La prima condizione che nella pittura spagnola si lascia vedere è duplice e contraddittoria: lo splendore dei sensi e il raccoglimento in sé. Due costanti che non risultano sempre felicemente coniugate, eccezion fatta per il più singolare dei nostri pittori, Zurbarán. In Goya, a riunirsi e ad accoppiarsi sono lo splendore e il delirio più disponibili all’armonia e all’accordo. Splendore dei sensi, delirio, raccoglimento e, nel caso unico di Velázquez, oggettività quasi gelata, ossia sogno, pensiero, sostenuti dallo splendore della luce e delle forme definite in sé. Sogno, delirio e pensiero di Spagna, questa la nostra pittura. Cos’è che ci dice?
Il posto della pittura nella cultura spagnola
Se ogni arte ha la sua giustificazione ultima nella vita umana, in ogni cultura determinata essa ha un valore distinto, una situazione diversa. Non è solo questione di importanza, ma della funzione che viene svolta. E la funzione dell’arte pittorica nella vita spagnola dev’essere stata straordinaria: spicca su tutte le altre arti; supera perfino la poesia; eguaglia il teatro delle epoche d’oro, senza fermarsi però con la fine dell’oro ma continuando, si potrebbe dire impassibilmente, per tutta la durata della nostra diseguale storia. E già solo questo è sorprendente, visto che la storia di Spagna, in tutte le sue manifestazioni, è caratterizzata dalla discontinuità. Che è più evidente nella vita dello Stato, nella sfera del potere politico e militare, ma che a uno sguardo mantenutosi attento si manifesta con evidenza non minore persino in quello che sembra essere il respiro più intimo, il soffio, della nostra vita: la poesia lirica. Solo la pittura ci ha accompagnato sempre, compresi i momenti di massima sciagura nazionale. Quando la sventura e la vergogna si impadroniscono della nostra vita, la pittura ci restituisce il posto che ci spetta con Goya, passione che si innalza da ciò che la nostra anima ha di più incontaminato per esprimersi nell’universalità della luce comunicabile e signora di tutto. È, in quel momento, l’unica prova della grandezza della Spagna, l’unico sostegno del suo rango. Nell’infelice secolo XIX, soprattutto nel triste momento della Restaurazione, la pittura sembra piegarsi, ma Fortuny e Rosales mantengono a un livello decoroso quel suo denominatore comune che è l’onestà, riuscendo a essere se non altro leali. Dall’impossibile vacuità della pittura auspicale della Restaurazione, pittura commemorativa, tristemente teatrale, sono usciti, come in un parto insperato, due pittori in rivolta, Solana e Picasso. Incomparabili, incommensurabili, come lo è sempre l’opera del genio rispetto a quella di chi è solo un continuatore. Anche Solana, come Fortuny e Rosales, è un continuatore leale, e quella certa ansia commemorativa propria dell’ambiente della Restaurazione si fa in lui verdetto, sentenza, con qualcosa di un «Dies Irae», collera meditativa e un po’ profetica. Picasso, al contrario, si libera radicalmente del mefitico ambiente spagnolo degli inizi del secolo e, guadagnatosi la libertà dell’ambiente più propizio, lotta splendidamente solo. Con lui abbiamo di nuovo, come con Goya, il rappresentante del rango più alto, che diffonde nel mondo, nell’ampio spazio universale, il suono e il timbro esatto della nostra voce. E all’ombra chiara dell’opera di Picasso o Joan Miró, e di quanti lottano adesso per la libertà, la pittura non ci è venuta a mancare nemmeno nella più grave strozzatura della nostra storia, quando il toro di fuoco ha fatto di nuovo irruzione nell’arena. Qual è il posto privilegiato occupato dalla pittura nella nostra cultura, nella nostra vita espressiva e creativa? Cultura è creazione, ossia imitazione della creazione divina. Era Dio tenuto a esprimersi, quando si dispose a creare l’universo, le cose tutte, e la luce per prima? La luce, la non-cosa anteriore a tutte le cose che grazie a essa esistono; la luce è il nostro ambito, l’ambito della vita umana. Vivere umanamente è vedere ed essere visto, è muoversi nella visibilità. In quest’ottica, l’arte della pittura verrebbe a essere l’arte che meglio definisce la condizione umana, la più umana delle arti.
