«No busques refugio.
Puedes mirar a tu alrededor.
Puedes sonreír libremente.
Puedes pensar en mi extensa presencia.
Te está permitido emitir opiniones contrarias a la moral pública,
en mi presencia; alcayata de lo que fui, vecino de la otra orilla.»
Francisco Iñigo
Tra le mani
Dire luce è l’espressione di un concetto impossibile. Non si può dire la luce, come non si può vedere il verbo. Nei luoghi dell’immagine e della parola, si trovano gli estremi del pensiero estetico di María Zambrano. Gli stessi estremi che l’accompagneranno lungo tutta la sua vita. La pittura non l’ha mai abbandonata, come lei stessa dichiara nell’Introduzione alla prima e, fino a poco tempo fa, unica edizione di Luoghi della pittura (Editoriale Phaidos, Madrid 1989), titolo originale della prima parte della presente opera. Come la luce, la pittura è una presenza costante: l’immagine, il colore, la figura, il peso e le opere che nelle forme più diverse sono state parte d’un immaginario personale in cui sintetizzare, se non completare, i passaggi fondamentali del suo vasto e in parte ancora sconosciuto pensiero. L’immagine e il suo ruolo: ponendo questioni intorno alla pittura, gli scritti qui presentati si interrogano su cosa sia guardare l’arte, quale sia la sua ultima funzione, come essa si rapporti all’uomo e come egli la interpreti.
Già nel 1935 appaiono le prime notizie. Nostalgia della terra o Nasce la pittura sono i primi testi ai quali dobbiamo fare riferimento e nei quali Zambrano dedica una speciale attenzione alla creazione e alla pittura. Di tutte le arti, sarà quest’ultima a concentrare insieme alla poesia gran parte del suo interesse; ed è a essa che viene concessa un’autonomia piena, una sorta di statuto speciale.
In quest’ottica, il primo degli argomenti da trattare è come far fronte a una vasta, vastissima, produzione. María Zambrano è prolifica e non smette mai di scrivere. Scriverà ovunque, appuntando pensieri che poi abbandona o riprende. Durante i quarantaquattro anni che vivrà fuori dalla Spagna, si sposterà in vari paesi e continenti, dall’America all’Europa e viceversa. L’esilio è una condizione fondamentale, uno stato che marcherà in maniera profonda tutto il suo pensiero, facendo della condizione d’esiliata il vetro attraverso il quale tutto accade e tutto è. La sua concezione del tempo e dello spazio, della memoria e del presente, è la sua risposta a una solitudine esistenziale oltre ogni limite o verbo.
La circostanza reale dei suoi spostamenti e questo produrre di continuo fanno sì che l’impresa di raccogliere una selezione dei suoi testi rischi sempre di essere limitativa, esposta all’inconveniente di trascurare qualche documento, qualche saggio o articolo. D’altra parte, è da segnalare l’assenza di un programma che vada oltre un criterio meramente cronologico. María Zambrano non ha mai voluto ordinare il suo pensiero estetico dentro un qualche sistema o altri analoghi artifici. Non lo ha fatto per nessuna delle grandi questioni da lei affrontate e non lo farà nemmeno per la pittura.
I testi della presente opera vennero scelti per la maggior parte dalla stessa autrice: durante gli anni romani, la Zambrano aveva progettato la pubblicazione di un volume interamente dedicato alla pittura, che si sarebbe intitolato Spagna, luogo sacro della pittura. Un’opera che non vide mai la luce. Poi, nel 1989, Zambrano decise di mettere ordine, con l’aiuto di Amalia Iglesias e Rosa Mascarell, nell’ingente quantità di saggi da lei dedicati alla pittura: nacque così la prima edizione di Luoghi della pittura. In Spagna, l’opera è stata ripubblicata nell’ottobre del 2012, con la regia del filosofo e pensatore Pedro Chacón: un’edizione esaustiva e completa che è stata alla base della presente traduzione.
In Italia, Luoghi della pittura fu pubblicato in maniera parziale nel 2002, per opera di Rosella Prezzo (Editoriale Medusa). Alcuni dei saggi qui contenuti sotto lo stesso titolo, invece, sono parti integranti di altri volumi pubblicati in Italia. Tale è il caso di «Metodo» o «Il vuoto e la bellezza», entrambi contenuti nell’opera Chiari del bosco, edito dalla Feltrinelli e successivamente dalla Bruno Mondadori nella traduzione di Carlo Ferrucci. Paradossalmente, nonostante l’enorme interesse che il suo pensiero ha da sempre suscitato in Italia, la pittura e il suo pensiero estetico sono oggetto di approfondimento da relativamente poco tempo.
Nella selezione dei testi, così come è stata raccontata da Amalia Iglesias, si scelse di dividere l’opera in tre grandi blocchi: da una parte, i testi dedicati alla pittura in generale, nell’ordine cronologico in cui vennero scritti. In una seconda parte, e sempre nell’ordine cronologico con cui erano nati, i saggi dedicati a specifici pittori. Per ultimi, gli articoli apparsi in maniera puntuale in riviste o in altre opere ma che fanno riferimento alla pittura e alle arti in generale. Nel presente volume, si è stabilito di rispettare questo criterio. E anche se, alla luce dei posteriori approfondimenti, un ordine tematico faciliterebbe la lettura e la comprensione dell’opera, si è deciso lo stesso di rispettare la volontà dell’autrice e di continuare a dividerla in questi tre grandi blocchi: pittura, pittori e riflessioni sparse.
La cosa cambia però riguardo agli inediti e agli articoli che appaiono qui insieme ai Luoghi della pittura. La selezione di questi undici saggi, alcuni del tutto inediti sia in Spagna che in Italia e altri apparsi in pubblicazioni di diversa natura, risponde alla volontà di «dare luce» ampliando la visione, la comprensione, del pensiero estetico di María Zambrano.
