Tra i quadri e i dipinti che il destino mi ha messo davanti nelle mie visite a diversi musei, sempre si è distinto ai miei occhi il quadro La tempesta, di Giorgione, visto nell’Accademia di Venezia. Lì ci sono altri quadri – tanti! –, però La tempesta possiede qualcosa che si è fissato nella mia memoria, nella mia attenzione, che mi ha accompagnato, che sembra essere qualcosa come uno spirito, o piuttosto un’anima – lo spirito infatti non dipinge, fa dipingere – molto veneziana, tipicamente veneziana. È una distanza, una certa indifferenza, come se il quadro fosse visto attraverso un vetro e non lo si potesse toccare, e in cui nemmeno una donna nuda, bella e giovane, risvegliasse il desiderio di toccarla. Ella è in se stessa e pare indifferente a tutto ciò che la circonda. Di fronte, più in qua del ponte, e come su una passerella, passa un signore che non fa caso nemmeno lui alla donna; nessuno si cura di nulla. Egli è in se stesso o in altro. Ella, si direbbe che è nella natura, dove ogni cosa è ciò che è, e senza occuparsi di tutto il resto. È raccolta in sé, non però nel suo spirito, non in nulla di distinto da lei stessa, ma raccolta in sé e nello stesso tempo persa, inaccessibile. Chi potrebbe, anche solo in sogno, avvicinarlesi? È la natura, dunque, a mio modo di vedere, colei che ci si presenta così.
La notte stellata può essere molto bella, con un’unica stella, ma c’è forse chi può davvero fare dei passi che lo avvicinino a essa? Non si tratta di un sogno; è questo che succede, nella pittura di Giorgione, che non è una pittura sognata, che non è una pittura che abbia qualcosa a che vedere con i sogni del surrealismo. È, semplicemente, la natura che si lascia vedere senza che a lei gliene importi, come non importa alla stella se qualcuno la sta guardando o no, come non importa al fiume, all’acqua, al fuoco, se qualcuno si brucerà o si sta avvicinando – è una cosa che riguarda solo lui. Tutto questo dà l’impressione di una grande serenità e, nello stesso tempo, di una grande, immensa indifferenza.
Nel suo autoritratto, Giorgione appare come Davide che ha sconfitto Golia. Non è un autoritratto come quello di Velázquez, per esempio, che nel quadro de Las Meninas dipinge se stesso con in mano la tavolozza, in atto di dipingere. Giorgione non si ritrae come pittore; si mostra come se Davide fosse anche un fiume, come se fosse, trattandosi di musica, una canzone. Perché, allora, si diverte – potremmo dire tra virgolette – a dipingere un evento che non avviene? Dov’è che ha luogo questa tempesta, forse sopra la città? È troppo vicina perché non importi a quelli che la fuggono – e qui nessuno fugge – o si nascondono per proteggere il bambino che la donna tiene in braccio. Che genere di tempesta è questa?
È questo, l’enigma principale del quadro: un evento che non avviene o che non minaccia, un fuoco che non divora, una pioggia che non inzuppa, un fulmine che non sta per cadere e, se cade, è come se non cadesse. Che genere di evento è questo, che avviene come con la Venere, che si lascia vedere ma senza sapere se viene vista o no? Si tratta, dunque, di immagini, ma non di immagini e basta, sono troppi i dettagli che indicano il contrario. L’uccellino che, dal tetto, guarda verso l’alto, è l’unico che sente qualcosa. Uno si immagina che questa tempesta esiste e, tuttavia, non esiste né tempesta né evento; è qualcosa che a un tempo non avviene ed è avvenuto. È la natura alla quale niente importa, però questa natura è lì che si lascia vedere solo per mezzo di esseri da lei minacciati e che lei potrebbe distruggere.