L’origine della pittura: vita e visione
E così è, così appare non appena ricordiamo l’origine della pittura, ossia la sua non-origine. Poesia e musica hanno un’origine semidivina, è la nostra tradizione mediterranea, greca, mantenutasi valida attraverso il cristianesimo: a portarle sulla terra, è un eroe discendente da Apollo, Orfeo. Sono, pertanto, un regalo caduto dal cielo, un dono che libera l’uomo e lo consola. Orfeo è poi anche un personaggio infernale, disceso agli inferi in cerca della sua Euridice, della sua anima; e questo perché musica e poesia, discese sì dal cielo, sorgono però dall’inferno della nostra anima. Infernali e celesti, esse nascono da quel luogo intimo e segreto, inaccessibile, nel quale inferno e paradiso si confondono perché in esso risiede il ricordo, quel permanere del paradiso che illuminando il tempo reale della nostra vita e il suo fondo d’angoscia, produce l’inferno. Perché vivere è trovare nell’inferno di ogni istante l’impronta del paradiso perduto e patire, dal paradiso, l’inferno della temporalità dell’istante. La condanna dovette consistere, nel momento in cui le porte si chiusero alle nostre spalle ormai insuperbitesi, nel conservare quel tempo dell’intimità diafana con tutto, nel conservarlo, sì, soffocato dalla superficie temporale che ci pone in contatto fugace e dissipato con le cose e gli esseri frantumati: l’eternità prigioniera, la dispersione, l’unità distrutta che supplica di essere recuperata.
Poesia e musica sono, così, l’espressione più fedele dell’unità inviolata del nostro essere, di quell’ultimo spazio non spaziale, di quel tempo non temporale, che di quando in quando si apre il passo per ripristinare l’unità vivente, l’intimità luminosa perduta. La musica è ancora più attaccata all’origine, al paradiso primigenio, ma, incompleta nella sua astrazione, è la circolazione e il movimento, il ritmo staccato dai corpi, qualcosa che non dovrebbe essere udito; perché, stranamente, tutte le volte che la ascoltiamo, questa musica che raggiunge la perfezione, sentiamo che «quello» non dovrebbe essere udito ma intimamente consumato; che quello dovrebbe essere semplicemente la nostra casa, l’impalcatura del luogo nel quale – uniti, trasparenti a tutto – vivremmo senza vivere. I sensi sono astrazioni, e non ci portano altro che aspetti frammentari della perduta vita unitaria.
La poesia nasce nello stesso conflitto in cui consiste l’essere uomo: pertanto è già espressione – la musica non esprime nulla –, e persino nella lirica di maggior solitudine unisce la sua voce a quella del mondo, a quella della realtà più intera. È sempre consapevole, però, della differenza data dall’essere uomo, della differenza che l’essere uomo introduce nell’universo. È già umana, e come tutto l’umano nasce da due contrari. La situazione della poesia, però, ha di speciale che uno di quei contrari che la generano non è umano; di qui, la sua origine semidivina: figlia del tempo non lineare, dell’unità non presente, e del tempo fuggitivo, irrecuperabile, figlia diretta della memoria che testimonia a sua volta ciò che permane della vita e la sua irreparabile perdita, rivelazione celeste nella decadenza della nostra condizione attuale, è sempre memoria e nostalgia di una vita trascorsa e che non finisce di essere perduta, di un presente impotente a prendere possesso della coscienza, schiacciato dalla luce con cui questa illumina le differenze. La poesia parte dalle differenze per ritornarsene verso la primigenia unità non astratta, in questo senso è meno astratta della musica; però è musica, anche, modulata nella parola, grazie alla quale restituisce l’uomo all’intimità primigenia, è più vicina alla vita pura e intera nella quale l’astrazione non era né necessaria né possibile. A rendere necessario il cammino dell’astrazione è, infatti, la radicale impossibilità di comunicare prodotta dalla lacerazione originaria.
