei film più ostracizzati dalla censura. Presentato in revisione il 26 novembre 1963, è respinto a maggioranza in data 6 dicembre. Il referto, siglato dal sottosegretario di Stato Ruggero Lombardo, riporta: «tutto il film – fatta eccezione per i balletti e il numero dell’acrobata – è una sequenza ininterrotta di scene, atteggiamenti, movenze sconce e lussuriose fini a sé stesse, che sono decisamente contrarie al buon costume nel senso più assoluto».

Dello stesso avviso la Commissione d’Appello, che, riunitasi in data 17 dicembre, scrive, sfoggiando una prosa a sprezzo del ridicolo: «Trattasi di immagini ben definite lussuriose, che non evidenziano soltanto appetitose nudità femminili, ma suscitano con il loro dinamismo suggestivo accese emozioni sessuali, e si dirigono agli istinti sessuali degli spettatori accentuandone i più volgari appetiti». E concludendo: «è pertanto da escludere che tale film possa essere proiettato in pubblico».

La produzione ne appronta una nuova versione, priva dei contenuti più scabrosi, e la presenta di nuovo al Ministero in data 3 gennaio 1964. Per ovviare al taglio di «circa 202 metri» (7’21’’) è stato inserito nuovo materiale (92 m), descritto nella documentazione annessa come «controcampo pubblico e scena dei pirati». Nonostante le modifiche apportate il giudizio della Commissione non cambia, e la pellicola è nuovamente bocciata in I grado e in appello (10 gennaio 1964 e 14 febbraio 1964). Il verbale definitivo di condanna riporta: «di accettabile non vi sono che le scene relative ai balletti coreografici argentino e spagnolo, allo sketch umoristico dei “cinque brutos”, all’esibizione dell’acrobata contorsionista, alla sequenza relativa alla lotta fra pirati. Tutto il resto è sesso e lussuria, rivolta all’eccitamento dell’erotismo degli spettatori, il che, d’altra parte, è manifestato, oltre che dal commento, anche dalle frasi della presentazione che eccitano fin dal primo momento la curiosità e le aspettative morbose degli spettatori».

Vincenzo Petti, malgrado le quattro bocciature collezionate dal film, non demorde e appronta un’ulteriore versione, rititolata Carosello di notte. Nella lettera di presentazione, il produttore sottolinea che «il film è stato da noi rielaborato con lo scopo di eliminare tutte quelle scene che potessero offendere la morale» e si dilunga nella descrizione delle modifiche:

 

sono stati tagliati integralmente n. 4 sketch di spogliarelli per complessivi metri 500 c.a.; varie scene della Joan Clair (ragazza con divano) sostituite con varie inquadrature di pubblico. Tagli apportati al numero della Buccella (Charlot) sostituiti con varie inquadrature di Charlot; tagli apportati sul numero giallo (Susanne Loret e Erno Crisa) sostituiti con altre inquadrature di scale e dettagli vari. Sul numero del pittore con la modella è stato fatto un taglio netto di circa metri 60 lasciando così la prima parte ed eliminando tutta la parte finale. Vari tagli sulla scuola di strip-tease eliminando i punti più scabrosi dello spogliarello dell’uomo. È stata tolta la parte finale dello sketch della cameriera, facendo sì che il numero termini non appena si toglie il vestito, eliminando così il resto dello spogliarello; taglio sul finale dei 5 brutos che elimina l’inchino finale di uno dei 5 brutos con le spalle rivolte al pubblico. Vari tagli apportati allo sketch di Rita Himalaya che sono stati sostituiti da varie inquadrature di statuine.

 

I tagli, conclude il produttore, «raggiungono un metraggio complessivo di 700 metri [25’ 31’’] circa che sono stati reintegrati dall’inserimento di alcuni nuovi sketch.»

La Commissione, revisionata l’opera in data 16 marzo e sentiti i rappresentanti della produzione, non muta avviso: «per quanto il film presenti – rispetto alle precedenti edizioni dal titolo Sexy Show – delle sensibili modifiche, sia attuate attraverso tagli, sia attraverso l’inserimento di qualche scena nuova, esso conserva, purtuttavia, parecchie sequenze di spogliarelli e, comunque, di immagini, di movenze e di atteggiamenti lussuriosi, rivolti esclusivamente all’eccitamento del pubblico».

La Commissione d’Appello, riunitasi invece in data 23 marzo 1964, esprime parere favorevole alla concessione del nulla osta, ma a patto che vengano eliminate:

 

1) ultima parte della scena «Ragazza sul divano»; 2) il primo piano della donna davanti al buco della serratura nella scena di Charlot e della ragazza che si spoglia; 3) la parte finale della scena della scuola di spogliarello, al fine di non far comprendere che la maestra di spogliarello è un uomo

 

per complessivi 95 m (oltre 3’). La produzione dal canto suo assicura che tutti i tagli «saranno apportati sul negativo del film e su tutte le copie che saranno messe in circolazione», e la pellicola riceve finalmente il via libera.

 

 

n. 41886

Parigi calda/Le calde notti di Parigi (24 heures d’un Américain à Paris)

Francia 1963, col.

 

R: José Benazeraf; sc: José Benazeraf; fo: Alain Levent, Alain Derobe; mt: Georges Marschalk; mu: Louiguy [Louis Guglielmi].

Int: Dick Randall (Dick), Béatrice de l’Étang, Poupée La Rose, Jessica Rubicon, Dodo de Hambourg, Véronika Baum, Roberto Talamo, Marina Rafaela, Pamela Holhouse, Benen Campbell, Claudine Hogleenel, Nino Ferrer, Chantal Delor.

Prod: Les Productions du Chesne.

Revisione: 4.12.1963 (2350 m), respinto: 20.12.1963-8.2.1964.

Riedizione: 12.3.1965 (2310 m), approvato: 20.3.1965 (n.o. 4482).

Homevideo: Something Weird Video (VHS, Usa: col titolo Paris Ooh-la-la!).

 

Ereditata dal padre una considerevole fortuna, l’americano Dick vola alla volta di Parigi in cerca di emozioni forti. Dopo un lungo peregrinare nei locali notturni della città, dove tenta in tutti i modi di abbordare una vera parigina, conosce una giovane turista sua connazionale, se ne innamora e tornato in patria la sposa.

 

Il terzo film di José Benazeraf nasce su commissione: è il produttore americano Bob Cresse a chiederlo, impressionato dal successo ottenuto dal precedente La Drogue du vice, distribuito nei drive-in statunitensi con il titolo Night of Lust, con l’aggiunta di inserti sexy filmati da Lee Frost. Benazeraf realizza 24 heures d’un Américain à Paris ispirandosi ai documentari pruriginosi e ai nudie di Russ Meyer (in particolare a The Immoral Mr. Teas) e affida il ruolo principale a Dick Randall, mirabile figura di produttore giramondo, attivissimo anche in Italia.

Girato in pochi giorni e con scarsi mezzi, il film alterna gag comico/demenziali a scene di erotismo piuttosto spinto, tanto che in patria subisce tagli censorii1 e viene tacciato di pornografia dal Centro Cattolico Cinematografico. Da segnalare la bella colonna sonora di Louiguy, di recupero dal film di Henri Zaphiratos Le ninfette.

Presentato in revisione il 14 dicembre 1963 con il titolo Parigi calda, il film è respinto con decreto del 20 dicembre. La Empire Cinematografica, titolare dei diritti di distribuzione, contesta il giudizio della Commissione e chiede la revisione di secondo grado, che ha luogo il 7 febbraio 1964 e conferma l’interdizione: il film «deve ritenersi contrario al buon costume perché le scene di spogliarelli prospettano nudi quasi integrali con atteggiamenti che oltrepassano ogni limite di pudore e decenza».

Il 10 marzo 1965 la Empire presenta al Ministero dello Spettacolo un nuovo montaggio, intitolato Le calde notti di Parigi, e accompagna la domanda di revisione con una lettera redatta da Giacomo Beltrami, dirigente della società: «il sottoscritto fa presente a codesto On.le Ministero di aver eliminato tutte le scene di strip-tease che a suo tempo non furono approvate dalle Commissioni in parola, e di aver sostituito con altro materiale nuovo oltre 1000 m del film. È stato inoltre cambiato completamente il commento del film con un commento comico a tre voci. È una carrellata sugli spettacoli di varietà della Parigi di oggi composti per la maggior parte da balletti, numeri di acrobazie e numeri di prestidigitazione. Confido pertanto di poter ottenere il relativo nulla osta alla programmazione, avendo praticamente eliminato ogni e qualsiasi scena che possano offendere la morale e il buon costume». Beltrami conclude la missiva facendo presente «di aver sostenuto delle spese non indifferenti per il rifacimento totale del film».

Gli sforzi del distributore vengono premiati: il 20 marzo 1965 Le calde notti di Parigi ottiene il visto dalla censura.

 

 

1 Parte delle scene tagliate sono visibili nel film di montaggio Anthologie des scènes interdites érotiques ou pornographiques de José Benazeraf, approntato dallo stesso regista nel 1975.

 

 

n. 42195

Il mito/Il mito dell’uomo/La violenza e l’amore

Italia 1964, b/n

 

R, s, sc: Adimaro Sala; fo: Franco Villa; mt: Renato Cinquini; mu: Armando Trovajoli.

Int: I episodio: Lisa Gastoni (Luisa), Raoul Grassilli (Marco), Dino Mele, Nini Rosso, Peter Martell [Pietro Martellanza], Jacques Stany; II episodio: Norma Bengell (Lucia), Umberto Orsini (Roberto), Lydia Alfonsi (Anna), Vittorio Caprioli, Mario Pisu.

Prod: Jamir Cinematografica.

Revisione: 24.1.1964 (2134 m), respinto: 4.2-3.4.1964.

Riedizione: 22.7.1964 (2115 m), respinto: 25.7.1964; approvato: 10.8.1964 (n.o. 43459 - 2098 m - v.m.18).

 

Film in due episodi. «La Violenza»: due fidanzati, Marco e Luisa, si mettono nei guai quando sfidano una ghenga di delinquentelli motorizzati, che rubano la loro auto e violentano Luisa davanti a Marco. Dopo la terribile esperienza, i due, incapaci di reagire in qualsiasi modo, cercano di dimenticare l’accaduto per continuare la loro esistenza egoistica. «L’amore»: ricoverata in clinica per una crisi, Lucia invoca il nome dell’amica Anna, che accorre al suo capezzale: ma tra lei e il marito di Lucia, Roberto, nasce l’amore. Lucia se ne avvede, e una notte decide di scomparire.

 

In piena temperie antonioniana, l’esordiente Adimaro Sala confeziona un apologo in due parti sull’insoddisfazione della borghesia: due vicende nelle intenzioni esemplari, infiorettate da citazioni di Pindaro e Quasimodo, dialoghi pregnanti e simbolismi assortiti.

Già in fase di esame preventivo del soggetto, emergono le perplessità della Direzione Generale per le tematiche scabrose affrontate. «Il primo episodio configura un reato di “violenza carnale” determinato da una bravata» si legge nella documentazione ministeriale datata 9 luglio 1963. «Il secondo […] vuole centrare, con acuta ma perversa sottigliezza, lo stato di “solitudine”, avvertito da una donna coniugata», e a proposito del rapporto tra Lucia e Anna sottolinea: «ci si trova […] in presenza del fenomeno patologico del “lesbismo”». Prosegue poi il giudizio:

 

Ambedue gli episodi si svolgono in un clima di sfacciata amoralità, di morbosa sessualità […]. L’indagine psicologica indugia – si può dire – con compiacimento nel sottolineare frasi, comportamenti, azioni, stati d’animo che certamente infrangono quel velo minimo di pudore nel senso più ampio perché un lavoro possa decentemente presentarsi ad un pubblico a qualsiasi livello. Si prospettano quindi nel complesso serie riserve mentre per numerose scene che sarebbe troppo lungo enumerare, sia per il visivo che per il dialogo, un giudizio potrà soltanto esprimersi a film ultimato.

 

La lavorazione è contrassegnata da intoppi: «Il Giorno» del 18 dicembre 1963 dà notizia che la troupe ha dovuto interrompere per due ore la lavorazione perché alcune scene sono apparse troppo spinte a due carabinieri in servizio nella zona; alla fine, conclude il trafiletto, «la pellicola è stata restituita dopo essere stata proiettata, e i carabinieri si sono limitati a “riferire al magistrato”».

Il mito è presentato in censura il 24 gennaio 1964 dalla casa produttrice Jamir Cinematografica. La II sez. della Commissione, visionato il film e sentito il regista (4 febbraio 1964), esprime all’unanimità parere contrario «in quanto la pellicola […] contiene scene e battute di dialogo decisamente contrarie al buon costume».

In particolare, la Commissione sottolinea:

 

I episodio: a) la sequenza iniziale della proiezione cinematografica e conseguenti, relative, attività degli spettatori, completamente pornografiche; b) scena della violenza carnale; c) le seguenti battute, indicate anche a pag. 3 del copione:

MARCO: «Elena quante volte hai fatto l’amore oggi?».

ELENA: «Tre volte».

MARCO: «E tu Anna, quante volte da sola oggi?».

ANNA: «Una volta».

II episodio: a) ballo di Anna, completamente nuda, davanti a Roberto; b) amplesso fra Anna e Roberto, denudati, sul letto; c) accoppiamento di Roberto e Anna, dietro la colonna; d) giacitura sul letto delle due donne e dell’uomo.

 

«Le anzielencate scene» concludono i commissari, «rappresentano l’aspetto più appariscente contro il buon costume, giacché sostanzialmente, specie il secondo episodio, si svolge su di un piano amorale e morboso.

La Jamir Cinematografica fa ricorso in data 4 marzo. «La esponente» si legge nel documento, «si permette innanzitutto di osservare come non sia possibile isolare arbitrariamente dal contesto narrativo dell’opera cinematografica in esame qualche battuta e qualche sequenza perché in tale modo battute e sequenze vengono inevitabilmente ad essere snaturate e a non rispondere più a quella necessità narrativa, per la quale furono volute». Obiettando inoltre alle conclusioni sulla presunta amoralità e morbosità del secondo episodio, il ricorrente puntualizza che:

 

Il mito vuole, creando un’atmosfera moderna, a volte addirittura allucinante, a volte quasi fuori dal tempo, dare un motivo di esistere a dei personaggi che oggi sono attualissimi in una società […] sempre più meccanica e meno umana. Oggi […] uomini e donne possono trovare una necessità di vita solo nella fede o in un’attività sociale che li giustifiche. Quando […] non riescono a inserirsi nella società o manca la fede, non resta altro, come accade nel film, che sparire o continuare a vivere tragicamente travolti in un freddo ed arido ingranaggio disumano. Le scene, le battute anche se qualche volta apparentemente ardite non sono pornografiche o immorali ma sono elementi icastici, costitutivi della vicenda, senza i quali essa non potrebbe essere così tesa e così descrittivamente convincente ed artistica.

 

La sessione della Commissione d’Appello, il 2 aprile, si risolve ancora negativamente, con la conferma del parere di prima istanza, che «non si fonda sul carattere contrario al buon costume di alcune scene ma sul tono generale e sugli aspetti complessivi di entrambi gli episodi rappresentando le scene indicate soltanto i momenti salienti dell’offesa al buon costume che appare invece generalizzato in tutto il film nel suo complesso».

Il film di Sala viene allora ripresentato (20 luglio 1964) con il titolo Il mito dell’uomo; la casa di produzione fa presente che «l’attuale edizione è completamente modificata rispetto alla precedente sia sotto il profilo scenico che sotto quello dialogato», e di conseguenza «consente la chiarificazione e la perfetta percezione dei reali intendimenti che i creatori si erano ripromessi […] ne è conseguita una realizzazione che, eliminati forse ambigui e non pertinenti compiacimenti svianti l’attenzione dello spettatore su aspetti marginali, anche se appariscenti, del film, ha con più approfondito amore e studio inteso cogliere le angosciose ragioni dell’odierno vivere umano […]» E assicura: «la Commissione stupirà “oggi” dopo aver visionato Il mito dell’uomo nel considerare il parere contrario di I e II istanza alla proiezione in pubblico del film Il mito».

Nel dettaglio:

 

Primo episodio: soppressione della prima sequenza del film. Si è rigirata ex novo tutta la prima parte di questo episodio, con conseguente reingaggio della troupe, tecnici e attori; le sequenze iniziali sono ora del tutto diverse sia per ambientazione che per dialoghi. Inoltre sono state soppresse sia le scene incriminate che i dialoghi indicati.

Secondo episodio. Tutte le scene indicate dalla II Commissione sono state modificate o addirittura soppresse.

 

Inoltre la Jamir allega una dettagliata relazione sulle tematiche trattate, dove si sottolinea che «la mutata impostazione morale del film, le sue accentuate caratteristiche di accorata ma non disinteressata partecipazione alle umane vicende, hanno non soltanto tolto alla pellicola oggi presentata ogni compiacimento morboso, ogni indugio – anche il più remoto – a corrispondere al facile e commerciale successo delle platee, abituate ormai alle visioni dei film scandalistici; ma hanno sublimato e spiritualizzato i rapporti degli eroi delle vicende trattate, mitizzati e simbolizzati su un piano di vera arte».

La sez. A, che revisiona il film il 24 luglio, non la pensa allo stesso modo, ed esprime all’unanimità parere contrario «in quanto il film, pur presentando talune modifiche rispetto alla precedente versione, risulta tuttora sostanzialmente lesivo del buon costume, sia per l’impostazione e la tematica generale dei due episodi, sia per la persistenza di alcune di quelle scene che, a giusta ragione, determinarono il provvedimento negativo della Commissione di I e II grado nell’altra edizione». In particolare, vengono segnalate:

 

I episodio: a) scena della violenza carnale che, per quanto ridotta, conserva tuttora elementi oltremodo impudichi e conturbanti;

II episodio: a) scena di Anna che balla, completamente nuda, davanti a Roberto; b) accoppiamento fra Anna e Roberto, dietro la colonna, dove il braccio e le dita della mano sinistra della donna, visibili sul pilastro, sottolineano significativamente i vari momenti dell’amplesso.

 

La Jamir presenta appello (6 agosto 1964), e la Commissione di II grado, riunitasi lo stesso 6 agosto, esprime stavolta parere favorevole, con divieto ai minori di 18 anni «giustificato dal soggetto del film particolarmente nel primo episodio che descrive una violenza carnale ad opera successiva di più giovani e da varie scene (ballo, congiunzione carnale dietro la colonna, ecc.) atte a turbare l’animo dei giovani». Il nulla osta è subordinato al taglio di due sequenze: «a) eliminazione della scena della violenza carnale dal punto in cui il violentatore passa la mano sul ventre della donna; b) eliminazione della scena in cui la donna danza, nella parte in cui, volta verso il pubblico, tiene il seno coperto solo con le mani».

E tuttavia, nonostante l’avvenuta concessione del nulla osta, la pellicola resta nel limbo ancora per un pezzo. Nel luglio 1965, infatti, la Jamir chiede al Ministero l’autorizzazione a modificare il titolo in La violenza e l’amore «al fine di rispondere ad esigenze di noleggio onde conseguire un più rapido lancio del film non ancora programmato in Italia».

Il film di Sala viene finalmente distribuito nel 1967. I guai però non sono finiti. Nell’ottobre 1967 la Questura di Campobasso fa presente al Ministero che a seguito di un controllo si è scoperto che la copia di La violenza e l’amore proiettata nel locale cinema conteneva le due sequenze che la Commissione aveva richiesto di eliminare per ottenere il visto: gli spezzoni incriminati (m. 1,77 e m. 1,94) vengono sequestrati. Analogo riscontro viene effettuato in un cinema di Merano, dove parimenti la sequenza dello stupro (m. 2,44) è presente: anche detta sequenza viene sequestrata e rimessa all’autorità giudiziaria.

La violenza e l’amore è ripresentato in censura da Reteitalia il 10 febbraio 1993, previi alcuni tagli: nel primo episodio viene alleggerita la scena in cui i teppisti percuotono Marco e ulteriormente sforbiciata la violenza carnale di gruppo; nel secondo, è alleggerita la scena in cui Anna si muove a passo di danza con movenze erotiche davanti a Roberto. Il tutto per un totale di 15,25 m (30” circa). La Commissione abbassa il divieto ai minori di 14 anni, con decreto del 26 ottobre 1993, in quanto «nonostante i tagli apportati, sussistono tematiche e scene di violenza che ne sconsigliano la visione ai predetti minori».

 

 

n. 42515

Parliamo di donne/Se permettete parliamo di donne

Italia/Francia 1964, b/n

 

R: Ettore Scola; sc: Ettore Scola, Ruggero Maccari; fo: Alessandro D’Eva; mt: Marcello Malvestito; mu: Armando Trovajoli.

Int: Vittorio Gassman, Sylva Koscina, Antonella Lualdi, Eleonora Rossi Drago, Walter Chiari, Giovanna Ralli, Maria Fiore, Donatella Mauro, Jeanne Valérie, Luigi Proietti, Mario Brega, Riccardo Garrone, Umberto D’Orsi.

Prod: Fairfilm (Roma), Les Films Concordia (Parigi)

Revisione: 12.3.1964 (3239 m), respinto: 18-23.3.1964.

Riedizione: 23.3.1964 (3035 m), approvato: 25.3.1964 (n.o. 42564 - v.m.18).

Homevideo: Cecchi Gori (DVD, Italia).

 

Film a episodi: una donna si concede a un uomo armato di lupara sperando di salvare la vita al marito; un impiegato scatenato con i colleghi diventa pedante in famiglia; un bottegaio scopre che il marito di una prostituta è un suo ex compagno di scuola; nel giorno del matrimonio, una donna si attarda a letto con l’amante; un dongiovanni, la cui amica non sa decidersi dove consumare il loro rapporto, si consola con una cameriera; un uomo che dovrebbe convincere un seduttore a sposare la sorella sedotta, si fa invece traviare a sua volta; uno stracciarolo viene adescato da una donna ricchissima; la moglie di un carcerato riesce a fare avere una licenza al marito, in modo da affibbiargli la paternità del figlio che sta aspettando da un altro uomo.

 

L’esordio di Ettore Scola alla regia è una commedia a episodi sulla falsariga di I mostri, con Vittorio Gassman a fare da mattatore, accompagnato da una sfilata di belle attrici. Presentato una prima volta in censura il 12 marzo 1964, Parliamo di donne viene revisionato il 17 marzo e respinto a maggioranza in I grado (assieme alla presentazione, che «contiene sequenze a caratteristica offensiva del buon costume sessuale non riprodotte nel film medesimo») poiché presenta «scene e sequenze altamente offensive del buon costume sessuale e, inoltre, secondo la interpretazione costante della Commissione esaminatrice, scene e sequenze offensive del buon costume morale, “costituzionalmente” inteso a salvaguardia dei valori morali e spirituali del pubblico». Ancora una volta, il riferimento normativo al buon costume è stiracchiato e interpretato in maniera ampia a seconda dell’orientamento dei commissari.

