Non c’è popolo o cultura, come si preferisca dire, senza fantasmi propri, inconfondibili. Tanto che appare strano che la loro identificazione non formi parte del metodo o dei metodi volti a riconoscere l’originalità di quel popolo, di quella cultura.
Sono una cosa diversa dai miti, i fantasmi. A prima vista, infatti, i miti precedono l’evolversi storico di un popolo e i fantasmi vanno comparendo nel suo corso; anche se questa distinzione non è così netta da risparmiarci la domanda se Don Chisciotte, Don Giovanni, siano miti o fantasmi. O Faust, o Amleto. E chissà che essi non siano, d’altra parte, le due cose contemporaneamente, nate entrambe da un’altra più essenziale. C’è, senza dubbio, un fantasma di Don Chisciotte separato dal personaggio e, ancor più, un fantasma di Don Giovanni.
Si direbbe che il fantasma sia un’immagine che si distacca da una realtà, anche creata dall’uomo; qualcosa che si rende evidente senza essere stato cercato; qualcosa che emana o prende forma come quelle figure in cui si condensa la nebbia sprigionatasi da un lago. E, ancor più, un’immagine che si presenta in quello spazio che la coscienza non «controlla» dopo aver guardato un albero, un particolare albero attraversato da una particolare luce. O quello che riappare, a distanza di tempo e come senza origine, di un avvenimento che non è chiaro se sia stato sogno o realtà.
Mito e fantasma hanno a che vedere con l’universo dei sogni: sono, forse, sogni. Con una differenza, però, che il mito è sogno che tende ad acquistare realtà, mentre il fantasma è realtà sognata. Il mito nasce nella fantasia, seppure appoggiandosi leggermente alla realtà; il fantasma nasce, trae origine, dalla realtà. È la decantazione di ciò che questa possiede di ossessivo, di non solubile nella coscienza. Proviene, potremmo dire, da una realtà che ferisce. E anche da una realtà che affonda un suo filo in qualche segreto addormentato dell’anima e, ancor più, da ciò che chiamiamo viscere. In un certo senso, perciò, i fantasmi che la seguono e perseguitano rivelano più cose sull’anima umana dei miti che presiedono al suo evolversi storico. I miti, in altri termini, sembrano riferirsi di più alla storia dichiarata, a ciò che si è chiamato a volte «spirito» e altre volte, più comunemente, destino. Mentre il fantasma dice di più del suo sentire, della sua intimità, del suo segreto, compresi quei segreti che a volte impediscono il compiersi di un destino.
Perché il fantasma, in cui si raccoglie ciò che una realtà ha di ossessionante per un determinato soggetto, fissa l’animo e lo sospende, lo confina all’interno di uno spazio, all’interno di una specie di circolo magico. Gli preclude il contatto e il rapporto con altre realtà, perfino con la realtà da cui il fantasma procede: lo ammalia. Lo ammalia, soprattutto, perché, procedendo da quella ferita prodottasi in ciò che chiamiamo cuore o viscere, si sovrappone, fino a stabilirvi un qualche dominio, alla potenza umana che nel cuore prende il proprio alimento: la volontà. Un fantasma è, sì, un revenant, uno che ritorna, una sottile vendetta di ciò che soffre e patisce, di ciò che soffre e anela; può essere una forma di rancore, o più semplicemente di desiderio; può essere il modo di insinuarsi di qualcosa di molto potente e di cui non si tiene conto.
Mentre il mito, così, tende a destare la volontà o almeno il desiderio, il fantasma con la sua presenza immerge il soggetto a cui appare in una specie di estasi. Lo immerge, perché non si tratta di una di quelle estasi che sollevano chi le prova al di sopra di se stesso, che trasportano, che fanno uscire di sé: il fantasma, se muove, è perché ipnotizza, in un’attrazione imparentata con la gravità, con l’attrazione magnetica, con le forze del cosmo, come se per il fatto di essere rimasto così passivo il soggetto umano cadesse in qualche misura nella condizione della materia o di ciò che è materiale, come succede piuttosto in certi sogni. Mentre il mito risveglia e perfino esalta, della condizione umana, ciò per cui è più umana, l’infiammarsi dell’animo e il lanciarsi in cerca di un’impresa unica; il destarsi all’azione che conduce a essere.