A paragone con esse, la pittura è semplicemente figlia dell’uomo. Non ha, che si sappia, origine divina. Inclusa unitamente alle altre arti nel delitto di Prometeo, non occupa un posto speciale. Non esiste nessun personaggio che sia disceso dai cieli per portare agli uomini il dono della pittura, o della scultura, o dell’architettura. E questo perché le arti plastiche non sono d’abord doni, ma lavori. Nella scultura questa condizione di essere un lavoro è più visibile e permanente che nella pittura, che è anche un’altra cosa: un incantesimo. L’incantesimo, però, possiede a sua volta un’intenzione pratica. Pittura e scultura non nascono dalla contemplazione, come potremmo essere indotti a credere nella maturità dei tempi in cui siamo nati; sono state, prima di tutto, una cosa: opere. E di fronte al poeta e al musicista «ispirato», visitato dalle muse, il pittore e lo scultore avranno sempre volto e figura di operai.
Il lavoro è la condizione umana più chiara ed essenziale, in cui appaiono a un tempo la condanna e l’obbedienza, il debito onorato e pagato attimo dopo attimo. Se una poesia o una canzone può sembrare che siano nate in un istante, nella pittura e nella scultura sarà sempre impresso il tempo che ci è voluto per eseguirle. In un quadro o in una statua, per intensa che sia la sua unità, non vediamo mai il frutto di un’ispirazione, ma l’opera di molti giorni, pagamento nel tempo del debito contratto con l’eternità. Solo nell’uomo nella pienezza della sua solitudine, perduto nel mondo, tremante, incalzato dalla presenza ostile delle cose nemiche e adorate, respinte e amate, può nascere il bisogno di fissare le immagini sulla parete della grotta o sulla superficie del dirupo. Solo l’uomo inerme, prigioniero del suo tempo fuggitivo, può sentire il bisogno di catturare le ombre. E questo lavoro, magia nata dalla solitudine e dall’isolamento da tutto, può scaturire soltanto dalla condizione umana consumata fino all’estremo limite.
Immagine stregata, questa è l’opera plastica nel suo rivelare innanzitutto la duplice condizione della solitudine umana: lavoro e incantamento. Riferiti, però, alla visione, alla rivelazione nella e attraverso la luce. Vivere umanamente è, sì, vedere ed essere visto; da quale profonda radice dell’esistenza nasce però questo bisogno che non si accontenta del vedere che troviamo, perché quest’ansia di tornare a vedere le cose, riflesse ora nell’opera dell’uomo? Tornare a vedere, o continuare a vedere, o vedere in altro modo? Bisogno di trovare un altro ambito, distinto da quello naturale… bisogno di una visione che sia una rivelazione. Nella luce naturale, regalata e necessaria, le cose e gli esseri restano, benché bagnati da essa, opachi; sono semplicemente visti. Mentre è proprio della condizione umana anelare, dalla sua più intima radice, a una rivelazione. E conoscere, per l’uomo, sarà soltanto tornare a vedere qualcosa di fatto da lui. L’uomo dipinge o scolpisce per tornare a vedere le cose come sono state fatte da lui, e ottenere così una rivelazione.
Rivelazione è visione che manifesta qualcosa. Se realizzata dall’uomo, però, essa è anche un’offerta. Un’offerta e un patto. Offerta alla luce nata dall’adorazione per essa, patto tra la luce e l’ombra; questo sembra essere, nel suo fondo originario, la pittura. Ciò che stiamo cercando, infatti, non è la sua origine nel senso dell’inizio della sua nascita, ma il fondo intimo e costante che continua a ispirarla.
Chissà non sia un’ossessione personale a farci scoprire, in questo fondamento delle arti plastiche, un’origine religiosa. Però non riusciamo a vederlo in altro modo: ansia di rivelazione e offerta, patto, anche, tra la luce e l’ombra che come ogni patto si scioglie in gioco, perché solo dopo che si è stretto un patto, che si è raggiunto un patto tra i contrari, si trova la libertà del gioco. E pittura e scultura, così, saranno liberazione delle cose viste nella luce naturale, gioco di luce e d’ombra, di volumi e pesi, gioco con il colore e con il peso del mondo. Gioco che è danza, perché ogni gioco lo è. Non c’è che un unico gioco con molte forme: la danza, liberazione nell’incatenamento, libertà e adorazione.
Per la pittura il mondo, le cose tutte, si offrono, e la realtà non è se non l’offerta, il sacrificio alla luce, alla visione. Offerta compiuta per mezzo del lavoro.
