L’attenzione. Essenza e forma dell’attenzione

L’attenzione non è se non la ricettività portata all’estremo, ossia diretta verso un ambito determinato della percezione o del pensiero: verso il mondo esterno o, riflessivamente, verso il mondo proprio.

Nell’attenzione si distinguono due piani: quello dell’attenzione spontanea e quello dell’attenzione volontaria. L’attenzione spontanea parte dal grado minimo in cui una persona può dire di essere sveglia: è uno stato di passività in cui l’attenzione, sorta di raggio di luce, si muove da una parte all’altra secondo lo stimolo da cui è attratta. È chiaro, tuttavia, che l’attenzione non esiste per se stessa, è l’attributo della coscienza e dell’anima di qualcuno; qualcuno il cui modo di essere determinerà il genere di stimoli da cui la sua attenzione spontanea sarà attirata. Uno degli indizi più sicuri per conoscere una persona, è vedere come si adegua alla direzione seguita dalla sua attenzione quando è abbandonata a se stessa. In generale, si può dire che l’attenzione è attirata da ciò che brilla più che da ciò che è opaco, da ciò che si muove più che da ciò che resta fermo, da ciò che è strano e singolare più che da ciò che è consueto.

L’attenzione è un campo di chiarezza, di illuminazione. È una tensione, uno sforzo e, com’è naturale, una fonte, forse la più grande, di stanchezza. Come campo di chiarezza, è prodotta dall’interesse che la persona prova per questo o quell’aspetto dell’inesauribile, immenso, illimitato campo della realtà – intendendo per realtà ogni forma di presenza, anche solo un’immagine o un pensiero. L’attenzione è come la luce che promana da un’intima combustione. La vita è, soprattutto, e dall’inizio alla fine, un’ininterrotta combustione, tanto fisica quanto della psiche e dello stesso pensiero. E, almeno nell’essere umano, questa combustione si trasforma in chiarezza e luminosità.

L’attenzione volontaria suole definirsi come una concentrazione deliberata di tutti i poteri di apprendimento di cui l’uomo dispone, conformemente alla specifica realtà che si sta considerando, dato che può anche capitare che i sensi c’entrino poco o niente. Una simile operazione, tuttavia, non è tanto semplice, in quanto diversi nemici minacciano di impedire che essa si verifichi in modo adeguato; paradossalmente, infatti, si tratta prima di tutto non di mettere, ma di levare.

L’attenzione si dirige verso un campo della realtà per captarla, per ottenere da essa il massimo della sua capacità di manifestarsi. Il primo atto consisterà, allora, paradossalmente, in una specie di inibizione, un ritrarsi del soggetto volto a permettere che sia essa, la realtà, a palesarsi. E a quel punto, l’attenzione deve fare una specie di pulizia della mente e dell’animo. Deve vedersela con l’immaginazione; con l’immaginazione e con il sapere. Deve condurre il soggetto al limite dell’ignoranza, per non dire dell’innocenza.

Non basta, dunque, concentrarsi, come si è soliti credere, perché l’attenzione, con la sua invisibile chiarezza, si produca. L’attenzione ha da essere come un vetro perfettamente pulito che cessa di essere visibile per lasciar passare, nella sua diafanità, ciò che sta dall’altra parte. Se, quando ci occupiamo intensamente di qualcosa, lo facciamo proiettandovi sopra i nostri saperi e i nostri giudizi, le nostre immagini, si formerà una specie di spessa cappa che non permetterà a quella realtà di manifestarsi. Connesso con questo, è il fatto che alcune importantissime scoperte siano balzate alla mente dello scopritore quando era distratto, perché allora la sua mente era libera. È pur vero che casi del genere sono accaduti a quanti da lungo tempo e molto in profondità venivano cercando, investigando, studiando, persino mentre sognavano, ciò che alla fine un giorno si mostrò loro in un istante, come per virtù propria, a mo’ di premio.

L’esercizio dell’attenzione è la base di ogni attività, è in un certo senso la vita stessa che si manifesta. Non prestare attenzione significa non vivere. Si tratta, tuttavia, di un esercizio complesso, di tutta un’educazione, dell’educazione non della sola mente né dei soli sensi ma dell’intero organismo e dell’essere umano nel suo insieme. Di questo, a dir la verità, nelle culture d’Oriente si continua a sapere di più che nella cultura d’Occidente. Di qui, il fatto che la realizzazione di certe prodezze umane, dell’essere umano da solo, senza l’aiuto delle tecniche meccaniche, sia per gli orientali una cosa abituale, laddove per noi occidentali si tratta di incomprensibili prodigi. Mentre in fondo è solo questione di attenzione, di un’attenzione educata che a sua volta esige la conoscenza e l’utilizzo delle energie e dei poteri soggiacenti in un essere, l’uomo, che assomiglia per tanti versi a un continente ancora sconosciuto.

Novembre 1964

Essenza e forma dell’attenzione

L’attenzione è in qualche modo la stessa coscienza quando si risveglia. Per diffusa che sia, essa possiede sempre un centro, un magnete, che la fissa. E quando si trova, per dir così, sciolta, quando vaga libera in modo spontaneo e quasi impercettibile per il soggetto, va in cerca di qualcosa. L’attenzione è avida, affamata, proprio come l’essere umano, si direbbe. Quando si risveglia, va verso qualcosa, come quando si risveglia va verso qualcosa la fame; non si risveglia e basta, si risveglia a, verso, un incontro con la realtà e, all’interno di questa, verso qualche suo punto o aspetto. Ed è cosa certa che l’attenzione si fissa, si riposa da quell’avida ricerca, solo quando trova qualcosa come un argomento. Un fatto, questo, che gli educatori non devono mai dimenticare.

