«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.»
Immaginiamo che un cittadino qualunque – chiamiamolo John Doe, tanto per dire – arrivi in un paese straniero. È lì per lavoro, ma anche per spassarsela un po’. Si è messo in ghingheri, con una camicia hawaiana dai colori sgargianti. Il suo principale lo accoglie e lo accompagna ai controlli aeroportuali. Parrebbe solo una formalità. Ma l’ufficiale che dovrebbe timbrargli il passaporto col visto d’ingresso lo osserva annoiato, squadra il visitatore dalla testa ai piedi, inizia a fargli domande, si consulta sottovoce con i colleghi. E alla fine si rifiuta di concedergli il visto. John Doe è interdetto – di più, sconcertato. Cosa ho che non va? L’altro indica la camicia. Il suo accompagnatore è interdetto ma non sorpreso: altri prima di lui erano andati incontro al medesimo divieto. Gli suggerisce allora di cambiarsi di abito, per adattarsi agli austeri costumi locali. John Doe non crede ai propri orecchi: la sua camicia, certo, non passa inosservata, magari anche un po’ pacchiana. Ma è solo una camicia.
Il viaggiatore accetta di malavoglia il consiglio. Si chiude nel bagno dell’aeroporto, fruga nella valigia, trova un’altra camicia, si cambia. Torna dal funzionario, sorridente: tutto a posto ora? L’altro, per nulla soddisfatto, scuote la testa. Niente da fare. Doe e il suo principale capiscono che non è colpa della camicia: a quel funzionario non piace la sua faccia, non gli piacciono i capelli lunghi fino alle spalle, la barba incolta, l’aspetto trasandato.
E ora? John Doe è bloccato in aeroporto, non può neppure tornare al suo paese. Rassegnato, attende in sala d’aspetto mentre il suo capo si allontana trafelato. Quando torna, ha con sé un nuovo passaporto per il suo protetto, con nome fasullo, e regge sotto il braccio un involto. Accompagna l’altro nella toilette, gli fa radere la folta barba, tagliare i capelli, indossare un elegante vestito nuovo, e così camuffato lo accompagna di nuovo al posto di controllo. Così in ghingheri, l’uomo un tempo chiamato John Doe sembra uno spaventapasseri: il colletto inamidato lo soffoca, la cravatta è troppo stretta, i pantaloni troppo corti, e la giacca lo fa sbuffare dal caldo. Ma stavolta il funzionario – sempre lo stesso – non ha nulla da ridire. Superati i controlli aeroportuali, l’accompagnatore guarda il suo protetto con un certo rammarico: così conciato, non sembra neanche la stessa persona. Gli porge allora la camicia hawaiana, un attimo prima di imboccare la porta di uscita dell’aeroporto: John Doe si spoglia di quei vestiti non suoi, la indossa, e si sente subito più a suo agio. Anche il suo accompagnatore è soddisfatto: sebbene non somigli più a quel tipo spavaldo che aveva visto scendere dall’aereo, con quella camicia sgargiante che gli piace tanto riguadagna almeno in parte il sorriso.
L’inserviente dell’aeroporto sbuffa, spazza, passa lo straccio e di nuovo sbuffa. Ma com’è possibile? Ogni giorno la stessa storia. Decine di persone che scambiano la sua toilette per un negozio di barbiere! E a lui tocca ripulire tutti quei capelli sparsi sul pavimento.
Sulla censura cinematografica italiana sono stati spesi fiumi d’inchiostro nel corso degli anni. Saggi, studi, trattati, pamphlet, numeri monografici di riviste, una quantità sterminata di articoli di quotidiani. Il tema, del resto, è di quelli fertili. Mancava, però, un testo che si occupasse di quelle pellicole cui le commissioni di censura hanno rifiutato il visto in prima istanza e in appello, vietandone la libera circolazione commerciale nel nostro Paese1. Sono queste pellicole l’oggetto di Visioni proibite.