La Spagna, paese della plasticità
Alle cose, a un paesaggio o a un essere qualsiasi, non basta essere visibili per essere plastici, per possedere un valore plastico. Si direbbe che, quando qualcosa lo possiede, è come se volesse uscire da se stessa per espandersi con misura, raccolta in sé e traboccante, pregna di qualcosa. Forma che ne contiene altre che non si scoprono a prima vista; colori che nascondono un altro colore che lotta e si cela. La plasticità naturale è l’appello alla rivelazione, è la condizione visibile che non esaurendosi in ciò che offre, invoca, supplica, di essere rivelata. È il visibile che ha bisogno di darsi a nascere [darse a luz], è la visibilità delle cose e degli esseri in stato di parto, nel momento decisivo del dare origine ad altre forme, ad altri colori, a un’altra visibilità.
La prima, ingenua reazione a questo modo di sentire prodotto dal plastico naturale, è riprodurre, copiare. Mai, però, nemmeno nei momenti di maggiore realismo delle arti plastiche, è stato così. Ciò che è riprodotto è già un’altra cosa: un’astrazione, a fronte dei volumi e dei colori naturali; un’astrazione che è una diminuzione ma poi anche un alleggerimento, un primo passo nel gioco. Espressione dell’anima di chi lo realizza. Espressione, per molto oggettiva che sia, nel semplice gesto di sollevarlo per vederlo meglio; gesto sacerdotale che mostra ai fedeli il pane della comunione prima che venga consumato. Perché l’opera plastica viene offerta in modo sacerdotale, con leggerezza anche, con un gesto di adorazione che libera; viene offerta dall’artista a tutti come una forma di comunione. Nella vita procediamo sollecitati da una folla di immagini, di visioni, di colori e di luci, e questa molteplicità ci separa. L’immagine plastica offerta dall’arte ci chiama a una comunione in lei. Nel liberare l’immagine contenuta nella realtà plastica, l’adorazione dispersa si concentra, si crea l’oggetto adorabile, l’idolo.
Scultura e pittura creano idoli, li creeranno sempre, perfino nei momenti di maggior realismo o astrazione; idoli contenuti nel mondo materiale e opaco che sorridono liberati; idoli ormai staccati dal loro involucro e che ci dicono che la realtà, qualsiasi realtà, è sacra.
La Spagna è un paese plastico per eccellenza. In esso tutto, pietra e acqua, terra distesa in pianura o increspata in montagna, scoppia di plasticità; pallide terre spettrali della Castiglia o della Mancia traboccano nel loro raccoglimento, invocano di essere viste e guardate all’infinito, si mostrano inesauribili di forme; da esse potrebbero e dovrebbero uscire un’infinità di paesi, e di terre, e di paesaggi. Terra che chiede di riprodursi, carica di forza generatrice. E lo stesso la luce. È il nostro mistero supremo, quello che sentiamo come inesauribile. Per lungo che sia il tempo concesso alla Storia, questa verginità gravida, carica di forme e pesi e volumi, carica di immagini che chiedono di essere liberate, non sarà mai esaurita. Profondità elementare, come se nel creare questa terra Dio l’avesse subito dimenticata ed essa si fosse trovata così dotata di maggiore potenza, come se dalla sua visibilità dovessero nascere altre terre. La terra, però, il paesaggio, non si riproduce in un altro paesaggio; quando dà alla luce, ciò che partorisce sono idoli, forme sacre. Paese sacro per eccellenza, la Spagna, pieno di immagini, di idoli, ancora irrivelati.
Cadendo, la luce si raccoglie nel suo splendore; nel suo dominio, quando splende sola sulla meseta, sull’orizzonte aperto della Castiglia, o sulla pianura della Mancia, nasconde nella sua diafanità un’altra luce: è la stessa luce che chiede di essere rivelata. È una luce religiosa, ardente, di sacrificio, che proclama la propria origine nel fuoco; più che luce, è il bagliore diafano di un rogo, è realmente e più che in qualsiasi parte, più che al tropico, la luce del sole. Sì, le topiche spagnolesche, il luogo comune delle spagnolate, proclamano una realtà: la Spagna è il luogo in cui la luce dice la propria origine solare, in cui nella sua danza chiede l’offerta al Dio che ci illumina; luce e fuoco che dice del rogo cosmico, della consunzione indistruttibile, della distruzione creatrice; luce che è vita cosmica, vibrazione del centro del nostro universo, che non illumina semplicemente, non rischiara e basta; nell’illuminare, consuma, fa ardere, chiama e attrae le cose tutte verso di sé, le fa uscire da se stesse. E le cose, con la loro opacità e il loro peso, le resistono, e l’uomo deve, ha sempre dovuto, lavorare, obbligato da questo gioco a sfidarsi tra la luce e la materia, per trovare il punto di equilibrio della loro lotta.
