Il mistero della pittura spagnola
in Luís Fernández

Quando, dopo che da tempo non vi soffermavamo lo sguardo, ci troviamo di nuovo di fronte alla pittura spagnola, un’impressione inequivocabile ci avverte che siamo davanti a qualcosa, oltre che di originale, di originario. A qualcosa di irriducibile, al di là di ciò che in arte sembra contare di più, lo stile, e al di là, pertanto, anche di qualsiasi tradizione di scuola o di canone; qualcosa, insomma, che non è possibile spiegare con ciò che sembra fare la differenza tra le diverse scuole: la forma.

Questo qualcosa viene sentito immediatamente come una specie di fedeltà che si potrebbe chiamare ostinazione e che, trattandosi di qualcosa di spagnolo, non sarebbe la prima volta che viene chiamata così. L’ostinazione spagnola è la maschera con cui la fedeltà si è presentata al cospetto del mondo. Fedeltà a che cosa? Ogni fedeltà si manifesta come un confinamento entro certi limiti. Vediamo, dunque, ancora prima di sapere a che cosa questa fedeltà si rivolge, quali sono le sue caratteristiche, le caratteristiche di ogni fedeltà.

Fedeltà è limitazione; un genere speciale di limitazione, che non si confonde né con la povertà di contenuti, né con la mancanza di mezzi. Al contrario, la fedeltà è la forma di una povertà splendida, traboccante di contenuto, che produce quella qualità che nella pittura spagnola si distingue tra tutte: l’intensità. Perché chi si avventura al di là dei propri limiti corre il rischio, così portandosi oltre, di disgregarsi, mentre chi si contiene nei propri confini no, perché lo spazio che avvolge il suo esprimersi esiste a malapena come tale: appare talmente pieno e carico, da produrre una sensazione non di spazio, ma di sostanza. La pittura spagnola è, innanzitutto, sostanziale. Le cose non vi appaiono distribuite, bensì immerse in un’atmosfera materiale come loro. Perché un altro nome della fedeltà è immersione in se stessi [ensimismamiento].

Immersione in se stessi, profonda fantasia della materia, resistenza. Fedeltà è tutto questo, e se si spinge lo sguardo, attraverso tante realizzazioni e tanti tentativi, al di sopra dell’abisso che separa l’attuale momento delle arti plastiche da tutto il periodo anteriore, la resistenza acquista già un carattere metafisico che rasenta la mistica: è affermativa sopravvivenza, sopravvivenza che annuncia che la parola finale non è stata ancora detta e che, a dispetto di tutte le rivelazioni, qualcosa è tuttora avvolto da un segreto sacro, carico di silenzio. Se, tuttavia, a essere silenziosa è tutta la pittura, quella spagnola porta però con sé un silenzio ancora più intenso, confinante con l’assoluto.

È il silenzio della terra, del paesaggio, della Spagna, derivante dal fatto che esso, nel mentre che si manifesta, si occulta. E a noi piace immaginare che sia questa, precisamente, la definizione della plasticità. Un paesaggio, un oggetto, un volto umano sono plastici allorché, nello stesso momento in cui offrono di sé una generosa manifestazione «a viso aperto», custodiscono e tengono in serbo una quantità inesauribile di altre possibili manifestazioni: materia che non è stata interamente assorbita da una forma e che sembra generare, grazie a non si sa quale elemento fecondante, una serie di forme possibili, tutte altrettanto reali, che si insinuano, che si presentono. Per questo la plasticità è silenzio: il silenzio di qualcosa che non si decide a lasciarsi rivelare.

È il silenzio della Spagna, non ancora svelato del tutto da parola alcuna; il silenzio di un’ostinata fedeltà che persiste come un marchio sacro sulle creazioni autentiche di quanti sono chiamati a esprimerla.

Tale è la condizione di questa pittura di Luís Fernández, i cui occhi è da tempo che non si alimentano di quella luce, di quella silenziosa plasticità.