Per ragioni di lunghezza e al fine di garantire una maggiore facilità di consultazione, l’opera è suddivisa in due volumi: il primo relativo al periodo che va dal 1947 al 1968, il secondo dal 1969 a oggi. Ogni volume si compone di due parti. La prima ripercorre e analizza le vicende della censura cinematografica nel nostro Paese dal secondo dopoguerra a oggi, rilette alla luce delle pellicole bocciate. La seconda contiene le schede di tutti i film respinti in via definitiva dalle commissioni di revisione, e ne esamina gli iter, ricostruiti con l’ausilio dei documenti originali conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e il Mibac (Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo), e sulla base della consultazione di altro materiale d’epoca. Non rientrano perciò nel nostro studio quei casi anche celebri di pellicole bocciate in I grado e successivamente ammesse in appello, come Salò o le 120 giornate di Sodoma, o ritirate di circolazione in un secondo momento per l’intervento della magistratura, come Ultimo tango a Parigi, nonché le tribolazioni di quei tanti film sequestrati a partire dagli anni ’60 e soprattutto nel decennio seguente, quando l’azione della magistratura penale affianca e sovrasta quella via via più blanda delle commissioni di revisione.
Se è vero che alcuni degli esempi più clamorosi sono stati trattati in profondità nel passato (come Totò e Carolina, cui Tatti Sanguineti ha dedicato un prezioso volume del progetto Italia taglia), l’identità e le traversie di gran parte di queste «visioni proibite» sono ancora poco conosciute, per non dire oscure. Anche agli stessi addetti ai lavori: «Viene da chiedersi quanti film nella più che trentennale storia (repubblicana) delle Commissioni di revisione si siano visti negare il necessario nulla osta, non potendo così essere visti dal pubblico italiano» si domandava il costituzionalista Riccardo Viriglio in un saggio di una dozzina d’anni or sono, quando l’eco della vicenda di Totò che visse due volte era ancora nitida. Per rispondersi: «a memoria di censore ed in assenza di statistiche ufficiali, la risposta è: due. Oltre al film di Ciprì e Maresco, il quale alla fine di una tormentata vicenda giudiziaria finì in ogni caso per uscire nelle sale, e volendo escludere le pellicole dichiaratamente pornografiche, l’altro film che si ricordi non abbia ottenuto il necessario nulla osta è stato nel 1993 Il Ritorno di Jens Jørgen Thorsen»2.
La realtà è ben diversa. Dal dopoguerra a oggi, i casi rientranti nell’oggetto di questo volume (tra cui non troverete né il film di Thorsen né quello di Ciprì e Maresco, entrambi approvati in secondo grado) sono centinaia. E solo una parte marginale – e relegata al periodo grossomodo intercorrente tra il 1976 e il 1986 – è rappresentata da pellicole pornografiche tout court. L’elenco è variegato e spesso sorprendente, e comprende documentari di propaganda filosovietica, commedie musicali austriache, prestigiosi adattamenti letterari, horror di serie B, drammi erotici pseudoeducazionali, documentari esotici, e tanti altri ancora. Capolavori e obbrobri, opere memorabili e filmetti dimenticabili (e spesso dimenticati), accomunati da un destino comune ai sensi di una normativa che, contrariamente a quanto è comunemente creduto, non è mai stata smantellata. Il caso di Totò che visse due volte pare segnare la fine della censura: la bocciatura in I grado del film di Ciprì e Maresco provoca un’eco sui mass media paragonabile ai casi celebri dei decenni precedenti, e causa un sommovimento politico destinato a sfociare nella presentazione di un disegno di legge da parte del ministro per i Beni culturali e ambientali Walter Veltroni, che però decade a fine legislatura. La normativa sulla censura (l. 21 aprile 1962, n. 161) è tuttora in vigore: anche se oggi la censura preferisce altre strade rispetto a quella amministrativa.