La ricchezza plastica spagnola obbedisce così al paesaggio naturale, alla qualità permanente della prima circostanza della nostra vita: il luogo. Una volta, però, che lo si sia compreso dal fondo intimo della pittura, il suo costante splendore ci svela l’esigenza predominante dello spirito spagnolo, qualifica la sua cultura. E se quel fondo originario può essere scorto sotto ogni pittura, in quella spagnola di tutti i tempi esso è più vicino, si mostra in tutta la sua evidenza, perché la pittura spagnola è quasi sempre religiosa. Per cessare di essere profana, essa non ha avuto bisogno, come l’italiana, di trattare temi religiosi; a differenza di questa sua sorella mediterranea, essa appare tanto più religiosa – non sempre a uscire vincitrice è la religiosità che si fa carico della rappresentazione di un tema, di un’immagine, della religione ufficiale – quanto più comune e volgare è l’oggetto che tocca. Con un’eccezione, un pittore profano che risulta essere il pittore per eccellenza: Velázquez. Di qui, il fatto che l’interpretazione del suo caso sia un vero problema. E in quanto al carattere religioso del profano e a quello profano nel religioso, c’è una prova schiacciante: le Vergini spagnole, le Vergini della pittura, non delle immaginette sacre.
Tutto ciò conferma che in Spagna la pittura svolge la sua funzione in modo indipendente, senza obbedire ad altro che alla propria legge; che il carattere religioso le viene dall’essere pittura in tutta la sua purezza e nient’altro; che essa mostra la religione primitiva che scaturisce dalle viscere stesse della condizione umana. È il mistero della pittura.
Opera e mistero… perché, in Spagna, quest’attività umana ha potuto brillare in tutto il suo splendore, con una libertà senza limiti? Il contrasto appare maggiore nel momento in cui ci ricordiamo che nella nostra vita la libertà non sembra esserci mai stata, né in politica né in tutto ciò che è necessario a far fiorire con carattere di continuità quelle due creazioni della vita che sono il pensiero e l’amore. La filosofia non ha trovato nella vita della Spagna un angolo propizio, a tutt’oggi fa mostra di sé in getti isolati, priva di un ambito che assicuri la sua continuità, in condizioni sempre precarie.
Da dove viene la libertà concessa alla pittura perché compia con integrità il suo percorso e dica in ogni istante ciò che è tenuta a dire…? Ma la libertà di cui la pittura, l’arte plastica, ha bisogno, non è in alcun modo la stessa di cui hanno bisogno pensiero e amore, che non per niente sono nati insieme. La libertà di cui la pittura ha bisogno, è lei a prendersela, creandola nell’attività stessa di esistere; proviene solo dalla forza (dall’imperio) della sua necessità.
Nel momento in cui filosofia e amore vennero al mondo, la poesia e la musica avevano già sciolto le antiche catene: l’uomo si godeva la liberazione concessagli dalla poesia e da alcuni dèi da essa disegnati. Accadde in Grecia. In Spagna, però, né amore né filosofia, in mancanza di quella liberazione, hanno pienamente vissuto. In cambio, la pittura, la più oscura delle arti greche, raggiunge tra noi il proprio splendore. È quello che la Grecia non ha fatto. È la sua eredità, che noi continuiamo a completare.
Se la Grecia, tuttavia, non sviluppò la propria pittura, fu perché non glielo permise il suo amore per la luce: il genere di quest’amore, il tipo di luce che essa scoprì. Il culto greco per la luce fu la diafanità, la trasparenza, che non può dare origine alla pittura. E questo ci dice chiaramente che ben diverso è il rapporto che con la luce ha la cultura spagnola; ciò che questa le chiede e le offre, in cambio, nel suo religioso rapporto con essa, è la pittura a esprimerlo. Quello che noi le abbiamo chiesto, alla luce e alla visione, non ci ha condotto alla filosofia; non era la trasparenza del pensiero, ciò che cercavamo, ma qualche altra cosa al posto suo. L’amore della trasparenza, della diafanità, conduce inesorabilmente verso la scoperta dell’astrazione, di quella luce omogenea e senza ombre in cui le cose non sono più le cose reali, immediate, pasto dei sensi. All’origine dell’amore per la luce che conduce alla filosofia, vi è la rinuncia alla visione sensoriale e anche la rinuncia all’altra luce. La luce del pensiero filosofico non è la luce vivente del sole, ma la chiarezza, che se per Platone, il teologo di questa luce, rappresenta il principio della vita, è diversa però dalla vita stessa, dalla vita nella sua integrità: è una luce che non può illuminare alcun abisso senza ridurlo a levigata chiarezza.