I testi raccolti nell’Appendice comprendono un periodo che va dal 1935 al 1988, e si trovano nella loro totalità negli archivi della Fondazione María Zambrano, a Vélez-Málaga. Il criterio della selezione può sembrare non omogeneo: si è tentato sia di fornire nuovi spunti di riflessione, sia di dare visibilità a una scrittura spontanea, dotata a volte di grande profondità e spesso sostenuta da una raffinata ironia. Nei testi di nuova pubblicazione, appaiono alcuni abbozzi preparatori così come semplici riflessioni che saranno poi, quelli e queste, sviluppati in articoli posteriori, presenti anch’essi in questa raccolta. Tale è il caso di «Tempo e luce», il cui collegamento con «La pittura di Ramón Gaya» appare del tutto evidente. Sulla stessa linea si trovano «La grotta della pittura» e «Sogno e destino della pittura». Altri testi sono semplici appunti quasi di viaggio – è il caso de «Lo strano sorriso della Gioconda» o «Lo specchio» – oppure, come «L’attenzione» o «Mistero e distribuzione della luce», trattazioni di argomenti raramente toccati.
Su questa linea, il titolo dell’insieme della raccolta, volutamente ambiguo, allude a due termini fondamentali, parola e visione, che sintetizzandone da subito il tema indicano però anche che esso rimarrà, comunque, aperto. Dire luce è, in altre parole, una raccolta di testi che non pretende di essere né un riflesso della totalità del pensiero della Zambrano né, come in certi casi si potrebbe pensare, una serie di scritti specialmente rilevanti. Si tratta piuttosto di un ventaglio di riflessioni e, forse per questo motivo, il suo proposito è più ambizioso. Ciò non solo per la sovrabbondanza di alcuni argomenti, che vengono reiterati e sottolineati, ma anche per l’esigenza di occupare certi spazi di riflessione intorno alla Zambrano finora mai contemplati. Il rischio è alto.
Per la maggior parte, i testi sono il risultato di incontri effettivi con le opere, con gli autori, con i pittori. Nascono da un’esperienza reale e diretta che si presenta come ricordo o come risposta immediata alla visione. Per questo motivo, leggerli significa intervenire, partecipare, entrare in un dialogo aperto nato dal bisogno di raccontare l’accaduto. Essi non cercano di stabilire una tesi definitiva, né qualcosa di simile a un dogma; si tratta, piuttosto, di una lunga conversazione di cui il lettore è parte integrante. In essa, bisogna mettere in gioco se stessi, perché c’è spazio per nuove interpretazioni e interpretare è, in qualche modo, il compimento del testo.
Essere chiamati a partecipare a queste conversazioni con le opere d’arte significa essere chiamati a riconoscerci per quel che siamo, a seguire i passi di queste esperienze che ci costituiscono. Nel dialogo con la tradizione, con l’altro e con noi stessi, si inizia un gioco. La conversazione non è uno strumento ma un metodo, una prassi.
I saggi mantengono questa posizione aperta e sono sottilmente tessuti con i fili di Platone, Aristotele, Nietzsche, Jung e Heidegger per formare una fitta trama non finita. Già questo spazio privilegiato sarebbe sufficiente a sottolineare l’importanza di colei che è considerata una delle più importanti pensatrici spagnole del XX secolo. La sua interpretazione e la creazione di un metodo, la ragione poetica, coniugano i diversi pensieri senza limiti di tempo, attualizzandoli e dimostrando che essi sono i «nostri più antichi contemporanei». La lettura diventa, così, nuova e inedita. Nel gioco del fare e disfare, nasce la domanda, e nella domanda la convinzione che la vita è sempre lì che veglia: rivela e occulta, per citare Heidegger. L’inevitabile incertezza richiama uno spazio di luce, di visione, dove una nuova ragione si desta.
È la pittura, che mi ha portato a scrivere su di essa. Questi testi sono venuti nascendo nel corso di molti anni e in momenti diversi, senza un preesistente progetto unitario […]. È la pittura, che mi ha portato a scrivere su di essa. Le sono grata perché è stata come uno specchio dopo aver guardato nel quale non potevo non parlare, anche, di ciò che vedevo, per svelarlo, per svelare l’enigma che la pittura racchiude.
In queste parole dell’Introduzione, appaiono le ragioni fondamentali che attraversano, come un infinito leitmotiv, il pensiero di María Zambrano. L’avido lettore troverà già lì le battute che compongono la melodia. Le parole ci sono tutte: lo sguardo, lo specchio, il dono. Il ricordo e la presenza, l’enigma e lo svelamento. Sono le parole che, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, dal «periodo romano», formeranno parte del suo abbecedario.
Sebbene nei primi testi, Nostalgia della terra e La distruzione delle forme, le prema annunciare la fine della cultura d’Occidente, l’irrimediabile fallimento della Filosofia e l’urgenza di ritrovare un senso (materia) con e attraverso le arti, con l’arrivo a Roma e l’assimilazione dell’esilio, il pensiero della Zambrano assume la sua forma definitiva e l’arte trova un protagonismo inconsueto. È da segnalare che in questi anni, segnati dallo scoppio della violenza bellica e dall’inizio dell’esilio, di profonda riflessione sulla situazione europea – sintetizzata nell’opera L’agonia d’Europa (1945) –, Zambrano non si unisca al coro di quelli che dichiarano la fine, la morte, dell’arte, ma assimili quest’ultima come possibilità, come speranza.
L’arrivo a Roma segna l’inizio di un nuovo modo. La più profonda delle tristezze e la consapevolezza del non ritorno significano anche la definitiva liberazione dai precetti orteghiani e l’arrivo di altre letture, Jung e Bergson tra gli altri. La libertà e l’autonomia vanno prendendo forma man mano che l’esilio diventa definitivo e il desarraigo (sradicamento) è la nuova patria. Si fa strada, così, un universo di simboli. Leggerli (vederli) assomiglia alla lettura di un’opera di Joan Miró, dove ogni particolare forma parte da un equilibrio e l’equilibrio è un mondo composto da simboli che si ripetono, che s’improvvisano sparsi qua e là per ritrovare, infine, il proprio luogo.
