Esistono opere d’arte, di pensiero, che producono, appena conosciute, l’impressione di andare verso il futuro, di essere lì per crearlo. E tutte le loro altre proprietà, perfezioni e imperfezioni, vengono a essere subordinate a questa proprietà totale che le avvolge abbracciandole, dando loro il loro tono e, ancor più, il loro significato. Ora, è questo, inequivocabilmente, ciò che si sente davanti alla pittura di Juan Soriano. Perché, o, meglio ancora, qual è il contenuto dell’affermazione che può sembrare, detta così, soltanto una frase: essere aperto al futuro, essere lì per crearlo? Le opere che producono tale impressione rimangono come separate da quelle che non lo fanno, al di là delle loro perfezioni tecniche, che qualora ci siano, come in questo caso, appaiono sotto una nuova luce, nella loro funzione più propria. Il che fa del lusso e dello splendore dei mezzi espressivi della pittura di Soriano qualcosa come una semplice matematica, il compimento di una necessità; di uno splendore ascetico e necessario.
Lo stesso accadeva – l’immagine viene in mente da sola – nella pittura bizantina e ancor più nei mosaici, il cui splendore, non eguagliato da nulla che si conosca, corrisponde al più totale ascetismo. Come mai succede lo stesso anche in questo caso? Credo che tutto ciò provenga dall’aurora, che avvenga quando un’arte – anche il pensiero più puro, ma è un paragone che qui non possiamo approfondire – è figlia dell’aurora, che è il più splendido e ineludibile dei misteri della vita. Della vita naturale, si dirà, senza dubbio, ma anche, e se è possibile ancor più, della vita umana.
Quando hanno luogo nell’uomo, i misteri sono chiamati segreti. E l’arte lo sottintende, vi allude e, di quando in quando, lo fa trasparire. Un’opera d’arte, così, è tanto più vera quanto più rivela del segreto appena sfiorato della condizione umana. Lo stesso vale per il pensiero; mentre la filosofia, però, dichiara e utilizza l’ignoranza dell’uomo in vista di una conoscenza razionale – priva di segreti –, l’arte fa uso di una conoscenza che mantiene segreta. E un segreto che, mostrato, continua a esserlo, è un mistero. Dunque, anche i segreti della vita umana sono misteri, quando l’arte li tocca.
Ora, la pittura è nello stesso tempo la più misteriosa e la più intellettuale delle arti. Nata in una grotta alla luce vacillante e viva della torcia o del lume a olio, la stessa luce che illumina i ritratti dei morti e che si accende per le anime del purgatorio, ad averle dato origine non è stata, come appare ben chiaro nella pittura tombale egiziana, la luce naturale, ma piuttosto l’ombra che un raggio di luce ha lacerato per un attimo perché il mistero dell’immagine, anima, fantasma reale, apparisse e restasse fissato per sempre. Cosa dell’altro mondo, apparizione, mistero che si fa visibile ferendo le pupille e l’animo.
Ogni vero quadro, infatti, sta in una grotta, in una solitudine e in un silenzio. E a volte c’è bisogno di indugiare a lungo perché tutto ciò che ci circonda e che ricordiamo scompaia, perché «questo mondo» affondi e la pittura, cosa di un altro mondo, appaia. In questo senso, nessuna vera pittura potrà essere, né è stata mai, realista.
Cosa di un altro mondo, cosa dell’altro mondo ho sentito che sono, le pitture di Juan Soriano, e che in questo mondo esse appaiono come una ferita. Non c’è arte che non ferisca, perché l’arte è come il pensiero, come la verità. Il segno della verità è ferire; ciò che è luce viva ferisce. Sin dal mattino, ferisce, la luce, e se così non è si sarà perduto il giorno.
La stessa aurora è una ferita; la luce si affaccia dentro l’oscurità, si allarga, si apre nell’aprire il giorno. E anche l’uomo entra in questo mondo così, aprendolo a una nuova storia, ferendolo, nel portare con sé l’imprevedibile futuro.
Essendo una delle azioni originarie dell’uomo, l’arte manifesta questo carattere aurorale del suo essere, questo suo perenne albeggiare. Poiché, però, non tutto ciò che l’uomo fa risulta sempre compiuto, e dato che quest’albeggiare in cui la vita umana consiste deve reiterarsi, succede che certe opere, certi momenti, del suo essere, siano più fedeli alla loro origine. La storia non avanza se non reiterandosi nel suo impulso iniziale, e l’arte, ogni arte, reitera la propria origine.