Può sviare, il mito, come tutto ciò che guida. E in certi crocevia storici possono crearsi miti riflessi o miraggi di miti, miti di miti, come abbiamo appena visto, fantasmi, piuttosto, residui della storia, pozzi del rimorso storico mezzo mascherati da miti per non incutere troppa paura. Perché il fantasma spaventa e il mito, anche se strano e portatore di qualcosa che repelle alla coscienza, non fa paura. Un mito non accettato non è pericoloso, a meno che non si porti dentro un fantasma. Per un fantasma, infatti, non c’è niente di più naturale che mascherarsi, è una cosa a cui tende in ragione della sua lieve consistenza, per il fatto di essere quasi sempre un’impressione, una sensazione, che ha bisogno, come ne hanno bisogno i colori, di aderire a una forma. Un fantasma non è un corpo, ma qualcosa che procede o emana da un corpo e che tende ad aver bisogno di nuovo di un corpo, per fissarsi. Poiché, tuttavia, ciò che lo costituisce è propriamente un pezzo di realtà separata, e ancora più propriamente un nucleo di essa, il fantasma non può prendere corpo, bensì apparenza; solo apparenza. Pertanto ciò che ha una struttura fantasmatica, e che si dà anche nella realtà, trasforma in apparenza, spettrale apparenza, il corpo, reale se di realtà si tratta oppure rappresentato, in cui compare o si fissa.
Ci sono persone, piante, animali, città e anche eventi fantasmatici, c’è persino una storia fantasmatica, nel senso di uno spettro di storia… Non è, però, tutta la storia, l’umana storia, a possedere sempre qualcosa di fantasmatico? Non è, la «realtà storica», sempre intrisa di storia fantasmatica? E in ogni caso, non è la storia popolata di fantasmi altrettanto o più che di miti, e non li genera forse?
Questa capacità di emanare fantasmi è, forse, ciò che prova e segnala la realtà o quel che di reale è in essa. Mentre la presenza del mito dice di più della sua irrealtà, del suo non arrivare a essere, del suo perenne ricominciare, della sua alba, del suo essere ancora – ancora o sempre? – pre-istoria. La comparsa del mito nella pienezza di una storia, pertanto, dice che esso è sempre annuncio, volontà estrema, come Don Chisciotte, o sfida disperata, come Faust o Don Giovanni.
Mentre il fantasma viene dopo, ritorna per essere riconosciuto, forse con la pretesa di trasformarsi in mito. E non è, questa, la minore delle minacce del fantasma.
Nei confronti del fantasma, perciò, l’atteggiamento più adeguato è quello contemplativo, quello che cede davanti a lui solo in un primo momento per offrirgli, precisamente, la prima cosa che chiede: un po’ di tempo… Il fantasma è un affogato nel tempo – nel fiume del tempo lineare – che riesce ad affacciarsi per un attimo alla superficie prima che la corrente lo inghiotta, solo per un attimo non essendo proprio del fantasma durare, estendersi nel tempo, perché ciò lo altererebbe nel suo «essere». Può tornare, questo sì. E prendere posto così com’è nell’animo, senza trasformarsi per niente. E non è nemmeno questo, quello che chiede; se si ferma, è per chiedere un’altra cosa, l’unica che può salvarlo: di essere fissato in un attimo perenne.
Ecco perché il mezzo – l’arte – che meglio offre al fantasma quest’attimo perenne, è quello della pittura. La pittura che è già di per sé uno strano fluire che permane, un fiume temporale che si arresta; non una forma dello stare, ma del passare, del passare a… essere o verso l’essere, più che verso la realtà.
Non è rimasta indietro, in questo, la pittura spagnola, che ha dato in tal modo una prova della sua fedeltà all’essere congenito della pittura. Quella italiana, più docile a certe esigenze della cultura a cui appartiene, ha dipinto miti, ha dato loro corpo; solo alcuni ritratti di Tiziano, di Palma il Vecchio, possiedono quella fantasmatica presenza. La pittura spagnola è rifuggita dal mito, lo ha schivato perfino nelle poche occasioni in cui lo ha dipinto – Velázquez, forse. E non solo, come si è detto, per ripugnanza verso i miti della tradizione greco-romana, perché avrebbe potuto mitizzare in proprio. Ha dato fantasmi: della storia, della natura, dell’amore, della donna, della chiarezza, forse, e della speranza. E di quel «se stesso» che fugge.
E fantasmi della vita – quelli che essa getta nella sua risacca – e dell’esistere stesso; di quell’ansia dell’affogato nel tempo che viene fuori a vedere e, soprattutto, a essere visto, di chi viene fuori perché Dio e il mondo lo vedano, così come appare.
E anche dei frutti, della luce, delle cose, del tempo stesso, come se in Spagna la pittura ci rendesse consapevoli del fatto che qui tutto è fantasma, che tutto va nella corrente del tempo e vuole essere visto perché lo si aiuti a essere.
Roma, 1959