Sarebbe il caso, allora, di seguire i consigli che Salvador Dalí offriva rispetto all’immagine: «Allontani, la prego (anche contro la sua volontà), gli occhi dal centro ipnotico di quella fotografia, e li rivolga con cauta aspettazione verso l’angolo inferiore sinistro».1 Leggere María Zambrano richiede che ci si allontani dal colore principale per trovare nei margini, nei meandri, il motivo che regge tutto il suo pensiero.
Leggere
Il compito portato avanti da María Zambrano consiste nell’individuazione delle forme di realizzazione della persona. Riguarda la natura conoscitiva dell’uomo: cosa egli può conoscere, come e in che modo avviene il contatto con l’altro, quando esattamente l’essere è in se stesso, compiuto, conforme. L’ontologia zambraniana è accompagnata da un ampio progetto etico e metafisico che si presenta con una terminologia simbolica a volte piuttosto ermetica. Nella sua formulazione, la Zambrano assegna un ruolo fondamentale alla creazione, che assimila a un luogo privilegiato della visione e a una forma di mediazione tra l’essere e l’altro. Si parte dal sospetto, dall’incontro con un’intuizione oscura: resistenza della realtà a essere pienamente conosciuta. La parola ordina la realtà, ma non la dà a conoscere. La parola poetica, invece, illumina, guida l’uomo in questo difficile compito di confronto, conoscenza, rivelazione. La ragione poetica, creatrice di uno spazio comprensivo, sorge come risposta a questa resistenza, come uscita dal sogno. Si tratta allora di vedere come questa conoscenza si dia. Non essendoci ormai dubbi sul compito della poesia, cercheremo qui di comprendere quale sia la funzione dell’immagine e se essa abbia o no qualcosa da dire nel difficile processo che l’uomo affronta.
A questo proposito, conviene soffermarsi un attimo sul linguaggio della Zambrano. Uno dei suoi tratti caratteristici è l’uso di un linguaggio simbolico, quasi, poetico. L’intenzionale ambiguità delle sue parole ha dato luogo, sulla base dei criteri filosofici più ortodossi, a critiche non sempre costruttive e poche volte azzeccate. In effetti, queste critiche confermano che l’esperimento è riuscito. Con l’intenzione di fare chiarezza su questo punto, vale la pena di prendere in esame l’uso che ella fa dell’analogia, del simbolo e della metafora. E siccome quel che a noi interessa è sapere cosa c’entri l’arte in tutto ciò, un’analisi in questi termini eviterà di indurci in errore.
Esiste una certa tendenza a pensare come equivalenti il simbolo e la metafora, o a credere che la metafora sia l’espressione di un rapporto simbolico, come se entrambi fossero due facce della stessa moneta, oppure l’una il prolungamento dell’altro. La differenza tra di essi risiede, secondo Michel Le Guern, nel ruolo che ricopre a ogni passo l’immagine. Nel simbolo, la percezione dell’immagine è necessaria per comprendere l’informazione logica contenuta nel messaggio. L’immagine simbolica richiede l’intellettualizzazione dell’analogia, mentre l’immagine metaforica ne prescinde: le è sufficiente svegliare l’immaginazione o la sensibilità. Nel rapporto simbolico, il legame tra il significante e l’elemento simbolizzato non è mai interrotto e, a differenza della metafora, il simbolo è una rappresentazione analogica che mantiene viva la coscienza dell’attribuzione di significato.
Questa coscienza si estende per analogia agli universi simbolici: nell’attività simbolica non c’è un’invenzione di significato, ma una costruzione di mappe d’equivalenze. Un rapporto simbolico non ha bisogno di postulare l’esistenza di una realtà fondamentale rappresentata da ogni singola costruzione, anzi, una costruzione simbolica può perfettamente essere simbolo e mediatrice tra altre due realtà.
In quest’universo di pensiero, i simboli stanno ai concetti ed essi, a loro volta, mutano e si arricchiscono di significato. Muta il senso mentre la parola rimane sempre la stessa. Ciò si spiega solo perché, nel pensare della Zambrano, non ci sono gli assiomi, le massime, ma le relazioni. Così, ogni singolo elemento deve essere preso in considerazione dentro il contesto concreto di quella precisa riflessione.
Nulla è quel che sembra e l’attenta lettura comporta la comprensione di una nuova lingua dove il simbolo sta all’idea, alla nozione storica, all’immagine o all’intuizione. Un dizionario unico: mondo, terra, materia, segreto. Anima, mistero, luce, aurora e sogno. Si potrebbe dire che questo è un tratto distintivo comune ad altri pensatori (Nietzsche) o alla fenomenologia (Heidegger) e, in effetti, lo è di pieno diritto, ma nel caso di María Zambrano la carica simbolica è cruciale perché, da una parte, ella coltiverà il saggio lirico come principale genere di scrittura, dall’altra metterà lei stessa in atto la ragione poetica. L’universo simbolico necessita allora dell’analogia e solo la coscienza di questa eco mutua e costante tra concetto e simbolo potrà guidarci verso un nuovo modo di vedere (vivere) l’arte.
Due precetti
Ci sono un’infinità di parole possibili, l’arte si chiama in molti modi. Essa è sempre stata oggetto di ammirazione, di studio, di riflessione, e, in ogni momento storico, ha dato la sua versione dei fatti. I fatti rimangono e, oltre ogni altra peculiarità, si può affermare che, se l’arte è qualcosa, è una questione d’esperienza: il rapporto tra soggetto e oggetto determina l’esistenza dell’opera. La visione è parte costitutiva dell’arte e l’interpretazione dona il senso ultimo all’opera. Per dirla con Gadamer, bisogna lasciar parlare l’opera. L’arte contemporanea ha portato all’estremo questo principio fino alla disintegrazione completa dell’oggetto e la scomparsa di ogni possibile traccia fisica. Dunque, l’opera esiste nel rapporto soggetto/oggetto in un gioco di aspettative e di sospetti.
