La maggior parte delle testimonianze degli anni tra il 1912 e il 1914 descrive l’imminenza della seconda guerra mondiale come una tenebra incombente su tutta l’Europa, ma i primi anni universitari di Benjamin a Friburgo e a Berlino furono occupati da pensieri molto diversi. In quegli anni egli concentrò inizialmente i suoi studi su ciò che potremmo definire una «filosofia della cultura». Ma ancor piú significativa fu l’elaborazione da parte di Benjamin di un’esplicita e aspra critica della vita accademica, esposta all’inizio in una serie di saggi brillanti ma estremamente esoterici, e per lo piú inediti. Egli emerse comunque sempre piú distintamente come leader e oratore in diversi gruppi studenteschi associati a quello che oggi viene definito Movimento tedesco della gioventú. I suoi primi scritti, con i quali intendeva influenzare un vasto pubblico, nacquero dal suo intenso coinvolgimento nella vita studentesca. E quando prese in considerazione l’idea di assumere un ruolo pubblico, egli fu costretto per la prima volta a interrogarsi sulla propria identità ebraica.

Benjamin incominciò i suoi studi universitari nell’aprile 1912 alla Albert-Ludwig-Universität di Friburgo, uno dei piú antichi e rinomati atenei tedeschi. Friburgo era una tranquilla cittadina nota piú per la bellezza dei suoi paesaggi sul versante meridionale della Foresta Nera che per la sua vita culturale. È difficile immaginare un contrasto maggiore col trambusto berlinese, anche se Friburgo sarebbe diventata ben presto il centro della fenomenologia, il nuovo movimento filosofico sviluppatosi intorno all’insegnamento di Edmund Husserl e del suo rivoluzionario allievo Martin Heidegger, piú vecchio di Benjamin di tre anni. Per continuare gli studi letterari Benjamin si iscrisse al Dipartimento di filologia, e nel semestre estivo frequentò piú lezioni di quante ne avrebbe frequentate in tutti i semestri successivi, e sui piú diversi argomenti. Tra queste, corsi sulla vita religiosa nella tarda antichità, sulla letteratura tedesca medievale, sulla storia del XVI secolo (il docente era il famoso storico Friedrich Meinecke), sulla visione del mondo di Kant, sulla filosofia della cultura contemporanea, su stile e tecniche nelle arti grafiche, e un’introduzione alla teoria della conoscenza e alla metafisica.

Quest’ultimo corso, frequentato da piú di un centinaio di studenti, era tenuto dall’eminente filosofo neokantiano Heinrich Rickert, la cui dottrina prendeva le mosse da una critica sia del positivismo (l’idea comtiana che i dati dell’esperienza sensoriale sono l’unica fonte valida di conoscenza) sia del vitalismo (l’interesse filosofico per la «vita in sé», nato dalla critica di Schopenhauer e di Nietzsche al razionalismo kantiano). Il contributo di Rickert consisteva in una rivalutazione teorica della storia e della cultura. Nonostante l’impostazione logico-scientifica della sua trattazione, l’orientamento storico dell’analisi di Rickert – che rifletteva la svolta verso la storia dei problemi (Problemgeschichte), caratteristica della scuola kantiana sud-occidentale – e il suo tentativo di risolvere teoricamente l’opposizione fra spirito e natura, forma e contenuto, soggetto e oggetto, e andare quindi oltre Kant, avrebbero esercitato su Benjamin un influsso tutt’altro che trascurabile. Di fatto, le ricerche filosofiche ed estetiche di Benjamin del decennio successivo possono essere considerate momenti significativi di adesione e di allontanamento dall’orbita del neokantismo di Rickert e di Hermann Cohen, docente di filosofia a Marburgo. Al punto che nel suo ultimo anno di vita scrisse a Theodor Adorno, con il quale aveva sempre minimizzato le influenze romantiche sul proprio pensiero, di essere «un allievo di Rickert (come lei lo è di Cornelius)» (BA, 434; GB, VI, 455).

Anche il giovane Heidegger frequentava le lezioni di Rickert sulla teoria della conoscenza e sulla metafisica: sotto la sua guida avrebbe scritto la dissertazione di dottorato, prima che Rickert si trasferisse a Heidelberg nel 1916 (quando a Friburgo sarebbe stato sostituito da Husserl). L’estate successiva Heidegger e Benjamin avrebbero frequentato insieme anche il corso di Rickert sulla logica (in realtà una nuova «filosofia della vita») e il seminario sulla filosofia di Henri Bergson a esso collegato: viene spontaneo pensare che durante il seminario abbiano avuto modo di conoscersi. Ma per quanto ne sappiamo non ci fu mai tra di loro nessun contatto personale; benché i loro scritti manifestino cosí tanti punti di contatto, la loro vita fu in tutto e per tutto diversa, e Benjamin conobbe i primi scritti di Heidegger solo quattro anni piú tardi ricavandone, per la verità, un’impressione negativa1.