Esistono un’altra luce e un altro amore per la luce. Un amore che non cerca di ridurla a una luce diversa, e che è quella forma di amore assoluto che si chiama adorazione. L’amore astrae dall’oggetto amato, per perseguirla, un’immagine ideale, la verità ultima del suo essere, forse, non però la sua realtà totale così come questa si offre. Chi ama una qualsiasi realtà rifiuterà sempre, senza rendersene conto, la sua apparenza immediata, per immergersi nella ricerca della sua esistenza più alta. L’adorazione, in cambio, incapace di scegliere, prende e assorbe tutto, è assoluta e assolutista, sprofonda e annega, si perde e si rende schiava. L’amore della Spagna per la luce è un’adorazione che la rende sua schiava.
E l’adorazione è assoluta anche nel suo concedersi, senza condizioni o patti di sorta. «Tutto il sangue di Spagna per una goccia di luce», ha detto nel momento estremo del nostro ultimo sacrificio il poeta León Felipe. Il sacrificio è il modo di porsi dello spirito spagnolo.
Ci siamo trovati a fare, così, quello che non aveva fatto la Grecia, quello che era rimasto sopraffatto dalla luce trionfante del pensiero e dell’amore che astrae e idealizza. Anche in Grecia, però, esisteva un amore di sacrificio, vivo soprattutto nelle religioni di origine più o meno orientale, dei misteri. La pittura non è figlia della luce diafana, trasparente, della filosofia, ma della luce religiosa dei misteri.
La pittura spagnola è un mistero. Qualcosa, cioè, che non accade nella luce naturale, ma che adorando questa luce cerca in essa l’illuminazione di ciò che essa non rischiara. Non è la trasparenza dell’idea, quello che essa le chiede, ma la chiarezza. La sua supplica, nel sacrificio che le offre, è un’altra, fino a un certo punto opposta: le offre il proprio sangue perché lo illumini, non si accontenta, come l’intellettuale greco, della luce naturale, ma le chiede che si interiorizzi, che penetri nei luoghi in cui si sofferma, che si raccolga in sé come raccolta in sé è la carne. Le chiede che penetri nella carne, che si faccia al pari di questa misteriosa e raccolta in sé.
Lungi dal rinunciare a quello che trovano i sensi, chiede alla luce che si sottometta a essi; che non li contraddica, ma che li potenzi e li faccia suoi; che li conduca, senza distruggerli, a un’assunzione.
[Chiede alla] Luce che attraversi, che trafigga, che si incendi e incendi, senza distruggere, come se fosse possibile che questa combustione pura si consumasse in un incendio; [chiede] che si trasferisca sulla terra la fonte della luce solare, il suo stesso fuoco centrale, e che le cose opache e fredde vibrino e siano se stesse. Che la materia non si illumini, ma si incendi. È la luce della resurrezione. Che penetri nella vita stessa della carne, nel suo processo, nella stessa agonia. Prima di vedere, chiede che la luce si trasfonda nei corpi, per poterli poi vedere, ormai trasfigurati da essa, senza che abbiano perso nulla della loro materialità.
Di qui il genere di repulsione rinvenibile in tutta la pittura spagnola, comprese le immagini sacre. E, per le immagini ideali o idealizzate, il profondo antiitalianismo della nostra tradizione più consolidata. La replica alla pittura italiana, Velázquez, continuerà su questa linea arrivando a sottolineare, come nessun altro, questo rigetto dell’idealizzazione: i suoi dèi, i suoi personaggi, non avranno mai un alone; anche la santità si insinua in lui attorno alla scodella di vino de Los borrachos, con la prosaica figura del Dio lasciata in disparte. Solo due immagini idealizzate ricordiamo, del Prado: il Cristo di Velázquez e la Maja desnuda di Goya. Due figure di comunione, offerte nella luce più diafana, sognata e astratta che si sia potuta dipingere in Spagna: bianco come l’ostia rituale il corpo di Cristo, semidorato quello della Maja.
