Il nudo iniziatico

Soprattutto a partire da quando si è estinta in noi l’impronta del Medioevo, abbiamo avuto la tendenza a credere, fino a darlo per scontato, che il nudo abbia sempre avuto a che fare con il piacere o, quantomeno, col chiaro splendore del corpo umano. Così è stato, indubbiamente, nel Rinascimento. Ma nell’antichità – romana, in questo caso –, intorno al II secolo prima di Cristo, fiorì la precisa testimonianza del fatto che qualche volta, invece, non fu così.

Mi concentrerò su Roma, benché potrei parlare anche di Napoli. E mi riferisco unicamente all’Italia, perché è lì che l’ho visto. Non è mia intenzione, però, universalizzare in concetti il concreto, il singolare, anche perché nel concreto e nel singolare può trovarsi depositato, come nel resto, qualcosa di trascendente. Ciò che vidi fu una stele, una commemorazione funeraria, cioè, che si trova, e che spero continui a trovarsi per i secoli dei secoli, sulla via Appia di Roma. Venendo da sud e da est, è la più importante di tutte quelle strade costellate di tombe.

Le tombe potevano essere – di fatto lo sono – tombe famigliari, di un’intera, grande costellazione di famiglie; donde il nome della località. Quella statua, quella stele – eretta, isolata –, si trova, dunque, molto vicina a Roma, non lontana dall’incrocio con la via Latina. Ed è costellata, a sua volta, di cipressi, com’è di rigore in quella zona. Ciò che accade, però, è che quei cipressi, nella parte più fitta e oscura, lasciano vedere, come se ne conoscessero la storia, il senso profondo della stele, il significato dell’adolescenza.

Per anni e anni, io e la persona che mi accompagnava abbiamo incontrato lì il nostro bell’adolescente della stele. La sua figura aveva un braccio col pugno in alto, l’altro rivolto in basso, e portava un mantello gettato sulle spalle. Non si trovava lì, quindi, per mostrare la sua bellezza adolescente, ché la possedeva, e perfetta, ma per offrirsi. A chi? Non al passante, naturalmente, come fanno altre stele, altri sepolcri, che addirittura rivolgono la parola a chi passa e gli tengono brevi discorsi morali: «Ricordati di me…». Il nostro adolescente, nell’offrirsi, taceva. Si era, lì, al di qua e al di là della morale. Era terreno sacro. Era, senza dubbio, un’iniziazione a Mitra.

Ci andavamo spesso, perché si trovava vicino a Roma. Dal luogo in cui ci lasciava l’autobus, c’era da camminare davvero poco. Come in tutti i pellegrinaggi iniziatici, la cosa migliore era arrivare a piedi, o danzando. Credo che quel nostro adolescente si stesse offrendo al suo dio, il quale, nella sua profondità, poteva essere servito solo da qualcuno degno, a sua volta, di iniziare. Irradiava, tuttavia, talmente tanta forza, in quella specie di baldacchino, che gli stessi cipressi facevano sì che questo apparisse come un appello, un ricovero, una grotta, un luogo sacro di per sé. Era così, in effetti. Però, come succede al sacro quando cessa di avere dei veri adepti, il luogo era disseminato di scatolette vuote, di cicche, di lattine di sardine, di sporcizia…

Mia sorella e io fabbricavamo una scopetta e ci mettevamo immediatamente a pulire tutta quella spazzatura, tutta quell’indecenza. Ma, Signore!, perché dovevano fermarsi proprio lì i gitanti per gettar via i resti di un pasto niente affatto sacro?

Dopo aver spazzato, facevamo un falò per bruciare i rifiuti che avevamo ammucchiato. Allora, forse temendo che prendessero fuoco i cipressi, arrivavano immediatamente i poliziotti. Erano i sostituti degli antichi templari, che, al pari di questi, sbagliavano obiettivo e zelo.

Di fronte, nella stessa strada, c’è una collinetta. E lì si trova una coppia di fidanzati, di amanti, alla luce del sole, dello stesso sole.

Quando arrivavano i poliziotti, caricatura e decadenza dei templari, spegnevamo il fuoco all’istante. Fino alla volta successiva, quando la stessa scena si ripeteva con pochissime varianti.

Vicino al luogo che ho descritto, c’era un baretto dove ancora servivano un gelato fatto a mano e un meraviglioso caffè con un aroma indicibile. Lì entrava qualcuno, qualche uomo del posto vestito di nero, con quel grembiulone anch’esso nero che ricorda l’antica toga romana. E, stendendo la mano, diceva: «Salve, Cesare, un caffè». Come al circo! E ci servivano quel caffè meraviglioso, che per mia sorella e per me era come un premio per aver servito quel dio.

Continuammo ad andare per molto tempo a contemplare quell’adolescente. Finché un giorno, o Signore!, sulla statua del ragazzo, sul suo collo di cigno, trovammo appesa una ghirlanda di fiori. E il suolo era pulito.

Allora ci sentimmo felici, mia sorella e io. Rientrammo a casa quasi pregando. E non so se quel giorno prendemmo il caffè, perché non ce n’era più bisogno.

A volte ho mandato dei miei amici a cercare quell’adolescente. Non lo trova quasi nessuno. Succede così, con il sacro: deve venire da sé, mostrarsi di sua propria volontà. Se lo si va a cercare sapendo che è lì, fugge, si nasconde, o non compare mai.

Madrid, gennaio 1988