Nella sua pittura, la fedeltà acquista ormai rango di virtù, avendo dovuto superare quello stato di innocenza iniziale di cui si gode quando l’anima e i sensi si nutrono dell’alimento che loro è proprio. O chissà non si tratti invece di quell’innocenza superiore che sopraggiunge quando anima e sensi si alimentano di se stessi, di un alimento che loro soltanto possono assaporare, allo stesso modo delle visioni di cui, in certi quadri tradizionali, godono alcune figure colte da meraviglia: visioni in cui tali figure sono immerse e che soltanto loro percepiscono, mentre coloro che le circondano sembrano non avvedersene per nulla. Figure che stanno in un mondo a parte. Allo stesso modo sta in un mondo a parte Luís Fernández, e più ancora al centro del suo, dal quale tutto quanto lo circonda viene visto fino a esserne assorbito, secondo quell’alchimia segreta che è capace di tramutare tutti gli elementi nel pane quotidiano, nel vino unico.

Questo genere di cose, in verità, non accadono se non quando esiste uno sfondo religioso. La fedeltà non è una condizione della vita morale, per alta che sia la sua pretesa, ma l’irradiazione costante di un epicentro religioso. E come nel caso della pittura spagnola, e del suo esemplare manifestarsi nei quadri di Luís Fernández, non si tratta di rappresentare sempre – nel caso di Fernández, mai – scene di una religione ufficiale; tanto che dovremmo domandarci se la religione spagnola non sia religiosa in se stessa, anche in assenza di scene suggerite da una religione peraltro così ricca di plasticità come quella cattolica.

Non è esatto dire, però, che la religione cattolica è ricca di plasticità. Essa è ricca, piuttosto, di immagini, riguardo alle quali è possibile notare una differenza tra come esse si atteggiano nella pittura spagnola e come si atteggiano in quella italiana; differenza che in un certo senso è tutta a vantaggio della seconda. Sarebbe giusto che, nel momento in cui la Chiesa facesse l’inventario delle proprie immagini, la sua gratitudine andasse più alla pittura italiana che alla spagnola. È all’italiana che si devono infatti la realizzazione progressiva e la messa a punto classica, in quello stato di grazia che è la perfezione, di alcuni grandi temi. L’Annunciazione, senza dubbio quello di maggiore fortuna, ha incalzato tutti i pittori del «Quattrocento» fino ad andare a sedimentarsi in quella meraviglia che è L’Annunciazione di Leonardo da Vinci della Galleria degli Uffizi. L’angelo trasmette il suo messaggio alla Vergine come l’intelligenza pura all’anima, ugualmente pura. Se non lo avessimo sotto gli occhi, non riterremmo possibile che sia stato dipinto un evento che qui pare estratto dal pensiero di Plotino.

Lungi dal perseguire la perfezione di un’immagine religiosa, la pittura spagnola l’ha lasciata nel suo stato iniziale o ha trovato, all’improvviso e come per grazia, la sua espressione più pura, come se in quel tema religioso abitasse, per una segreta affinità, un mistero che le era proprio. Oltre ai «transiti e resurrezioni» di El Greco, le immagini che beneficiano di tale «scarica» religiosa sono le Vergini di Zurbarán, la Inmaculada di Ribera e il Cristo di Velázquez. Immagini che hanno attirato verso di sé, per affinità e coincidenza, tutto il potere della pittura spagnola, che ha conosciuto attraverso di esse l’albore del proprio mistero.

La pittura spagnola rende di per se stessa religioso tutto ciò che tocca (con l’eccezione di Velázquez, che costituisce un vero problema nell’ambito del più persistente dei caratteri della pittura spagnola. A questa pittura profana di Velázquez corrisponde uno spazio distinto, che non è né lo spazio sacro né quello meramente fisico). Di rado è profana, e quando arriva a esserlo, come nel suo Goya scopre Malraux, si allontana, tormentata e persino tormentosamente, per poi reintegrarsi in una vecchissima arte religiosa.