Sebbene la legge preveda due gradi di giudizio ai fini della concessione del nulla osta, talvolta l’iter censorio si esaurisce prima: il rifiuto del visto in I grado tarpa di fatto le ali al film, in quanto produttori o distributori non presentano ricorso in appello, abbandonando di fatto la pellicola al suo destino: anche queste sono «visioni proibite». Come lo sono quei lavori che nei primi anni ’50, pur avendo ottenuto regolare visto censura, vengono richiamati in censura per una revisione straordinaria, con successiva revoca del nulla osta, in base al controverso art. 14 del regolamento annesso al R.D. n. 3287/1923, come Il diavolo in corpo di Autant-Lara e Le avventure di Giacomo Casanova di Steno. Lo stesso vale per quelle opere approvate condizionatamente in appello, secondo una pratica risalente al periodo antecedente alla legge n. 161/1962, quando ancora era in vigore una normativa ereditata dal periodo fascista: in siffatti casi il distributore, per ottenere il nulla osta, avrebbe dovuto ripresentare una nuova versione della pellicola, secondo i dettami della commissione. Con la nuova legge, la «contrattazione» tra le parti sui tagli da operare diventerà un momento dialettico compreso nel normale iter di revisione.
Non sempre, tuttavia, la bocciatura definitiva risulta nella mancata circolazione italiana del film. Se, giusto per fare un esempio, Ulysses di Joseph Strick – dal romanzo di Joyce, bocciato nel 1968 – non è mai giunto nelle nostre sale, altre opere sono state distribuite in versioni radicalmente diverse da quelle originarie, sfrondate e manipolate, anche a distanza di anni, da La Ronde di Max Ophüls (uscito in Italia otto anni dopo la presentazione al festival di Venezia) a I cugini di Claude Chabrol (con il doppiaggio stravolto dal distributore Dino De Laurentiis), da Trash di Paul Morrissey a Up! di Russ Meyer. Per legge, infatti, «le opere che non hanno ottenuto il nulla osta possono, in seguito a sostituzione del titolo e di parti sceniche o dialogate, essere presentate a nuovo esame, purché le sostituzioni apportate assicurino in termini inequivoci che si tratta di edizione diversa da quella già revisionata» (art. 11 del d.P.R. n. 2029/1963). Altre ancora da proibite si sono fatte clandestine, come i numerosi film a luce rossa che, pur essendo stato loro negato il visto, hanno circolato sotto mentite spoglie nei circuiti dedicati. Oppure, si sono limitate a reindossare quella camicia sgargiante che era stata loro criticata, con la reintroduzione delle scene sforbiciate in commissione.
Non si intende in alcun modo stabilire qui una gerarchia di torti subiti: mutilazioni e manipolazioni non sono destino esclusivo dei soli film respinti, ché l’iter censorio di una pellicola – si pensi alla censura preventiva nell’immediato dopoguerra, sottosegretario Andreotti – passava spesso attraverso accomodamenti più o meno significativi per ottenere il nulla osta, e l’approvazione finale non escludeva profondi interventi censori sulla pellicola (emblematico il caso di Anni facili di Zampa). Ma nei casi di quei film bocciati, ancora e ancora, il percorso tra le forche caudine delle commissioni si trasforma in un impervio gioco dell’oca fatto di bocciature e ricorsi, motivazioni e contromotivazioni, trancianti giudizi sulla supposta oscenità di una pellicola e obiezioni, talora accorate, talaltra mere difese d’ufficio – un circolo vizioso che spesso dice molto di più su quanto vi stava intorno che sul film stesso.
Dai documenti ministeriali relativi alle pellicole in questione affiora uno spaccato di costume al cui centro non vi sono solo gli orientamenti e le idiosincrasie della censura cinematografica nell’Italia dal dopoguerra a oggi, ma più in generale le tribolazioni di una società ancora profondamente legata al passato fascista da un lato, e gravata dal peso delle influenze del mondo cattolico dall’altro, e che nel corso degli anni sperimenta sulla propria pelle il difficile cammino verso la modernità, tra mutamenti epocali del costume accolti con malcelato fastidio, tabù duri a morire, occasionali slanci progressisti e ricadute oscurantiste. Ed emergono inoltre l’immobilismo, anche lessicale, di una classe dirigente e di una burocrazia il cui sussiegoso linguaggio travalica spesso i confini del ridicolo, tra puntigliosi verbali, contorte disamine e farraginosi giri di parole nel descrivere le presunte offese recate dalla pellicola di turno al buon costume, nonché il vezzo squisitamente italico dello scaricabarile negli innumerevoli appunti interni redatti dai sottoposti a uso e consumo del sottosegretario di turno. E, naturalmente, vengono a galla il servilismo untuoso, la fantozziana captatio benevolentiae, il vittimismo ricattatorio delle controparti, abituate a chinare il capo e mendicare benevolenza, piangendo miseria o tutt’al più lamentandosi di chi, a loro dire, sia stato ingiustamente beneficiato d’un trattamento più favorevole.