Il produttore Mario Cecchi Gori presenta immediatamente ricorso: la Commissione di appello, riunitasi il 21 marzo, revisionato il film e sentito il rappresentante della società produttrice, conferma a maggioranza il giudizio di I grado:

 

Di vero, già i disegni di donne nude, tutte in pose palesemente lascive, che ne costituiscono la presentazione, rivelano il sottofondo del film, l’intento cioè di compiacere e di solleticare il senso e gli istinti erotici degli spettatori, ma deve, ai fini del decidere essere sottolineato che il film medesimo – pur nell’asserito carattere grottesco da cui sarebbe dettato e permeato – contiene, sostanzialmente, nella sua intelaiatura e nello svolgimento di ogni singola vicenda, una carica esasperante di immoralità, che culmina, a tacere d’altro, nell’episodio nettamente contrario al buon costume (inteso anche nel senso restrittivamente penalistico perché punito dalla così detta legge Merlin) del marito che sa e si compiace del mestiere di prostituta esercitato dalla moglie, giungendo a tale punto di aberrazione di restituire al vecchio compagno di scuola, che trova nella propria abitazione dopo che aveva goduto i favori della donna, il prezzo dell’amplesso sessuale; nonché nella vicenda dei due amanti peregrinanti su di una automobile in cerca di un posto adatto per sfogare la loro libidine, dove le sequenze dello sbottonamento della camicetta, l’introduzione della mano tra i seni ed i palpeggiamenti dell’uomo sulla donna, nonché alcune pose provocanti di questa, configurano e concretizzano veri e propri reati contro il buon costume sessuale.

 

La Commissione ne ha anche per i dialoghi e, in un sussulto di zelo, per un gesto allusivo di Gassman:

 

Né va taciuto che alcune battute di colloqui sono scurrili, volgari e lascive della decenza, mentre relativamente al secondo episodio innanzi citato, non può farsi a meno di mettere in risalto che il gesto con il pugno chiuso ed il braccio eretto e dondolante, eseguito dall’uomo nel momento in cui l’automezzo sfreccia dinnanzi ai militi della strada, è nettamente osceno (art. 527 codice penale) o, quanto meno, contrario alla pubblica decenza (art. 726 stesso codice).

 

Due giorni dopo, il 23 marzo, Cecchi Gori presenta in censura la nuova edizione, rititolata Se permettete parliamo di donne e con sensibili modifiche. In dettaglio, citando le parole del produttore:

 

1) Dal film è stato tolto completamente un episodio lungo ben 303 mt.

2) Ne è stato inserito un altro brevissimo appositamente approntato che a nostro giudizio non presenta alcuna asperità, della lunghezza di circa mt. 80.

Inoltre sono stati apportati i seguenti tagli agli altri episodi del film: dall’episodio che appare terzo nel presente montaggio:

3) è stata tolta la scena in cui si vede il protagonista che si riabbottona ed altre brevi sforbiciate.

Dall’episodio che appare quinto (Gassman-Koscina)

4) sono stati tolti alcuni metri di pellicola in due riprese in cui si vedono i protagonisti che in auto, inquadrati di dietro, si abbracciano e baciano, riducendo al minimo tale scena.

5) è stata tolta al motel quasi interamente la scena in cui il protagonista prende la cameriera e la getta sul letto.

6) è stata cambiata la scena in cui il protagonista correndo in macchina e salutando col braccio due agenti della strada dice «si viaggia», perché tale saluto appariva (benché certo non voluto) di dubbia interpretazione.

Dall’episodio che appare per settimo (Gassman-Chiari)

7) è stata asportata la scena che avviene in casa tra il protagonista e la sorella, nella quale viene detto: «in fondo era ora e poi ti fa bene alla pelle».

Dall’episodio che appare ottavo (Lo straccivendolo)

8) sono stati levati alcuni metri quando i due (Gassman e Rossi Drago) sono nel salotto e lui prende lei in braccio.

Nell’ultimo episodio (del carcerato)

10) è stata tolta la scena in cui la madre del protagonista vede il figlio che aiuta la moglie, seduta sul letto, a spogliarsi, prima che questi chiuda la stanza con l’armadio.

Dalla colonna sonora sono state pure operate alcune cancellazioni.

 

La I sez. della commissione, che revisiona la pellicola il giorno seguente, questa volta concede il nulla osta con divieto ai minori di 18 anni. Cecchi Gori, non soddisfatto, inoltra dapprima domanda d’appello (11 aprile), ritenendo che il film non contenga elementi tali da giustificare il divieto ai minori, salvo poi cambiare idea visto l’allungarsi dei tempi d’esame: il 18 giugno rinuncia al ricorso. Nonostante il divieto, Se permettete parliamo di donne otterrà un notevole successo commerciale.

Il film di Scola viene ripresentato in censura nel maggio 1989 dalla Teseo Cinema, per ottenere un nuovo nulla osta ai fini dello sfruttamento televisivo, con tagli effettuati per un totale di 99 m e argomentando che «il lungo tempo trascorso dal rilascio del precedente nulla osta, contribuisce a rendere oggi pienamente accettabile l’opera del film in questione. In questi anni, infatti, i ragazzi hanno un differente grado di maturità per tutto ciò che concerne i fatti della vita ed un sufficiente distacco che permette loro di non essere coinvolti dall’erotismo delle immagini». La Commissione, in data 6 ottobre, esprime parere favorevole per la concessione del nulla osta senza alcuna limitazione di età.

 

 

n. 42736

Una valigia piena di donne/Per una valigia piena di donne

Italia 1964, col.

 

R: Renzo Russo; s, sc: Carlo Manzoni, Renzo Russo; fo: Adriano Bernacchi; mt: Alberto Moro; mu: Armando Sciascia.

Int: Elio Crovetto, Angela Guy, Betty Dan, Renzo Scali, Lucretia, Simone Salvatore, Lina de Lima, Jula de Palma, Zoe Collins, Carmen Villani, Lou Lou Santiago, Ricky Gianco, Kiko Gonçalves, Mimmo Di Lello, Jacqueline Perrier, Sophie Harden.

Prod: Aries Cinematografica.

Revisione: 4.4.1964 (2836 m), respinto: 16.4-8.5.1964.

Riedizione: 27.6.1964 (2829 m), respinto: 3.7.1964; approvato: 15.7.1964 (n.o. 42736 - v.m.18).

 

«Un marito in vena di divagazioni si allontana da casa per un fantasioso e assurdo viaggio verso i miraggi al neon delle grandi città europee. Da una città all’altra, da un teatro a un locale notturno […], si alternano le stravaganti disavventure (tra cui il furto di una valigia contenente una florida donnina) di questo personaggio alle svariate esibizioni di numeri di attrazione, cantanti, coreografie […]. Alla fine, il marito distratto viene ricondotto in casa da una moglie infuriata che gli toglie per sempre, stirandolo, la fregola delle facili evasioni.» (Sinossi desunta dalla domanda di revisione.)

 

Come si evince dalla descrizione del soggetto, il film di Renzo Russo (autore dell’analogo Europa: operazione strip-tease) è l’ennesimo pretesto per cucire insieme numeri piccanti da night club. Che però ha un iter piuttosto tribolato in censura, dove viene presentato per la prima volta il 4 aprile 1964, come Una valigia piena di donne, titolo che rimpiazza quello di lavorazione Parigi, città delle luci. L’VIII sez., che lo revisiona il 15 aprile, nega il nulla osta, «in quanto l’eccessiva ed insana indulgenza per il nudo femminile e talora il modo indecente della sua stessa presentazione, rendono il film – nonostante l’esistenza di qualche schek [sic!] più misurato – assolutamente inadatto alla pubblica programmazione perché contrario al buon costume». L’appello della casa produttrice Aries, in data 22 aprile, non ha miglior sorte: la Commissione di II grado, riunitasi l’8 maggio, dopo aver sentito il rappresentante della casa produttrice, conferma il parere contrario «perché in tutte le sequenze di balletti e spogliarelli [il film] si manifesta profondamente lascivo, pornografico, offensivo della morale e della educazione  del pubblico».

Il film è ripresentato il 27 giugno 1964, col nuovo titolo Per una valigia piena di donne. La produzione specifica che «sono stati tolti tutti i numeri di strip-tease (di Carol, Myriam Dole, Lou Lou Santiago, Ragazza del Fantasma, Ragazza della Dogana) ed eliminate parti notevoli di altre scene, per oltre 400 metri (circa 15’) e sostituiti con numeri girati appositamente, tra cui cinque short musicali-coreografici, interpretati dai cantanti: Jula De Palma, Zoe Collins, Carmen Villani, Ricky Gianco e Mimmo Di Lello, così da dare al film stesso un carattere diverso da quello che ha motivato il rigore delle Commissioni nei precedenti giudizi»

La VIII sez., che lo visiona il 2 luglio 64, lo boccia nuovamente, in quanto «tutto il film è impostato in modo da sottolineare scene che hanno in gran parte il solo scopo di mettere in evidenza il nudo, con allusioni volgari e con riferimenti palesi al fatto sessuale, anche anormale, e non riscattato in alcun modo da ragioni artistiche e spettacolari».

La Aries, nel suo ricorso (in data 11 luglio), fa presente che «con questo, il film in questione ci è stato respinto per la terza volta, nel giro di tre mesi. Le prime due […] il film conteneva […] quattro numeri di strip-tease (per la verità piuttosto blandi). Modificato, togliendo gli spogliarelli (ed altro, a maggior garanzia) e sostituendoli con numeri musicali castigatissimi, il film ci viene ancora respinto, con una motivazione che noi contestiamo, soprattutto dove si denunciano “allusioni volgari” e “riferimenti palesi al fatto sessuale, anche anormale” [sottolineature nell’originale, N.d.A.]».

A questo punto il ricorrente si lancia in un’appassionata filippica sullo stato del nudo nel cinema italiano.

 

Di allusioni al fatto sessuale, più o meno esplicite, sono piene le miglia e miglia di pellicola che circolano liberamente su tutti i nostri schermi. Se a renderle volgari, come crediamo, è il grado del riferimento diretto, pochissime manifestazioni della  vita pubblica di oggi ne andrebbero escluse. Per restare nel campo del cinema, che c’è di più volgare di Tognazzi che s’affissa, cupido, sul sedere nudo, semovente, d’una ballerina in una scena di La donna scimmia? Ma si potrebbero citare numerosi esempi analoghi, di cui le «ragioni artistiche» (se e quando ci sono) non riscattano la volgarità, poiché questa è nella cosa in sé, non nella forma.

 

Riguardo alle pretese «anormalità», il ricorrente eccepisce: «nel film non è reperibile alcunché che possa esser neanche scambiato per allusione ad un “fatto sessuale anormale”. Contestiamo infine l’assenza di “ragioni spettacolari” in quanto il film si propone unicamente di divertire e fare spettacolo […]».

Giudicando l’ennesima bocciatura ingiusta e lesiva, il responsabile della Aries aggiunge un interessante punto di vista sul giro di vite della censura nei confronti di simili pellicole.

 

Il nostro film, nato come genere «SEXY» oltre un anno fa, quando ancora non s’era annunciata la determinazione, ora pienamente manifesta, di voler porre un temine alla produzione di tale genere, è il risultato di un modesto ma serio, pieno ed onesto sforzo produttivo […]. Nell’affermare che, nell’ultima sua versione, il film rifiuta ormai, nel modo più completo, la definizione di «SEXY», noi respingiamo l’accusa di immoralismo e di bassa speculazione, implicita nell’ostracismo di cui è fatto oggetto il genere in questione. […] Dal punto di vista morale, noi non ci sentiamo investiti di nessuna particolare responsabilità, dal momento che i nostri prodotti devono essere preventivamente sottoposti al vaglio di organi appositamente costituiti. E sotto questo profilo, quando decine e decine di film di un certo genere vengono regolarmente ammessi alle pubbliche proiezioni, ed il grosso del pubblico li accetta tranquillamente come cosa normale, noi ci sentiamo autorizzati ad inferire che quei prodotti sono conformi all’indice attuale della pubblica moralità […].

 

Il ricorso cita poi la sentenza con cui il Tribunale di Milano aveva assolto Dolci inganni di Lattuada dall’accusa di oscenità, dove si tirava in ballo proprio il filone sopradescritto:

 

purtroppo il sentimento del pudore si è affievolito e il gusto si è notevolmente abbassato. Ne è la riprova la valanga di films «SEXY» che sono passati regolarmente al visto dell’autorità amministrativa e che sono non solo tollerati ma ben visti da una parte cospicua del pubblico. Non spetta al giudice indagare sulle cause di questo fenomeno, indubbiamente collegate all’attuale assetto della nostra società, ma soltanto prendere atto e giudicare anche sulla base di questi fatti, che sarebbe ipocrisia ignorare. […] secondo l’opinione della più qualificata dottrina e della giurisprudenza della Cassazione sono osceni soltanto quei fatti che offendono «”in maniera turpe e grave” il senso di riservatezza che circonda le manifestazioni della vita sessuale». Definizione che non riguardava il nostro film, neanche nella versione in cui venne presentato per la prima volta. Ora, che si voglia, da parte delle autorità amministrative, tentar di correggere in senso moralizzante il corso di tali cose, è iniziativa che noi ci proponiamo di assecondare […]. Purché tali possibilità non ci vengano irrimediabilmente distrutte da bruschi mutamenti d’indirizzo, che non lasciano luogo a ragionevoli considerazioni del già fatto.

 

La Commissione d’Appello si riunisce il 14 luglio, e a maggioranza esprime parere favorevole alla proiezione, con divieto ai minori di anni 18. Per una valigia piena di donne verrà inizialmente escluso dalla programmazione obbligatoria e dagli altri benefici di legge, in difformità dal parere del comitato di esperti1, e ammesso in un secondo momento dopo il ricorso in appello della Aries.

 

 

1 Nella motivazione si legge infatti che «il film denota […] una assoluta insufficienza nella strutturazione del soggetto, le cui sequenze risultano arbitrariamente collegate; denota, inoltre, pari insufficienza in uno dei suoi elementi fondamentali, la regia, specie per la parte che riguarda i movimenti e la recitazione degli interpreti; i dialoghi infine, risultano artificiosi e sciatti, inseriti in un racconto del tutto discontinuo e già di per sé privo di qualsiasi interesse artistico e spettacolare». L’appellante (Giuseppe Russo, amministratore unico della Aries) ribatte che il provvedimento è stato adottato «senza che il Ministro (o chi per lui) abbia visionato il film. Infatti il film non ha dialogo alcuno, né voce di speaker, ma solo musica e canzoni».

 

n. 43801

Giappone fantastico/Le meravigliose donne del Giappone fantastico (Onna onna onna monogatari)

Giappone 1963, col.

 

R: Tetsuji Takechi; sc: Tatsuji Tsuta; fo: Kazutoshi Akutagawa.

Prod: Sano Art Productions, Shochiku.

Revisione: 27.5.1964 (2300 m), respinto: 20.6-11.7.1964.

Riedizione: 3.5.1965 (2373 m), approvato: 6.5.1965 (n.o. 45110 - v.m.18).

 

Una carrellata sugli usi e costumi meno conosciuti e più bizzarri del Sol Levante: il teatro Noh, sposalizi tradizionali, processioni folcloristiche per la festa del riso, donne che bevono sangue di serpente per avere begli occhi, istituti di bellezza con maschere di fango radioattivo, tatuaggio del serpente sul petto di una donna, la vestizione di monache buddiste…

 

Diretto dal debuttante ex regista teatrale Tetsuji Takechi, Onna onna onna monogatari è un «pinku eiga» (letteralmente «film rosa», termine che descrive le pellicole erotiche a basso costo prodotti in Giappone a partire dai primi anni ’60) a carattere documentaristico, dedicato alla figura della donna nel Giappone del dopoguerra. Oltre alla consueta carrellata di esibizioni in night club, il regista si sofferma su episodi bizzarri e inconsueti, dalle monache buddiste alle pescatrici subacquee, dai tatuaggi alla tossicodipendenza femminile, dalla prostituzione al travestitismo (il soggetto minimizza parlando di «buontemponi travestiti da donna»). Onna onna onna monogatari arriva anche negli Usa, col titolo Women… Oh, Women!. Il suo successo consentirà a Takechi – già innovatore del teatro kabuki – di girare Daydream (1964), il primo «pinku eiga» con un budget sostanziale e destinato alla distribuzione mainstream, ispirato a una storia di Tanizaki; lo stesso regista ne realizzerà due remake hard nel 1981 e 1987.

Il film è presentato in edizione doppiata, col titolo Giappone fantastico, dall’Eridania Cinematografica, il 27 maggio 1964. L’VIII sez. della Commissione di I grado, che lo revisiona in data 19 giugno, esprime «parere nettamente contrario» alla proiezione in pubblico, in quanto «in esso: 1) vi sono delle scene raccapriccianti, come la lunga sequenza del parto cesareo; 2) esistono numerose scene che considerate sia nella loro evidenza visiva che nel commento allusivo, rivelano sostanzialmente un’intenzione pornografica; 3) perché, infine, il film mette in particolare evidenza alcuni aspetti patologici del comportamento umano (come l’omosessualità, il sadomasochismo)».

L’Eridania presenta appello il 1 luglio, dichiarandosi disposta a tagliare le scene ritenute non idonee, e il rappresentante Enrico Putatto chiede di essere ascoltato. Il giudizio di II grado, però, riconferma il parere espresso in prima istanza (10 luglio) poiché nel film «1) sono contenute scene raccapriccianti come la lunga sequenza del parto cesareo; 2) manifestazioni di sadismo quali quelle che presentano le donne che si fanno legare strettamente il petto e le braccia; 3) manifestazioni di omosessualità immorali e contrarie al buon costume; 4) spogliarelli spregiudicati; 5) scene che, sia considerate nella loro evidenza visiva che nel commento allusivo, rivelano intenzioni pornografiche».

Il film di Takechi viene ripresentato l’anno seguente (3 maggio 1965) in una nuova edizione, intitolata Le meravigliose donne del Giappone fantastico. Si tratta, specifica la distribuzione, di una pellicola sostanzialmente differente dalla versione precedente:

 

quella odierna risulta completamente ricostruita, con una diversa linea di montaggio in cui sono state eliminate le sequenze non approvate ed altre ancora che abbiamo preferito sostituire con nuovo materiale girato espressamente in Giappone. Anche il dialogo è stato quasi tutto rifatto […]. Il film oggi nella sua nuova veste, vuole presentare a confronti la donna giapponese dalle antiche tradizioni con usi e costumi antichi, e la donna moderna occidentalizzata, sportiva che lavora e frequenta i Supermercati, con alcuni costumi che sopravvivono (anche a scopo turistico) come i ristoranti con piatti di pesce crudo.

 

Sushi e sashimi, all’epoca, sono materiale da documentario a sensazione.

In totale, sono stati eliminati circa 500 m (oltre 18’), sostituiti da 750 m. (27’ ca.) di nuovo materiale aggiunto. Le sequenze tagliate sono: «L’annunciatrice; il parto cesareo; spogliarelli; iniezioni di paraffina al seno; omosessuali a passeggio; masochiste; apparizioni di clienti dell’istituto di bellezza con nudità coperte di fango radioattivo; giuochi di società per ragazze». Inoltre, «sono state accorciate anche le sequenze dei serpenti e dei pesci crudi perché nel frattempo alcuni film americani e gli stessi cortometraggi educativi dell’USIS li hanno diffusi. È stata accorciata la sequenza del celebre Teatro «NOH» dove operano solo donne con le maschere e appena accennato un attore del «KUJO» dove operano solo attori trasformisti. È stata accorciata la sequenza del teatro da ballo di provincia con breve accenno alle danzatrici spogliarelliste». Le scene aggiunte sono perlopiù a carattere sportivo e di costume: «le nuotatrici in piscina olimpionica, le donne giuocatrici di base-ball, le donne corritrici in bicicletta, le donne anziane che lottano nel famoso «SUMO SUMO», le donne ai supermercati moderni automatizzati, le donne che praticano la ginnastica all’aperto, le indossatrici che presentano modelli di costumi di Parigi e abiti occidentali, i bambini che nascono nelle moderne cliniche, la danza del drago contro la guerra e le sue gravi conseguenze».

Questa volta l’VIII sez., che revisiona il 5 maggio la copia lavorazione con colonna sonora separata, esprime parere favorevole alla proiezione in pubblico, col divieto ai minori di 18 anni:

 

oltre alla frequente ricorrenza di scene in cui il nudo femminile è esibito con particolare compiacimento, esistono sequenze che rappresentano costumi, i quali, essendo troppo alieni dal nostro modo di vivere, possono intensamente impressionare, abitudini di depravazione giovanile e scene appesantite da significati ed allusioni equivoche o morbose. In particolare la scena del neonato deforme ha un carattere raccapricciante nettamente controindicato alla sensibilità dell’età evolutiva dei citati minori.

 

 

n. 43861

Squillo/Il telefono e loro

Italia 1964, col.

 

R: Elvezio De Rosa

Prod: Elvezio De Rosa

Revisione: 29.9.1964 (289 m), respinto: 2.10-18.11.1964.

Riedizione: 28.3.1968 (289 m), approvato: 13.11.1968 (n.o. 52487 - v.m.18).

 

Nel corso di dieci conversazioni telefoniche scopriamo alcuni canali della prostituzione e del vizio.

 

Revisionato dalla VII sez. della Commissione di I grado in data 1 ottobre 1964, il cortometraggio sul mondo della prostituzione scritto, diretto, prodotto e filmato da Elvezio De Rosa è bocciato all’unanimità «trattandosi di un film in cui viene prospettato il commercio del sesso in modo volgare e talvolta abnorme, senza alcuna denuncia relativa ai fatti prospettati».

De Rosa formula appello (23 ottobre) e il 17 novembre il film è visionato dalla Commissione di II grado (sezioni I e VIII), la quale conferma il parere negativo «per la palese oscenità del dialogo e delle situazioni e per l’assoluta inidoneità del lavoro ad essere diffuso in un pubblico generico presso il quale può funzionare più come indicazione di un sistema deteriore che come denuncia».

La pellicola finisce in naftalina per quattro anni, poi, in data 28 marzo 1968, viene di nuovo presentata in censura con il titolo Il telefono e loro. I tagli apportati si riferiscono ad alcune frasi delle conversazioni telefoniche:

− «A fare l’amore».

− «Mi mandi a battere».

− «Marchette».

− «Lo mandiamo a mignotte».

− «Va a dar via il cul».

− «Stronza».

− «Bambina, bambina sapessi com’è».

Il 13 novembre il film è approvato dalla IV Commissione di I grado con divieto di visione ai minori di 18 anni «contenendo il film scene e sequenze non adatte alla particolare sensibilità dell’età evolutiva».

 

 

n. 44042

Hilde e Hans il miracolo dell’amore (Worüber man nicht spricht/Frauenarzt dr. Brand greift ein - Worüber man nicht spricht)

Rft 1958, b/n

 

R: Wolfang Glück; s: Dieter Fritko; sc: Ilse Lotz-Dupont; fo: Walter Riml; mt: Walter Fredersdorf; mu: Rudolf Perak.

Int: Hans Söhnker (dottor Brand), Antje Geerk (Monika Gruber), Albert Rueprecht (Martin Hesse), Karin Dor (Christa Riek), Friedrich Domin (professor Gruber), Eveline Bey (Beate Riek).

Prod: Neubach Film.

Revisione: 12.10.1964 (2375 m), respinto: 22.10.1964.

Riedizione: 15.2.1965 (1912 m), approvato: 10.3.1965 (n. 44805 - v.m.14).

III edizione: 20.8.1968 (2594 m), approvato: 27.8.1968 (n. 52238 - 2524 m - v.m. 14).