Nella quotidianità, la realtà si adegua perfettamente, l’orizzonte corrisponde alla sua definizione, determinando, ogni parola, una minima frazione della nostra esperienza. Conosco il mondo perché esso corrisponde al concetto che ne ho. La prima, e forse più studiata, caratteristica dell’esperienza estetica, è la rottura di questo principio: straniamento e stupore sono i risultati di una discontinuità tra l’oggetto e la sua definizione. Essi accadono quando l’individuo si trova davanti a una realtà che non si presenta in forma abituale alla comprensione. Sono, per definizione, il contatto repentino con l’inatteso, e sollecitano entrambi una sospensione dell’attenzione, un tempo di discontinuità in cui individuare le nuove coordinate.
L’esperienza dell’arte evoca questa discontinuità, facendo nascere il sospetto che qualcosa non sia del tutto comprensibile, nemmeno visibile; che stia accadendo nel più assoluto mutismo. Nella visione, si constata il fatto che quelle figure, colori o geometrie lì rappresentati indicano, si riferiscono, alla realtà, ma non corrispondono affatto all’immagine referente. In questa discontinuità, la Zambrano vede due simboli riferiti al soggetto: l’enigma e il mistero che, pur condividendo l’origine, sono di natura ben diversa.
L’enigma è debitore dell’ambiguità, ove le parole o le immagini, disposte in un senso altro, chiedono una risposta immediata. Il senso singolare dell’enigma chiede la decifrazione e la coscienza di tale «dovere» è sempre presente. Lo straniamento risultante marca la distanza tra l’individuo e l’oggetto.
Non c’erano stati abbastanza santi, in Spagna? Nemmeno questo sentimento poteva formulare, nemmeno quasi a se stessa; era apparso come una luce strana, uno di quei pensieri che simili a lampade di fuoco si accendono un istante nella notte dell’angoscia. Perché nell’angoscia compaiono all’improvviso visioni in cui si presenta un enigma e a volte si aprono abissi luminosi, che producono terrore perché lasciano intravedere che la realtà e ciò che ne pensiamo è solo la maschera di una realtà terribile, che ci consente di ignorarla perché sopportarla sarebbe impossibile […]. Però questo stato tra l’angoscia e la lucidità non si sopporta per molto tempo, e bisogna tornare all’«umano», al corso dei nostri pallidi pensieri.
Il mistero è invece la possibilità dell’atto simbolico: appartiene alla domanda benvenuta, alla pluralità dei possibili. È il segno visibile di una presenza invisibile che non esige possesso né risposta. È la presenza di una luce chiara, diafana e attraente.
L’attrazione crea un movimento verso di sé, per questo il mistero non è mai passività ma intuizione dell’imminente. È, infine, la presenza dell’assente. Il destino del mistero è essere rivelato, mai svelato, e per Zambrano è questo il compito della poesia. La parola poetica, la parola-simbolo, è riflesso che non questiona ma si propone alla visione.
Enigma e mistero si rapportano alla realtà e la realtà è verbo. Il primo sguardo dell’uomo è quello della distinzione: il rapporto con la realtà è costruito in base alla comparazione o alla differenziazione. La parola accompagna le cose nel loro divenire, nel loro farsi, nel processo di conoscenza e di distinzione. La parola è in sé interpretazione della realtà: nel nominare, interpreto, e nell’interpretare conosco. María Zambrano assume pienamente i postulati che Heidegger riserva all’ermeneutica: interpretare è dare a conoscere all’uomo la struttura e il senso di se stesso. Il mistero nasce da un sospetto di impossibilità, dalla nebbia della non corrispondenza, da una resistenza. Per Ortega y Gasset, come per la Zambrano, tutta la filosofia è vocazione di trasparenza, un’immensa volontà di chiarezza.
La filosofia è un grande desiderio di trasparenza e una risoluta volontà di mezzogiorno. Il suo proposito radicale è evidenziare, dichiarare, scoprire l’occulto o ciò che è velato; e del resto in Grecia la filosofia cominciò col chiamarsi alètheia, che significa disoccultamento, rivelazione o disvelamento; insomma, manifestazione. E non vi è manifestazione senza parola, cioè logos. Se il misticismo è silenzio, la filosofia è parola, scoprire nella più grande nudità e trasparenze della parola l’essere delle cose, dire l’essere.2
Se vi è logos, è perché vi è parola. Se la parola, che abbia vocazione di trasparenza (filosofia) o di verità (poesia), è tutta rivelazione, qual è allora il ruolo riservato all’immagine? Cos’ha essa da dire in questo processo di comprensione del mondo? Ha senso, in tutto questo, l’immagine artistica, che è fondamentalmente rappresentazione? E la rappresentazione, si sa, è tutta una bugia, pura menzogna. Una copia della copia dell’originale.
María Zambrano non costruisce un’analitica dell’immagine, né la analizza come entità indipendente dall’essere. Tralascia la questione percettiva, abbandona la coscienza estetica, e si occupa solo puntualmente della mimesi o dell’astrazione. Le questioni che tradizionalmente preoccupano l’Estetica trovano poco riscontro nei suoi pensieri. Dentro uno studio fenomenologico più ampio sugli stati della visione (filosofica, poetica o mistica), l’immagine artistica costituisce uno stato della visione a sé, che deriva dalla sua stessa natura, dalla sua origine e dagli elementi che la compongono: «Mentre la pittura, muta e silenziosa com’è, possiede sia una sua forma di linguaggio che, naturalmente, un suo sfondo matematico».
Legata strettamente alla visione poetica, essa ne condivide l’atemporalità e la volontà di ritrovamento (ricordo). Visione poetica e visione dell’arte si differenziano però dall’immediatezza. Parola e immagine sono entrambe mediatrici e, lungi dall’essere un semplice surrogato, l’immagine d’arte è considerata una pietra angolare, una figura cardine nella nuova costruzione della conoscenza e della persona. L’arte è, come la poesia, un ambito di visibilità.