L’enigma
C’è qualcosa come di divino, come di una strana divinità che, qualsiasi cosa faccia, la fa senza curarsi di quello che provocherà; un dio o una dea a cui non importa ciò che i suoi occhi, ciò che la sua mano, stanno provocando; un dio d’amore a cui non importa essere amato. Sarebbe il più puro paganesimo, però la verità è che a volte gli dèi greci si rendono conto di quanto sta accadendo. Si tratta, allora, di qualcosa di molto greco che è rimasto depositato, non si sa perché, a Venezia. Sono deità, e non più personaggi, come La tempesta stessa, o la Venere che non si rende conto di essere Venere e che può essere desiderata, non lo sa, non ne ha coscienza, sta al di sopra della coscienza o al di sotto di essa. Sono, in qualche modo, dèi che non sono nati umanamente, dèi che si trovano lì, forse, per nascere. Non si sa se questi dèi, così poco o per nulla cristiani, sanno o no di sé. Questa mancanza di coscienza – stavo per dire di responsabilità, di risposta a livello di sentimento – produce stupore. Sono semplicemente dèi. Per chi, per che cosa lo sono? Perché sì? Non c’è risposta, è un enigma. Sono gli strani dèi che non si possono chiamare pagani, che non sono nemmeno natura. Ho visto bambine di due anni che si coprono spontaneamente le parti che hanno da essere più desiderate e più significative. Tutto ciò è uno specchio di qualcosa che accade in un altro pianeta, in un altro luogo che non è quello della terra, o di qualcosa che è accaduto molto tempo fa e che non ci interessa. E, ciononostante, il quadro è indimenticabile.
L’evento che non avviene
Questa tempesta che non scoppia resta come nel suo essere, senza scoppiare, senza che nemmeno gli alberi emettano un segno o un significato; non è lì, accade in un altro luogo e non nella natura, come si era previamente pensato. Se accadesse nella natura, infatti, gli esseri naturali si muoverebbero, il gatto avrebbe paura, l’uccello si spaventerebbe, il leone si infurierebbe. A mio parere, l’enigma, nel quadro La tempesta, sta nel fatto che questa tempesta non avviene qui sulla terra, né in cielo, né in nessun luogo da noi conosciuto. È la tempesta in se stessa, è l’essere della tempesta; questo suo essere, però, è scoppiare, minacciare, spaventare. Dunque, l’enigma continua a essere insolubile. E chissà che, una volta visto il quadro, non sia questa mancanza di una soluzione a fissare per sempre la nostra attenzione su questa tempesta che sembra uno scampolo lasciato lì da qualcuno che non si rende conto, un’immagine che non arriva ad agire. È la mancanza di azione, è un essere ma non un’azione; non agisce. È la tempesta, perché ce lo dice il pittore, però è come se non si verificasse. Avviene in uno spazio sommamente singolare, come nella Venere, che non si sa se si rende conto di essere guardata o se, semplicemente, si lascia vedere con un’indifferenza talmente casta da essere la castità stessa. Questo è vero; perché, però, non si copre, perché non muove le mani, perché non si raccoglie? Non sente, non c’è sentimento; e non essendoci sentire, perché dipingere?
È un’immagine, è una bellissima donna, una venere; potrebbe essere una dea che sta allattando il bambino che, in quanto bambino, realizza la sua funzione di nutrirsi, però non si turba, non ha paura, non sente, ossia non c’è sentimento da parte di nessuno. Nessuno ha sentimento, nessuno sente, ma, una volta visto il quadro, non si smette di sentire di averlo davanti agli occhi. L’enigma resta, quindi, irrisolto.
Il labirinto di Venezia
E non saranno, forse, allora, Venezia e il Veneto, ad avere un po’ quest’aspetto di indifferenza, ad apparire come un prodigio, una meraviglia, che si lascia vedere? Non si ha paura, a Venezia, nella città che pure è un labirinto e in cui da un momento all’altro si può cadere. Persone che tremano davanti a qualsiasi gradino o davanti a qualsiasi fiumiciattolo, nel labirinto di Venezia camminano impavide senza sapere se imboccheranno l’uscita o se si troveranno davanti un muraglione o non si sa cosa. Venezia, tutta Venezia, è per me un enigma che si lascia vedere, un labirinto che appare e che non bisogna sforzarsi di cercare, perché se lo si cerca non lo si trova mai. In compenso, può capitare di andare a Venezia senza poter uscire dall’albergo perché sta piovendo in continuazione e lasciare lo stesso la città entusiasti, incantati da una Venezia nella quale, in realtà, non si è messo piede.
Ciò che accade, a Venezia, a mio giudizio e per mia propria esperienza, è che qualsiasi confusione, qualsiasi anomalia, qualsiasi prodigio entra immediatamente nell’ordine, è assimilato, non c’è né un prima né un dopo, c’è un SEMPRE che tutto raccoglie. E in questo sempre noi possiamo muoverci con totale libertà e senza alcun terrore. Nel sempre che, essendo tanto diverso, non cambia. Tale è l’enigma di Venezia nel Giorgione.
Madrid, 1987