 

Il professor Brand, stimato docente di ginecologia, racconta a una sua allieva in stato interessante la storia di un’ex paziente, Monica. Figlia del professor Gruber e orfana di madre, Monica, benché educata rigidamente dal severo genitore, ha un rapporto sessuale con il coetaneo Martin. Rimasta incinta e non potendo contare sull’aiuto del padre né del ragazzo, Monica si rivolge a un infermiere senza scrupoli per abortire. Ma poco prima dell’intervento, la polizia fa irruzione nella clinica e arresta l’uomo, mentre Monica viene affidata alle cure del professor Brand, il quale la inserisce nel suo programma di preparazione alla maternità. Frattanto Martin decide di prendersi le sue responsabilità: abbandona gli studi e trova lavoro come meccanico, in modo da sposare Monica e mantenere suo figlio. La ragazza darà alla luce uno splendido bambino e a poco a poco si riconcilierà con il padre.

 

Uno dei tanti film sull’educazione sessuale prodotti in Germania, diretto da Wolfgang Glück, regista attivo prevalentemente sul piccolo schermo, e interpretato, tra gli altri, da una giovanissima Karin Dor. Presentato in edizione originale dalla Dolomit Film di Ernesto Schmerel, Worüber man nich spricht [Quello di cui non si parla] viene visionato il 20 ottobre 1964 dalla commissione di censura (IV sez.) e respinto a maggioranza «poiché le sequenze relative alle lezioni del prof. Brand appaiono decisamente offensive del buon costume, consistendo esse in una particolareggiata descrizione degli organi genitali maschili e femminili (con indicazioni persino dei punti della sensibilità sessuale), del modo in cui avviene il concepimento e dei sistemi per procurare l’aborto».

Presentando appello in data 18 novembre, Schmerel si dichiara del tutto in disaccordo con il giudizio della Commissione e dopo una puntuale disamina sul valore dell’opera e in particolare sulla figura del professor Brand, definito «una personalità che moralmente, eticamente ed umanamente qualifica e pregia nei limiti più alti la maternità come dono di Dio Creatore», sottolinea come l’opera appartenga «a quel genere di film in molti paesi, come anche in Germania, appositamente studiati e realizzati con austera morale e discreta riservatezza per dare ai giovani in età adulta, cioè nel periodo più critico della loro vita, quei chiarimenti indispensabili sui problemi sessuali di cui, viceversa, la mancata conoscenza e il lasciarli all’oscuro sono purtroppo e assai spesso le fonti di tante sventure e disgrazie».

Schmerel conclude la missiva con la preghiera di essere ascoltato dalla Commissione di Appello, dichiarando altresì di accettare un eventuale divieto di visione ai minori di 18 anni «dato il particolare genere di film».

La Commissione di seconda istanza però tarda a revisionare l’opera, pertanto il distributore torna sui suoi passi e chiede la restituzione della copia campione, preferendo apportare spontaneamente alcune modifiche al film.

La seconda edizione, intitolata Frauenarzt dr. Brand greift ein - Worüber man nicht spricht (Il ginecologo dr. Brand consiglia - Quello di cui non si parla) è depositata al Ministero dello Spettacolo in data 15 febbraio 1965 e presenta tagli di scene e di dialogo per complessivi 424 m:

 

− Eliminate alcune battute di dialogo.

− Eliminate le parole e l’intera sequenza delle lezioni del professor Brand agli studenti nell’aula dell’Università, incominciando dalla frase «L’uomo ha scoperto la divisione degli atomi» fino a «Così, signori e signore, si forma una nuova vita».

− Eliminata dal dialogo la frase «Lo odio» [riferita probabilmente al feto, N.d.A.].

− Eliminate le parole e l’intera sequenza della lezione del professor Brand, da «Buona sera Monica, ho piacere che sei venuta» fino a: «Della nascita e del parto in se stesso parleremo prossimamente».

− Altra lezione del professor Brand nell’aula di medicina, dalle parole «Ho paura» fino al professore che dice: «Ripeto ancora che il parto di una bambino in modo normale è una soddisfazione morale e materiale per la donna».

− Eliminata la frase della dottoressa: «Qui nulla si può più fare».

 

La Commissione, visionato il film il 9 marzo 1965, concede il nulla osta col solo divieto di visione ai minori di 14 anni, necessario, si legge nel referto, «in relazione al contenuto del film che, se pure intende esaltare la maternità, è suscettibile di nuocere alla sensibilità di detti minori nelle scene in cui la protagonista va disperatamente alla ricerca dell’aborto e poi pensa al suicidio».

Tre anni dopo, il 20 agosto 1968, il film di Glück è presentato in censura in edizione doppiata, con il titolo Hilde e Hans il miracolo dell’amore, per sfruttare a caldo il clamore suscitato dall’uscita di Helga - Lo sviluppo della vita umana, il docu-film di Erich F. Bender che mostra per la prima volta la nascita di un bambino ripresa in diretta. Sebbene l’edizione italiana sia più lunga di quella già passata in censura (2594 m contro i 1912 dell’edizione del 1965), supera ugualmente l’esame di revisione con divieto ai minori di 14 anni e qualche taglio di alleggerimento, per complessivi 70 m.

 

 

n. 44266

Un cadavere a passeggio/Cadavere a spasso/Strana notte al Grand Hotel

Italia 1964, b/n

 

R: Marco Masi; s, sc: Marco Masi, Mario Pinzauti; fo: Ugo Brunelli; mu: Marcello Gigante; mt: Graziella Fedeli.

Int: Pietro De Vico (Nicolino), Heidy [Heidi] Stroh (Patrizia), Tiberio Murgia (Detective dell’albergo), Enrico Pozzi (il cadavere), Paolo Solvay [Luigi Batzella], Marisa Sally (Serena), Connie [Consiglia] Caracciolo.

Prod: Piceno Film

Revisione: 13.8.1964 (2350 m), respinto: 4.12.1964.

Riedizione: 13.3.1965 (2315 m), respinto: 16.3.1965; approvato: 31.3.1965 (n.o. 44819 - v.m.18).

 

Incaricati di un servizio sul ladro internazionale Fantasma, i giornalisti Patrizia e Nicolino cercano invano di rintracciare il malvivente, e si sistemano per la notte in un hotel dove alloggiano anche una coppia (Serena e Ottavio) e l’amante di lei, Floriano. Per una serie di equivoci i due giornalisti credono che quest’ultimo, addormentato da Serena con un sonnifero destinato al marito, sia morto, e cercano in ogni modo di sbarazzarsene, con risultati catastrofici, Si tratta però solo di un sogno di Nicolino…

 

Presentata in censura il 13 agosto 1964, la commedia di Masi viene revisionata solo il 3 dicembre dalla III sez., la quale, «rilevato che il film sia nella sua impostazione come nelle sequenze e nel parlato, è offensivo del buon costume», esprime parere contrario alla proiezione in pubblico; il divieto è motivato «dal fatto che il film non è che una serie di sconcezze e di volgarità».

La Piceno Film fa ricorso in appello (10 gennaio 1965), chiedendo che venga ascoltato il regista, ma la domanda non è accolta in quanto depositata oltre il termine di 20 giorni dalla comunicazione del provvedimento di diniego del nulla osta.

La compagnia ripresenta allora il film, rititolato Cadavere a spasso, il 13 marzo 1965, e con alcuni tagli:

 

I tempo – 1° rullo: è stata tolta la panoramica della scena in cui appariva una ragazza nell’atto di spogliarsi, mentre Tiberio Murgia è nell’armadio (visivo).

I tempo – 2° rullo: è stata tolta parte della scena che si intravvedeva dal buco della serratura (visivo).

I tempo – 3° rullo: è stata tolta parte della scena in cui appariva Tiberio Murgia nell’atto di sollevare le vesti ad una ragazza (visivo). Nella stessa scena sono state tolte le parole che venivano pronunciate da Murgia «delle tue mutandine» (parlato). Nel prosieguo è stata tolta anche la scena successiva (visivo e parlato) in cui la ragazza diceva «va a morì ammazzato» e Tiberio Murgia rispondeva «figlia di puttana» (in dialetto).

II tempo – 3° rullo: è stata tolta la scena in cui Murgia baciava la gamba della ragazza.

II tempo – 4° rullo: la scena in cui Murgia gioca a carte con una ragazza in camera da letto è stata tagliata nel punto in cui la ragazza perde al gioco.

 

Ma Cadavere a spasso viene nuovamente bocciato. La III sez., che lo revisiona il 15 marzo, rileva infatti che «il film presentato […] ha lo stesso tema, lo stesso parlato e le stesse scene, perché anche con i tagli operati nella edizione originaria mantiene il suo carattere osceno».

Nuovo appello della Piceno Film, che si dichiara disposta ad apportare tutti i tagli ritenuti opportuni, il 18 marzo. La Commissione, in data 30 marzo, non ravvisando nel film i caratteri di oscenità rilevati dalla Commissione di I grado, esprime parere favorevole alla proiezione del film in pubblico, con divieto ai minori di 18 anni, a causa di «battute volgari contenute nel film e alcune scene e sequenze con donne semisvestite e uomini in atteggiamenti sessuali», a condizione che vengano effettuati alcuni tagli, e cioè: «venga tagliata la scena in cui il detective (attore Murgia) appoggia il dito sul capezzolo della donna e accorciata la scena finale con la donna semisvestita che si avvicina al giornalista».

In data 23 marzo 1966, la Piceno fa richiesta di cambiare il titolo del film, che a distanza di un anno non è ancora uscito, in Le donne degli altri, in quanto Cadavere a spasso «non è di gradimento delle Agenzie di noleggio, e non lo prendono in considerazione». La richiesta è respinta (20 aprile 1966) dato che esiste già da tempo in circolazione una pellicola con quel titolo: si tratta di Pot-Bouille (1957) di Julien Duvivier, con Gérard Philipe e Dany Carrel, dal romanzo di Émile  Zola. La Piceno, il 12 luglio 1966, propone un nuovo titolo, Strana notte al Grand Hotel, questa volta concesso (28 novembre 1966).

 

 

n. 44954

491/490 più 1 (491)

Svezia 1964, b/n

 

R: Vilgot Sjöman; s: dal romanzo di Lars Görling;  sc: Lars Görling, Vilgot Sjöman; fo: Gunnar Fischer; mt: Lennart Wallén; mu: Georg Riedel.

Int: Lars Lind (Krister), Leif Nymark (Nisse), Stig Törnblom (Egon), Lars Hansson (Pyret), Sven Algotsson (Jingis), Torleif Cedestrand (Butcher), Bo Andersson (Fisken), Lena Nyman (Steva).

Prod: Svensk Filmindustri.

Revisione: 1.4.1965 (2595 m), respinto: 7.4-9.7.1965.

Riedizione: 2.5.1968 (2562 m), approvato: 4.6.1968 (n.o. 51556 - v.m.18).

 

 

Sei ragazzi, provenienti da ambienti equivoci e istituti di pena, vengono riuniti in un educandato sotto la sorveglianza di un ispettore per la gioventù e del pedagogo Krister per un esperimento che ne favorisca il recupero sociale. I tentativi non vanno a buon fine, e i ragazzi, scoperto che Krister è omosessuale, lo ricattano. Ma l’ispettore ricatta a sua volta i sei, minacciando di denunciarli per furto. Per vendicarsi di Krister, prima i giovani gli rubano mobili e collezione di libri, spingendolo poi a chiedere un prestito a una prostituta e a denunciarlo per sfruttamento. Uno dei giovani, pentito, cerca di salvare Krister, ma muore in un incidente. Gli altri compari verranno arrestati.

 

Quando arriva nelle sale, il film di Vilgot Sjöman tratto dal romanzo di Lars Görling (il cui titolo si riferisce al passo del Vangelo di Matteo secondo cui i peccati vanno perdonati «settanta volte sette», ossia quattrocentonovanta volte) causa numerose polemiche, vuoi per le numerose allusioni all’omosessualità, vuoi per la scena in cui una prostituta viene fatta accoppiare (fuori campo) con un cane alsaziano. Come sempre nell’opera di Sjöman, la crudezza provocatoria dei temi e delle immagini è al servizio di una tesi politica ben precisa, in questo caso la denuncia delle possibili derive autoritarie della società svedese in forma d’apologo che offre anche uno spaccato dei mutamenti generazionali in corso nel Paese e non solo.

491 arriva in Italia grazie alla I.N.D.I.E.F., che presenta in revisione la versione doppiata il 1 aprile 1965. La V sez., che lo revisiona il 6 aprile, boccia il film a maggioranza «perché ha per contenuto una serie di situazioni che costituiscono offesa al buon costume, in particolare nella vicenda di pederastia, con i ricatti che vi si ricollegano, e nelle scene delle quali è protagonista la prostituta, nonché per la volgarità del linguaggio talora gratuito». Presentando appello (26 aprile), la ditta distributrice fa presente che la pellicola, i cui dialoghi sono molto più crudi nell’edizione originale, è in programmazione in paesi dove la censura è più severa (Germania, Austria, Svizzera, Danimarca), e si dichiara disposta a effettuare modifiche. In dettaglio:

 

1) Accorciare la scena dell’ispettore con Nisse nel modo seguente: a pag. 49 del copione dialoghi, inizio taglio dalla battuta: «In fondo sei un tipo simpatico ecc. ecc.», fino a pag. 51, e il dialogo riprende: «Qualunque cosa hai bisogno rivolgiti a me con fiducia, sono sempre qui io».

2) A pag. 57 e 58 del copione dialoghi, soppressione di tutta la scena dove la ragazza nuda appoggiata al parapetto della motobarca è tenuta per mano dal ragazzo e soppressione del seguente dialogo:

Steva: «Oh oh!».

Fisken: «Che schifo».

Nisse: «Se trovi tu una che ci stava non ci pensavi due volte».

 

La società si dichiara anche disposta a cambiare qualche battuta di dialogo. La seduta della Commissione di II grado ha luogo l’8 luglio: i commissari ritengono a maggioranza (11 su 13) di confermare il precedente parere:

 

la Commissione, invero, riscontra nel tema trattato offesa alla moralità ed al buon costume in quanto col pretesto di una indagine relativamente a sei giovani traviati, viene presentato un modello di educandato nel quale il soprintendente ispettore è un invertito sessuale, l’istruttore è un ingenuo e un credulone ed i giovani, oggetto dell’indagine, vi conducono, sotto gli occhi degli istruttori, un sistema di vita intessuto di delitti, di libertinaggi e di sfruttamento della prostituzione. Nella vicenda, poi, di per sé stessa sgradevole e ripugnante si alternano sequenze di bassa pornografia con linguaggio scurrile e volgare. Per questo la Commissione di appello non ritiene di poter accogliere le proposte di tagli.

 

La I.N.D.I.E.F ripresenta il film quasi tre anni dopo, il 2 maggio 1968, approfittando del mutato clima censorio. Oltre alla modifica del titolo in 490 più 1, sono stati modificati i dialoghi e il montaggio, e soppresse alcune scene dove risultava evidente la pederastia. La I sez., che visiona il film il 3 giugno, esprime stavolta parere favorevole alla proiezione in pubblico col divieto ai minori di anni 18 (motivato «dalla particolare problematica trattata e dalla presenza di scene e dialoghi scabrosi»).

La ditta distributrice rinuncia all’appello.

 

 

n. 45250

L’uomo venuto da Hiroshima/Le notti della violenza

Italia 1965, b/n

 

R: Roberto Mauri [Giuseppe Tagliavia]; sc: Roberto Mauri, Edoardo Mulargia; fo: Vitaliano Natalucci; mu: Aldo Piga; mt: Nella Nannuzzi.

Int: Alberto Lupo (commissario Ferretti), Marilù Tolo (sorella di Carla Pratesi), Lisa Gastoni (Linda), Hélène Chanel (Carla Pratesi), Cristina Gaioni (Franca), Nerio Bernardi (Pratesi), Dada Gallotti (maitresse), Tullio Altamura (amante di Carla), Ugo Fangareggi (Roberto Lagosta), Luigi Batzella (detective).

Prod: D.M.C. Cinematografica.

Revisione: 3.6.1965 (2441 m), respinto: 5-22.6.1965.

Riedizione: 26.7.1965 (2360 m), approvato: 7.9.1965 (n.o. 45602 - 2225 m - v.m.18).

 

L’omicidio della squillo Carla Pratesi mette il commissario Ferretti sulle tracce di un’organizzazione criminale dedita allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di droga. Ma nonostante gli arresti le aggressioni continuano, e tutte le vittime raccontano di essere state aggredite da noti attori cinematografici, i quali però hanno degli alibi inoppugnabili. Il commissario mette allora sotto sorveglianza il parco dove il maniaco agisce, ma costui riesce a fuggire prendendo in ostaggio la sorella della sua prima vittima, giunta sul posto per incastrare l’assassino. La polizia riuscirà poi a trarla in salvo uccidendo il mostro, un individuo sfigurato dalle radiazioni atomiche, che compiva i suoi crimini indossando maschere di gomma da lui stesso fabbricate.

 

Sulla scia di 6 donne per l’assassino di Mario Bava, Roberto Mauri dirige un bizzarro giallo ambientato nel mondo della prostituzione d’alto bordo, che vanta l’assassino più improbabile della storia del cinema italiano. Malgrado il cast di buon livello, la fattura è dilettantesca e il ridicolo involontario è a un passo. A differenza del film di Bava, le scene di violenza avvengono per lo più fuoricampo e il regista calca la mano sull’eros e le nudità delle attrici: la censura non apprezza affatto.

Presentato in revisione il 3 giugno 1965 con il titolo L’uomo venuto da Hiroshima, il film di Mauri è respinto dalla VIII Commissione in data 4 giugno

 

per la palese oscenità di tutta la vicenda e la volgarità del linguaggio e di molte immagini, le quali, sotto pretesto drammatico e senza alcuna dignità artistica, raffigurano aspetti di una losca attività di prostituzione clandestina, ripetutamente indugiando su scene di violenza sessuale. In modo particolare ed a semplice scopo esemplificativo, la sequenza dello spogliarello della cassiera del bar, sottolineato da monologhi osceni del vecchio e non legata allo sviluppo narrativo della trama, si risolve in una semplice pornografia (art. 6 legge 21/4/’62, n. 161).

 

La società presenta ricorso e in data 21 giugno il film è di nuovo revisionato dalla Commissione di Appello, la quale conferma a maggioranza il parere negativo espresso in I grado:

 

considerato che il film in ogni sequenza, e con molta frequenza di linguaggio, si palesa in condizioni di palese e costante oscenità; che manca ogni pregio artistico che i produttori e il regista cercano di ritrovare, invano, in manifestazioni pornografiche e di violenza sessuale, in relazione a episodi di prostituzione clandestina; che il film è disseminato di gratuite scabrosità, quali spogliarelli, tentativi di violenza carnale, brutalmente presentati, contrattazioni oscene di amore mercenario («il mio prezzo è 2000 lire», «non accetto cambiali» ecc.), battute volgari («frocio» ecc.) che è impossibile isolare ai fini di un eventuale risanamento per mezzo di tagli.

 

Seguendo la prassi consolidata, la produzione rimonta al film e il 2 agosto 1965 lo presenta di nuovo in revisione con il titolo Le notti della violenza. La nuova versione è sforbiciata sia nel visivo che nel sonoro:

 

Scene tagliate:

− Eliminata la scena raffigurante i protagonisti intimamente indugianti nel letto matrimoniale (m. 13).

− Spostamento della protagonista dal letto al telefono (riduzione m. 9).

− Scena della prima aggressione ridotta di metri 28: non evidenzia più la scompostezza delle gambe dell’aggredita.

− Nella scena della seconda aggressione non risultano circostanziate le condizioni né la particolare condizione del corpo dell’aggredita, per cui la sequenza risulta ridotta di metri 39.

− Completamente eliminata la scena dello spogliarello della cassiera (m. 22).

− Soppressa la scena raffigurante lo squallido ambiente della prostituzione (m. 30).

− Riduzione m. 11 nella terza aggressione.

 

Dialoghi soppressi:

«Tutto è diventato così caro che non si può campare».

«E qui di guadagna sempre di meno. Non ci resta che cambiare mestiere».

«E cosa ci mettiamo a fare».

«Senti un po’ bella, vieni qui».

«E mo che vuole questo? A moré smamma nun farci perde tempo».

«E che? Sei Cleopatra? Nun accetti nemmeno le cambiali?».

«A morto de fame!».

«Nun se batte un chiodo, è lunedì. Se potessi rifà il calendario lo cancellerebbe. Ripassa… Oh, andiamo… Ci guadagni tu, sai?».

«Fammi vedere le tue proprietà come stanno».

«E vattene frocio… la mia tariffa è duemila. Non è molto però si paga in anticipo. Sai com’è: con i tempi che corrono! Non è mica per sfiducia».

 

Nuovi dialoghi inseriti:

«Ciao bello, vuoi restare un po’ con me?».

«Questa sera non c’è giro. Oh, una faccia simpatica: non ne capitano spesso qui!».

 

Il 28 agosto 1965 al film è concesso il nulla osta, previo il taglio di altre scene per complessivi 135 m (descritte come: «episodio della riffa, accorciamento della prima aggressione, eliminazione della frase “e se voglio un uomo me lo prendo”») e con divieto di visione ai minori di 18 anni.

La società presenta nuovamente ricorso, reputando eccessivo il divieto imposto «non ricorrendo a seguito delle sostanziali modifiche apportate», scrive Antonino Celsi, rappresentante della società D.M. Cinematografica «le circostanze “gravemente dannose” ai minori predetti in quanto non identificabili nella natura della vicenda nella occasionalità sessuale né nei comportamenti sessuali».

La Commissione di Appello, riunitasi in data 30 agosto, conferma però il divieto «in considerazione dell’ambiente equivoco descritto, della raffigurazione di molti personaggi tarati moralmente e, soprattutto, della presenza di varie scene e sequenze che puntualizzano il comportamento sessuale a sfondo mercenario, risultano controindicate alla particolare sensibilità dei minori e alle specifiche esigenze della loro formazione educativa (art. 5 legge 21/4 /1962, n. 161)».

Il 26 ottobre 1992 il film è derubricato per lo sfruttamento televisivo, su richiesta di Reteitalia. I tagli apportati ammontano a 6,25 m: «1) Alleggerimento scena dell’aggressione a Carla Pratesi; 2) Alleggerimento scena in cui il protettore schiaffeggia ripetutamente la ragazza».

 

 

n. 45820

Insomma

Italia 1965, col.

 

R: Paolo Brunatto, Mario Masini; fo: Roberto Nasso.

Prod: Roberto Nasso.

Revisione: 30.9.1965 (335 m), respinto: 13.10-29.11.1965.

 

Opera prima del documentarista e autore televisivo Paolo Brunatto (co-diretta con Mario Masini), Insomma è un cortometraggio di circa 12’ descritto nel foglio di presentazione come «narrativo-sperimentale, senza un soggetto che si possa descrivere. Si tratta di frammenti di vita di due giovani donne che, in una confusione tra memoria e realtà, si identificano con altre persone e identificano il territorio della propria anima con altre geografie tra il reale e il fantastico? Anche il commento parlato ha il carattere di confusione e di frammento».1 Presentata in revisione il 30 settembre 1965, l’opera viene bocciata dalla Commissione di I grado perché «contraria al buon costume per la scena iniziale della donna nuda e per le battute in cui viene più volte ripetuta la parola “puttana”».