La metafisica dei sensi
Perché nell’arte plastica entra, con la visibilità, un altro senso: il tatto; e ancora un terzo, quello grazie al quale ci si rivela la corporeità delle cose: il loro peso. Se la vista è il senso specifico che crea l’ambito nella quale l’arte plastica si definisce, c’è però in essa un valore sensuale più profondo, più oscuro, che si riferisce al corpo come tale e che, se si chiarisce nella visione, lo precede e sostiene; un senso in cui i corpi, la materialità, si presentano. Un senso generico che dev’essere il tesoro supremo dei ciechi, quello che abita la loro solitudine. È la cognizione e il sapere che un essere corporeo ha di essere circondato da altri, di appartenere al modo d’essere della corporeità; l’annuncio della sua condizione. E nella pittura e nella scultura spagnola troviamo il massimo godimento, l’orgia, quasi, di questo senso oscuro, cecità sulla quale la visione riposa.
Esiste, infatti, senza dubbio, oltre ai sensi tradizionalmente conosciuti e a quelli ammessi dalla recente psicologia, un generico senso anteriore, qualcosa come il fondo sensoriale oscuro e indifferenziato sul quale si elevano gli specifici percorsi dei sensi; un fondo del quale questi sono la differenziazione e la specializzazione.
Nelle arti esiste senz’altro una specializzazione dei sensi, e molti stili potrebbero essere definiti in base al grado di purezza e solitudine raggiunto da qualcuno di essi. Per esempio, la vista nella pittura italiana. L’idealismo della pittura italiana è radicato nella purezza della vista come senso, nella solitudine della vista che si è astenuta da qualsiasi mescolanza o allusione agli altri sensi e che si è anche sradicata da quell’oscuro fondo sensoriale. Non così nella spagnola, in cui la vista, per pura e alta che sia, per perfetta che sia la sua acutezza, riposa sempre sul fondo originario del sentire corporeo, sulla sensazione indifferenziata di ciò che è corporale; e in cui la stessa visione sensuale è la meno astratta possibile.
Si direbbe che, lungi dall’estraniarsi dal suo fondo sensuale, la vista vi si immerga, che nel nostro modo di guardare noi si voglia prendere possesso di tutto ciò che di corporale vi è in un corpo; vederlo da dentro, sentirlo, anche, nella sua superficie luminosa stessa, che non ci sfugga nel momento in cui viene visto nella luce. E che nel venire illuminato non perda nulla della sua condizione oscura, di quella magica oscurità di tenebre in cui i corpi hanno più intensità che nella luce, che non si perda il mistero dell’esistenza nuda nelle tenebre.
Di qui, il fatto che il patto tra la luce e l’ombra sia a volte lotta. Perché nel momento in cui l’oggetto è illuminato, prima che divenga diafano, l’ombra riafferma il proprio dominio, non circondandolo come in Rembrandt ma nella luce stessa, nell’oggetto stesso, facendogli così raggiungere la massima intensità; l’intensità della luce che illumina e delle tenebre, della pura realtà nuda nelle tenebre. Così accade in Goya, massimo genio della pittura spagnola, nel quale si realizza quella cosa tanto rara che è lo splendore della realtà corporea tra la luce che lo rende visibile e le tenebre in cui esso acquista la pienezza del proprio mistero.
Se è in Goya che culmina il mistero della nostra pittura, è in Zurbarán che si trova il suo più autentico punto focale. Goya raggiunse la pienezza per mezzo della completa libertà di cui godette. Zurbarán, invece, è, in mezzo all’italianismo del momento (e senza lasciarsi trascinare da Velázquez), la fedeltà stessa al significato originale della pittura spagnola. È il suo canone, il suo centro, il suo dogma originario, al quale bisognerà tornare sempre come alla certezza ultima di pittori e contemplatori. In tutte le grandi pitture, e forse in tutte le arti, esiste qualcuno che, attaccato alla terra e alla tradizione, nel modo più innocente, ha realizzato il canone senza esserselo proposto. Egli è di solito oscurato dallo splendore del «grande classico» che sviluppa e mette anche in pericolo questa fedeltà al più originario, e di fronte al quale l’artista che potremmo chiamare «primitivo» rimane come qualcosa di limitato e un tanto misterioso. Bisogna scoprirlo.