Perché l’attenzione è l’aprirsi dell’essere umano a ciò che lo circonda e, in misura non minore, a ciò che egli trova dentro di sé, a se stesso. È una disposizione e un appello alla realtà. È come una ferita sempre aperta. E della ferita possiede la passività, l’essere piaga, impronta del reale, l’essere come una cavità vivente conformata in modo da ricevere la realtà e anche da lasciarla procedere verso qualcosa di ulteriore: verso la pienezza della coscienza, che è giudizio e ragione, o verso le profondità della memoria, comprese le ultime, abissali caverne dell’oblio. Di quell’oblio che oggi sappiamo ormai con certezza che non esiste, che è un’ultima, insondabile memoria che solo obbedendo a leggi indipendenti dalla nostra volontà un certo giorno ci restituisce, in un istante, ciò che pareva si fosse portato via per sempre. Il luogo dell’oblio è il luogo da cui tutti i momenti «obliati» possono riemergere, in un solo istante, persino con più intensità di quando furono vissuti. Nulla si perde, nella psiche dell’uomo.

E com’è attiva la ferita, così lo è l’attenzione, perché è viva e niente di vivo è pura passività. E com’è attirata e richiamata, così attira e richiama. Pone sempre in risalto qualcosa, qualcosa che può essere insignificante in un altro momento o per un altro soggetto; qualcosa che, naturalmente, può essere più cose. Quanto più vasto, però, è lo spazio che l’attenzione abbraccia, quanto più essa è dispersa, quanto più errabondo è il suo cammino, tanto più si può affermare che essa sta cercando qualcosa al di là di, o sotto, quel suo spaziare; qualcosa che è come il centro o nodo dell’argomento. E che quanto più esteso è il tragitto percorso da quest’attenzione apparentemente raminga e incerta, tanto più esteso sarà l’argomento in questione. Può anche accadere, tuttavia, che quest’«argomento» venga alla luce dopo molto tempo, o resti addirittura seminascosto durante l’intera vita del soggetto al quale una simile forma di attenzione appartiene.

Questa considerazione, meramente analitica, conferisce, o meglio, restituisce valore a certi stati di distrazione e, cosa più importante, a certe persone distratte, la cui attenzione sembra vagare come una farfalla, senza fermarsi su nulla. E questo perché, in ciò che si riferisce alla psiche e alla persona umana, le diagnosi si rivelano sempre più delicate e difficili. Una persona distratta può essere, in realtà, una persona profondamente attenta, una persona la cui attenzione è completamente assorbita dalla ricerca del proprio argomento. Anche se, quando si cerca così ostinatamente qualcosa, vuol dire che in qualche modo già la si possiede.

Il fatto è che l’attenzione, come forse tutto ciò che possiamo distinguere nella psiche e nella persona umana, si presenta in circoli concentrici. E si direbbe che quando l’unità della persona è maggiore – dato che il compito della cosiddetta persona è di unificare, come speriamo di vedere in un altro momento –, quando l’unità della persona è più realizzata, l’attenzione si presenta in un maggior numero di circoli. L’attenzione è molteplice, possiede molte forme che, lungi dall’escludersi, sono complementari tra loro, e ognuna di esse ha il proprio posto nel processo di integrazione della persona umana.

L’attenzione, dunque, si presenta, secondo il suo grado di intensità, in circoli, a ognuno dei quali corrisponde una diversa ampiezza. Se l’attenzione si potesse materializzare, sarebbe possibile vedere come in certi casi essa esplori un ampio orizzonte, in altri si avvicini fino al confine di quest’ultimo, dove sembra che esso scompaia, e lì si perda; in altri ancora, come essa circondi un pezzo, un punto, della realtà, quasi si trattasse di cingere d’assedio una piazzaforte. E così è, davvero.

Questo perché l’essenza dell’attenzione è la captazione, l’assorbimento, la presa di possesso, come spingendosi avanti, di quell’immenso, illimitato continente che è la realtà. E siccome la realtà è – non possiamo smettere di crederlo – una e molteplice, l’attenzione, nell’incalzarla, deve farsi molteplice a sua volta. Dotata di molteplici forme, essa è capace di rendersi irriconoscibile e può perfino assumere l’aspetto della più totale distrazione.

Col suo stringere d’assedio la realtà, però, l’attenzione punta a prenderne possesso per quella strana creatura che è l’essere umano. Si muove comandata da lui e nasce da lui. Si avranno, così, tante forme essenziali di attenzione quanti sono i livelli che formano la psiche e la persona. Studiare l’attenzione nelle sue diverse forme conduce a studiare nello stesso tempo la struttura dell’essere umano e la struttura che assume ai suoi occhi la realtà, cosa questa che speriamo di fare, sia pure solo schematicamente, in successivi articoli.

E il presupposto unitario di tutte queste diverse forme di attenzione è lo stesso, naturalmente, che funge da presupposto intimo, sostanziale, di tutti i livelli che compongono la struttura dell’essere umano: la necessità di un argomento, che implica la finalità. Quell’irrinunciabile finalità che l’invincibile speranza sempre di nuovo richiede.

Dicembre 1964