E di Fernández non ho visto un solo quadro profano. Dal momento, tuttavia, che il nome di religioso lo riserviamo a ciò che deriva da una religione ufficiale, diremo, meglio, che tutta la sua pittura, non solo essa ma perfino i suoi temi, sono sacri. La sua pittura, per la propria fedeltà alla luce dei misteri, alla luce calda, intima [entrañable], che illumina e ottenebra tutti i suoi quadri, perfino quelli che sembrano non averla. Quando la luce non si rende visibile, la distribuzione degli oggetti suggerisce un interno, fino ad arrivare al caso di quei fregi che un interno non possono avere ma che di un interno, forse di un tempio, sono la superficie dipinta. Quando sulla tela di Fernández non vi è il tempio-grotta, essa è la superficie che reclama di venire attaccata a questa grotta, in cui la luce non sarà mai la luce e basta, ma la luce diseguale che lotta con l’ombra e addirittura fa tutt’uno (intima) con essa; la luce che dovette essere la luce dei «Misteri»; la luce promessa a ciò che la nostra vita ha di più oscuro: il cuore, le viscere.

Questa pittura di Luís Fernández ha in sé la fedeltà ostinata alla luce originale della pittura; luce che non è quella naturale, che non lo sarà mai, nemmeno nei pittori più impressionisti. La luce della pittura è la luce promessa, non quella di tutti i giorni, per grande che sia il suo splendore; non è la luce che, regalo all’avidità della retina, rende visibili le cose perché si possa andare in mezzo ad esse. La vita umana, infatti, si distingue dalle altre in quanto ha un suo interno; un interno oscuro, in cui è già un segreto che non può svelarsi alla luce naturale. Le viscere, il cuore, sono la metafora con cui il linguaggio comune designa da sempre quest’oscurità abitata che aspira alla propria luce.

A volte, il pittore realizza tale aspirazione, compiendo così il prodigio di un’ascensione: l’oscuro cuore è asceso allo stato di anima. Di quell’anima che non è una cosa, ma un ambito (medio) in cui tutte le cose entrano col farsi, diremmo, vere, col tramutare il loro anonimato in verità. Verità è tutto ciò che ci offrono le tele di Luís Fernández. Questa ascensione delle viscere alla chiarezza dell’anima si è verificata, attraverso un cammino riconoscibile, nel corso di un’appassionante storia che ci viene rivelata dai suoi quadri e in cui si possono distinguere due epoche e un periodo di passaggio tra di esse. Ciò che noi vediamo, però, è piuttosto la continuità di un percorso impostosi per se stesso più che pensato in virtù di un’estetica. Le tele più antiche esibiscono in modo diretto questo mondo oscuro delle viscere, del sangue, con i suoi incubi, dato che il parto diretto delle viscere è una fantasia senza freni [ensueño]. «Il sonno della ragione produce mostri», diceva Goya. Lo sbrigliarsi della fantasia, però, non nasce dalla ragione, ma dall’oscurità di un dentro ancora irrivelato. La sua rappresentazione pittorica non può non darsi come nei sogni, come negli incubi; sono i dati del mistero; l’oscurità nel suo primo transito verso la luce; il mondo ermetico, sacro, delle viscere allo stato puro. Così come i toni violenti si aprono il passo nella nerezza di una cavità nella quale gli occhi non possono penetrare. Nero sipario, non del nulla, ma dell’essere da cui questo mondo intimo è sostenuto.