A questo punto, bisogna fare un passo indietro, e prendere le distanze, per avere una panoramica giusta della situazione e contestualizzare la riflessione della Zambrano intorno al valore dell’immagine pittorica.
L’immagine, per la sua stessa condizione, è stata spesso vista come una rappresentazione imprecisa, fallace o fittizia. Essa sarebbe per molti la principale responsabile degli ostacoli nella costruzione di un vero sapere. Vincolata all’immaginazione per secoli, l’immagine si troverebbe a priori esclusa dalla conoscenza vera e sarebbe vincolata a solo due forme legittime: i sensi e il concetto. L’immagine non è la cosa ma la sua rappresentazione, nemmeno è il senso proprio di un discorso dal momento in cui rimanda ad un altro significato. L’immagine che non coincide col suo referente sembra mancare d’informazione, di previsione, di rigore. Il giro epistemologico si dà solo nel Settecento, anche se era stato più volte suggerito fin dal Quattrocento con le dottrine dell’immaginazione creatrice. Questa rivoluzione copernicana avviene quando l’immagine è promossa al rango di entità generatrice di senso. A quel punto, le sono riconosciute una funzione basilare e la giusta densità intellettuale, che si misurano su due fronti diversi: l’inevitabile rinvio a un referente e la connotazione per il soggetto. La proporzione di questi due elementi varia in funzione dell’oggetto. Una carta geografica avrà un referente chiaro, il territorio, ma un’assenza totale di carica connotativa. L’immagine poetico-artistica, per contro, può prescindere del referente e creare una costellazione di sensi.
Finché, però, l’arte ha seguito fedelmente i principi della raffigurazione, l’immagine è sempre apparsa debitrice della realtà. L’adeguamento della rappresentazione al rappresentato doveva essere totale, pur adattandosi ai differenti periodi storici e codificando in maniera diversa i precetti iconografici e di decoro. Con la riscoperta della pittura non figurativa, cambiano le regole del gioco. L’abbandono della mimesi comporta l’indipendenza dalla realtà e non si tratta più di rappresentare le cose ma la loro struttura, l’impalcatura del mondo, si potrebbe dire. Astrarre il reale può portare a cogliere del mondo solo una parte che non è più codificata in un’iconografia e non è nemmeno riconoscibile.
Dall’impressione al puro colore, dal colore alla forma geometrica che compone il mondo, al suo simbolo o al suo grido. Dal grido alla visione simultanea di tutti i piani, da questa visione all’oggetto decontestualizzato, e poi ancora l’inconscio, la bellezza del prodotto di serie e il puro gesto senza traccia. Tutte le avanguardie e l’arte post-moderna hanno generato immagini che poco o nulla hanno ormai a che vedere con i criteri classici di rappresentazione. E alcune delle esperienze dell’arte contemporanea ce ne offrono una testimonianza incontestabile.
Raffigurare è ricreare, vedere da dentro dopo aver molto guardato ciò che è fuori; appropriazione della realtà in un ordine profondamente intimo. Raffigurare quello che c’è, è farlo nascere, esistere, e questo è ciò che la pittura ha di poesia e persino di Filosofia, perché all’uomo non gli basta che le cose ci siano, egli deve anche nominarle, pensarle, raffigurarle. E il pittore, quando si raffigura le cose, lo fa partendo dalla sua più profonda, intima concezione del mondo.
L’arte tende a cogliere del mondo solo una parte, una presenza latente. Tutte queste ovvietà risultano ora decisive per la questione che qui ci interessa, perché resta da stabilire se, nel caso di assoluta indipendenza dell’immagine dal referente, il nuovo senso sia altrettanto verità oppure sia tutto un’invenzione, un’illusione.
Per Zambrano, l’immagine poetico-pittorica non soltanto è contenuto di verità, ma è mezzo per il suo recupero: è rivelazione, dunque, visione che manifesta qualcosa, che lo rende visibile. Nominare, pensare e raffigurare. Sebbene l’arte sia stata a lungo considerata come un prodotto di una determinata cultura, non è meno certo che l’utopia dell’arte per l’arte e l’emancipazione definitiva di questa dimostrano, il bisogno costante che l’uomo ha avuto di raffigurare, di rappresentare e di ipotizzare. Si arriva, così, a concludere che l’arte è necessità di tornare a vedere le cose del mondo, anche se questa visione non ha più un rapporto apparente con la realtà circostante: né la riferisce, né la simboleggia. Lo svelamento è, dunque, rappresentazione.
Tra sogno e veglia
María Zambrano aderisce alle tesi estetiche di Heidegger. Lo legge, lo conosce e lo ammira. Il pensiero heideggeriano viene messo sotto le lenti di altri pensatori come Ortega y Gasset, Bergson e Karl Jung, senza nominare qui il ruolo importantissimo che ricoprono poeti come Antonio Machado, García Lorca o Lezama Lima. L’originalità del pensiero zambraniano risiede nella costruzione di una fenomenologia del sogno, la forma-sogno, che vedrà la sua massima espressione nella ragione poetica. Sebbene alla sua origine si trovi la ragione vitale di Ortega y Gasset, le differenze e l’autonomia dal suo pensiero non tardano a manifestarsi.
Sarà invece un altro grande pensatore, Hans George Gadamer, a darci le principali chiavi di lettura per interpretare la ragione poetico-pittorica come metodo ermeneutico. A differenza di Heidegger, che legge in diverse lingue, non sono state trovate opere di Gadamer nella biblioteca personale della Zambrano, il che fa supporre che il contatto col suo pensiero, nel caso ci sia stato, sia avvenuto tramite un altro grande pensatore spagnolo, José Ferrater Mora. A ogni modo, tralasciando le ipotesi, la convergenza tra il pensiero della Zambrano e il pensiero di Gadamer conduce, in numerosi punti, a un’interpretazione analoga di Heidegger. Non sarà questo l’oggetto del nostro studio, ma ciò valga come indicazione di una delle tante questioni ancora irrisolte del pensiero zambraniano che meriterebbero studi più approfonditi.