Per paradossale che appaia, un’opera d’arte, così, è tanto più aperta al futuro quanto più fedelmente e propriamente reitera il suo gesto iniziale, perché l’atto iniziale delle azioni essenziali dell’uomo, l’atto più umano dell’uomo, è quest’aprire il futuro, quest’allargare la ferita per dove irrompe la luce, la luce che rivela e che conforma quello che ancora non è venuto allo scoperto, il mistero delle cose.
E ferite sono, finestre sul mistero, tutti i quadri di Juan Soriano che ho visto. Uno solo sarebbe sufficiente a enunciare la sua opera, perché in ciascuno sono presenti tutti gli altri. E forse perché tutti, così diversi per tema, colore e figura, sono volti, fasi, differenti di un solo mistero; perché tutti hanno dipinta l’Annunciazione.
L’Annunciazione, il mistero dell’istante in cui il passato e il futuro si allacciano, diventano uno e lo stesso; l’istante per eccellenza, perché tutto il passato sbocca in esso e si decifra, si fa esplicito e attuale per mezzo del futuro; istante che è atto, che attualizza il passato per opera del futuro che si apre.
Istanti, sono, le opere di Juan Soriano, senza essere per questo per nulla impressioniste; opere di quell’istante propriamente creatore in cui la realtà si presenta a se stessa come frutto della realtà prima, del fondo oscuro da cui l’intera realtà emerge. E nel presentarsi così, qualsiasi figura del mondo, umana o non umana, ha valore di profezia, è un’annunciazione.
La pittura di Juan Soriano è profetica anche perché mostra già in modo compiuto il ritorno della pittura a quello che è stata la sua origine e la sua lunga vita di secoli, al suo essere un’azione non solo magica, ma sacra. Ché la magia è soltanto una forma del rapporto col sacro. Van Gogh il solitario sembra essere il primo nel quale tale ritorno si verifica, e per questo, diremmo, ha pagato il prezzo che ogni vero rinnovamento esige, tanto più quando del sacro si tratta. Il surrealismo lo ha tentato deliberatamente, il ritorno, e così l’espressionismo tedesco, le cui radici affondano nel movimento romantico – nelle sue manifestazioni poetiche, dato che in quelle pittoriche esso non è sembrato invece corrispondere all’appello a tornare alle origini ancestrali dell’arte.
E un giorno bisognerà riesaminare il cosiddetto astrattismo, specialmente il cubismo, alla luce di un simile ritorno a fare della pittura ciò che essa fu al suo inizio: cosa sacra e pertanto ermetica, invocazione, esorcismo, apparizione di elementi ultimi della realtà – lo spazio, la materia, le figure geometriche prime –: lo scheletro della realtà.
La continuazione di questo cammino, che a molti appare oggi un vicolo cieco, binario morto del surrealismo e dell’astrattismo, sarebbe il passaggio a una pittura figurativa come quella di Juan Soriano, riscattata ormai la pittura dalla sua ultima profanazione, restituita alla sua origine, libera dal maleficio del troppo umano. È così che Soriano può azzardarsi a dipingere dèi e perfino muse dal corpo umano con l’innocenza con cui furono consacrati quando in loro si credeva, quando erano figure dotate di un significato e non, come arrivarono a essere in seguito, dei semplici pretesti.
Perché il ricreare le figure e le forme di esseri si trova a offrire, in questa sorta di annunciazione, qualcosa come il disegno di una cosmogonia, o piuttosto la storia sacra, ma senza pretese – si tranquillizzi l’ipotetico lettore –: storia delle creature nel semplice mistero del loro essere. Ricordiamoci, nel caso ce ne fosse bisogno, dell’angosciosa passione della pittura più recente per la scoperta e la creazione di forme: disperato tentativo di trovare la sostanza perduta della pittura, giunta col cubismo a una nudità matematica, a essere pittura disincarnata. E questo, sì, era grave, perché la pittura si dà tutta, direi, nel mistero dell’Incarnazione: nel prendere corpo, nel farsi vita, dell’idea. La pittura si era spinta su un terreno che era il più separato dalla sua origine, che sono la vita e la morte allacciate, in atto di dare tanto l’una quanto l’altra qualcosa: la vita, il suo respiro e il suo corpo; la morte, la sua matematica e la sua fissità. La pittura ruba alla vita il suo palpito, alla morte la sua permanenza, il suo compimento, e qualcosa di più indicibile. Oltre a qualcosa che si può dire, applicabile specialmente al ritratto, e che è la presenza tutta intera, perché nessun essere vivo è, in quanto tale, completamente, interamente, presente – come se si facesse vedere solo per istanti e in aspetti fuggevoli –, mentre in un ritratto dipinto la sua presenza è totale, come quella di un morto, di un’apparizione o di un fantasma.