Il giudizio negativo è ovviamente contestato dal produttore Roberto Nasso, che in una missiva indirizzata al Ministero dello Spettacolo scrive:

 

il sottoscritto, pur comprendendo il sentimento dell’on. Commissione di primo grado, rifiuta in piena coscienza l’accusa fatta al documentario di «contrario al buon costume», poiché gli elementi in esso contenuti non hanno in alcun caso carattere di volgarità. L’idea originale del documentario era quella di porsi al di là del limite consueto del pregiudizio per una modesta (perché contenuta dentro un breve spazio) operazione di rottura stilistica. Il documentario, come si vede, non è leggibile secondo i canoni consueti. Il regista intendeva recuperare e riproporre a chi ne fosse interessato, un certo cinema d’avanguardia degli ultimi trenta anni, riprendendone i temi e le soluzioni ritmiche. Nel quadro dell’attuale situazione del documentario, la nostra speranza era quella di produrre un’opera insolita, pur sapendo di dover affrontare molti rischi di carattere economico e molte incomprensioni.

 

Quanto alle scene contestate dalla commissione di censura, Nasso sottolinea:

 

La parola «puttana» è ormai logorata dall’uso che ne ha fatto il cinema neorealistico: la letteratura l’ha assorbita come modo usuale di definizione. Al livello di un pubblico evoluto – e il documentario è destinato a questo – nemmeno i seni nudi di una donna che si alza dal letto – come succede nella realtà – possono costituire materia di scandalo.

 

La Commissione d’Appello, riunitasi il 28 novembre 1965, conferma all’unanimità il parere espresso in I grado, ravvisando nell’opera «oltre che la scena iniziale, manifestamente pornografica, anche altre scene che nel gioco delle sovrapposizioni si rivelano contrarie alla moralità e al buon costume».

 

 

1 In calce allo stesso documento qualcuno ha scritto a penna: «privo di commento parlato».

 

 

n. 45845

Cinque letti tiepidi/Racconti a due piazze

Italia/Francia 1965, b/n

 

R: Jean Delannoy, Gianni Puccini, François Dupont-Midi; s: La culla da una storia di Jean de La Fontaine; Morire per vivere da un atto unico di Eduardo De Filippo; sc: Jean Delannoy, Gianni Puccini, Alfredo Giannetti, François Dupont-Midi, Jean-Loup Dabadie, Bruno Baratti, Darry Cowl; fo: Tonino Delli Colli; mt: Ornella Micheli; mu: Georges Garvarentz.

Int: La culla: Jean Richard (padre), Caroll Brawn [Carla Calò] (madre); Il mostro: Nino Castelnuovo, France Anglade (la moglie), Leopoldo Trieste; Lo straniero di passaggio: Sylva Koscina (Giulietta/Peggy), Michel Serrault (Albert); Morire per vivere: Margaret Lee (Carmela), Lando Buzzanca, Franco Parenti; La prova: Darry Cowl (il fratello), Dominique Boschero (Colette), Jacques Charon (il fidanzato).

Prod: Cineurop (Parigi), Alvaro Mancori per Metheus Film.

Revisione: 4.10.1965 (3171 m), respinto: 8-22.10.1965.

Riedizione: 16.2.1966 (2855 m), approvato: 26.2.1966 (n.o. 46524 - v.m.18).

 

Film a episodi. La culla (Jean Delannoy): in una pensione di campagna, per mancanza di posti, un gruppo di persone è costretto a passare la notte in uno stesso ambiente, con conseguenti scambi di letto. Il mostro (Gianni Puccini): un professionista, creduto per equivoco un maniaco sessuale, diventa improvvisamente interessante agli occhi della consorte. Lo straniero di passaggio (François Dupont-Midi): un galante sconosciuto offre una forte somma a una donna per godere della sua compagnia; si scoprirà che era stato incaricato dal fratello di lei di consegnarle dei soldi. Morire per vivere (Gianni Puccini): per sbarcare il lunario, una coppia napoletana ha escogitato uno stratagemma. Lei si finge una prostituta in cerca di denaro per dare sepoltura al marito morto. La prova (Jean Delannoy): un tizio pretende che il fidanzato della sorella gli dimostri come agirà la prima notte di nozze.

 

Coproduzione italofrancese appartenente alla collaudata formula a episodi assai in voga all’epoca, con qualche pretesa «alta» (la presenza di Delannoy dietro la cinepresa, due episodi tratti rispettivamente da La Fontaine e da un atto unico di Eduardo), Cinque letti tiepidi (uscito in Francia col titolo Le Lit à deux places e vietato ai minori di 13 anni dalla censura transalpina) è presentato nell’ottobre 1965 dalla Metheus Film di Mario Siciliano e Alvaro Mancori e revisionato il 7 ottobre: il parere contrario al nulla osta della II sez. è motivato in quanto «il film – nel suo complesso e più particolarmente nei tre episodi intitolati “Il mostro”, “Morire per vivere” e “La prova” – rivela, con compiaciuta insistenza, sia nelle situazioni sia nelle battute di dialogo, volgarità ed oscenità palesemente contrarie a qualsiasi concezione del buon costume». Ricorrendo in appello il 15 ottobre, la ditta obietta che

 

la decisione in parola sembra alquanto rigida in quanto i motivi che hanno indotto la suddetta Commissione ad esprimere un giudizio così negativo non appare [sic!] trovare fondamento nel film stesso che non è altro [che] una satira, molte volte spinta fino alla farsa, di costume.

Il film, infatti, non è diretto a sfruttare situazioni immorali per fini commerciali, ma è una realizzazione altamente artistica […] e gli episodi sono tratti da opere di autori di notevole rinomanza […]. Volutamente, e sempre per ragioni artistiche, si è evitata ogni situazione scabrosa o immorale, è stata evitata ogni possibile esposizione di nudità, e il linguaggio, salvo qualche rara occasione, è stato mantenuto su un piano di castigatezza e di eleganza formale e sostanziale.

Le situazioni, poi, anche se qualche volta possono apparire non completamente ortodosse, sono state condotte su un piano di un raffinato umorismo che mira a ridicolizzare, attraverso una acuta satira, mentalità e comportamenti molto frequenti nella vita reale. Il film, perciò, – e su questo gli scriventi insistono – ha principalmente scopi artistici e di satira del costume e respinge ogni intenzione volgare, sessuale o, peggio, pornografica. È un film, come si potrà constatare, realizzato con grandi mezzi, con artisti rinomati, con registi affermati in tutto il mondo e che [sic!] nel loro passato figurano unicamente elevati intendimenti artistici e culturali.

 

Non è dello stesso avviso la Commissione d’Appello (Sez. III e IV), che il 21 ottobre si riunisce per riesaminare la pellicola. E che, sentiti Mario Siciliano e Alvaro Mancori, «rileva che, contrariamente a quanto asserito nel ricorso per la revisione» a proposito della finalità farsesca del film, «esso presenta invece gli elementi di sessualità e pornografia rilevati dalla Commissione di 1a istanza, la cui costanza e densità, in parte nella trama, in parte nelle scene e nel linguaggio scurrile, lo rendono offensivo del buon costume». E conferma il provvedimento impugnato.

La Metheus ripresenta il film, rititolato Racconti a due piazze, il 16 febbraio 1966, con «radicali trasformazioni ai tre episodi indicati» dalla Commissione.

Il mostro è «completamente modificato; cambiato completamente il dialogo, trasformate completamente le situazioni ed il montaggio. Il soggetto attuale è quello sopra descritto [nella domanda di revisione, dove però la sinossi dell’episodio è in realtà identica a quella della prima versione, N.d.A.,], ed è completamente differente da quello a suo tempo presentato». Anche in Morire per vivere è stato modificato il montaggio «cambiando così la situazione. Sono stati completamente cambiati i dialoghi», mentre in La prova sono state eliminate due scene ritenute «audaci», quella in cui «la generica insieme al promesso sposo si buttano sul letto (scena accorciata)» e un’altra che mostra un «bacio un po’ troppo lascivo tra generica e promesso sposo, completamente tagliata».

Da notare che nei titoli di testa della nuova versione, soggetto, sceneggiatura e dialoghi di Il mostro risultano attribuiti a Al Wordl [Alvaro Mancori] e Marlon Sirko [Mario Siciliano], e la regia è accreditata a Mancori.

La II sez., riunitasi il 24 febbraio 1966, suggerisce un ulteriore taglio, ossia «l’ultima parte della scena del lancio degli indumenti intimi e la scena in cui la coppia – dopo il crollo del baldacchino – viene raffigurata, sotto i tendaggi, unita nell’amplesso» (per complessivi 7 m), ed esprime parere favorevole al nulla osta con divieto ai minori di 18 anni, motivato dalla «tematica generale del film che, nonostante la sua impostazione farsesca, delinea un complesso di situazioni e di personaggi che, sotto il profilo morale, risultano controindicati alla particolare sensibilità e alle specifiche esigenze di tutela morale» dei minori stessi.

Racconti a due piazze è presentato nuovamente in revisione nel gennaio 1993 da Reteitalia, per ottenere l’eliminazione del divieto ai fini dello sfruttamento televisivo, sottolineando la «vetustà del film, tale da farlo risultare oggettivamente superato […] rispetto ai numerosi film dello stesso genere […] nei quali situazioni narrative analoghe […] vengono descritte attraverso scene ben più articolate e realistiche […]», nonché i «profondi mutamenti di costume» e il fatto che «la visione dei film comici degli anni ’60 […] è consentita ormai correntemente […] attraverso i canali del cinema e della televisione». In ottemperanza ai dettami di legge, nell’episodio La prova è stata alleggerita la scena in cui lo sposo bacia la generica Sofia sotto lo sguardo vigile del futuro cognato (6,50 m). Stavolta il film viene giudicato «per tutti» dalla Commissione.

 

 

46512

Angeli selvaggi/I selvaggi (The Wild Angels)

Usa 1966, col.

 

R: Roger Corman; sc: Charles B. Griffith, Peter Bogdanovich (non accr.); fo: Richard Moore, Peter Bogdanovich (non accr.); mt: Monte Hellman, Peter Bogdanovich (non accr.); mu: Mike Curb, Davie Allan (non accr.).

Int: Peter Fonda (Heavenly Blues), Nancy Sinatra (Mike «Monkey»), Bruce Dern (Joe «Loser» Kearns), Diane Ladd (Gaysh), Buck Taylor (Dear John), Michael J. Pollard (Pygmy), Gayle Hunnicutt (Suzie), Dick Miller (Rigger).

Prod: American International Pictures.

Revisione: 16.1.1967 (2356 m), respinto: 24.1-14.3.1967.

Riedizione: 7.9.1967 (2372 m), approvato: 12.9.1967 (n.o. 49831 - v.m.18).

Homevideo: 30 Holding (DVD, Italia), MGM (DVD, Usa).

 

Una banda di motociclisti capeggiata da Heavenly Blues è in fermento: uno dei componenti, Loser, è stato derubato della propria moto da una banda rivale. Dopo una violenta zuffa, a cui accorrono due poliziotti, Loser ruba la moto a uno di loro, ma viene ferito gravemente mentre l’altro poliziotto precipita in un burrone durante l’inseguimento. I compagni del motociclista lo trasportano di nascosto fuori dall’ospedale, ma Loser muore. Rischiando la cattura, Blues e i suoi organizzano un funerale per l’amico, dove sfogano gli istinti più violenti, provocando la reazione rabbiosa della folla. Con l’arrivo della polizia, i biker si disperdono: resta solo Blues, a coprire di terra la tomba di Loser, in attesa d’essere catturato.

 

L’ormai leggendario biker movie di Roger Corman, oltre a causare parecchie polemiche per la violenza (e una causa di diffamazione dagli stessi Hells Angels, che si sentivano rappresentati in maniera negativa dal film) ha noie di censura tanto in Inghilterra (dove verrà distribuito nei cinema, con tagli, solo nel 1972) quanto nel nostro Paese, dove è presentato il 16 gennaio 1967 in versione doppiata in italiano (dal titolo Angeli selvaggi) dalla Italian International Film di Fulvio Lucisano. In particolare, provocano la levata di scudi dei commissari la scena del funerale di Joey detto «Loser» (nell’edizione italiana Kaputt), interpretato da Bruce Dern, e quelle che seguono, dove i motociclisti si abbandonano ad atti sacrileghi e violenze carnali e fanno uso di droghe.

La Commissione, che lo revisiona il 24 gennaio, dopo aver sentito il responsabile della I.I.F. Fulvio Lucisano (dichiaratosi disposto ad eventuali tagli), delibera a maggioranza parere negativo alla concessione del nulla osta «per l’intera tematica del film che si rivela contraria al buon costume perché oltre ad essere improntata alla esasperazione ed anzi alla esaltazione della  violenza, contiene scene in cui sono agevolmente riscontrabili gli estremi di reati quali ad esempio: violenza carnale, tentativi della medesima, vilipendio di cadavere e di luoghi sacri, oltre ad un linguaggio scurrile». La Commissione rigetta dunque la possibilità di tagli: anche se due esponenti della stessa (il dottor Cianfarani e il professor Neri) dissentono, rilevando «la condanna clamorosa della violenza per ciò stesso che essa appare esasperata fino alle mostruosità più intollerabili» e propendendo per il solo divieto ai minori.

Il 15 febbraio la I.I.F. fa ricorso in appello, ritenendo in primis l’«insussistenza nel film di una tematica improntata all’esasperazione e all’esaltazione della violenza. In effetti, l’intento del regista Roger Corman […] è quello […] di denunciare una piaga sociale del suo paese, documentando nel film episodi realmente accaduti, ai quali la stampa, negli Stati Uniti e anche in Italia […] ha dato ampio risalto». Lucisano allega al proposito ritagli di stampa italiana («Il Giornale d’Italia») ed estera, sottolinea come il film descriva il graduale recupero morale e sociale del protagonista interpretato da Peter Fonda e trovi sbocco in un finale che mostra «la fatale, inesorabile prevalenza della Società e dell’ordine costituito sulla violenza e sul caos».

Oltre a ciò, la I.I.F. insiste sull’«idoneità del film a pubblica proiezione, previi opportuni tagli e modifiche alla sceneggiatura e ai dialoghi» nonostante la «crudezza, forse eccessivamente realistica, di alcune sequenze che compaiono nella parte finale». A tale scopo, allega una serie di «proposte di modifica», che in una relazione datata 20 febbraio diventano una serie di tagli spontaneamente effettuati per un totale di 160 m (5’49”).

 

In particolare: è stato abolito ogni segno distintivo di luogo sacro nel fabbricato e nel locale dove si svolge il funerale di Kaputt; detto luogo viene definito nel parlato «obitorio»; il celebrante non è più un sacerdote, ma semplicemente una persona incaricata di pronunciare un’orazione funebre; è stata eliminata ogni scena in cui si vede il cadavere di Kaputt tolto dalla bara e fatto oggetto di atti che potevano suonare vilipendio; è stata del tutto eliminata la violenza carnale a Gheiscia [Gaysh in originale, N.d.A.]; è stata eliminata la scena in cui Blues prende la droga; nel finale è stato marcato con modifiche di dialogo il ripudio da parte di Blues del modo di vita fino ad allora adottato da lui stesso e dal suo gruppo; è stata infine inserita una didascalia iniziale che sottolinea il valore e la finalità positiva della denuncia contenuta nel film.

 

Ed ecco allora che nel rullo 7 vengono sforbiciate l’inquadratura dove appare il nome della chiesa, Sequoia Groves Community Church (6,20 m), e il totale dell’interno con il crocifisso in evidenza (1,90 m). Nel rullo 8 i tagli sono numerosi: è accorciata di 21,10 m la scena in cui due biker afferrano Gaysh, la drogano e la violentano («Ehi, ma che tigre che sei! Reggila forte, che graffia… questa pantera! Ecco, così, bella: tira un bel respiro profondo, così, brava… ecco, ora ci sei, insisti… Oh, è arrivata…»); l’inquadratura in cui il prete è legato con un fiore tra le mani (5,50 m); la scena in cui alcuni biker tolgono il cadavere di Loser dalla bara, lo mettono a sedere, gli  infilano una sigaretta in bocca e mettono al suo posto il pastore (38,90 m); Blues che prende la droga (4,30 m); Blues e «Sdraia» Mulligan che si dirigono verso l’altare, col taglio della battuta di lei «Cambiamo binario, eh?» (1,50 m); Frankenstein (Marc Cavell) che dopo aver violentato Gaysh incita i compagni a fare lo stesso («Ehi, sotto a chi tocca!») (3,90 m); inquadratura di Loser con la sigaretta in bocca (2,60 m); Gaysh che si alza imbambolata dopo aver subito varie violenze e parla col morto (38,20 m): viene eliminata una linea di dialogo di Gaysh che fa il verso al Vangelo («Joey… Joey… hanno perso la testa tutti, hai visto?… Non sanno quello che fanno… puoi perdonarli, Joey?»). Infine, viene eliminato il punto in cui i motociclisti tolgono il prete dalla bara e vi rimettono il cadavere del compare.

La I.I.F. propone ulteriori modifiche ai dialoghi del protagonista, che «accentuano il di lui atteggiamento di critica e di reazione conseguente al graduale risveglio della propria coscienza morale e sociale», e al parlato, così da togliere «ogni e qualsiasi dubbio, se mai possibile, in ordine all’intento del film, al suo carattere di denuncia e di condanna aspra e aperta degli usi e costumi veri delle bande dei cosiddetti “motociclisti maledetti” […] le cui nefaste imprese  hanno trovato, anche recentissimamente, eco nella stampa di tutto il mondo, quella italiana compresa». Un esempio è il dialogo finale tra Blues e Mike (Nancy Sinatra), che lo esorta a fuggire: in originale lui le risponde «There’s nowhere to go», in italiano «Tutti abbiamo sbagliato».

Il distributore si lancia poi in un excursus storico-cinefilo sul fenomeno delle bande di bikers e sulle pellicole che ne hanno mostrato le gesta sullo schermo, come Il selvaggio (1954) di Laszlo Benedek, con Marlon Brando, e in una sorprendente tirata contro la violenza diffusa nel cinema di genere coevo, che vale la pena riportare:

 

In questo quadro prospettivo, e in presenza, oltretutto, di una quotidiana e massiccia diffusione di films che come i cosiddetti western all’italiana […] o western all’americana o ancora i vari agenti segreti o agenti… con licenza di uccidere, e così via, hanno come unica e costante tematica la violenza in ogni suo aspetto più brutale e rivoltante, per di più del tutto fine a se stessa ed avulsa da una qualsiasi realtà meritevole di sociale considerazione, sembra non potersi revocare in dubbio l’idoneità alla pubblica diffusione di un film, quale l’attuale, che in ossequio a quella che è e deve essere la funzione, informativa e formativa al tempo stesso […], del cinema d’oggi, rappresenta esclusivamente e soltanto documento di cronaca e, insieme, di condanna di una cruda realtà, sia pur marginale, ma viva ed attuale, della società moderna, quale quella delle bande di teppisti americani che, per di più, si sentono eredi e vessillifere di un nascente neonazismo dal quale la Società – come detto nella didascalia iniziale del film [aggiunta dal distributore, N.d.A.] – «deve imparare a difendersi ed a reagire per determinarne la scomparsa».

 

Non contenta, la I.I.F. allega anche un parere pro veritate di dieci pagine stilato da Ercole Graziadei, G. Vismara Currò, Pietro Lia e dal futuro ministro di Grazia e Giustizia Giuliano Vassalli, che sorregge e ribadisce le ragioni dell’appello.

La Commissione di II grado, formata dalle sez. VII e VIII, si riunisce il 13 marzo: il giudizio è ancora una volta negativo.

 

Ritenuto che il film svolge una tematica permeata di scene orgiastiche, di sfrenatezza e di vizio; ritenuto che il film, oltre ad essere diseducativo anche nel dialogo, spesso indugia su situazioni che possono eccitare all’erotismo e che, senza entrare in particolari, si rivelano esistenti nel film quelle gravi offese al buon costume accennati [sic!] nella motivazione di primo grado; ritenuto infine che, invitati i ricorrenti interessati ad apportare alcuni tagli al film, essi si sono rifiutati di aderire.

 

La Commissione rigetta a maggioranza il ricorso. Gli ulteriori tagli proposti riguardavano la tentata violenza carnale all’infermiera di colore nella scena in cui i motociclisti trafugano Kaputt dall’ospedale, la seconda parte della sequenza della riunione nel bosco «quando la comitiva è visibilmente drogata» e l’eliminazione totale del segmento della chiesa, dalla battuta «Ciao padre, ci sarebbe un lavoretto da fare» (battuta che, per inciso, la I.I.F. s’era dichiarata disposta a cambiare) all’interramento del cadavere.

The Wild Angels viene ripresentato con il nuovo titolo I selvaggi, il 7 settembre 1967. La Commissione di I grado, che lo revisiona l’11 settembre, esprime stavolta parere favorevole alla proiezione in pubblico, con divieto ai minori di 18 anni «per la tematica generale del film e per le numerose scene di teppismo e violenza». La I.I.F. accetta il responso e rinuncia all’appello.

Il film di Corman è presentato nuovamente in revisione il 24 maggio 1991 per ottenere la derubricazione. Vengono effettuati i seguenti tagli (poco più di due minuti complessivi): 1) eliminata la scena di orgia nel bosco tra i motociclisti e le loro compagne (19 m); 2) abbreviata la scena di orgia nell’aula dove si svolgono i funerali del ragazzo deceduto (40 m).

 

 

n. 47901-47911

La danza del fuoco; Danza indiana; La danza dello struzzo; Gaia danza Sistar; Milady s’annoia; Dov’è il mio cappello; Fantasia dell’arcobaleno; Nella galleria d’oro; La danza del leopardo; La danza di Salomè; Mambo esotico

Italia 1966, col.

 

R: non indicata.

Prod: Cineclub Service.

Revisione: 5.10.1966 (15 m, 8 mm), respinti: 7.10-9.12.1966.

 

Undici corti a carattere musicale prodotti dalla Cineclub Service, che mostrano danze particolari eseguite dalla ballerina Thassel Hassel. Tutti respinti in quanto «le nudità ostentate e le movenze provocanti della protagonista conferiscono […] un carattere esclusivamente di compiacente erotismo e, quindi, contrario al buon costume».

 

 

n. 48430

A mosca cieca

Italia 1966, b/n

 

R, sc: Romano Scavolini; fo: Cesare Ferzi, Mario Masini, Roberto Nasso, Romano Scavolini; mt: Mauro Contini; mu: Vittorio Gelmetti.

Int: Carlo Cecchi (Carlo), Laura Troschel (Laura), Remo Remotti, Giuseppe Valdembrini, Emiliano Tolve, Ciro Moglioni, Cleto Ceracchini, Paola Proctor.

Prod: Laboratorio di Ricerche Cinematografiche Vincenzo Nasso.

Revisione: 28.12.1966 (1717 m), respinto: 31.12.1966-1.3.1967.

Homevideo: Raro (VHS, Italia).

 

Carlo, un giovane in preda a una confusa angoscia esistenziale, vagabonda per la città per incontrare un amico. I due si trovano nella stessa piazza, ma non si incontrano. Carlo ripensa alla sua storia d’amore con Laura, agli incontri con gli amici e alle conversazioni avute con essi. Quando in un’auto scorge una pistola, Carlo la ruba, e immagina di utilizzarla per compiere delitti. Fino a che la sua inquietudine esplode, e Carlo spara a un passante.

