Tre cose era quest’albero nella sua forma. Era lì, nel centro. Ci sarà ancora? Continuerà a esserci? Questo è quello che io mi domando da giorni con un’angoscia inesplicabile, se è che l’angoscia può mai essere spiegata.
La primavera lo lasciava intatto come l’inverno, perché la neve non si posava sui suoi rami, né grandi né piccoli, dove non c’era nemmeno rifugio per gli insetti. Non lo vidi mai germogliare nelle tante e tante primavere in cui passai di lì senza smettere di guardarlo e di girargli intorno. Ogni giorno, né un bocciolo né un germoglio.
L’albero era vecchio e non lo era; aveva raggiunto l’età di essere, l’età dell’essere. Non era, dunque, né vecchio né giovane; aveva ormai superato il limite della generazione. Se era vecchio lo era secondo questo criterio della generazione, perché non germogliava più.
E crescevano fino a quando ormai restavano lì senza uscire più perché erano morti o, più che morti, estinti o, meglio, trasformati. Quale intima avventura della linfa e delle radici intatte e gloriose, quasi a fior di pelle, di quell’albero che era cresciuto in quel modo, aprendosi e chiudendosi!
Aprendosi, però, in forma che si disegnava nell’aria, che non era un luogo di transito né un luogo di metamorfosi, perché ormai non poteva cambiare, ma un luogo, una creatura, che era, semplicemente, quell’albero.
Di quale regno? Qualche botanico lo avrà studiato, ma la mia ignoranza non lo sa. Non lo so se non perché l’ho visto, perché l’ho amato, e ora perché lo sogno. E se lo sogno tanto, non sarà che non esiste più, che si è trasformato in sogno mio, quest’essere?
No, nessuno si poteva avvicinare a quell’albero a causa della respirazione che da lui emanava. Da dove? Dai suoi rami? Dal suo cuore ancora acceso? Non saprei dirlo. Però respiro, quell’albero, Signore, sì che lo aveva.
Madrid, 1985