Prefazione
di Carlo Lizzani

Preziosi i dati che questo libro di Curti e Di Rocco ci offre, e scottanti gli interrogativi che - anche oggi, a tanta distanza di tempo - ne derivano.

Ma sarebbe facile l’obiezione: non ci sono stati organismi censori anche più rigorosi - almeno fino alla caduta del muro di Berlino - in Unione Sovietica e in tutte le aree, in Europa e nel mondo, di «comunismo reale»? Non è forse stata dura la stagione maccartista in un paese democratico e liberale come gli Stati Uniti d’America? E quanti altri tipi di censura, magari motivati da problemi razziali, in pressoché tutto il pianeta, ci sono ancora oggi?

Sì, è vero.

Ma il caso italiano, qui rievocato con tanta ricchezza di dati e di date, ha una singolarità che non va dimenticata: e cioè la concomitanza di un’azione censoria comunque severa e miope con una stagione cinematografica - quella del neorealismo - che, pur avendo il cinema al suo centro, sembrava annunciare, o confermare, una stagione di rinascita di tutta la cultura italiana.

Il neorealismo cinematografico italiano non rappresentava semplicemente un’apertura a contenuti nuovi, a nuovi personaggi e a nuovi paesaggi. Proponeva anche una profonda rivoluzione formale, di linguaggio. Non a caso oggi, in tante Università americane o giapponesi, viene studiato e riproposto; e già allora, prima di noi, se ne erano resi conto storici e critici illustri, francesi e anglosassoni. Mille volte ho citato una frase di André Bazin, l’intellettuale nume tutelare della di Godard e compagni: «Con il neorealismo cinematografico italiano nasce il cinema moderno».

Rivoluzione formale non tanto dovuta al fenomeno allora frequente della collaborazione a tanti film neorealisti di scrittori come Zavattini, Moravia, De Libero, o anche di pittori come Purificato o Guttuso, erano gli stessi autori cinematografici, da De Sica a Visconti, da Rossellini a De Santis a farci percepire che le loro immagini offrivano qualcosa di più di una semplice sintassi di tipo naturalistico.

Non solo Visconti, di cui era nota a tutti la passione per Mann, e in genere per una grande narrativa del ’800, anche Rossellini, Amidei, Lattuada, Germi si erano nutriti − e ce ne facevano giungere l’eco − di Kafka, di Maupassant, come della pittura metafisica di De Chirico e dell’espressionismo.

E per questo, ripeto, il loro linguaggio non fu, malgrado le apparenze, pura registrazione di un «reale», sia pure di per sé sorprendente, come quello offerto dalI’Italia del dopoguerra.

Se ne sentirono le conseguenze e di nuovo l’eco anche decenni dopo, quando finalmente furono realizzati certi sogni rimasti nel cassetto, appunto per ragioni di censura e di autocensura: Cristo si è fermato a Eboli, Gli indifferenti, lo stesso Cefalonia.

Visconti, De Sica, io stesso avremmo potuto girarli «a caldo» appena dopo l’uscita di certi libri e di certi memoriali (o di riedizioni − per esempio degli Indifferenti − tenute sotto silenzio già dalla censura del regime fascista). La miopia politica e culturale, di cui questo libro rende preziosa testimonianza, non ha provocato dunque l’indebolimento e addirittura l’estinzione di una «scuola cinematografica» che avrebbe potuto darci allora altri frutti preziosi, ma di tutta una stagione culturale di cui erano stati co-protagonisti anche narratori, poeti e pittori.

Una di quelle stagioni che fioriscono ogni secolo, soltanto in momenti eccezionali.