Tanto il numero come l’idea – il verbo – appaiono in questo nostro mondo resi corpo, e le arti non li apprendono che così: sotto forma di corpo, di materia, fosse pure quella materia leggerissima che è il suono. Ed essi – il numero, la parola – potrebbero servire da princìpi radicali, da matrici, di due gruppi di arti: arti del numero, architettura e musica; arti della parola, poesia. Mentre la pittura, muta e silenziosa com’è, possiede sia una sua forma di linguaggio che, naturalmente, un suo sfondo matematico. Dal congiungersi di queste due proprietà, dipende in gran parte la sorte di tutta la pittura, il suo destino; dal suo felice realizzarsi, la pienezza di un’opera.
Né semplice, peraltro, né dogmatica, questa pienezza è stata raggiunta secondo modalità diverse e perfino opposte, come quella realizzata dalla pittura spagnola e quella esemplificata dalla pittura italiana. Il tema è troppo complesso e delicato perché lo si possa abbordare qui, anche solo schematicamente. Mentre è senz’altro possibile segnalare che nell’opera di Juan Soriano il colore si è visto restituire – dopo tante vicissitudini, glorie e miserie – la sua funzione dichiaratrice, enunciativa, senza pregiudizio alcuno della virtù e della forza della forma, che appare compatta, resistente e insieme leggera, non stemperata in chiaroscuro né dissolta in fasci di luce e colore. Non si tratta di una pittura liquida, com’è in gran parte quella surrealista, né della pittura di riflessi che ha rappresentato il rischio dell’impressionismo, rischio che i grandi maestri di questa scuola – come Cezanne, che perciò non fu impressionista – seppero alla fine evitare. L’impressionismo aveva come sua premessa la volontà di captare la luce nel suo riflettersi, la luce solare riflessa sulla superficie dei corpi come su specchi della nostra atmosfera, specchio a sua volta. Mentre la pittura di Soriano sembra partire dalla premessa che la luce della pittura non sia la luce solare, ma la luce rivelata, quella che appare come una ferita nella caverna, anche se questa manca. Basta attaccare alla parete una sua tela per veder comparire – contenitore e ricettacolo – una sorta di nerezza, vuoto di luce in cui la pittura si fa avanti; nel momento in cui ci rendiamo conto che stiamo vedendo, infatti, sentiamo che siamo ciechi dalla nascita e che il nostro vedere è un miracolo, che un cieco dalla nascita arriva a vedere coi nostri occhi. La vera pittura mette in atto questo nascere della visione, del semplice vedere con gli occhi del viso che sono gli occhi dell’anima; ci fa sentire il miracolo che il nostro essere cieco e nascosto si affacci nel mondo e, finalmente, veda.
La pittura di Juan Soriano, pittura figurativa nel significato preciso della parola, ci offre figurazioni sognate. Raffigurare è ricreare, vedere da dentro dopo aver molto guardato ciò che è fuori; appropriazione della realtà in un ordine profondamente intimo. Raffigurare quello che c’è, è farlo nascere, esistere, e questo è ciò che la pittura ha di poesia e persino di Filosofia, perché all’uomo non gli basta che le cose ci siano, egli deve anche nominarle, pensarle, raffigurarle.
E il pittore, quando si raffigura le cose, lo fa partendo dalla sua più profonda, intima concezione del mondo. L’opera di un pittore racconta, anche quando i temi gli sono stati imposti, il suo modo di dare ordine alla realtà e il processo messo in atto dal suo spirito per conferirle un significato, perché egli può raffigurare – raffigurarsi – solo quello che ha senso per lui; e l’abilità dei grandi pittori – come Tiziano – che hanno lavorato quasi sempre su ordinazione, è consistita nell’aver raccontato questa loro storia senza tradire la propria visione, a dispetto e al di là dei temi loro assegnati.