Con gli anni, però – e con la sempre maggiore scaltrezza di distributori e produttori ormai adusi alle trappole burocratiche in parallelo alla perdita di prerogative delle commissioni stesse –, gli iter censori da esperienze kafkiane si trasformano in balletto delle parti: un tira e molla dove le sorti di un film si misurano al metro, o al centimetro, tagliato. Come la libbra di carne pretesa da Shylock, il prezzo da pagare per l’offesa arrecata è quantificato in termini ragionieristici, con effetti che ne fanno risaltare l’intrinseca assurdità. «In quale preciso momento un individuo smette di essere quello che crede di essere?» si chiede Trelkovsky in L’inquilino del terzo piano di Roland Topor. «Mi tagli un braccio? Bene, io dico “me e il mio braccio”. Mi tagli anche l’altro braccio, io dico “me e le mie due braccia”. Togli il mio stomaco, i miei reni, ammettendo che sia possibile, io dico “me e il mio intestino”. E ora, se mi tagli pure la testa, che cosa direi? “Me e la mia testa” o “me e il mio corpo”? Che diritto ha la mia testa di chiamarsi “me”? Che diritto?».
Parafrasando Topor, dopo quanti metri di pellicola tagliati un’opera cinematografica cessa d’offendere il pudore? O, ai sensi del summenzionato art. 11 della l. n. 161/1962, quand’è che un film smette di essere quel che era in precedenza, nella testa del censore? Forse, si obietterà, sono questioni obsolete, in un’epoca dove (apparentemente) tutto è permesso. Ma la censura peggiore, la storia anche recente insegna, è la più sottile: quella che convince l’uomo d’essere libero, illudendolo di avere un potere di scelta che di fatto, subdolamente, gli è negato.
Non vogliamo, in queste pagine, fornire risposte definitive: ma non possiamo celare il nostro punto di vista, certi che comunque esso non vada a scapito dei fatti elencati. Perché siamo convinti che si debba partire da qui, dai semplici dati documentali messi nero su bianco, per trovare un senso e uno sguardo d’insieme sulle cose. Scripta manent, anche in quest’era sciagurata dove inesattezze, errori, ciclopiche falsità non solo resistono ma trovano terreno fertile nel magma del web. E forse le pagine a seguire potranno fornire lo spunto per ulteriori indagini e approfondimenti su tematiche tuttora poco affrontate, dal ruolo e l’ingerenza della censura preventiva nel cinema italiano del dopoguerra ai rapporti tra censura amministrativa e magistratura, all’influenza delle stesse sulle sorti economico-produttive del cinema italiano. In questa prospettiva, anche le vicende minori, se non minime, hanno una loro ragione d’essere. Viene in mente il monologo di Josef K. in Il processo: «quello che è successo a me, non è che un caso singolo e come tale di poca importanza, poiché io non lo prendo molto sul serio, ma è indicativo di un modo di procedere che viene applicato a danno di molti. Io qui difendo la loro causa, non la mia».
1 A norma di legge le pellicole prive di nulla osta non possono essere proiettate nel circuito commerciale: le società, per proiezioni «particolari» (cineclub, proiezioni a invito, rassegne) dovevano comunque richiedere un nulla osta di proiezione a tempo, valido solo per l’evento in questione (si vedano la scheda relativa a Il Re, o i vari documentari scientifici). I commissari erano di manica più larga, dato che queste proiezioni non erano rivolte al grande pubblico, ma potevano comunque negare l’autorizzazione.
2 Riccardo Viriglio, La censura cinematografica: libertà dello spettatore, tutela dei minori e censura economica, «Aedon, rivista di arti e diritto on-line», n. 1, 2000.