 

Palesemente debitore di Gide e Camus (Lo straniero), il primo lungometraggio di Romano Scavolini, girato in 16mm e in bianco e nero, è un esordio di grande libertà espressiva, con uno stile che si fa sperimentale per raccontare una vicenda di alienazione e inquietudine esistenziale scardinando le coordinate narrative tradizionali: trama pressoché inesistente, pochissimi dialoghi, inquadrature e situazioni ripetute, un continuo rincorrersi di «realtà e irrealtà, di fantasie e di ricordi, di passato e di presente»1 che fa da contrappunto alla condizione del protagonista, e che mette a frutto la lezione della (Godard amò molto il film). E annuncia, seppure a livello puramente istintivo e umorale, il grande sommovimento sessantottino di lì a venire.

Se il primo montaggio toccava le 6 ore, la versione depositata in censura il 28 dicembre 1966 – la stessa presentata alla seconda Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, nel giugno 1966 – è di 1717 m effettivi (circa 63’). La III sez. di revisione, che lo revisiona il 30 dicembre, lo boccia «per le numerose sequenze dei due amanti nudi a letto ed in altre situazioni, in atteggiamenti lascivi, che si ritengono contrari al buon costume».

La società produttrice, il Laboratorio di Ricerche Cinematografiche Vincenzo Nasso, cui la decisione è stata comunicata solo in data 11 gennaio 1967, fa ricorso in data 30 gennaio, obiettando in primis la violazione e falsa interpretazione delle norme e dei principi in tema di tutela del buon costume e di revisione dei film.

 

La Commissione di primo grado ha frainteso lo spirito e la lettera delle sequenze censurate, sia considerate in sé, sia nell’economia complessiva e nella visione unitaria del film sottoposto a revisione, il quale intende e vuole esprimere e presentare idee, temi e situazioni tutt’altro che ispirati e diretti a offendere il buon costume – anche nelle sequenze che hanno dato pretesto al parere contrario – in quanto la tematica generale […] era ed è del tutto remota e aliena dalla ingiustificata e gratuita provocazione sessuale […]. Le fugaci sequenze della ritenuta nudità dei due giovani protagonisti, così come inquadrate, inserite e presentate nel contesto del film, nulla contengono di quei caratteri di rilievo, intensità, evidenza e compiacenza che contraddistinguono la produzione filmica ritenuta offensiva del buon costume.

 

L’appellante ravvisa in secondo luogo un eccesso di potere da parte della Commissione, «anzitutto per illogicità e incongruenza, in quanto la determinazione adottata impedisce la circolazione di un film che non turba ed offende il buon costume, ma vuole costituire uno studio di carattere sperimentale con inconfondibili e precisi lieviti di ricerca sul piano culturale, sia dal punto di vista del linguaggio che da quello del contenuto». Oltre a ciò, i commissari vengono accusati di travisamento di fatti e difetto di presupposti, e cioè i «pretesi “atteggiamenti lascivi”, laddove le sequenze censurate rappresentano momenti niente affatto ripugnanti o conturbanti per il pudore sessuale, bensì immagini amare e dolenti di frustrazione e impotenza dello spirito e dell’anima, prima e oltre che del corpo»: insomma, nemmeno tanto fra le righe, si obietta che la Commissione non abbia proprio capito la vicenda narrata nel film.

Infine, Nasso rimarca un difetto di motivazione del provvedimento, in quanto questa «appare del tutto inconsistente ed insufficiente a spiegare e giustificare il processo logico e giuridico seguito al fine di ritenere contrari al buon costume i brani dell’opera in cui si è voluto ravvisare pretesi “atteggiamenti lascivi”».

La Commissione d’Appello, formata dalle sezioni IV e V, si riunisce l’8 febbraio: ne fanno parte tra gli altri i registi Alberto Cardone e Mario Sequi. Dopo aver sentito Scavolini e il produttore Vincenzo Nasso e avere revisionato il film, la Commissione sospende a maggioranza il giudizio invitando gli appellanti «ad alleggerire due scene, e precisamente: la fine della panoramica della protagonista nuda sul letto eliminando i fotogrammi in cui appare il petto nudo, nonché le inquadrature finali della scena dell’amplesso quando il protagonista poggia le labbra con avidità sul collo della protagonista al fine, subito dopo dichiarato, di consumare l’unione carnale». Sequi e il professor Luigi Meschieri sono invece favorevoli alla concessione del nulla osta con divieto ai minori di 18 anni, senza alcun taglio.

Evidentemente l’esperienza in Commissione dev’essere stata per i realizzatori un episodio surreale di incomunicabilità degno di quello rappresentato nel film, a leggere l’esposto che Nasso presenta al Ministero il 17 febbraio. Il produttore si dichiara disposto non a tagliare, bensì a oscurare i punti indicati dalla Commissione, giustificando la proposta, con graffiante sarcasmo,

 

per i seguenti motivi: 1) Per un atto d’umiltà, affinché la nostra contestazione, che ha solo carattere culturale, non venga erroneamente interpretata come caparbia opposizione. 2) Per un sentimento di tolleranza: ammettiamo, infatti, che due gruppi culturali, i quali non intendono assumere un linguaggio e una coscienza comune, possono praticamente coesistere. Ciò con la speranza di aver restituita altrettanta tollerabilità nelle prossime occasioni. 3) Per una ragione pratica: crediamo, infatti, che sia doveroso, ai fini scientifici, poter mostrare i risultati delle nostre ricerche. Ci permettiamo di allegare i motivi della nostra accettazione e le considerazioni che seguono per una ragione fondamentale. Il film A mosca cieca è un’operazione di laboratorio che deve essere continuata poiché, a nostro parere, non si è conclusa, proprio per il fatto d’essere stata condotta su simboli. Ha perciò bisogno di successive indagini pratiche. Questa continuazione di attività culturale, che è un impegno di gruppo, non si può realizzare, se non si raccolgono i precedenti motivi che ispirarono il nostro lavoro passato e che sono le premesse indispensabili del successivo.

 

L’esposto prosegue con

 

alcune considerazioni culturali, che sono le stesse espresse a voce nella seduta dell’8 febbraio 1967. La necessità di operare tagli di inquadrature scaturisce da un’opinione, a nostro modesto parere, familiare, che non ha sostanza di giudizio, perché non convalidata da un’indagine. […] La Commissione non ha voluto accettare il carattere sperimentale del film, che dichiaratamente voleva essere una ricerca sul linguaggio quale fattore di indagine. Era da escludersi quindi ogni riferimento alla lingua, così come viene usata correntemente. In questo senso alcuni simboli, che avevano valore nella loro globalità e consequenzialità, sono stati staccati e giudicati come «visioni private», con il metodo delle credenze prestabilite, mentre dovevano valere, sempre globalmente, come significazioni.

 

La conclusione del produttore è emblematica del muro che separa i commissari dai realizzatori di A mosca cieca. «Se ciò che è segno per un gruppo culturale, per un altro è parola, non c’è possibilità di dialogo ed automatico avviene il fraintendimento». Aggiunge Nasso:

 

Il seno e il bacio erano, inoltre, segni occasionali e perciò non destinati alla fruizione, come non destinato alla fruizione è tutto il film nella sua interezza, se si conviene […] che esso film si pone nella sfera della problematicità autentica, poiché indaga su una situazione confusa, nel tentativo di chiarire, senza peraltro riuscirci (e in questo senso ci sembra assumere le caratteristiche di una prova di metodo) un problema non scolastico, ma esistenziale, poiché non è dato con presupposti certi.

 

L’ultima parte dell’esposto suona come un ulteriore sberleffo, e rende bene l’idea di un clima culturale insofferente nei confronti di un’istituzione portatrice di un pensiero ammuffito, assurdo nell’aggrapparsi a schemi mentali appartenenti a un passato contro cui le nuove generazioni si oppongono con sempre maggior foga.

 

Forse bisognava stabilire se quel seno o quel bacio erano stimoli di lascivia. Poiché l’acqua è sempre acqua, ma acquista diverse significazioni ed è destinata a diversi consumi, se estingue la sete, se innaffia le piante, se muove i mulini o se è fonte di energia… può, inoltre, scaturire da una fontanella, scorrere in un fiume, stagnare in una palude, essere dolce o salata, naturale o minerale.

 

Conclude Nasso:

 

la Commissione ha rifiutato di considerare i nostri onesti tentativi di comparazione con altri film che hanno ottenuto, pur esponendo seni e nudi, in base ad altri criteri, il nulla osta. Il seno di una negra può essere esposto per motivi etnografici: il nudo del film L’uomo del banco dei pegni può essere esposto per motivi socio-politici; noi sosteniamo che il seno della donna nel film A mosca cieca è un seno negro e che il letto-ambiente è più drammatico di un campo di concentramento.

 

I censori non la prendono bene. La Commissione si riunisce nuovamente il 22 febbraio: nella seduta non sono presenti Meschieri e Sequi, sostituiti da Giuseppe Liguori e da Mario Cecchi Gori. Preso atto dell’esposto di Nasso, la Commissione nega nuovamente, a maggioranza, il nulla osta, confermando il giudizio di I grado, con D.M. 1 marzo 1967. In questa occasione sono invece favorevoli al nulla osta con divieto ai minori il presidente della V sez. Edoardo Modigliani e l’avv. Fausto Latini, mentre il professor Rocco Sesso dichiara d’essere per la conferma del diniego del nulla osta, senza proporre tagli.

Nasso e Scavolini non si arrendono. E, in data 24 marzo 1967, fanno ricorso al Consiglio di Stato contro il Ministero del Turismo e dello Spettacolo per l’annullamento del decreto ministeriale con cui è stato negato il nulla osta, chiedendo altresì che sia il Consiglio stesso, pronunciandosi nel merito, a concederlo. I motivi del ricorso sono:

 

1) «Violazione delle norme e dei principi generali sulle deliberazioni degli organi collegiali amministrativi. Violazione e falsa applicazione dei principi e nome legislative e regolamentari sulla revisione dei film. Eccesso di potere». Il ricorso rimarca la scorrettezza e l’anomalia della procedura, vista la sostituzione dei due membri favorevoli (Meschieri e Sequi) con due (Liguori e Cecchi Gori) che non avevano in precedenza esaminato il film, ma che ciononostante concorrono alla deliberazione.

2) «Violazione delle norme citate, sotto altro profilo. Eccesso di potere per manifesta illogicità e contraddittorietà, nonché per incongruenza di motivazione». La Commissione, chiedendo di «alleggerire» le due scene, non aveva specificato se ciò dovesse effettuarsi mediante tagli o anche oscuramenti: «non si comprende perciò», si obietta, «come […] la Commissione dica che permane la contraddittorietà del film al buon costume».

3) «Violazione e falsa applicazione dei principi e delle norme in tema d’offesa al buon costume. Violazione e falsa applicazione delle norme legislative e regolamentari citate, in ordine alla valutazione dell’offesa al buon costume. Eccesso di potere per difetto di presupposto e per travisamento di fatti, nonché per palese ingiustizia. Mancanza di motivazione».

«Sia ben chiaro» si legge nel ricorso, «che non si vuole qui sostenere che un’opera di cinema “sperimentale” possa pretendere un trattamento differenziato e privilegiato quanto a concezione e nozione di offesa al buon costume. Si vuole solo ribadire che al film A mosca cieca non compete e non si addice una interpretazione sessualistica ed erotizzante, che non persegue né apertamente, né allusivamente, come tanta parte della produzione filmica annessa alla circolazione, né intende contrabbandare, all’insegna di un cinema di cultura e di ricerca».

E si ribadisce come le due commissioni di censura non si siano minimamente soffermate sul significato e i propositi dell’opera.

 

Il giudice, che in tal caso si pone come interprete della coscienza collettiva – in un dato momento storico e sociologico, in una precisa temperie morale e culturale – dovrà […] compiere quel giudizio di valore eluso dalla Amministrazione […], ponendosi in grado di cogliere e considerare i reali connotati che distinguono e caratterizzano l’esperienza filmica in questione, i cui lieviti e fermenti, presi nella loro interezza, annullano il significato sessuale di alcune sequenze.

E a proposito delle scene incriminate:

 

i corpi dei due giovani sono coperti dalle lenzuola, e del tutto fugace ed in ombra è il fotogramma in cui si intravede il seno della protagonista. Le sequenze censurate […] rappresentano in definitiva momenti amari e dolenti di inanità e solitudine dei corpi e degli animi dei due giovani, secondo il reale e complessivo clima di tutto il film, piuttosto che figurazioni di eccitazione e bramosia dei sensi.

 

Le controdeduzioni dell’Avvocatura: sul primo motivo, la Commissione delibera quando è costituita in numero legale, e nella seconda seduta il compito era circoscritto alla verifica dell’adempimento di quanto richiesto in precedenza; sul secondo motivo, «alleggerire» una sequenza significa ridurla, e Nasso lo aveva bene presente, aggiunge l’Avvocatura, a giudicare dall’esposto inviato tra le due sedute; sul terzo motivo, si ribadisce l’effettiva contrarietà al buon costume delle scene di cui è stata richiesta l’eliminazione, «indipendentemente dalla trama in cui sono inserite, e senza che possa farsi raffronto con altri films che sono stati ammessi alla proiezione».

E tuttavia, che il ricorso di Nasso non fosse privo di fondamento, lo riconosce, in un appunto per il gabinetto del Ministro, la stessa IX divisione di revisione, scrivendo che «quanto si legge nel ricorso, trova purtroppo corrispondenza con la realtà dei fatti. […] Tenendo presente che nella seconda riunione, la composizione dell’orfano collegiale non era la stessa che aveva revisionato il film nella seduta precedente, si comprende quale fondamento rivesta la censura sollevata dal ricorrente», e proponendo di «procedere all’annullamento del D.M. 1 marzo 1967; reinvestendo la stessa Commissione di appello, nella identica composizione di cui alla 1a seduta dell’8 febbraio 1967, al fine di una espressione di parere sul film in questione tale da porre nel nulla i motivi […] dell’attuale ricorso».

La IV sez. del Consiglio di Stato, riunitasi in data 28 giugno 1967, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, competenze e onorari del giudizio, liquidate nella somma di 190.000 lire (decisione n. 322 del 14 luglio 1967). In particolare, nel merito, il Consiglio ritorce contro Nasso le tesi dell’esposto, citando i passi sulla diversità culturale («se ciò che è segno ecc.») e concludendo:

 

ciò val quanto dire, che la dichiarata appartenenza ad un cosiddetto gruppo culturale giustifica l’oscenità, perché essa non è parola, ma simbolo. Questa tesi è manifestamente inaccettabile […]. È irrilevante la considerazione che il film […] non sia destinato «al grande pubblico […] bensì alla ristretta schiera dei frequentatori dei circoli di cinema e dei cinema d’essai». […] Ed è pure irrilevante il riferimento a scene più o meno audaci autorizzate in altri film, poiché non si tratta qui di esprimere giudizi sui criteri che possono avere indotto, volta per volta, la Commissione ad esprimere l’uno o l’altro avviso, ma solo d’accertare se, nel caso denunciato, la Commissione abbia fatto buon governo dei poteri conferitile dalla legge.

 

A mosca cieca si riaffaccerà al pubblico in homevideo, nei tardi anni ’90, per la Raro Film.

 

 

1 Luigi Quaglietti, «Cinema 60», n. 58, aprile 1966, pp. 27-28.

 

 

n. 48936

Una signora per bene (Un Commerce tranquille)

Svizzera/Italia 1964, col.

 

 

R: Mel Welles [e Guido Franco]; sc: Jan Lowell, Robert Lowell; fo: Enzo Regsuchi; mt: Erika Grunninger; mu: Michel Michelet.

Int: Giorgia Moll (Valerie), Frank Wolff (Ginger), Mel Welles (Antonio), Dawn Brooks (Tabby), Antoinette Weynen (Lilli), John Karlsen (Prete).

Prod: Centre Romand de la Cinématographie, Compass Films.

Revisione: 3.4.1967 (2764 m), respinto: 2-22.4.1967.

 

 

La borghese Valerie Gilberto, in cerca di un affare in cui investire i soldi ereditati dal marito, acquista un salone di rappresentanza in una cittadina portoghese che in realtà è una casa di tolleranza, per trasformarlo in un circolo sportivo. Il cambio di gestione infastidisce i pescatori del luogo, che ne erano stati clienti: uno di costoro, Ginger, si ribella, e fa scoppiare un comico conflitto tra i pescatori e Valerie, a cui si aggiungono altri problemi causati dalle quattro ex prostitute che lavorano nel circolo. Alla fine, dopo numerose situazioni comiche, Valerie, innamoratasi del preside del locale liceo, se ne andrà assieme a lui, cedendo la casa alle quattro ragazze, che a loro volta la vendono a Ginger.

 

Commedia diretta da un tuttofare attivo dapprima in America e quindi in Europa, già attore per Roger Corman (La piccola bottega degli orrori) e in seguito direttore di una compagnia di doppiaggio, Un commerce tranquille (o A Quiet Business) si scontra con la censura italiana quando viene presentato in revisione in versione doppiata il 3 aprile 1967 dalla Compass Films, col titolo Una signora per bene. La VII sez. della Commissione di I grado, che lo visiona quello stesso giorno, «ritenuto che il soggetto (la vita e le vicende di un “bordello”) è di per sé osceno; che tale oscenità diventa ancora più pesante per il modo con cui la vicenda viene svolta, tra il sadico ed il burlesco, che non risparmia nemmeno una cerimonia religiosa; che anche il frasario è fra i più scurrili, compiacendosi di volgari espressioni, spesso assolutamente gratuite: delibera ad unanimità che il film sia vietato a tutti». Una formula inconsueta, che però ben rende il fastidio dei commissari.

Il 15 aprile Alexander Nicholas della Compass Films presenta ricorso, dichiarandosi disposto a effettuare tagli di scena o di colonna sonora. Ma la Commissione di Appello, formata dalle sezioni II e VIII, riunitasi il 20 aprile, conferma quasi all’unanimità (11 voti a 1) il parere di prima istanza: «infatti la configurazione e lo svolgimento del film, specialmente attraverso i dialoghi, non solo finiscono col rappresentare la prostituzione come una remunerativa ed apprezzabile attività, puntualizzando anche visivamente la successiva trasformazione di un “bordello” popolare in un “bordello” di lusso, ma quasi ad avallarla con una patente di ufficiosa rispettabilità: talché il film, nonostante certi tentativi di inquadrarlo in un clima paradossale, risulta offensivo, nel suo insieme e in singole scene, del buon costume».

Un Commerce tranquille resta quindi inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 49134

Giochi d’amore/I piaceri della notte (Noite Vazia)

Brasile 1964, b/n

 

R, sc: Walter Hugo Khouri; fo: Rudolf Icsey; mt: Mauro Alice; mu: Rogerio Duprat.

Int: Norma Bengel (Mara), Odete Lara (Regina), Mario Benvenuti (Luis), Gabriele Tinti (Nelson), Lisa Negri (fidanzata Nelson), Wilfred Khouri (figlio di Luis)

Prod: Nelson Gaspari e Walter Hugo Khouri.

Revisione: 2.5.1967 (2463 m), respinto: 5-17.5.1967.

Riedizione: 29.5.1967 (2265 m), approvato: 31.5.1967 (n.o. 49266 - v.m.18).

 

Luis, un ricco uomo d’affari, e Nelson, un giovane depresso, lasciano le loro rispettive famiglie per concedersi una serata di pura evasione, da trascorrere in giro nei locali notturni della città. In un night conoscono un paio di prostitute d’alto bordo, e le invitano a passare la notte in loro compagnia. Al mattino gli uomini, stanchi e delusi, abbandonano le due donne su una piazza e si danno appuntamento per la notte seguente, con la speranza di trovare qualcosa di veramente nuovo ed eccitante.

 

Diretto dal regista e scrittore Walter Hugo Khouri, Noite Vazia [Notte vuota] è un affascinante viaggio nella mente di quattro personaggi alla deriva, che cercano nel sesso una fuga dai propri tormenti interiori. Fotografato in uno splendido bianco e nero da Rudolf Icsey e punteggiato dalle note angosciose del compositore Rogerio Duprat, Noite Vazia è presentato a Cannes nel 1965, ma in Italia stenta a trovare distribuzione a causa della materia scabrosa del soggetto. Acquistato da Giuliano Rialti, dirigente della società Schermi Riuniti, viene presentato in revisione con tre anni di ritardo, il 2 maggio 1967, con il titolo Giochi d’amore. Visionato cinque giorni dopo dalla V sez. di Revisione Cinematografica, gli viene negato il nulla osta in quanto, secondo il parere espresso dalla Commissione, è «tutto imperniato nella descrizione di sensazioni erotiche, mette in luce la perversione sessuale di taluni protagonisti e contiene numerose scene di lussuria». Non tutti i membri concordano: nel verbale si legge che «il prof. Albani si astiene non concordando sulla decisione, tanto meno con la motivazione. Il professor Sesso e il signor Cardone sono per il divieto degli anni diciotto, alleggerendo qualche scena, in quanto, sia la tematica del film che le singole sequenze, alleggerite, non sono, a loro avviso, contrarie al buon costume, dato che queste ultime non sono scene che, ad esempio, descrivono situazioni sessuali innaturali quali l’incesto, che è contenuto in alcuni film in circolazione».

La società presenta ricorso, e il film è revisionato dalla Commissione d’Appello presieduta da Angelo Ferranti, in data 15 maggio 1967. La seduta si conclude di nuovo con una condanna: «tutto il film è imperniato su uno sfrenato erotismo e contiene sequenze e battute nettamente offensive del buon costume, né è possibile addivenire a tagli o attenuazioni, come proposti dal rappresentante della società, perché non esistono scene isolate che si possono stralciare dal complesso del film, ispirato in ogni suo momento alla soddisfazione dei più materiali istinti sessuali».

Il 29 maggio viene presentata in revisione una nuova versione dell’opera, intitolata I piaceri della notte, che ha subìto, secondo quanto scrive lo stesso Rialti nella lettera che accompagna la domanda, «una sostanziale modifica dei dialoghi tra i protagonisti, mentre in altri punti ha subito la definitiva soppressione di scene e momenti narrativi che caratterizzano molto precisamente la vicenda e i personaggi».