Il senso della pittura di Luís Fernández corrisponde dunque all’intenzione profonda della pittura surrealista: quella di essere una discesa agli inferi dell’essere, alle viscere oscure. La fedeltà, però, la fedeltà alla luce della pittura spagnola, ha permesso alla pittura di Fernández di compiere tale discesa con forza inusitata. Questa sua fedeltà le ha dato la forza di esprimersi, le ha fatto trovare la forza adeguata a quel mondo intimo e infernale. E sarà questa stessa fedeltà a farlo uscire dalla caverna oscura, in un movimento ascensionale che va dal mondo delle viscere al mondo dell’anima, dove ad apparire non sono le cose, non sono il cuore con le sue fantasie e i suoi incubi, ma i loro simboli, e ancor più, diremmo, le loro corrispondenze. Appaiono, allora, lo spazio e una luce quieta, rappresa, quasi invisibile, aderente alle cose. Perché questa pittura non perverrà mai, né lo richiede, allo spazio aperto della mente, a quello spazio più concettuale che pittorico in cui le cose entrano per occuparlo e nel quale ha luogo ciò che si chiama «composizione», l’assestarsi di certe cose all’interno di uno spazio che esiste previamente, di una luce data. Luís Fernández non ci darà mai questo genere di pittura, nemmeno nei suoi paesaggi, nei quali lo spazio risulta semplicemente dal fatto che vediamo alberi, un pezzo di terra, una riva, in una luce che è lì solo per rivelarli; una luce che è l’adempimento della promessa di una luce che tutte le cose, e non l’uomo soltanto, attendono per poter contemplare il proprio essere. Dato che nello spazio fisico, concettuale, le cose appaiono invece contratte o estese, occupano più o meno spazio del dovuto; esso, infatti, è lo spazio meno plastico del mondo, lo spazio profano che corrisponde alle concezioni della Fisica moderna, in cui niente ha più il proprio «luogo naturale». Lo spazio dell’anima, al contrario, offre a ogni cosa il suo non intercambiabile luogo naturale. Stare in uno spazio del genere significa stare in un interno riparato, occulto e insieme palese. Entrare nell’ambito dell’anima è essere finalmente riusciti a venir fuori dalle viscere infernali; essere nati senza cessare di essere avvolti da un’intimità che protegge.

Così, il vitello raffigurato da Luís Fernández è già nato, è visibile, ma nello stesso tempo riposa rappreso nel suo essere senza aver sofferto il brusco risveglio della nascita allo spazio fisico, quello spazio nel quale il mondo profano ci costringe a entrare. Così, quelle frutta immerse in se stesse, pura, intatta sostanza, riposano nel loro spazio naturale, nel quale si mostrano finalmente nell’integrità del proprio essere, esenti dal soprassalto di doversene sciogliere come dall’impurità di cui si macchierebbero entrando in uno spazio nel quale tutto è intercambiabile, al riparo ormai da ogni corruzione.

Un’ascensione del genere, dai fondi più segreti della materia allo spazio dell’anima, non poteva peraltro non passare per il momento critico in cui ciò che vive si dissolve [desvive], già sul punto di morire. Luís Fernández dipingerà cipolle, pezzi di carne, fiori, sul punto di decomporsi, cogliendo il momento in cui la forma raggiunta sembra tornare alla materia dalla quale proveniva, in cui l’inferno si erge a riprendersi la preda evasa solo per una breve ora. Ma è qui che la luce delle viscere infernali lancia la sua più recondita promessa: la promessa di resurrezione resasi visibile in un’anima e che emana dalla stessa materia quasi putrefatta. Segreto il più intimo della pittura spagnola, la sua vocazione di mostrare transiti, di fare intravedere la resurrezione della materia sul punto di putrefarsi, il trans-corporarsi [trascuerpo] glorioso di tutte le cose, la promessa in via di compiersi.

Misteri così fatti, solo la pittura può intravederli. E la visione perfetta, la presenza totale, appare nei quadri bianchi, vetta del lungo cammino percorso partendo dall’inferno delle viscere: pura quiete delle cose ormai riposate, che sono entrate in se stesse stando nello stesso tempo in ogni sguardo. Bianchezza, risultato e presenza finale in questo spazio in cui tutto, essendo se stesso, vive in perfetta comunione. Bianchezza in cui la pittura della Spagna è venuta trovando da sempre la sua riuscita: la sua ultima parola, il suo silenzio.

L’Avana, 1951