Vivere umanamente è, sì, vedere ed essere visto; da quale profonda radice dell’esistenza nasce però questo bisogno che non si accontenta del vedere che troviamo, perché quest’ansia di tornare a vedere le cose riflesse ora nell’opera dell’uomo? Tornare a vedere, o continuare a vedere, o vedere in altro modo? Bisogno di trovare un altro ambito, distinto da quello naturale… bisogno di una visione che sia una rivelazione. Nella luce naturale, regalata e necessaria, le cose e gli esseri restano, benché bagnati da essa, opachi; sono semplicemente visti. Mentre è proprio della condizione umana anelare, dalla sua più intima radice, a una rivelazione. E conoscere, per l’uomo, sarà soltanto tornare a vedere qualcosa di fatto da lui. L’uomo dipinge o scolpisce per tornare a vedere le cose come sono state fatte da lui, e ottenere così una rivelazione.
Dunque, la volontà di fissare le esperienze in un’immagine che è intensificazione della realtà (Cassirer) potrebbe essere alla radice di questo bisogno di vedere diversamente, per consapevolezza o per sospetto della propria cecità e dei propri limiti. L’esperienza accade in un tempo dato, successivo, mentre le immagini sono ferme lì, colgono un momento che non passa più, che non accade. Sorgono allora varie contraddizioni, cioè: se l’uomo crea per ri-vedere le cose ma le cose ormai sono lontane dall’essere rappresentate come tali, cos’ha egli allora da vedere? Che cosa vuole, cerca, si attende, da queste immagini indipendenti, autonome? Che cosa vogliono esse da noi? Lo stupore, e poi c’è chi afferma che in queste immagini sussista una nostalgia, che attraverso di esse si possa raggiungere un nuovo modo di conoscenza, che il compimento ultimo della persona avvenga con la loro indispensabile esistenza, che esse sono oltre il bene e il male, dunque azioni etiche, che lo svelamento sia, se non l’unico, il più nobile modo di ri-conoscere la verità. La verità che, poi, non sembrerebbe essere là fuori, ma qui dentro.
Potrebbe sembrare una follia iniziare la casa dal tetto. Se un architetto domani volesse costruire un palazzo e gli venisse in mente di fare la finestra prima del pavimento, sicuramente non andrebbe molto lontano. Per noi, invece, sarà questo il modo giusto. Inizieremo quindi dalla fine, quasi, del suo pensiero, per arrivare a una conclusione che è già suggerita sin dalle prime parole. E il fulcro, il centro, per dirla con la Zambrano, è il sogno.
A priori, sogno e arte non hanno niente in comune. Il Surrealismo, potrebbe obbiettare l’attento lettore: certo, ma i surrealisti si occupano del contenuto dei sogni, del loro rapporto con l’inconscio e dei simboli che ci trasmettono. Per loro, il sogno è un linguaggio da decifrare. A María Zambrano, invece, interessa la forma del sogno, l’immagine pura, e il ricordo che ne abbiamo: il sogno viene analizzato nel suo contenuto formale e non per la sua analogia con le esperienze coscienti. Non si tratta di un simbolo, ma di uno stato di visione, perché l’unica nozione che del sogno possiamo avere è il suo ricordo, che avviene nella veglia. Poi, la forma, la pura immagine (la casa invertita, le capre che volano, si pensi a Chagall), non ha un contenuto a sé se non perché è in rapporto con noi. È l’individuo a essere protagonista e vittima del suo stesso sogno, e questo è esattamente il punto che ci interessa. Nel sogno, l’individuo sa di essere tale ma non determina nessuna delle azioni in esso contenute: la volontà è annullata, tempo e spazio non hanno logica e non seguono il normale succedersi delle sequenze. In tutto questo accadere, il soggetto non pone mai una domanda, una questione. Si assiste allo sviluppo degli avvenimenti e l’azione è ammessa – vissuta, ricevuta – con totale aderenza, nonostante che in quel momento niente sia come dovrebbe essere. Nel sogno, la realtà appare come un enigma che non viene mai decifrato.
Nella veglia, al contrario, c’è un solo tempo. Un tempo unico e sequenziale (storico), divisibile in passato, presente e futuro. La loro divisione indica anche la possibilità di una loro discontinuità, di una frattura di non coscienza, perché non si può mai determinare con esattezza quando una realtà è già passata (finita) oppure sta per accadere (compiersi). Il presente appare, così, come un dato di fatto. Aleggia di nuovo il sospetto e, finalmente piomba la conferma: il tempo, così come è concepito nella veglia, mostra di essere una convenzione (con-venire), un accordo che non corrisponde alla totalità dell’esperienza né tanto meno alla complessità dell’azione.
Perché la pittura, come ogni arte, è sogno realizzato. I sogni, però, non si realizzano in una cosa o in un atto, ché in tal caso terminano o si seppelliscono. Il sogno, privato di libertà, si realizza in essa quando riesce a entrare nel suo ambito; quando viene sviscerandosi senza interrompersi. L’opera d’arte non riuscita è come un sogno interrotto[…]. Lo stesso accade anche nel vivere umano di tutti i giorni, giacché l’arte non si sottrae alla condizione della vita. Ed è per questo che, quando è riuscita, riscatta, salva: dal fondo, dal limo delle acque, essa ha portato alla loro superficie visibile un sogno oscuro, rendendolo creatura.
Si è già detto in diverse sedi, ma conviene ricordarlo qui. La Zambrano divide la forma-sogno in tre stadi fondamentali: l’atemporalità, il tempo successivo o della persona e il tempo della lucidità. L’atemporalità è lo stato iniziale, antecedente il verbo e la materia, dove non c’è distinzione perché non c’è coscienza e nemmeno parola. È il tempo del sogno. Il tempo della persona o successivo è la misura, l’invenzione dell’ordine e della distinzione tra l’accaduto e l’accadere. L’ultimo, il tempo della lucidità, è uno stato di sospensione. Non è misurabile, perché è immediatezza, conformità, visione appunto. Il tempo della lucidità sarà denominato per analogia sogno creatore: stato di consonanza tra il visto e il vissuto.