Nel dettaglio:

 

Modifiche apportate − Rullo 1: sono state modificate tutte le battute che in apertura del film si scambiano Nelson e Lidia […]. Essi dialoghi, nella prima stesura, parlavano di una crisi sessuale tra i due («tu pensi che io voglia lasciarti perché non hai voluto…» diceva ad esempio Nelson); mentre nella seconda versione sono improntati intorno a disaccordi di natura ideologica, e una generica sfiducia in sé stesso del giovane Nelson. Attraverso alcuni dialoghi tra Augusto e Nelson era evidente l’asservimento del secondo al primo per via d’una volgare invidia di Nelson nei confronti della ricchezza di Augusto. Nella seconda stesura Nelson diventa solo un giornalista in crisi ideologica; timido e complessato e vittima – e non più per denaro – di Augusto. Successivamente hanno subito modifiche alcuni dialoghi tra Nelson e Augusto che parlavano di amicizie comuni: i personaggi citati erano presentati in una luce che denunciava un ambiente di vita dedito solo al vizio, all’adulterio, a una sfrenata vita erotica fine a sé stessa. Questo ambiente, attraverso alcune modifiche delle battute (per es.: «La moglie di Charles è una splendida amante» è diventato «La sorella di Charles ecc…» oppure «Renata è una meravigliosa compagna perché molto esigente» ha subito la trasformazione in «Renata è… perché molto intelligente» e così via) ha perso tutta la sua luce sordida per restare al massimo un ambiente spregiudicato, ma non vizioso; Rullo 6: un altro dialogo di tono decisamente erotico tra Nelson e Mara nel bagno (lei: «Quelle cose mi disgustano: chissà perché a voi uomini piace tanto farcele fare e poi stare a guardare» con risposte precise di particolari di Nelson) diventa, radicalmente cambiato, uno scambio di ricordi della giovinezza, molto tenero, che si conclude in un appuntamento molto sentimentale per il giorno dopo. Un altro dialogo a letto tra Nelson e Mara verteva prima esclusivamente su dettagli tecnici sui rispettivi gusti sessuali, è diventato successivamente dialogo triste sull’inutilità della vita senza ambizioni e senza affetti, e sulla crudeltà dell’individuo quando sia costretto a difendersi dall’angoscia e dalla solitudine. Un dialogo tra Cristina e Augusto che parlavano di Nelson in termini piuttosto duri (si accennava ai suoi trascorsi di arrampicatore sociale attraverso episodi di vera e propria prostituzione sia con uomini che con donne anziane) è diventato un dialogo sulle malinconie di Augusto e sui suoi complessi di vittimismo; Rullo 8: un dialogo, infine tra Cristina e Augusto decisamente spregiativo nei confronti dell’istituto matrimoniale, diventa semplicemente il resoconto di un incubo avuto da Cristina.

 

Le scene tagliate, invece, comprendono: 1) in un night giapponese, Augusto rivolge attenzioni a una geisha; 2) in un altro night, il marito di una matura amica di Augusto abbraccia una ragazza davanti alla moglie; 3) in un terzo night, una ragazza ubriaca si offre a Nelson e Augusto; 4) tutta la sequenza in casa di Augusto con le due prostitute, riguardante il patteggiamento del compenso e l’inizio delle prestazioni; 5) scena dei due ragazzi che vorrebbero entrare nella garçonnière di Augusto; 6) Mara esce dal bagno con il seno scoperto. In ultimo le immagini del libro sfogliato da Mara che ritraevano statuine in pose erotiche, sono state sostituite con delle pagine a stampa.

 

Il 31 maggio I piaceri della notte riceve il nulla osta di proiezione in pubblico con il divieto di visione ai minori di 18 anni «data la scabrosità del tema e di alcune situazioni non adatte alla particolare sensibilità dei predetti minori», sebbene almeno due membri della commissione di censura (dottor Modigliani e il professor Fritella) insistano per la bocciatura.

 

 

n. 49857

Il letto della sorella (Syskonbädd 1782)

Svezia 1966, b/n

 

R, sc: Vilgot Sjöman; fo: Lasse Björne; mu: Ulf Björlin; mt: Wic Kjellin, Lennart Wallén.

Int: Bibi Andersson (Charlotte), Perr Oscarsson (Jacob), Jarl Kulle (Carl Ulrik Alsmeden), Tina Hedström (Ebba Livin), Gunnar Björnstrand (Conte Schwartz), Kjerstin Dellert (Elisabeth Olin).

Prod: Göran Lindgren.

Revisione: 27.7.1967 (2638 m), respinto: 9-28.8.1967.

Riedizione: 27.5.1971 (2642 m), approvato: 9.6.1971 (n.o. 58346 - 2604 m - v.m.18).

Homevideo: Sandrew Metronome (DVD, Svezia).

 

Dopo un soggiorno di due anni in Francia, il giovane conte Jacob torna al castello di famiglia in Svezia, dove intreccia una relazione incestuosa con la sorella Charlotte, che resta incinta. Quando Jacob rifiuta di fuggire con lei all’estero sotto falso nome, Charlotte – ossessionata dalla paura di dare alla luce un figlio deforme – sposa il barone Alsmeden, rivelandogli di aspettare un figlio ma non il nome del padre. Alsmeden lo scopre, e costringe Jacob all’esilio. Charlotte viene uccisa dalla fidanzata del fratello, incapace di accettare la realtà, ma un’anziana nutrice ne porta comunque alla luce il figlio.

 

Uno degli esempi più rilevanti del mutamento di orientamenti delle Commissioni di censura prima e dopo il 1968 è Syskonbädd 1782 [Il letto del fratello e della sorella] di Vilgot Sjöman. Un anno prima di Io sono curiosa, il regista svedese utilizza la traccia fuorviante del film in costume, ispirandosi al dramma elisabettiano (Peccato che sia una sgualdrina di John Ford) per parlare del presente, e fa dei suoi personaggi/simulacri le pedine per un discorso sulla Storia come sopraffazione di classe, di cui la sessualità si fa specchio e simbolo: il film vive sul contrappunto tra la vicenda principale ambientata nel mondo dell’alta nobiltà e il popolo che sullo sfondo osserva il mondo dei potenti. Come nei lavori successivi del regista, le scene di nudo e di erotismo sono franche e realistiche, e Sjöman non evita di soffermarsi anche su nudità senili, come farà con intento grottesco e beffardo in Corruzione in una famiglia svedese (1974). E il brusco finale che mescola vita e morte senza soluzione di continuità, con l’anziana nutrice che apre con un coltello il ventre della protagonista appena morta, estraendone il figlio «sano e in buona salute», come recita la battuta conclusiva del film, è un momento di grande intensità espressiva.

La Euro International Film presenta in censura l’opera di Sjöman, in edizione originale svedese, il 27 luglio 1967. Riunitasi l’8 agosto, la sez. B della Commissione ritiene che il film,

 

dalla traduzione del dialogo attraverso l’opera dell’interprete, presenta una tematica particolarmente difficile e impegnata qual è quella della relazione incestuosa tra fratello e sorella, [che] descrive con particolari e realismo spesso troppo compiaciuti, così da non destare sentimenti di dissenso. La relazione incestuosa non cessa nemmeno col matrimonio che il barone ha inteso celebrare con la sorella protagonista proprio allo scopo di riparare al malfatto e di dare una paternità all’innocente nascituro e la degenerazione ed il vizio trionfano anche sulla virtù del barone. Abbondano poi scene scurrili e di oscenità erotico sessuali, con abbondanti nudi anche di donne vecchie e laide.

 

Il film è dunque bocciato senza possibilità di effettuare tagli, cui pure il distributore s’era dichiarato disponibile.

Aurelio Rossi della Euro presenta appello in data 25 agosto. Quello stesso giorno la Commissione di II grado, revisionato il film «coadiuvata dall’opera dell’interprete per ciò che concerne la traduzione del dialogo, a maggioranza ritiene di dover confermare, per gli stessi motivi, il giudizio negativo espresso dalla Commissione di I grado. Infatti il film, impostato sulla relazione incestuosa tra fratello e sorella, cui spesso si aggiunge un dialogo spinto e compiaciuto, descrive un ambiente che non può non offendere il comune sentimento del buon costume». Aggiunge la motivazione che «la tematica del film stesso, anche se condotta – come ritenuto dalla minoranza – su di un piano di livello artistico, non potrebbe giustificare la visione in pubblico […] ove in particolare si consideri che nel film vengono, tra l’altro, riprodotte scene scurrili con oscenità erotico sessuali e presentazione di nudi di donne anziane». Si ribadisce l’impossibilità di apportare tagli «in quanto anche l’eliminazione di alcune scene non farebbe venire meno al film l’impostazione del tutto negativa, non riscattata nemmeno nel finale, a cui la vicenda stessa si ispira».

Il film di Sjöman viene ripresentato in censura quattro anni dopo, il 26 maggio 1971, in versione doppiata, con il titolo Il letto della sorella. La I sez. della Commissione si riunisce il 4 giugno: sentito il rappresentante della società, i commissari invitano preliminarmente quest’ultimo a eliminare la scena in cui Jacob è a letto con due donne nude (38 m, 1’20” circa). Il 9 giugno, appurato che il taglio è stato effettuato, la Commissione autorizza la proiezione in pubblico con divieto ai minori di 18 anni: «Trattasi invero di film che ha indubbio valore artistico e la sua realizzazione in tale contesto non fa mai assumere alla vicenda […] aspetti conturbanti»; la Commissione ne mette anzi in risalto una supposta valenza etica, ossia il «castigo della peccatrice che con sacrificio della sua vita dà alla luce all’atto stesso della morte la creatura che portava in grembo, quale frutto del peccaminoso amore», abbracciando un’interpretazione punitiva agli antipodi dalle intenzioni del regista.

 

 

n. 50066

Le professioniste dell’amore/Le professioniste (Nikutai no mon)

Giappone 1964, col.

 

R: Seijun Suzuki; s: dal romanzo di Tajiro Tamura; sc: Goro Tanada; fo: Shigeyoshi Mine; mt: Akira Suzuki; mu: Naozumi Yamamoto.

Int: Yumiko Nogawa (Maya), Jo Shishido (Shintaro), Kayo Matsuo (Omino), Satoko Kasai (Sen), Tamiko Ishii (Oroku), Misako Tominaga (Machiko).

Prod: Nikkatsu.

Revisione: 11.10.1967 (2467 m), respinto: 13-28.10.1967.

Riedizione: 2.11.1967 (2414 m), approvato: 10.11.67 (n.o. 50219 - 2390 m - v.m.18).

Homevideo: Criterion (DVD Usa).

 

Tokyo. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il sottobosco della prostituzione e del mercato nero è governato da regole spietate. La diciottenne Maya, orfana e costretta a prostituirsi dopo essere stata stuprata da un soldato, viene presa a benvolere da un’altra prostituta, Sen, che la porta a vivere assieme alle sue amiche. Le donne si prendono cura di un delinquente, Shintaro, che diventa il loro capo. Lui e Maya si innamorano, e progettano di fuggire assieme: ma Sen, gelosa di Shintaro da cui è stata respinta, gli manda a monte l’ultimo affare, un traffico di penicillina: l’uomo, inseguito dalla polizia e da una banda rivale, viene ucciso.

 

Girato l’anno successivo al primo capolavoro del regista, Yaju no seishun (1963), e interpretato dal suo attore-feticcio Jo Shishido, Nikutai no mon è un crudo spaccato del Giappone postbellico, che pur sottostando ai dettami commerciali imposti dalla casa produttrice Nikkatsu (le numerose scene di sadismo e fustigazione) reca ben chiara l’impronta stilistica di Seijun Suzuki, a dispetto dei tempi di lavorazione frenetici (10 giorni di preparazione, 25 di riprese, 3 di postproduzione) che risultarono in set rarefatti (opera di Takeo Kimura, collaboratore fisso del regista) e nell’utilizzo espressionistico del colore.

La pellicola arriva in Italia tre anni dopo l’uscita, grazie all’Allied International Films che ne presenta in censura la versione doppiata col titolo Le professioniste dell’amore. Incontrando però il parere contrario della II sez. della Commissione di I grado, che il 12 ottobre ’67 lo boccia all’unanimità per via di «varie sequenze, nelle quali si è ravvisata offesa al “buon costume”, come quelle in cui sono rappresentati – con spinto realismo – rapporti sessuali, accompagnati anche da manifestazioni di evidente partecipazione all’amplesso; inoltre il film sottolinea compiacimenti di sadismo nelle prolungate scene di fustigazione e di torture varie effettuate su corpi nudi di donne».

Il rappresentante della Allied Giuseppe Tinagli presenta ricorso (19 ottobre), dichiarandosi disposto a ridurre le scene ritenute offensive: in appello, però, la situazione non muta, e la Commissione – riunitasi il 27 ottobre – conferma all’unanimità il giudizio precedente «per la tematica del film prospettata in modo del tutto sconveniente; per i vari episodi erotici rappresentati con realismo eccessivo e con particolari lesivi del buon costume nel senso comunemente attribuito al termine; per le innumerevoli scene di violenza, di fustigazione e di altre manifestazioni di crudeltà che pervadono tutto il racconto».

La Allied ripresenta il film, col titolo Le professioniste, con numerosi tagli, per un totale di 53 m (2’ circa), oltre a modifiche nel montaggio. La II sez., visionato il film l’8 novembre, chiede ai rappresentanti della società di apportare nuovi tagli per complessivi 24 m (51’ ca), esprimendo parere favorevole alla programmazione con divieto ai minori di 18 anni. In particolare, gli ulteriori tagli richiesti riguardano: 1) eliminazione nella scena della doccia del seno nudo della donna che innaffia; eliminazione del camion che balla per gli amplessi delle prostitute; 2) eliminazione della donna nuda che viene alzata con la  carrucola per essere fustigata; 3) eliminazione dell’amplesso dopo la battuta «Fammi tua!»; 4) eliminazione della scena della fustigazione del seno nudo della donna.

Il film di Suzuki verrà riproposto numerose volte in televisione da Enrico Ghezzi all’interno di «Fuori Orario», in versione originale sottotitolata e con il titolo Barriera di carne - La porta del corpo, traduzione letterale di quello giapponese.

 

 

n. 50792 - 50793

Ulisse (Ulysses)

Gb/Usa 1967, b/n

 

R: Joseph Strick; s: dal romanzo di James Joyce; sc: Fred Haines, Joseph Strick; fo: Wolfgang Suschitzky; mu: Stanley Myers; mt: Reginald Mills.

Int: Barbara Jefford (Molly Bloom), Milo O’Shea (Leopold Bloom), Maurice Roëves (Stephen Dedalus), T. P. McKenna (Buck Mulligan), Martin Dempsey (Simon Dedalus), Sheila O’Sullivan (May Golding Dedalus), Fionnula Flanagan (Gerty MacDowell).

Prod: Ulysses Film.

Revisione: 1.2.1968 (3607 m), respinto: 2.2-6.3.1968.

Homevideo: Arrow (Dvd, Gb).

 

Dublino, 16 giugno 1904. Nell’arco di ventiquattro ore si svolge la storia di Stephen Dedalus, giovane aspirante poeta preso a benvolere dai coniugi Bloom, che hanno perso un figlio. Il luttuoso evento ha traumatizzato psichicamente Leopold Bloom, rendendolo impotente e provocando i tradimenti della moglie Molly. Leopold vede in Stephen il figlio scomparso, e così Molly.

 

Joseph Strick (1923-2010) era un regista cui non mancava il coraggio: imbarcarsi in una riduzione di un romanzo praticamente infilmabile come l’Ulisse di Joyce era impresa da far tremare i polsi; ma Strick aveva in carniere già un’opera ambiziosa come il documentario sperimentale a sei mani The Savage Eye (1959, co-diretto con Ben Maddow e Sidney Meyers), uno dei lavori chiave del nuovo cinema americano. In seguito Strick si sarebbe cimentato in altri progetti non meno ambiziosi, come l’adattamento di Tropico del Cancro da Henry Miller (1971, con Rip Torn) per poi tornare ancora a Joyce, nel 1977, con un film da Ritratto dell’artista da giovane, inedito in Italia.

Ulysses – assai fedele al romanzo, al punto da riportarne interi passaggi alla lettera, incluso il celeberrimo monologo conclusivo – provoca controversie all’uscita. In Inghilterra la BBFC richiede 29 tagli per rimuovere espressioni crude e riferimenti sessuali dal soliloquio finale di Molly: per protesta Strick rimpiazza le parti ritenute offensive con uno schermo nero e un suono stridente; la BBFC cede e lascia passare il film in versione integrale (marchiato con la X destinata ai film per adulti, derubricata al divieto ai minori di 15 anni solo nel 1996): Ulysses sarà il primo film britannico a utilizzare la parola «fuck» (fottere). Al Festival di Cannes, dove è presentato in concorso, gli organizzatori rimuovono alcuni sottotitoli senza informare il regista, il quale se ne accorge durante la proiezione, si alza e inizia a urlare che il suo film è stato censurato, sale in cabina di proiezione e spegne tutto. Strick ritirerà il film dal festival. In Nuova Zelanda, Ulysses provoca tali polemiche che i censori decidono che possa essere proiettato solo a un pubblico rigorosamente diviso per sesso; in Irlanda ottiene il visto censura solo nel 2000.

E in Italia? Presentato in versione doppiata dalla C.E.I.A.D. il 1 febbraio 1968, è revisionato quello stesso giorno dalla IV sez., che all’unanimità esprime parere contrario al rilascio del nulla osta, rilevando che «per la tematica, per alcune scene e per una grande parte dei dialoghi e particolarmente per il lungo monologo finale, il film si dilunga, con compiacente crudezza, in riflessioni e descrizioni relative alla vita sessuale che si ritengono contrarie al buon costume». Stessa sorte tocca all’edizione originale, presentata nella stessa data, e identica a quella italiana, così come identico è il responso.

La C.E.I.A.D. presenta appello (23 febbraio), chiedendo che il rappresentante della ditta sia sentito e dichiarandosi disposta a modificare il monologo di Molly. La Commissione d’Appello, composta dalle sez. V e VI, revisiona Ulisse il 5 marzo, ed esprime nuovamente parere contrario. La motivazione:

 

[…] a maggioranza, meno uno, è d’avviso che si debba confermare il divieto […], poiché il film essenzialmente per il dialogo, si presenta nettamente offensivo del buon costume e ciò particolarmente nel lunghissimo monologo della protagonista, nel quale sono rievocati, con crudo e volgare realismo, fatti ed impressioni della vita sessuale della donna. La Commissione è altresì d’avviso, a maggioranza di 10 su 13, che non sia possibile suggerire tagli o modifiche, in quanto gli stessi dovrebbero necessariamente investire buona parte del film, sì da trasformarlo completamente, e ciò anche in contrasto con la facoltà (discrezionale) accordata dall’ultimo comma dell’art. 8 del regolamento.

Il prof. Negri, l’Ing. Lucci Chiarissi ed il Dott. Albani Barbieri dissentono da quest’ultima parte della motivazione, sia perché ritengono possibilissimo sostituire le pur numerose battute del dialogo con altre meno crude e realistiche e sia anche perché una versione più morbida del testo originario di Joyce non vedono come possa cambiare il carattere ed il valore dell’opera.

 

Ulysses resta a tutt’oggi inedito nel nostro Paese.

 

 

n. 51388-51389

Brutality/Angeli dell’inferno sulle ruote (Hells Angels on Wheels)

Usa 1967, col.

 

R: Richard Rush; s, sc: R. Wright Campbell; fo: Lázslo Kovács; mt: William Martin; mu: Stu Phillips.

Int: Adam Roarke (Buddy), Jack Nicholson (Poeta), Sabrina Scharf (Shill), Jana Taylor (Abigale), Richard Anders (Bull), John Garwod (Jocko), Jack Starrett (Sergente Bingham), Bruno Vesota (Sacerdote), Bob Kelljan (Artista), John «Bud» Cardos, Ralph «Sonny» Barger.

Prod: Fanfare Films.

Revisione: 13.4.1968 (2612 m), respinto: 19.4-15.5.1968.

Riedizione: 19.7.1968 (2580 m), approvato: 2.8.1968 (n.o. 52044 - v.m.18).

Homevideo: Cinema Club (DVD, Gb).

 

Il giovane benzinaio Poeta si aggrega a una banda di motociclisti, gli Hells Angels, e partecipa a un zuffa contro una banda rivale. Si invaghisce di Sheila, la ragazza del capo, Buddy, e costui gliela cede per sfregio. Dopo che Poeta è stato umiliato da tre marinai, i bikers li affrontano e Buddy ne uccide uno: per crearsi un alibi i motociclisti organizzano una festa hippie. Di nuovo in viaggio, prima sequestrano un prete per celebrare un matrimonio tra di loro, quindi si fermano in un motel dove attaccano briga con gente del luogo. Uno di loro fa uscire di strada un’auto, uccidendo il conducente, e viene arrestato dallo sceriffo: i compagni lo liberano e fuggono. Sheila rivela a Poeta di essere incinta di Buddy: tra i due uomini scoppia una lotta durante la quale Buddy muore accidentalmente. Poeta, stanco e disilluso, abbandona il gruppo.

 

Prodotto sull’onda dell’exploit di I selvaggi di Roger Corman, Hells Angels on Wheels non si distacca dai cliché del filone sui bikers, se non per la partecipazione dei veri Hells Angels capitanati da uno dei fondatori, Sonny Barger (accreditato anche come consulente tecnico). Vale inoltre la pena sottolineare la presenza di ben quattro registi della scuderia AIP in ruoli minori: Starrett (In corsa con il diavolo), Kelljan (Yorga il vampiro), Cardos (Il buio) e il corpulento VeSota (The Brain Eaters), noto soprattutto come caratterista.

Negli Usa il film ha un ottimo successo, e contribuisce a rendere noto al grande pubblico il volto del giovane Jack Nicholson, prima dell’exploit di Easy Rider. In Inghilterra si vede rifiutare il nulla osta dalla BBFC: lo otterrà solo dieci anni dopo, con numerosi tagli. Da noi è presentato in versione doppiata, col titolo Brutality, dalla I.N.D.I.E.F., e come accaduto alla pellicola di Corman, avrà non poche noie con la censura, per via non tanto di singole scene quanto dell’argomento in sé. La IV sez., il 18 aprile, esprime parere contrario alla proiezione in pubblico, in quanto «il film appare contrario al buon costume per la descrizione della vita di un gruppo di giovani ispirata alla più spietata violenza, prepotenza, e spregiudicatezza, e per le numerose scene di violenza, di lascività e di disprezzo di ogni forma morale».

Presentando ricorso, il 3074, la I.N.D.I.E.F. obietta che il parere della Commissione è errato nella forma e nella sostanza: nella forma, «perché l’art. 6 della l. n. 161/1962 precisa che la Commissione deve specificare i motivi del parere contrario […]. Nella fattispecie invece […] nessuna motivazione e dimostrazione esiste del perché la descrizione della vita di un gruppo di giovani ispirata alla violenza sia di per sé contraria al buon costume; nessuna specificazione esiste di quali siano le scene censurate né perché tali scene vadano contro i boni mores. […] Nella specie […] abbiamo solo un dispositivo senza motivazione.»

Riguardo alla sostanza, secondo l’appellante, «non vi è nell’intera espressione di chi il film ha realizzato, tanto nella parte scenica che in quella dialogata, un solo fotogramma o una sola parola che possano suonare offesa al buon costume».

Segue un’appassionata disamina, nel corso della quale l’appellante – oltre a dilungarsi sui limiti della libertà d’espressione ex art. 21 Cost. e sull’interpretazione della legge n. 161/1962 – scrive:

 

Se esaminiamo l’attuale periodo in cui vengono programmati film con donne completamente nude, con amori fra omosessuali, con scene della più cruda violenza quali quelle di tutti i western all’italiana, e con l’esaltazione del gangsterismo come in Gangster Story, non vediamo in base a quale concetto possa essere stato negato il nulla osta […]. Nel film in esame infatti non vi è neanche una donna nuda, i rapporti visibili tra uomini e donne si limitano al bacio; nelle scene di lotta non si vede neanche un filo di sangue, contrariamente a quanto avviene in film di violenza ed in programmazioni televisive ammesse per la loro natura per tutti. Basti pensare a tal proposito che perfino nella sesta puntata dell’Odissea (apparsa recentemente in tutti gli schermi televisivi d’Italia) si vede una lotta fra Ulisse ed un mendicante che culmina in uno sbocco di sangue del mendicante stesso, così violento da imbrattare il volto riverso dell’attore e tutto il terreno circostante.

