Nostalgia della terra

Nostalgia della più presente, di quella che non ci manca mai! La terra è qui, presente al suo perenne appuntamento. Però l’avevamo perduta. Si era dissolta, anch’essa, all’interno della coscienza, terribile divoratrice di realtà.

Fedele, tuttavia, al suo destino di fermezza, essa non poteva, al pari dell’idea di Dio, al pari di quella del Mondo, al pari di altre che si scrivono con la maiuscola, dissolversi. La sua scomparsa era di segno contrario; era pietrificazione. E questo perché per noi, tutt’a un tratto, essa si era fatta cosa, cosa sostenitrice di tutte le cose. Altra soluzione non c’era, all’interno di un mondo composto da «stati di coscienza», all’interno di un mondo de-realizzato, trasformato in sensazione, rappresentazione o immagine, all’interno di un mondo che era un pezzo della mia coscienza.

L’essere che la Terra era, così, si era ridotto semplicemente a materia. Essere cosa, tuttavia, è conservare ancora un grado dell’essere, è essere qualcosa di concreto, limitato e permanente, in quanto non personale. La terra smise anche di essere cosa sostenitrice di tutte le cose per essere qualcosa di astratto, di lontano; per essere una grande delusione, qualcosa di materiale.

La materia è stata, paradossalmente, il nome della delusione. Paradossalmente, perché la sua pretesa era solo di fornire il nome di una realtà, di una modalità dell’essere; più tardi, dell’unica modalità dell’essere. In realtà, però, la materia era il nome della delusione, era il residuo reale, il precipitato, lasciato dal mondo nel suo venire dissolto dalla coscienza. Dèi, miti, anime e corpi, montagne e fiumi, tutto, tutto si era trasformato in contenuto di coscienza. Per potersi sostenere, però, per restare lì dritta a divorare l’universo, la coscienza aveva bisogno dell’altro polo, di qualcosa di estraneo e di alieno da essa, di qualcosa di non congruo con essa, e la materia era questo: nome della delusione prodotta dall’individuazione di un limite, di un massimo, al solvente della coscienza.

Per noi, ormai, il mondo sensibile, il glorioso mondo sensibile, non esisteva più. Il grido di Gautier fu, come tutti i gridi alla disperata, una professione, più che di fede, di esasperazione estrema.

No, il mondo sensibile non era più destinato a esistere nemmeno per noi mediterranei. Si era disgregato in fantasma da una parte e materia dall’altra. Spettro di se stesso, vagava straniero per il mondo interiore, per l’angoscioso mondo interiore in cui era andato a finire, profugo, alieno, alienato.

Una volta interiorizzato, reso spettro, il mondo sensibile non poteva non polarizzarsi in sensazione, ossia in tortura dell’instabilità, impurità dell’allusivo, pericolo dell’equilibrio, o in ragione: quieta, retta e fredda ragione.

E questo fu il bivio dell’arte cosiddetta moderna. Di tutta l’arte, sì, ma più compiutamente dell’arte plastica.

Ah!, esisteva però ancora, l’arte plastica? Forse si trattava nientemeno che dell’inizio della fine della pittura. Quello che è sicuro, è che una volta distrutti i miti, essa era rimasta a corto di possibilità. E agli ingenui prigionieri dell’istante pareva che una prospettiva illimitata si offrisse, nel loro intravedere due versanti di disgregazione, due conseguenze dell’interiorizzazione del mondo sensibile: la pittura di fantasmi, la pittura di spettri, quale fu l’impressionismo; e la pittura di ragione, quale fu il cubismo. Polarmente opposti, essi muovevano dalla stessa infelice origine; nacquero dalla delusione di cui gli occhi restarono vittime quando fu loro strappato il mondo del sensibile.

Giunti a questo punto, bisognava mettersi un’altra volta alla ricerca delle cose, bisognava gettarsi di nuovo nel mondo, per vedere se le si trovava. «Io non cerco, trovo», ha detto Picasso, con l’acuta coscienza del fatto che l’arte stava diventando angosciosa ricerca. Bisognava cercare affannosamente tra le rovine del mondo morto, dei miti perduti per sempre, bisognava uscire dal carcere della coscienza, dell’oscura trappola in cui il mondo si era lasciato catturare.

L’arte si mise in cammino. C’era da conquistare di nuovo la cosa del mondo, la gravità delle cose, che non sono solo spettri colorati, che non sono solo numero e misura, ma anche peso, corporeità, massa che gravita, corpo che dice, piange o canta il proprio mistero. Gravità ed espressione, due caratteri propri del mondo sensibile e che, congiunti, tornano a ricomporre la perduta unità. Non più spettri, ma nemmeno più numeri messi dritti.