E non è sicuramente che Zurbarán sia uno sconosciuto nella nostra tradizione, però attendeva la propria valorizzazione ed è lì silenzioso che aspetta di averla o forse non la aspetta perché vive estraneo a essa. Questi artisti sogliono essere persone oscure e quasi anonime, senza una biografia, voglio dire. E hanno molto del buon artigiano sprovvisto di pretese artistiche, tanto da dare l’impressione che si stupirebbero se si parlasse loro del posto della loro arte o del suo significato nella storia. Di questo, nulla seppero: lo presentirono. In loro, tutto era dono naturale e mestiere o, in sostanza, obbedienza, pura pietà al servizio di un’arte. Esenti dai vacillamenti della coscienza, essi attraversarono la loro epoca con l’infallibilità del bravo asino da carico; si presero sulle spalle, senza saperlo, l’intero carico della tradizione. Viene a cadere su di loro, così, come un alone permanente, l’umiltà procurata da una perfetta sottomissione. Ed essi arrivano, come tutti gli umili di cuore, più lontano di dove si prefiggono.
Io davvero non so se Zurbarán si sia proposto di darci la visione delle cose che corrisponde ai nostri mistici. Però lo ha fatto. Tremenda lezione per tutti i preraffaelliti e i loro simili; per tutti quelli che, partendo dalla coscienza, e soprattutto dai risultati di un’altra arte o di un’altra disciplina spirituale, pretendono di eguagliarli nella pittura. Perché è nella legge delle cose che ognuno si attenga alle regole del proprio gioco, come l’«Antón» della canzone infantile,1 e che solo immergendosi nella propria contemplazione, ossia nella contemplazione che è parte della lotta del proprio mestiere, si raggiunga un risultato equivalente.
Le lane degli abiti frateschi, i tavoli di pino, i sandali, le mani e i visi dipinti con identica onestà, ci vengono offerti da Zurbarán con quella perfezione che emana solo dai sacrifici perfettamente compiuti. Il sacrificio del corpo alla luce e della luce che si piega entrando nel corpo, senza distruggerlo. Nulla si annichila, nella sua pittura; abbiamo, così, una specie di realtà superiore a quella che vediamo e viviamo. Perché noi non vediamo mai la realtà come potremmo vederla; forse solo il mistico raggiunge tale, più intensa visione.
Se di santi pittori non ne sono esistiti, mentre ci sono stati invece santi poeti, è perché la parola si è presa tutto il privilegio di esprimere la vita di queste anime. Ed è un peccato, perché, se ce ne fossero stati, verrebbe spazzato via il luogo comune secondo cui l’intensità della vita spirituale annulla quella corporea, annulla e distrugge i sensi. La poesia di San Giovanni della Croce non è sufficiente ad aver ragione di questa sciocca topica. È ben vero che la dottrina ascetica ortodossa prescrive una rinuncia ai sensi e persino un loro annichilimento, però il risultato ci dice che tale annichilimento è una trasformazione; che i sensi vengono, sì, distrutti, ma solo nella loro forma comune, per essere poi condotti per non sappiamo quale recondito cammino a una superiore acutezza e a un’unione tra di loro, tra di loro e l’intelligenza, tale da produrre una percezione più intensa e totale, un abbracciare la realtà e penetrarla. Oscar Wilde, tutto meno che un santo, ci ha dato forse la formula giusta: «Solo i sensi curano l’anima e solo l’anima i sensi». E una tale cura è, come tutte le cure, frutto di un ravvivamento, di un rinascimento. Lo troviamo nel legato dei mistici e nelle opere di pittori come Zurbarán. Nei modi di una visione diversa che fa della sua pittura un mondo a parte, conferendole un valore che va oltre la sua tecnica e le sue implicazioni.
Roma, 1960
1 La «canzone infantile» alla quale l’Autrice si riferisce dice così: «Antón, Antón, Antón caramellaio/che ognuno, ognuno, ognuno stia attento al suo gioco/e chi non starà attento/pagherà pegno» [n.d.t.].