 

E conclude:

 

Se […] paesi meno avanzati e meno liberali del nostro non hanno trovato nel film alcuna offesa del buon costume, non si vede davvero per quale motivo in Italia il film non dovrebbe circolare […] quando […] il progetto di legge italiano è il più liberale ed avanzato avendo inteso il legislatore spostare verso il limite minimo dell’offesa al buon costume di cui all’art. 21 della Costituzione il limite dell’espressione libera del pensiero e dell’arte. Specie poi se Brutality si rapporta ai vari films in circolazione in cui la violenza è rappresentata nella forma più cruda e stucchevole […] non vediamo come possa negarsi il nulla osta ad un film che nulla ha delle vette della brutalità e del turpiloquio dei vari films che vediamo tutti i giorni.

 

La Commissione di II grado, riunitasi il 15 maggio, rigetta il ricorso a maggioranza (7 su 12), osservando che

 

le censure che vengono mosse sul piano formale al parere della Commissione di I grado sono giuridicamente irrilevanti, poiché, avendo la Commissione di appello piena competenza in merito, spetta ad essa stabilire in assoluta e completa autonomia […] se ricorre nel film offesa al buon costume; l’omessa specificazione delle scene e sequenze che concreterebbero tale offesa non costituisce vizio inficiante la validità del parere espresso in primo grado, potendo le eventuali lacune della motivazione essere colmate dalla Commissione di Appello.

 

Per quel che riguarda la sostanza,

 

non può non riconoscersi offesa ai boni mores in un film che si risolve nella compiaciuta descrizione di un sistema di vita in assoluto contrasto con quelle che sono le regole di vita di un consorzio civile. Si tratta di una banda di giovani che si comportano con la massima spregiudicatezza, tesi esclusivamente al soddisfacimento degli istinti più bassi e primordiali; essi trascendono in continuazione ad atti di violenza, gratuita e spietata, per il semplice gusto della sopraffazione, causando persino per puro divertimento la morte di estranei innocenti […], manifestano il più completo disprezzo per l’autorità costituita […] e per la società familiare […]. Il film contiene pure, oltre a frequenti battute scurrili di evidente contenuto osceno, anche scene offensive del pudore, quale ad esempio la lunga sequenza dell’orgia, nella quale, a parte la pitturazione di parti del corpo delle ragazze della banda, si vedono ripetutamente corpi maschili e femminili avvinghiati fra loro che evidentemente soddisfano i loro impulsi sessuali e quale, in particolare, la scena tra il Poeta e Sheila, in cui quest’ultima lo eccita apertamente, anche con baci spiccatamente lascivi, al rapporto sessuale pur in presenza di altra ragazza. Né vale obiettare che il film rifletterebbe episodi realmente verificatisi, poiché ciò non ne legittima la prelazione al pubblico, specie quando questa, lungi dal risolversi in una denuncia e in una condanna di quel modo di vivere, lo presenta in modo tale da costituire serio incitamento alla delinquenza individuale e collettiva.

 

La I.N.D.I.E.F. ripresenta il film col nuovo titolo Angeli dell’inferno sulle ruote, il 19 luglio 1968. Rispetto alla versione precedente «sono state apportate sostanziali modifiche al montaggio, ai dialoghi (con modifiche e soppressioni di battute), tagli di scene, alleggerimento di scene». La nuova versione è 32 m (1’10” circa) più corta della precedente. La II sez. (1° agosto) stavolta concede il n.o. con divieto ai minori di anni diciotto per le «numerose scene di violenza». La I.N.D.I.E.F. rinuncia all’appello.

 

 

n. 51934

Il miracolo dell’amore/Confessioni intime di tre giovani spose (Das Wunder der Liebe)

Rft 1968, col.

 

R: Franz Josef Gottlieb; sc: Oswalt Kolle; fo: Werner M. Lenz; mu: Johannes Rediske.

Int: Biggi Freyer (Petra), Katarina Haertel (Claudia), Ortrud Gross (Andrea), Régis Vallée (Martin), Wilfrid Goessler (Thomas), Manfred Tümmler (Klaus).

Prod: Arca-Winston Film Corp. GMBH.

Revisione: 24.6.1968 (2075 m), respinto: 2-26.7.1968.

Riedizione: 30.1.1969 (2353 m), approvato: 4.2.1969 (n.o. 53198 - v.m.18).

 

Il sessuologo Oswalt Kolle, dopo un dibattito con due professori, presenta due casi emblematici di problemi sessuali all’interno di coppie sposate. Petra, sposata con Thomas, non raggiunge l’orgasmo col marito, e vive passivamente il sesso: finalmente ha il coraggio di parlarne col coniuge. Claudia e Martin sono sposati e con due figli, ma gli eccessivi impegni lavorativi dell’uomo fanno sì che questi trascuri la donna, portando Claudia a un passo dal tradimento. Martin capisce il suo errore e si concede una vacanza con la moglie.

 

«Non si può imparare ad amare, ma si può imparare il sesso» amava dire Oswalt Kolle (1928-2010), nome assai noto al grande pubblico alla fine degli anni ’60 grazie alla sua opera di educazione e divulgazione sessuale. Fortemente influenzato dal Rapporto Kinsey e aspramente critico della mentalità tradizionalista tedesca dell’era Adenauer, il giornalista Kolle aveva iniziato a esprimere le proprie idee sulla sessualità sulle pagine dei tabloid su cui scriveva, attirandosi gli strali della Chiesa e di molti politici conservatori, per poi dedicarsi alla pubblicazione di pionieristici volumi sulla sessualità, tradotti in svariate lingue e con oltre 140 milioni di copie vendute, guadagnandosi fama di guru in materia.

Sulla falsariga del capostipite Helga - Lo sviluppo della vita umana, iniziatore di un vero e proprio filone in tema, Das Wunder der Liebe è il primo di una serie di otto film prodotti tra il 1968 e il 1972 e ispirati all’opera di Kolle1, in cui vengono illustrati casi esemplari della sfera sessuale, introdotti e commentati da esperti in materia. Il film di Franz Josef Gottlieb esce in Germania nel gennaio 1968: incassa somme ragguardevoli in tutta Europa, ma è censurato nel Belgio e in alcune parti della Svizzera. Da noi è presentato il 24 giugno 1968, in versione doppiata, dalla Fida Cinematografica, col titolo Il miracolo dell’amore.2 Nonostante la casa distributrice metta le mani avanti, sottolineando il carattere didattico dell’opera e la consulenza scientifica di cui si sono avvalsi i realizzatori3, la Commissione di I grado, che lo revisiona il 2 luglio dopo aver ascoltato Edmondo Amati, nega il nulla osta a maggioranza, in quanto «il film contiene numerose scene erotiche, che non appaiono neppure in correlazione con il preteso carattere didascalico […], e non appare emendabile con tagli».

Amati presenta subito ricorso il 3 luglio, chiedendo d’essere sentito. La Commissione d’Appello, formata dalla II e dalla IV sez. (ne fanno parte tra gli altri i registi Antonio Racioppi e Mario Sequi, il produttore Mario Cecchi Gori e il critico della «Rivista del Cinematografo» Giacinto Ciaccio) si riunisce il 22 luglio. Il responso è interlocutorio: la Commissione decide a maggioranza di sospendere il parere in attesa che il film venga ripresentato con i tagli adeguati a eliminare le situazioni contrarie al buon costume. La nuova riunione ha luogo il 25 luglio: stavolta i commissari esprimono a maggioranza parere contrario al nulla osta per la proiezione in pubblico, confermando il giudizio di I grado.

La Fida ripresenta il film di Gottlieb con il nuovo titolo Confessioni intime di tre giovani spose, il 27 gennaio 1969, in un’edizione sostanzialmente modificata. Oltre ai vari tagli effettuati sui due episodi preesistenti, al film è stato aggiunto un terzo segmento, di cui riportiamo la sinossi come descritta nel documento ministeriale: «Il terzo caso è quello di un uomo diviso dalla moglie e che ha trovato momentaneamente in un’amante la compagna. Un giorno va a fargli visita la moglie e lui la invita a fare una gita, per potersi spiegare a vicenda le loro ragioni. Tra i due avvengono le spiegazioni che prima non c’erano state ed infine lui, accorgendosi di essere ancora innamorato, riacquista l’amore della moglie. La giovane coppia comincia così una nuova vita coniugale, in perfetta armonia». Infine, è stato completamente rifatto il doppiaggio.

Questa volta la Commissione di I grado, che lo revisiona il 3 febbraio 1969, concede il nulla osta a maggioranza, con il divieto ai minori di 18 anni: «nonostante, infatti, il motivo sostanzialmente educativo, specie nella seconda parte, cui il film si ispira, esso non appare adatto alla particolare sensibilità dei minori suddetti, per alcune sequenze erotiche».

Non la pensa così la Procura della Repubblica di Roma, che in data 8 aprile 1969 dispone il sequestro del film su tutto il territorio nazionale, sulla base dell’art. 337 c.p.p. e seguenti. Confessioni intime di tre giovani spose verrà dissequestrato il 14 aprile con ordinanza del giudice istruttore del Tribunale di Bolzano, perché il fatto non costituisce reato.

 

 

1 Seguiranno Oswalt Kolle: das Wunder der Liebe II - Sexuelle Partnerschaft (1968), Oswalt Kolle: Deine Frau - das unbekannte Wesen (1969), Oswalt Kolle: Zum Beispiel: Ehebruch (1969), Oswalt Kolle: Dein Mann - das unbekannte Wesen (1970), Oswalt Kolle: Dein Kind - das unbekannte Wesen (1970), Oswalt Kolle: Was ist eigentlich Pornographie? (1971, il primo a contenere spezzoni hardcore), Oswalt Kolle: Liebe als Gesellschaftsspiel (1972).

2 Curiosamente, nella descrizione del soggetto, produzione e regia sono attribuiti dapprima a Gottlieb e subito dopo allo stesso Kolle: «Il sesso non deve più rappresentare un problema! Questa è l’asserzione di Oswald [sic!] Kolle, noto scrittore tedesco, produttore e regista del film».

3 «Il film rappresenta un testo didattico e si avvale della consulenza scientifica di: − Prof. H. Giese, direttore dell’Istituto per l’indagine sessuale all’Università di Amburgo; − Prof. Dr. W. Hoccheimer, direttore dell’Istituto per la psicologia all’Università di Pedagogia di Berlino».

 

 

n. 51975

Django il più duro a morire/Se incontri Sjango cercati un posto per morire (O Cabeleira)

Brasile 1963, col.

 

R: Milton Amaral; s: dal romanzo O Cabeleira di Franklin Távora; sc: Ody Fraga; fo: Guglielmo Lombardi; mt: Maximo Barro; mu: Edmundo Peruzzi (Piero Umiliani nell’edizione italiana).

Int: Hélio Souto [Hélio da Silva Cote Figueiredo de Almeida Coutinho] (José Gomes / Sjango), Milton Ribeiro [Milton de Sousa Mineiro] (Joacquim Gomes), França Marlene (Edite/Luisa), Ruth de Souza (Jovina), Francisco Egidio (Timoteo), Alfredo Scarlatti, Miro Reis.

Prod: Prodi Filmes.

Revisione: 9.7.1968 (2343 m), respinto: 12.7-23.8.1968.

Riedizione: 28.12.1968 (2348 m), approvato: 31.12.1968 (n.o. 53001 - v.m.14).

 

Sjango, un trovatello cresciuto nel culto della violenza e dell’omicidio, da adulto diviene un feroce bandito, e mette scompiglio nei territori dell’America Latina. Tuttavia nel suo cuore è ancora vivo il ricordo di Luisa, la sua compagna di giochi durante l’infanzia: quando, dopo varie vicende, i due si rincontrano, Sjango vorrebbe abbandonare la sua banda e ricominciare una vita normale in compagnia della sua amata. Ma gli altri scagnozzi non lo consentono: in un ultimo, feroce scontro, Sjango resta ucciso, e con lui la sua bella.

 

Trasposizione fedele dell’omonimo romanzo di Franklin Távora sui banditi del cangaço, O cabeleira, diretto dal regista e critico cinematografico Milton Amaral, marito dell’attrice Marlene França, subisce in Italia un doppio stravolgimento: dapprima è modificato dalla distribuzione, che tenta, attraverso un certosino lavoro di rimontaggio e la sostituzione del commento sonoro di Edmundo Peruzzi con musiche composte ad hoc da Piero Umiliani, di farlo assomigliare il più possibile a uno dei tanti western prodotti sul modello di Sergio Leone; poi, subisce l’amputazione di tutte le scene più forti per esigenze di censura.

Presentato in revisione in data 9 luglio 1968 dalla ditta Sirena Film di Mario Bertini con il titolo Django il più duro a morire, è visionato lo stesso giorno dalla VI Sez. di Revisione Cinematografica e bocciato all’unanimità in quanto «risulta quasi totalmente imperniato su scene di raccapricciante e bestiale violenza nonché su una trama che per il continuo insegnamento ad uccidere fatto da un padre nei confronti di un figlio, configura certamente l’offesa al buon costume ed al comune senso morale».

Nonostante la disponibilità della ditta ad apportare tagli, la Commissione di Appello, visionato il film in data 23 agosto, conferma il parere negativo espresso in I grado. La compagnia ne appronta una nuova edizione e il 28 dicembre 1968 lo presenta nuovamente in censura con il titolo Se incontri Sjango cercati un posto per morire.

Le modifiche apportate includono:

 

Scene eliminate:

− Sjango da piccolo quando uccide il maialetto e si pulisce le mani sporche di sangue contro la parete.

− Sjango e la donna che gli dà un crocifisso.

− Scena dell’impiccagione.

− Scena della violenza con la ragazza.

− Scene varie del duello finale.

− Levati tutti i colpi di baionetta sul corpo di Sjango.

− Eliminati tutti i dialoghi e rifatti nuovi dialoghi.

 

Scene aggiunte:

− Passaggi vari galoppo cavalli.

− Scena di un bandito e di un soldato che lottano.

− Tramonto del sole scena finale.

 

Tre giorni dopo il film riceve il nulla osta di circolazione con divieto di visione ai minori di anni 14.

 

 

n. 52058

Nuda per il mondo/La ballata del piacere (The Wild, Wild World of Jayne Mansfield)

Usa 1968, col.

 

R: Charles W. Broun Jr., Joel Holt, Arthur Knight; sc: Charles Ross; fo: Edwina Brown, Max Glenn, Henry Lange, Claudio Racca; mu: Marcello Gigante; mt: Mandela Tolena.

Int: Jayne Mansfield (se stessa), Robert Jason (narratore), Mickey Hargitay, Zoltan Hargitay, Mickey Hargitay Jr., Rocky Roberts.

Prod: Dick Randall.

Revisione: 23.6.968 (2100 m), respinto: 30.7.1968.

Riedizione: 21.11.1968 (2100 m), approvato: 26.11.1968 (n.o. 52802 - v.m.18).

Homevideo: Something Weird (DVD, Usa).

 

Documentario sull’ultima tournée europea di Jayne Mansfield, da Roma a Parigi, passando per una spiaggia di nudisti e in numerosi locali notturni. Al ritorno in America, la Mansfield muore in un tremendo incidente d’auto. Affranto, il marito Mickey Hargitay accoglie la troupe per un giro ricordo nella villa della diva defunta.

 

Assemblato con mirabile prontezza di spirito a pochi mesi dalla scomparsa di Jayne Mansfield, utilizzando materiale girato in occasione del viaggio in Europa dell’attrice nella primavera ed estate 1964, col titolo di lavorazione Jayne Mansfield Reports Europe, il documentario ideato dal vulcanico Dick Randall è una curiosità macabra e bizzarra. L’attrice, in netto declino di popolarità, fa da guida allo spettatore dapprima in quel di Roma, tra piazza di Spagna, la fontana di Trevi e il circo Massimo, destreggiandosi tra romani che le pizzicano il sedere e statuari culturisti (tra cui Mickey Hargitay e Pietro Torrisi). Randall inframmezza il girato con spezzoni di pellicole della Mansfield – Londra a mezzanotte (Too Hot To Handle, 1960), Gli amori di Ercole (1960) e Promesse, promesse (1963), il primo film hollywoodiano a mostrare un’attrice mainstream completamente nuda – e con numeri di night club osé, scenette e curiosità erotiche assortite, che a fatica si distaccano dai soliti reportage pruriginosi del periodo. L’ultimo quarto d’ora diventa un peana all’attrice morta tragicamente nel giugno 1967, con tanto di foto dell’incidente d’auto fatale – in cui si riconoscono lo scalpo (o la parrucca?) della vittima e la salma dell’inseparabile cagnolino – e visita guidata (a fare da anfitrione è l’ex marito Mickey Hargitay, e appaiono anche i figlioletti dell’attrice usciti indenni dall’incidente) nella villa della diva, all’insegna del kitsch più sfrenato (una piscina a forma di cuore costruita dallo stesso Hargitay, una fontana che spilla champagne rosé, tutto dipinto di rosa).

The Wild World of Jayne Mansfield è presentato in censura il 23 luglio 1968 dalla Patry Film, doppiato e col titolo Nuda per il mondo: la descrizione del soggetto si distingue per inventiva e faccia tosta, trattandosi di un lungo excursus sul divismo e le sue tragedie (da Fatty Arbuckle a Jean Harlow, da Lana Turner a James Dean) dai toni finto-moralistici che di fatto non dice nulla sul film in sé. Vale la pena riportare alcuni passaggi:

 

Come riesce, la poderosa, inarrestabile Fabbrica di Divi, a pescare in una qualunque cittadina della provincia americana, una ragazza banalmente carina, che non ha niente di eccezionale tranne una violenta ipertrofia delle ghiandole mammarie (seno), e un’analoga abbondanza di glutei (sedere), e farne una JAYNE MANSFIELD, il Simbolo del Sesso, la Femmina più Femmina della terra? Come riesce la strapotenza [sic!] di Hollywood, a imporre al pubblico di tutto il mondo, decine e decine di films, tutti imperniati su di lei che non sa recitare, che non sa vestirsi, che non ha classe, che non ha gusto, che non ha uno stile e che non sa neanche inventarsene uno? Era una brava ragazza, come ce ne sono tante in America; forse, se non fosse incappata in un «talent-scout» di Hollywood, avrebbe sposato il dentista della sua cittadina, sarebbe ingrassata, sarebbe stata felice… Invece, malgrado il fulgore dei suoi sorrisi […], felice non fu… Fu presa come una foglia dal ciclone, visse in un turbine i suoi pochi anni di successo e, d’un tratto, nel mezzo d’una scena, la pellicola si ruppe… […] Amò molti uomini, quasi tutti sbagliati; qualcuno ne sposò… gli unici, forse, che l’amarono sul serio, per quello che era […] furono gli anonimi spettatori dei suoi film, gli emozionati adoratori del suo sorriso così luminoso […]. Il sesso, a dispetto delle opinioni di Hollywood, Jayne Mansfield lo portava negli occhi, nel sorriso, non nelle eccezionali misure anatomiche! Ed era un sesso pulito, fresco, autentico…

Dopo di lei, venne il «topless».

E il lungo, deprimente inquinamento del gusto – anche in tema di sesso – purtroppo continua…

 

Captatio benevolentiae o autocritica? Di fatto, la I sez. della Commissione non è affatto colpita da siffatto dispiegamento di eloquenza. E ribatte (in data 29 luglio) con un laconico parere contrario alla proiezione in pubblico del film, «imperniato quasi esclusivamente sulla giustapposizione di scene di nudo mammario [sic!] e su scene volgari di omosessualità e di erotismo normale e deviato». Par di capire che abbiano infastidito la Commissione i numerosi riferimenti all’omosessualità (un locale di lesbiche, scenette su abbordaggi omo nel centro di Parigi peraltro risolti in chiave comica ecc.).

La Patry ripresenta il film il 21.11.1968 col titolo La ballata del piacere. Sono stati sostituiti 580 m (oltre 21’!), e precisamente (riportiamo l’elenco telegrafico in coda alla domanda di revisione): «Danza swayna; Vergine della giungla; Scena scheletrini (danza); Pesca subacquea; Carnevale Rio; Ballo Tamuré; paradiso d’Africa; Balletto negro; Inseguimento macchina Città Capo; Panoramica Macao». La IV sez., che lo visiona il 25 novembre, si dimostra più comprensiva, concedendo il nulla osta al film con il divieto ai minori di 18 anni. La Patry accetta il responso, rinunciando all’appello.

 

 

n. 52517

Peter e Sabine due corpi… un amore (Peter und Sabine)

Austria/Rft 1968, col.

 

R, sc: August Rieger; s: dal romanzo Wildes Blut di Marie Louise Fischer; fo: Michel Martine; mu: Johannes Martin Duer; mt: Anneliese Artlet.

Int: Ingeborg Schöner (Claudia), Ilona Grübel (Sabine), Klaus Ringer (Jens), Heinz Sonnbichler (Peter), Maria Sebaldt (Frau Körner), Barbara Capell (Lilo), Hans-Dieter Schwartze (Herr Körner), Jan Koester (Jan).

Prod: Günther Eulau per Lisa Film.

Revisione: 30.9.1968 (2836 m), respinto: 6.11.1968.

Riedizione: 17.4.1970 (2610 m), approvato: 29.5.1970 (n.o. 56004 - v.m.18).

 

I Körner hanno tre figli, Jens, Peter e Jan, che educano in maniera moderna e senza tabù riguardo al sesso. Di contro, la sedicenne Susi, di famiglia retrograda, rimane incinta, e il ginecologo convince i genitori a evitare di farla abortire. Nella stessa scuola di Susi nasce l’amore tra Peter e Sabine, ostacolato però dalla madre di lei, che spedisce la figlia in collegio. Il ragazzo, disperato, abbandona a sua volta gli studi e inizia a lavorare in un’officina, dove è sedotto da Klara, la figlia del padrone. Licenziatosi, finisce a letto con l’entraineuse Gitte, che lo inganna facendogli credere di essere rimasta incinta e portandolo quasi al suicidio. Anche Jens ha una storia tribolata con una donna più vecchia, la divorziata Claudia, che lascerà per la coetanea Lilo.

 

Dramma erotico-didascalico tipico della cinematografia tedesca del periodo, interpretato da Ilona Grübel in seguito divenuta un volto celebre televisivo grazie alla serie La clinica della foresta nera, Peter und Sabine è presentato in censura il 30 settembre 1968 in edizione originale dalla importatrice Mondial Televisione Film di Roma, e revisionato il 29 ottobre dalla V sez., che sospende il giudizio in attesa di conoscere «se la ditta sia disposta ad effettuare sensibili modifiche e tagli sia alla copia del film che nel dialogo mediante l’eliminazione di tutte le scene amorose ed altre che nella maggior parte è [sic!] vera e propria pornografia, nonché sostanziali modifiche del dialogo». La Mondial – fatto abbastanza sorprendente vista la prassi in sede di revisione, ove i distributori sono soliti mettere le mani avanti dichiarandosi disposti ad effettuare tutti i tagli necessari affinché il film ottenga il nulla osta – con una laconica lettera datata 30 ottobre fa sapere di non essere disposta a effettuare tagli o modifiche.