Se il fallimento dell’impressionismo è la spettralità, la fantasmagoria – troppa luce arriva a confondere e cancellare quasi quanto nessuna –, il fallimento dell’arte astratta, la cui tecnica ogni buon pittore è tenuto a conoscere a memoria, è forse un’indebita pedanteria, la totale spersonalizzazione. Un pittore che operasse efficacemente in totale e assoluta fedeltà al manuale da lui appreso, arriverebbe a creare per puro calcolo, a servirsi dei grotteschi strumenti creati da un’Estetica sperimentale, di un’elementare aritmetica della costruzione.

E alla conquista del mondo perduto – gravità, espressione –, ecco già sorgere l’espressionismo.

La rottura, però, era stata troppo profonda, troppo netta, perché la si potesse ricucire in un colpo solo, per quanto fortunato. No, questo salto sull’abisso non era più possibile, tanto più quando sull’altro lato solo sospetti erano in attesa, solo volti enigmatici si lasciavano intravedere.

Non era possibile avventurarsi fuori, perché il fuori, ossia lo spazio, era rimasto spopolato, vuoto. Spazio geometrico senza misteri, senza segreti in cui penetrare, senza sorprese da sperare e temere. Spazio geometrico, infinito, vuoto, sradicato [desterrado].

Si erano perdute le categorie dello spazio; grande e piccolo, vicino o lontano, alto, qui e là. Lo spazio non era niente di concreto; al contrario, sfuggiva a ogni concretezza, a ogni condizionamento, pretendeva di essere spazio infinito. L’infinito però suole essere il nome di ciò che non è né qui né là, di ciò che non è da nessuna parte. Essere nell’infinito è essere sradicato.

Nostalgia della gravità, dei corpi che pesano, nostalgia della terra. La gravità è la radice di ciò che ne è privo senza essere nemmeno fatto per volare, è la forza che ci mantiene in contatto con la terra, attaccati a lei, creature del suo suolo. È la radice che, unendoci alla terra, ci permette, elastica e flessibile, perfino di separarci momentaneamente da lei senza soffrire l’angoscia dello sradicamento.

Un corpo che non pesa può essere un corpo glorioso, ma questo per contrasto, per eccezione, accanto ai corpi che pesano. Così nell’Ascensione di El Greco.

Ma un ambito, uno spazio, entro il quale i corpi hanno perso peso, è un mondo diabolico di corpi senza radici, di uomini senza terra. Spazio inospitale, disabitato, disumanizzato.

L’arte disumanizzata non è altro che l’arte sradicata.

Uomo, umano, fa allusione alla terra. L’uomo sopra la terra; al di fuori di essa, egli cessa di esserlo, per trasformarsi in angelo o in fantasma. Angeli e fantasmi, saltimbanchi che giocano a esserlo, acrobati, arlecchini; salti illusori sopra la terra per tornare a cadere su di lei pesantemente, cupamente – gli angeli caduti patiscono il castigo dell’elefantiasi.

L’angelo caduto, però, nutre la speranza di trasformarsi in uomo, la speranza e la tortura. Nasce, così, l’espressionismo. Bisogna spingersi fino al mondo degli oggetti, dei corpi che piangono o cantano il proprio segreto; bisogna di nuovo sorprendere, sul volto luminoso del mondo, il suo eterno segreto.

L’espressionismo, tuttavia, parte non dall’oggetto, ma dalle sue radici in me; non si situa nell’oggetto già fatto, terminato, ma piuttosto nel «fieri», nell’oggetto nel suo farsi. Il suo metodo è partire dalla radice in me dell’oggetto per arrivare fino a esso. La realtà è che non arriva mai, non va oltre mere relazioni sconnesse, il grido puro, inarticolato. Arriva a dissolvere la singolarità per eccessiva ansia di captarla.

Tutto ciò che è singolare, e già terminato, è, in quanto tale, separato da noi, mentre se ci si situa davanti all’oggetto in «fieri», si corre il rischio di non raggiungere mai la cosa terminata, limitata, il suo volto rivolto al mondo.

Cammino senza fine, percorso interminabile, quello dell’espressionismo. Tra il punto di partenza in me e il volto del mondo, un processo infinito si interpone. Estremo gesto disperato di un fantasma, di un angelo caduto che vuole essere uomo.

L’uomo, però, sta, vive, sopra la terra. In certe epoche se ne dimentica, vuole dimenticare questa condizione inesorabile della sua esistenza: lo stare sopra la terra in rapporti con un mondo sensibile dal quale non può evadere, forse per fortuna. Quando tutto è venuto meno, quando tutte le salde realtà che sostenevano la sua vita sono state dissolte nella sua coscienza, si sono trasformate in «stati d’animo», la nostalgia della terra gli ricorda che esiste ancora qualcosa che non si rifiuta di sostenerlo.

 

Madrid, 1933