Ora, quello che racconta e si figura la pittura di Juan Soriano è, a mio parere, il passaggio della vita dalla sua prima forma oscura a una trionfante luminosità.
Oscuri serpenti di umidità, figli diretti della terra, formano un’intera serie. E altri ve ne sono che sono figli non della terra ma delle acque, e perfino dell’aria e del fuoco, come se ogni elemento avesse un suo figlio nascosto, un suo segreto alito di vita a malapena organizzata: un suo serpente. Spirito vitale condannato dal fatto di essere di un solo elemento. Il serpente, oscuro figlio del sogno – il primo – della terra, viene sorpreso nel quadro di Soriano nel suo stato iniziale appena differenziato, come se la terra, apertasi in una ferita, mostrasse il suo ospite inevitabile, il suo primo abitante; l’unico, forse, a non essere un intruso.
In un altro quadro di questa serie tanto essenziale, il serpente si infiamma, si fa fuoco e ha il sole sotto di sé, come se la rotondità dell’Universo fosse sensibile, vissuta, e il sole producesse anch’esso i suoi spiriti vitali, i suoi serpenti sospesi nella sua atmosfera di fuoco. E il serpente leggero e come senza peso, figlio dell’aria. Mentre non ce n’è nessuno che strisci, e tutti fanno presentire quel serpente rotondo, la rotondità stessa in movimento, essa stessa un sole; quella che si potrebbe definire l’ascensione del serpente alla luce.
Questi serpenti raffigurati da Juan Soriano sono segni della vita nella sua più elementare apparizione; essi profetizzano – serpenti, alfine – la storia più universale. E sono ritmi e melodie di un’incipiente matematica, qualcosa come i primi accordi della musica che sostiene vita e morte. Cifre, anche, ed equazioni della vita nella sua storia iniziale, dall’oscurità alla radiosa luce solare.
La pittura di Juan Soriano è una pittura aurorale anche perché è incontro dei primi accordi, delle prime equivalenze e riduzioni, come se essa stesse misurando lo spazio che a ogni creatura corrisponde: raffigurandola, la integra in un’orbita. Per cui nulla resta scompagnato, né fuori posto, realizzandosi quel compito della pittura e di tutte le arti plastiche che consiste nel mettere in ordine le cose visibili e nel riscattare, restituendole al loro luogo, al loro numero, le creature che l’uomo aveva respinto .
Vengono portati alla luce, così, in virtù dell’orbita che le riscatta e le sostiene, i misteriosi nessi che uniscono le creature più diverse tra loro. Nei ritratti della madre, misteriosa vita riconcentrata, è la figura più essenziale di tutte, quella che tutte le sostiene. Il serpente si rivela, allora, come la madre primaria, la prima. È il colore nella sua capacità enunciativa, così come Soriano lo usa, a rendere ostensibile il mistero della madre che riscatta e porta il serpente come le antiche dèe in cui si integravano i dèmoni. La Vittoria che riscatta il vinto. La Vittoria è il titolo che viene in mente nel vedere l’ultimo dei ritratti della Madre, che è anche ascesa alla luce solare, di un sole sognato, pensato, di un sole di mistero che arriva a trasfondere nelle viscere la vibrazione della sua luce; perché questa madre è come il corpo in atto di trascendersi [trascuerpo] della madre visibile, la sua anima carnale accesa e palpitante, brace di vita. E la palma nata dal suo braccio è come ramo ardente, segno della vittoria di una vita che è luce, trionfo definitivo dell’oscuro slancio nato nel limo umido, il cui primo trionfo consistette nell’essere quel serpente appena differenziatosi dall’umidità che esso dovette accettare per avere un corpo, un’ombra fredda, ed è giunto ora ad afferrare una scintilla di fuoco vivente.
La pittura ha sconfitto l’ombra riscattandola senza cancellarla, dando vita alle tenebre, trapassando la morte che nella luce naturale ci si consegna. Essa è così anche pace, la quiete finale in cui queste raffigurazioni sognate di Juan Soriano ci appaiono.
Roma, 19 dicembre 1954