Riunitasi nuovamente il 5 novembre, la Commissione, preso atto della risposta negativa della Mondial, esprime parere contrario «in quanto il film contiene numerose scene e sequenze, sottolineate in alcune parti anche da un dialogo spinto, decisamente lesive del buon costume».

La ditta presenta ricorso in data 2 dicembre, «ritenendo che il film stesso non abbia elementi da poter giustificare tale provvedimento», ma fa marcia indietro, rinunciando all’appello, il 24 gennaio seguente.

La pellicola di Rieger si riaffaccia in censura, questa volta in edizione doppiata e col titolo Peter e Sabine due corpi… un amore, il 17 aprile 1970. A presentarla è Pietro Nofri, ex attore (L’albergo degli assenti, La voce senza volto) riciclatosi direttore di produzione e distributore. Stavolta la V sez., che visiona il film il 27 maggio, esprime parere favorevole, pur se con divieto ai minori di 18 anni in quanto «il film, pur con intenti educativi, indulge ad alcune scene erotiche insistendo in particolari scabrosi». Nofri rinuncia all’appello e si tiene il divieto.

 

 

n. 52619

Un caldo corpo da vendere/La borsa nera dell’amore/Il mercato nero dell’amore (Schwarzer Markt der Liebe)

Rft 1966, b/n

 

R, sc: Ernst Hofbauer; fo: Andreas Demmer, Günther Knuth; mu: Frank Valdor.

Int: Omero Antonutti (Lemaire), Christine Dass (Antoinette), Rolf Eden (Rolf), Karina Field (Rosanna), Astrid Frank (Astrid), Karin Glier (Mary).

Prod: Urania.

Revisione: 18.10.1968 (2305 m), respinto: 26.10-2.12.1968.

Riedizione: 21.10.1969 (2190 m), approvato: 6.11.1969 (n.o. 54899 - v.m.18).

 

Una banda di trafficanti pratica, tra le altre attività, la tratta delle bianche. Le ragazze, scritturate come ballerine attraverso annunci sui giornali, vengono inviate in Libano e vendute al mercato nero dell’amore. A finanziare il tutto è una ricca contessa proprietaria di un atelier di moda, e né la polizia né l’Interpol riescono a trovare le prove per incriminarla. Un giovane agente, seguendo le tracce di Karyn, una ragazza scomparsa nel nulla proprio dopo aver risposto all’annuncio di un’agenzia di moda, riesce a smascherare la banda di trafficanti, ma non a salvare la vita della giovane.

 

Finanziato dalla Urania del produttore, distributore e regista svizzero Erwin C. Dietrich, e interpretato dall’esordiente Omero Antonutti, il cupo thriller erotico dell’austriaco Ernst Hofbauer – già regista delle Candid Camera televisive tedesche e in seguito principale artefice della serie di grande successo Schulmädchen-Report (13 film tra il 1970 e il 1980) – è acquistato per il mercato italiano dalla Golden Gate Film di Franco Vitolo e presentato in censura il 18 ottobre 1968 con il titolo Un caldo corpo da vendere. La V Commissione, che lo revisiona in data 24 ottobre, gli nega il visto «in considerazione del fatto che il film, privo di un vero e proprio racconto, mira in  sostanza a presentare nudi pornografici che culminano nella scena di un’orgia, e vizi ributtanti, come l’uso collettivo di stupefacenti, e passioni lesbiche».

Vitolo formula appello contro il parere avverso, e chiede che Franca Pelliccia, la sua delegata, venga ascoltata durante la revisione di II grado. La Commissione d’Appello, formata dalle sezioni VI e VII, revisionato il film in data 29 novembre e sentito il rappresentante della distribuzione, si dichiara favorevole al rilascio del nulla osta, ma a patto che vengano effettuati alcuni tagli di alleggerimento, che la compagnia si rifiuta di eseguire. La sentenza pertanto è di nuovo di condanna.

Il film resta bloccato per quasi un anno, poi, il 21 ottobre 1969, viene ripresentato in revisione in una nuova edizione, rititolata La borsa nera dell’amore. Nel foglio che accompagna la domanda di rilascio del visto di censura, sono descritte le seguenti modifiche:

 

− Aggiunti flash di giornali tedeschi, francesi, inglesi e italiani, con l’annuncio della ricerca di giovani bellissime e titoli: «Dovuta alla droga la morte di Janet?»; «Incaricata delle indagini anche la squadra narcotici?»; «Perdute a Beirut le tracce di Katie. Interrogato il coreografo di Hair»; «La droga uccide?»; «Chiusa una casa di moda. Hashish?»; «Non si tratta solo di droga. La polizia indaga»; «Sordido mercato in un’agenzia di viaggi»; «Allarmante: dall’inizio dell’anno scomparse oltre 600 giovani»; «Il medico legale dichiara: non si tratta di violenza, ma di acido»; «L’Interpol sulle tracce dell’industriale espatriato»; «Viaggio in Libano delle ragazze bene. Perché?»; «Dovuta alla droga la morte di Janet».

− Modificata la scena in cui la donna dell’albergo appariva come moglie del proprietario.

− Eliminata la scena di violenza fra l’oste e la donna.

− Modificata sia come scena che come dialoghi i rapporti della «contessa» con le ragazze irretite.

− Eliminata la scena del bagno con ragazze nude.

− Modificata la scena del castello in cui si svolge la festa.

− Eliminata la scena dello spogliarello volgare di un partecipante alla festa.

− Aggiunta scena ballo cubano in cui appare la droga e eliminati i dettagli.

− Aggiunto al finale scena delle auto della polizia che vanno via mentre il giornale vola portato dal vento.

 

Il 6 novembre 1969 al film è concesso il visto di circolazione con divieto ai minori di 18 anni, imposto «per le scene di vizio e di spietata violenza». Il giorno successivo la Golden Gate Film chiede e ottiene l’autorizzazione a modificare il titolo in Il mercato nero dell’amore.

 

 

n. 52779

Mia nipote Inga/Inga, io ho voglia (Jag - en oskuld)

Svezia 1968, col.

 

R, sc: Joseph W. Sarno; fo: Bruce G. Sparks; mt: Filmmakarna AB [Ingemar Ejve]; mu: The Bamboo.

Int: Marie Liljedahl (Inga Frilund), Monica Strömmerstedt (Greta Johansson), Thomas Ungewitter (Einar Nilsson), Anne-Lise Myhrvold (Dagmar), Casten Lassen (Karl Nistad), Else-Marie Brandt (Frida Dagheim).

Prod: Omega Film.

Revisione: 16.11.1968 (2242 m), respinto: 26.11.1968-11.1.1969.

Riedizione: 8.7.1971 (2053 m), approvato: 22.10.1971 (n.o. 58588 - 1948 m - v.m.18).

Homevideo: Retro Seduction Cinema (DVD, Usa).

 

Dopo la morte della madre, la diciassettenne Inga va a vivere a casa della zia Greta, la quale convive con il giovane studente Karl. Sull’orlo del fallimento a causa delle continue richieste di denaro del ragazzo, Greta cerca di spingere la nipote tra le braccia del vecchio e ricco finanziere Einar, ma la giovane si oppone e intreccia invece una relazione con Karl.

 

Il film più celebre tra gli oltre duecento diretti da Joseph W. Sarno (1921-2010), grazie alla presenza dell’allora diciassettenne Marie Liljedahl, divenuta poi una vera icona dell’erotismo. Jag - en oskuld nasce sulla scia del successo di Io, una donna (Jag - en kvinna) di Mac Ahlberg, e in origine è incentrato sul personaggio interpretato da Monica Strömmerstedt; ma una volta scritturata la giovane Liljedahl, il regista ne è colpito a tal punto da riscrivere il copione dando il giusto spazio alla giovanissima Inga. Malgrado la fama di scandalo che si porta dietro, il film di Sarno è un melodramma famigliare (che riprende e rielabora il tema dell’estraneo che arriva in una famiglia e ne scardina gli equilibri, già al centro del Teorema pasoliniano) in cui le sequenze spinte si limitano a qualche nudo e a una scena di masturbazione della protagonista, più intuita che mostrata. Nonostante ciò, la versione per il mercato americano viene rielaborata dal distributore Jerry Gross, che aggiunge delle dissolvenze alle scene più audaci, mentre l’edizione italiana incontra i consueti ostacoli in sede di censura.

Presentato dalla Cineriz in versione doppiata con il titolo Mia nipote Inga, viene respinto in data 25 novembre 1968 «in quanto» scrive la commissione «sia nel suo complesso, per la tematica svolta e l’amoralità dei personaggi, sia per le numerose scene erotiche, costituisce una grave offesa al buon costume […]. Tenuto conto che tale offesa scaturisce anche dallo stesso concetto ispiratore del film, la maggioranza della Commissione non ha ritenuto di poter accedere alla richiesta del rappresentante della ditta interessata di effettuare tagli al film».

La società presenta ricorso in data 6 dicembre, ribadendo la volontà e disponibilità ad apportare tagli, ma la Commissione d’Appello, presieduta da Tommaso D’Arienzo (di cui fanno parte anche i registi Romolo Marcellini e Giorgio Venturini), conferma a maggioranza il giudizio precedente, asserendo che l’opera «è realmente un susseguirsi di sequenze nelle quali l’erotismo degenera sovente in oscenità».

La Cineriz cede il film alla Pea di Alberto Grimaldi, la quale in data 8 luglio 1971 ne presenta al Ministero una nuova edizione, intitolata Inga, io ho voglia. «A questa seconda edizione» scrive la società «sono state apportate delle eliminazioni ed aggiunte di scene di notevole entità». Segue il resoconto delle modifiche, così come riportato sul foglio di presentazione:

 

− eliminazione al rullo 4 di Dagmar e di Karl che fanno l’amore nudi, con Karl che bacia la ragazza in tutto il corpo per metri 36;

− eliminazione delle scene in cui Inga si masturba, rullo 9 per metri 19;

− eliminazione della scena in cui Inga e Karl fanno l’amore, con Karl che la bacia su tutto il corpo − metri 31, rullo 10;

− aggiunta della scena − rullo 9 − dove Inga fugge dal casolare inseguita dal ragazzo che non riesce a raggiungerla (in sostituzione della scena originale dove Inga soggiaceva alle passioni sessuali del ragazzo nel casolare, insieme a altri ragazzi.

 

Il 20 ottobre 1971, dopo il taglio di ulteriori tre scene decise dalla commissione1, al film è concesso il nulla osta di proiezione in pubblico con il divieto di visione ai minori di diciotto anni in quanto «anche nella nuova versione presenta una tematica amorale ed accentuatamente erotica».

 

 

1 Le tre scene tagliate, per un totale di 105 m (circa 4’) sono così descritte nel verbale: 1) al primo rullo, eliminata completamente la scena del rito della vergine (processo); 2) eliminata la scena della masturbazione di Inga; 3) eliminata la scena di Inga e il ragazzo che per la terza volta si vedono nudi.

 

 

n. 52886

Candy/Candy e il suo pazzo mondo (Candy)

Francia/Italia/Usa 1968, col.

 

R: Christian Marquand, Giancarlo Zagni; s: dal romanzo di Terry Southern e Mason Hoffenberg; sc: Buck Henry; fo: Giuseppe Rotunno; mu: Dave Grusin; mt: Giancarlo Cappelli, Frank Santillo.

Int: Ewa Aulin (Candy Christian), Charles Aznavour (il gobbo), Marlon Brando (Grindl), Richard Burton (MacPhisto), James Coburn (dottor A. B. Krankheit), John Huston (dottor Arnold Dunlap), Walter Matthau (Gen. R. A. Smight), Ringo Starr (Emmanuel), John Astin (T.M. Christian/Jack Christian), Elsa Martinelli (Livia), Sugar Ray Robinson (Zero), Anita Pallenberg (Infermiera Bullock), Lea Padovani (Silvia Fontegliulo), Florinda Bolkan (Lolita), Marilù Tolo (Conchita), Nicoletta Machiavelli (Marquita), Umberto Orsini (il grassone), Enrico Maria Salerno (Jonathan J. John), Christian Marquand (regista), Buck Henry (malato di mente), Julian Beck.

Prod: ABC/Corona/Dear Film/Selmur Productions.

Revisione: 10.12.1968 (3400 m), respinto: 11-20.12.1968.

Riedizione: 9.1.1970 (2971 m), approvato: 17.6.1970 (n.o. 55346 - 2948 m - v.m.14).

Homevideo: General (Dvd, Italia).

 

Durante una lezione scolastica, la studentessa Candy si addormenta, e nel corso di un lungo sogno ha esperienze erotiche con gli individui più disparati: il poeta MacPhisto, il giardiniere messicano Emmanuel, il generale Smight dell’aviazione, il celebre chirurgo dottor Krankeit, un regista, l’eccentrico fachiro Grindl, un santone il quale la trasporta in uno strano tempio che finisce per crollare. A questo punto Candy si sveglia, ritrovandosi nell’aula della propria scuola.

 

Terry Southern è stato uno degli intellettuali più rappresentativi della controcultura, con romanzi satirici come Guy il grande (The Magic Christian, 1959) e occasionali puntate nella Settima Arte (co-sceneggiatore di Il Dottor Stranamore di Kubrick, suoi tra gli altri i copioni di Il caro estinto, Barbarella, Easy Rider e End of the Road dal romanzo di John Barth), con l’onore d’essere immortalato sulla copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e d’essere definito da Gore Vidal lo scrittore più profondamente arguto della sua generazione. Con le armi della satira e della provocazione, Southern denudava l’ipocrisia del vivere civile, smascherando le labili barriere del consenso comune su cui è fondata la realtà. È anche il caso di Candy, scritto (con lo pseudonimo Maxwell Kenton) a quattro mani con Mason Hoffenberg nel 1958: una versione moderna e al femminile del Candido di Voltaire, con una spiccata attenzione per le esperienze erotiche della protagonista. Forse, per rendere giustizia al romanzo, ci sarebbero voluti un regista come Kubrick e un approccio meno schifiltoso: farne un kolossal porno vero e proprio, come quello girato dal regista Boris Adrian, protagonista di un altro romanzo di Southern, Blue Movie (1970, dedicato proprio a Stanley Kubrick) e trafila ininterrotta di sapidi passaggi hard.

Come invece accadrà con l’adattamento di The Magic Christian (scritto da John Cleese e Graham Chapman, e interpretato da Peter Sellers), il mondo stralunato e provocatorio di Southern si rivela difficile da portare sullo schermo, nonostante l’apporto di uno sceneggiatore come Buck Henry. E, nel caso di Candy – che al tempo «Playboy» elencò tra i 25 romanzi più erotici di sempre –, a causa dei limiti derivanti da un regista non all’altezza, che spreca un cast sontuoso (in cui spiccano la venustà di Ewa Aulin e la partecipazione di Marlon Brando, amico di Marquand, la cui presenza assicurò i necessari finanziamenti). Cui si assommano, almeno nel nostro Paese, grosse grane con la censura.

Presentato in censura il 10 dicembre 1968, Candy è visionato il giorno seguente dalla IV sez. della Commissione di I grado; in seguito vengono sentiti i rappresentanti della Dear Film, i quali puntualizzano che «lo scopo del film è quello di smitizzare gli aspetti sessuali del mondo moderno, per cui il film è stato impostato in chiave scherzosa». La Commissione sente per altre due volte i rappresentanti, a cui suggerisce di effettuare sei tagli di scene offensive al buon costume, sentendosi però opporre un rifiuto. Inevitabile, a questo punto, il parere contrario alla proiezione in pubblico, dato che

 

il film è permeato da numerose scene e sequenze manifestamente contrarie al buon costume, particolarmente delle seguenti: 1) la scena della completa svestizione e dell’amplesso sul bigliardo; 2) sequenza di atti erotici sulla bambola a contenuto feticistico, in sincronia con la scena precedente; 3) nudità del sedere della ragazza messa in primo piano nella scena dell’aereo; 4) tutta la sequenza erotica in posizione anormale tra la ragazza e il chirurgo; 5) la scena della ragazza che va a letto con lo zio mentre vi giaceva accanto il padre; tutte le posizioni erotiche normali ed anormali della ragazza, sia allo scoperto che sotto il lenzuolo, con Marlo [sic!] Brando.

 

La Dear presenta immediatamente appello, il 13 dicembre, e la visione del film avviene quella sera stessa. La Commissione di II grado è composta dalle sezioni V e VI (tra i nomi spicca quello di Riccardo Freda, all’epoca membro della V sez., che racconterà la propria esperienza in un’intervista a Luigi Cozzi apparsa su «Horror»1). Questa volta la Dear si dichiara disposta a apportare i tagli indicati in prima istanza, oltre ad altri eventuali indicati in appello: la Commissione suggerisce di sforbiciare anche l’amplesso con il gobbo sul pianoforte a coda. Il giudizio stavolta viene sospeso in attesa che vengano apportate alla copie le modifiche suggerite.

La Commissione si riunisce il giorno 20, per controllare gli avvenuti tagli. Per ragioni tecniche, Candy viene proiettato privo di colonna audio (il sonoro è stato giudicato «immune da qualsiasi censura» nella precedente seduta). Viene messo ai voti se i tagli eseguiti siano o no sufficienti: su dieci membri, uno vota sì, quattro (tra cui Freda) chiedono nuovi tagli; cinque (tra cui il presidente Pietro Pascalino) votano per il rigetto. «I motivi», si legge nel verbale, «devono ravvisarsi nel fatto che la produzione, che pure aveva dichiarato di eseguire il taglio delle scene indicate […], ha eseguito tali tagli solo parzialmente, lasciando nel film numerose immagini e sequenze manifestamente oscene».

Inoltre, a spingere la Commissione a rigettare l’appello, c’è anche la corretta interpretazione di una scena il cui significato era sfuggito alla Commissione di I grado, l’amplesso conclusivo nel tempio tra Candy e un pellegrino che si rivelerà essere il padre, «il quale appare sullo schermo con il volto coperto da un cerone bianco che lo rende irriconoscibile. Candy, quando il cerone si scioglie, resta esterrefatta nel riconoscere il proprio padre» (nel libro non si tratta di cerone ma di letame). Per cui, concludono i signori censori, «questa scena culminante illumina di luce sinistra tutta la tematica del film, che è una integrale demolizione di convalidati principi morali. Il film rappresenta, infatti, la condanna di ogni inibizione e di ogni fumo sessuale, giungendo a giustificare […] perfino l’incesto. Il crollo del tempio indù in cui avviene l’incontro tra Candy e il padre, simboleggia appunto la fine di ogni legge morale e la totale liberazione dell’individuo da quelli che, nel film, vengono rappresentati come formalistici tabù superati dalla morale corrente». La seduta del 20 dicembre finisce in maretta: coloro che avevano votato per i tagli si rifiutano di firmare il verbale e contestano alcune decisioni procedurali, come il rifiuto di considerare l’opinione del membro professor Rodolfo Nencini (assente il giorno 20, ma favorevole alla concessione del nulla osta previi tagli il giorno 13).

La D.C.I. ripresenta il film il 9 gennaio 1970, con il titolo cambiato in Candy e il suo pazzo mondo. Nel documento presentato al Ministero figura, accanto a Marquand, anche il nome di Giancarlo Zagni quale co-regista. Le modifiche apportate sono numerose: 1) rimontata e in gran parte tagliata la scena in cui MacPhisto (Richard Burton) abbraccia la bambola sul divano nella stanza dei giochi; 2) Notevolmente tagliata, rimontata e alleggerita la scena tra Candy e il giardiniere (Ringo Starr) nella stanza dei giochi; 3) Soppresse le immagini più cruente nella scena dell’operazione chirurgica eseguita dal dottor Krankeit (James Coburn); 4) Completamente soppresso l’episodio di Candy a letto con lo zio; 5) Tagliata la scena dove il dottore, dopo aver spogliato Candy (scena ancora presente) la fa chinare sul letto; 6) Completamente soppresso l’episodio con John Huston; 7) Largamente ridotto e rimontato l’episodio col gobbo (Charles Aznavour); 8) Completamente soppressa una scena nell’episodio con il guru (Brando) in cui costui è «in intimità» con Candy; 9) tagliati numerosi nudi della Aulin e di Brando; 10) Viene completamente reinventato il significato del film: «attraverso un dialogo aggiunto, del tutto nuovo, l’eliminazione di una serie di immagini ed il montaggio riveduto dell’intera scena, Candy esprime allo sconosciuto che l’ha condotta nel tempio, il suo rimpianto di non aver trovato nel padre un appoggio morale ed una guida; e nel riconoscerlo, la sua è una reazione di gioia e di sollievo (quindi del tutto innocente), di una figlia che ritrova il padre creduto morto»; 11) Viene aggiunta la sequenza finale in cui Candy è a scuola, la sua invocazione al padre («unica guida sicura in un mondo che la frastorna») e il richiamo del maestro che la riporta dal sogno alla realtà. «In questo modo», conclude il rappresentante della casa distributrice, «il film assume un tono onirico che alleggerisce il significato di ogni scena, trasferendola dalla realtà oggettiva delle immagini nella sfera del sogno.

La V sez., che revisiona il film il 14 gennaio, ascoltato il rappresentante della D.C.I., esprime a maggioranza parere favorevole (fa eccezione il dottor Ugo Chiarelli, che vota per la bocciatura) alla proiezione in pubblico con il divieto ai minori di 18 anni «in quanto il mondo allucinante che rotea attorno alla protagonista Candy, pur nell’evidente intento satirico cui l’opera è improntata, l’erotismo in cui sfociano i vari episodi, costituiscono elementi tali da turbare la particolare sensibilità dell’età evolutiva dei predetti minori».

Ma non finisce qui. Il 10 febbraio la D.C.I. fa ricorso contro il divieto ai minori. La Commissione d’Appello (VII e VIII sez.) riunitasi il 29 maggio, sospende il giudizio e invita a effettuare ulteriori tagli affinché il divieto sia abbassato ai minori di anni 14. In dettaglio: 1) scena del bigliardo tra Ringo ed Ewa Aulin (3,02 m); 2) scena del pianoforte: Aznavour che si piega su Ewa Aulin (10,85 m); 3) alcune scene tra Brando ed Ewa Aulin sotto il lenzuolo (9,55 m).

Finalmente, in data 11 giugno 1970, Candy e il suo pazzo mondo ottiene il nulla osta con divieto ai minori di 14 anni. È in pratica l’ombra del film che era in origine.

 

 

1 «”Come concilia la sua attività di regista con quella di censore?” “Benissimo. Una cosa è fare il regista e un’altra visionare e giudicare i film. […] Quello che conta, secondo me, è il valore del film, non tanto l’erotismo o l’audacia di una scena. Mi spiego: Visconti in La caduta degli dei ci mostra un incesto e nessuno ha protestato: il film l’abbiamo approvato, tanto è bello e intelligente. Ma a Christian Marquand – infimo regista – e al suo Candy, abbiamo dovuto bocciare il film. Io l’avrei fatto passare: un paio di nudi della Aulin e un coito e un coito anale appena intuito attraverso le tende non scandalizzano più nessuno… però alla fine si è aggiunto l’incesto e il film era tanto scialbo e noioso che non ho potuto oppormi al parere degli altri. È stato bocciato. Dopo un anno è uscito in quella versione a mozziconi che avete visto… in pochi, per la verità. Non è stato un affare per i produttori.”»