Fin qui, i postulati della Zambrano seguono i principi «classici» della fenomenologia. Gli stati della visione hanno il loro equivalente in Heidegger. Il giro ermeneutico avviene nel momento in cui Zambrano fa di questo stato della visione uno stato di interpretazione e conoscenza della verità. Ed è qui che Hans George Gadamer diventa il nostro migliore alleato.
Abbiamo affermato, dunque, che il sogno ha un tempo proprio, l’atemporalità, in cui cioè non c’è attesa ragionevole e, nell’accadere, il soggetto patisce le decisioni che sembrano altrui. La distinzione tra prima e dopo, passato e futuro, appartiene allo stato di veglia. E il sogno creatore corrisponde al tempo della lucidità: è l’istante della conformità, in cui il sospetto svanisce perché a quella luce si è giunti senza forzare alcuna porta e persino senza aprirla, senza avere attraversato soglie di luce e d’ombra, senza sforzo e senza protezione.
Paradossalmente, sarà l’atemporalità, l’ambito in cui si produce l’attività propria dell’uomo: l’ambiguità. L’ermeneutica contrappone al soggetto sovrano del razionalismo, maestro delle proprie rappresentazioni, il soggetto che si sa ricettore di un senso e non il suo autore. Coinvolto in un insieme di significati che eccedono le sue rappresentazioni, egli viene a situarsi in una posizione di centralità interpretativa. Quest’esperienza, per Heidegger, è rivelatrice di una situazione ontologica dell’essere o dell’essere nel mondo, e come tale sarà assimilata dalla Zambrano nella dicotomia sogno-veglia, a sapere: «l’uomo non è mai anzitutto come al di qua del mondo, come soggetto […]. Inoltre, egli non è mai solo un soggetto che contemporaneamente si riferisce anche agli oggetti, cosicché la sua essenza starebbe nella relazione soggetto-oggetto. Piuttosto, l’uomo è esistente innanzitutto nell’apertura dell’essere, che si dà nella radura (lichtung), quel tra entro il quale può essere una relazione tra soggetto e oggetto».3
Conformemente alla visione speculare, si vede e si è visti. L’io interpretante è anche l’io attuante, ricettivo e attivo nello stesso momento. Di fronte a un contenuto che lo trascende, egli si abbandona a un sapere che impaurisce, ferisce, ma di cui non può fare a meno perché nient’altro corrisponderà più ai paradigmi precedenti.
In questa visione, vi è un’uscita della temporalità, una sospensione che è presente continuo. Un tempo sospeso, molteplice, in cui si danno sintesi e creazione della realtà. Nella visione speculare di un contenuto che lo trascende, María Zambrano situa la trascendenza del proprio essere. L’essere-nel-farsi è andirivieni tra sogno e veglia. Ogni immagine muove: Nel tra in cui si stabilisce il rapporto tra soggetto e oggetto, appare, mediatrice, l’immagine poetico-artistica.
Davanti a me
Nello spazio esistente tra forma e rappresentazione, credo ci possa essere la chiave, la spiegazione, seppure temporanea, del ruolo dell’immagine artistica nella ragione poetico-pittorica di María Zambrano.
Se, come abbiamo affermato, l’immagine riesce, dopo molto faticare, a svincolarsi dai legami mimetici. Se non è più copia, né referenza, né sta lì al posto di. Se la sua indipendenza non comporta il suo svanire ma l’affermazione che la legittima. Se, in tutto questo, noi stiamo parlando delle immagini sognate. E se ci interessa nientemeno che l’immagine artistica in quanto «intensificazione» di significati, come possiamo ora pensare all’arte? Nel caso in cui così fosse, chi garantisce che quel che la nuova immagine mostra sia verità? Quella pittura, mi sta mentendo? La rappresentazione, si sa, è tutta una bugia, una menzogna. Una copia della copia dell’originale: un’illusione di visibilità.
Un’opera, La tempesta del Giorgione, e una curiosità. Il caso vuole che Zambrano e Gadamer se ne siano occupati: tra le mille possibilità, entrambi hanno scelto di soffermarsi a riflettere intorno a quest’opera, che tanta letteratura ha generato. Si tratta di una felice coincidenza. A ogni modo, La tempesta non si potrebbe definire come un paesaggio comune, uno di quei dipinti noiosi destinati a decorare un improbabile salotto: ci sono troppe cose che non tornano, ci sono lì quelle figure che sembrano non sentirsi chiamate in causa dall’imminente tempesta. Ognuno è chiuso in sé, non ci si parla, non ci si presta attenzione, e nemmeno il cielo minaccioso sembra spaventare.
Gadamer e María Zambrano coincidono nel percepire quest’opera come una realtà indecifrabile. Cosa voleva dire Giorgione? Per rappresentare una tempesta, bisognava proprio aggiungere un fiume, una donna col bambino, un cavaliere che è lì quasi per caso, delle rovine di non si sa quale città, e non importa nemmeno? Nell’iconografia classica cristiana, molto in voga in quel momento per ovvi motivi, una donna, un uomo e un bambino in un paesaggio volevano dire solo una cosa: Riposo durante la fuga in Egitto. Qui, invece, ognuno sta nel suo e tutti gli elementi conducono a un fatto secondario, quasi aneddotico: il fulmine là in fondo. Nessuno degli elementi sembra nemmeno indicare quel che dovrebbe. L’indipendenza tra immagine e rappresentato comincia proprio da qui, da quel leggero, quasi impercettibile, spostamento di senso.
Si potrebbe, per analogia, tracciare una sorta di storia della separazione irrimediabile tra la realtà e la sua rappresentazione, fino ad arrivare all’estremo più assoluto, lo svuotamento di forme. L’immagine però resta, lì si sta rappresentando qualcosa che riconosco senza bisogno che lo si percepisca. Prescinde della percezione perché fa riferimento a se stesso, dunque io so che il fulmine è tempesta. E quella tempesta sostituisce la mia immagine, prende il suo posto, lascia nell’oblio i resti del pensato. Per Gadamer, si tratta di una crescita nell’essere perché nella rappresentazione si tratta di un rapporto non più a senso unico, dal reale alla rappresentazione, bensì anche dalla rappresentazione verso il reale.
Per Zambrano, si tratta dell’immagine-sogno, che ha le stesse valenze e gli stessi attributi dell’immagine artistica: un’inversione del senso, un contenuto che ha smesso di avere un referente per essere referenza di se stesso. L’apparire, dunque, è già sostanza del reale.
Dal resto, non si può affermare che l’essere reale comporti essere verità, come se, per magia, sapersi reale significasse essere veritiero. Che ne sai del fulmine? Dove sono rimasti la luce e il suono che lo seguono? L’opera può mentire perché la realtà non è assimilabile alla verità. Nell’intelletto, come negli occhi, gli errori abbondano. Che l’immagine sia sostanza della realtà non significa che la crea, ma che la svela. I rapporti che lì si stabiliscono conformano un principio che ora è dichiarato, formato, svelato. Togliere il velo è, paradossalmente, donare una forma. Possiamo affermare, secondo la formula di Paul Klee, che «l’arte non riproduce il visibile, lo rende visibile». Di nuovo, il principio del movimento, dal reale verso se stesso. L’andirivieni continuo, dall’immagine al reale, del reale svelato.
Torniamo alla realtà, dov’è la tua?4 Volgere lo sguardo verso il reale svelato non è sforzo da poco. Non si tratta più di accettare la realtà ordinata nella mia infinita limitatezza, ma di mettersi in rapporto con una realtà che sfugge a ogni parola.
Afferma Gadamer:
L’immagine è un fatto ontologico. In essa l’essere si presenta in una manifestazione visibile dotata di senso. […]. L’idealità dell’arte non va definita in rapporto a un’idea che sarebbe il modello da imitare, l’essere da riprodurre nella sua raffigurazione ma – come accade in Hegel – in base all’apparire dell’idea stessa.5
Come apparizione, lo svelamento del reale non si distingue da qualsiasi altro fenomeno. Ciò che però la contraddistingue, sotto ogni forma, è il fatto di rendere presente qualcosa, sigillando infinitamente la sua assenza. Nell’apparire, la realtà non fa che confermare la sua assenza.
In questo processo di mediazione totale, l’opera sparisce, diventa trasparente, cedendo spazio al rappresentato. Se non c’è più oggetto, se non c’è più reale, significa che il crollo del mondo «vero» comporta anche il crollo del mondo dell’apparenza, perché i concetti di verità e apparenza hanno senso solo se riferito l’uno all’altro.
Zambrano sottolinea più volte la verità contenuta nell’apparizione. L’apparizione, nell’opera d’arte, esercita una funzione insostituibile: quella di chiamare alla contemplazione, esigerla e metterla in atto. L’arte, dal canto suo, era iniziata proprio da lì, da quel luogo di rappresentazione dell’indicibile, allora sacro. E il sacro è il mito. L’apparizione, nella visione dell’arte, significa il compimento della funzione primaria, originaria, di questa: confrontarsi con l’altro; da qui, il fatto che l’arte sia più verità quanto più è vicina alla propria origine. Infinite sono le volte che l’uomo ha guardato l’ignoto da vicino e l’arte ha corrisposto a così alto impegno. Da sempre, essa è terreno in cui incarnare l’orrore, il divino o il vizio. Incarnazione pure nell’assenza, nel puro colore, nella pura negazione.
L’ambiguo, tuttavia, è minaccioso, crea una sorte di piacere dolente. Sono frammenti associati, due metà legate in un’immagine di condizione fantastica. Mai il sangue fu così rosso come nel Guernica. E il dolore della comprensione è sintomo ineluttabile del suo essere vero, verità in quanto apparenza perché è nel suo solo apparire. Medusa e Perseo: Perseo che sfugge alla morte per immagine. Riflesso degli occhi del mostro, scampato pericolo per evidenza, per immediata apparenza. Un tema occupa un ruolo centrale in questa catena di episodi: quello dell’occhio, dello sguardo, della reciprocità del vedere ed essere visto.6 Quella verità dolente non può essere se non attraverso la sua immagine, non per assenza ma per l’impossibilità della sua contemplazione. Come l’immagine-sogno, tace la domanda e il mistero (segreto) conforma ora una verità che è aurora. E la sua contemplazione è un luogo di visibilità ma, pure, un luogo senza mai ritorno. Il luogo, il chiaro definitivo, ove abbandonarsi. Io tenni lì i piedi in quella parte della vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare (Vita Nova, Dante Alighieri).7
Carmen del Valle
* In qualità di curatrice della presente opera, sono in debito con le numerose persone che hanno contribuito a fare che Dire luce sia tra le mani dei lettori italiani. Grazie a ognuno per averci creduto. Grazie alla Fundación María Zambrano, a Juan Fernando Ortega Muñoz e a Luis Ortega. Grazie a Marco Fiocca. Grazie, mille grazie, a Carlo Ferrucci. Grazie a Juan Carlos Marset e grazie, infinite grazie, a Davide Rondoni.
1 Salvador Dalí, Por qué se ataca la Gioconda?, Ediciones Siruela, Madrid 2003, p. 26.
2 José Ortega y Gasset, Cosa è filosofía?, trad. di Armando Sevignano, Marinetti, Genova 1994, p. 65.
3 Martin Heidegger, Lettera sull’umanesino, trad. di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1995, p. 84.
4 José Hierro, Retrato en un concierto, Poemas, Visor Libros, Madrid 2012, p. 262.
5 Hans George Gadamer, Verità e metodo, Trad. G. Vattimo, Fabbri Editori, Milano 1972, p. 174.
6 Jean-Pierre Vernant, La norte negli occhi, trad. di Caterina Saletti. Il mulino, Bologna 1987, p. 84.
7 Cit. da María Zambrano, Chiari del bosco, trad. di Carlo Ferrucci, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 12.