Nutrendo eccessive aspettative riguardo alla sua formazione superiore, Benjamin visse il suo primo semestre come un «diluvio» e come un «caos» – cosí scrisse a Herbert Belmore, il suo principale corrispondente dei primi due anni di università. Qualche volta riusciva a sottrarsi all’«incubo del “superlavoro”» abbandonandosi alla «piacevole divagazione di un giro per la città ai margini dell’università, in una mattina radiosa» (GB, I, 46); quanto a bellezza del paesaggio e giornate di sole la Germania sud-occidentale era molto piú attraente della nativa Berlino. Ma piú spesso egli si sentiva costretto a sopportare ciò che definiva «il tempo di Friburgo», la cui caratteristica era di includere un passato e un futuro, ma mai un presente. Alla metà di maggio scrive a Belmore: «È un fatto che qui riesco a dedicarmi autonomamente alla ricerca scientifica appena un decimo di quanto facessi a Berlino» (GB, I, 48).

Figura 1.

Walter Benjamin studente, 1912 circa.

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Figura 2.

Herbert Belmore, 1923 circa.

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Forse, la decisione di studiare in provincia, a Friburgo, fu dettata non tanto dal prestigio di professori come Rickert e Meinecke quanto dal fatto che Friburgo era diventata a quel tempo un centro del movimento studentesco radicale. Fu la prima di numerose università tedesche in cui fu concesso agli studenti di mettere in pratica una decisiva proposta strategica di Gustav Wyneken: istituire dei gruppi per la riforma scolastica (Abteilungen für Schulreform) all’interno delle libere associazioni studentesche (Freie Studentenschaften). In molte università tedesche, alla svolta del secolo, erano state istituite, in opposizione alle associazioni ufficiali come le confraternite o le associazioni duellanti, libere associazioni studentesche con lo scopo di diffondere gli ideali educativi liberali del XIX secolo, come l’intrinseca unità delle discipline accademiche e lo sviluppo della personalità individuale nel contesto di una comunità di studiosi. Il movimento dei Liberi studenti era il principale organo universitario dello Jugendbewegung, il movimento nazionale giovanile sviluppatosi inizialmente da gruppi ristretti ma molto ben organizzati di ragazzi che si divertivano a vagare nelle campagne intorno a Berlino2. Questi gruppi, i Wandervögel (uccelli migratori), furono fondati ufficialmente nel quartiere di Steglitz a Berlino nel 1901, ma si riunivano informalmente da anni per dedicarsi al mondo della natura e vivere secondo abitudini semplici mutuate dalla vita all’aperto. Quando gruppi giovanili vagamente ispirati ai Wandervögel si diffusero in tutta la Germania, il blando anti-intellettualismo e l’impronta apolitica dei gruppi originari – «queste baccanti dissolute, dai capelli lunghi […] che vagano tra campi e boschi strimpellando con le loro chitarre» – cedettero il passo ai piú vari interessi particolari e l’originaria aggregazione di circoli si trasformò in un movimento giovanile3. Nel 1912 la Freideutsche Jugend (Libera gioventú tedesca), sotto la cui egida si era organizzato il movimento, raggruppava elementi che spaziavano dagli ideali pacifisti cari a Benjamin, al nazionalismo piú violento, al piú reazionario antisemitismo.

I seguaci di Wyneken non erano il gruppo piú numeroso – si stimava che nel 1914 riunisse circa tremila membri – ma erano certamente quello con il profilo pubblico piú definito, in virtú del loro modello antiautoritario della libera comunità scolastica di Wickersdorf e in quanto avanguardia dichiarata del movimento. Si presentavano come sostenitori della riforma dell’università e della cultura, ma il loro obiettivo era la riforma delle coscienze in generale e della coscienza «borghese» in particolare. Nella sua ottica comunista, Hilde Benjamin, moglie e biografa del fratello Georg, considerava i giovani e le ragazze intorno a Wyneken come un’«élite intellettuale». Nella sua biografia riporta una relazione collettiva sulle vicende del movimento fra i giovani della classe operaia tedesca:

Gli albori di questo movimento giovanile di contestazione borghese risalgono alla svolta del secolo. Molti studenti delle scuole superiori, soprattutto giovani di provenienza borghese e piccolo-borghese, entrarono in conflitto con l’atmosfera autoritaria dominante nelle scuole secondarie, condizionata per lo piú da insegnanti rigidi e pedanti che pretendevano dagli allievi obbedienza incondizionata. La repressione di ogni autonoma iniziativa intellettuale, l’adesione acritica del programma educativo all’ideologia dell’addestramento militare e al culto della monarchia contrastavano con gli ideali umanistici ai quali ci si appellava nell’insegnamento. Inoltre, agli occhi di tanti giovani i precetti borghesi della famiglia d’origine, la ricerca del profitto e l’ipocrisia, il servilismo e l’insensibilità che ne derivavano erano detestabili. Molti di questi giovani si iscrissero all’università, dove mantennero lo spirito dei Wandervögel. Rifiutarono le pratiche dei circoli studenteschi reazionari, l’ossessione per i duelli e l’alcol, lo sciovinismo, l’arroganza e il disprezzo per il popolo. […] Ciò che soprattutto motivava l’anticonformismo di questi giovani non era l’ordine sociale esistente ma un conflitto generazionale. […] Essi rifiutavano ogni intervento attivo nei conflitti politici dell’epoca. Il loro obiettivo era educare coloro che conformano la propria vita «ai propri principî, assumendosi le proprie responsabilità e nella fedeltà a se stessi»4.

Chiunque esamini il «programma etico» contenuto negli scritti prebellici di Benjamin in qualità di attivista studentesco, con le dettagliate accuse degli insensati esercizi in classe, del filisteismo anestetizzante nato dalla collusione tra la scuola e la famiglia, troverà non poche corrispondenze con l’«anticonformismo» intellettuale e spirituale lí descritto.

Ma alla fine i seguaci di Wyneken rimasero una voce minoritaria tra i Liberi studenti, in maggioranza ben piú conservatori. L’obiettivo dei gruppi per la riforma scolastica, attraverso i quali per un certo periodo Wyneken esercitò la sua influenza sulla vita studentesca universitaria, consisteva nell’offrire integrazioni ai corsi ufficiali, ampliando in questo modo l’orizzonte educativo al di là della formazione professionale strettamente specialistica. Il gruppo per la riforma scolastica di Friburgo, che organizzò un ciclo di conferenze all’università e circoli di discussione serale, offrí a Benjamin un’altra occasione per compiere la sua missione di «restituire le persone alla loro giovinezza» (L, 24). Quella stessa estate apparve un suo saggio, La riforma scolastica: un movimento culturale, in un pamphlet pubblicato in diecimila copie dal gruppo per la riforma scolastica di Friburgo e distribuito gratuitamente in tutte le università tedesche. Sotto il nuovo pseudonimo di «Eckart, phil.», Benjamin sostiene che riformare la scuola non significa modificare la modalità di trasmissione dei valori, ma trasformare radicalmente i valori stessi. Oltre la cornice istituzionale in quanto tale, la riforma dell’educazione coinvolge un intero modo di pensare; non implica tanto una riorganizzazione dell’educazione in senso stretto quanto un vasto programma etico. Ma l’educazione non si esaurisce pensandola sub specie aeternitatis (secondo la famosa formulazione di Spinoza); noi «viviamo e agiamo sub specie aeternitatis». L’educazione può aiutare la maturazione culturale, definita come «il naturale sviluppo progressivo dell’umanità» (OC, I, 81), solo in quanto è un ampliamento degli orizzonti personali e sociali. Tre anni dopo, nell’esposizione fondamentale della sua filosofia della gioventú, La vita degli studenti, distingue piú nettamente il vero «compito storico» dalle confuse concezioni del «progresso» umano come temporalità lineare e continua.

Figura 3.

Gustav Wyneken a Haubinda, 1906.

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L’idea di Benjamin di risvegliare la gioventú si basa sull’insegnamento di Wyneken, ma le sue radici risalgono in realtà al pensiero tedesco del XIX secolo, da Schlegel e Novalis a Nietzsche; essa si esprime non solo nelle lettere ma soprattutto in numerosi articoli degli anni tra il 1911 e il 1915. In questo gran numero di scritti, ben piú che semplici esercizi giovanili, si manifesta l’originalità che avrebbe caratterizzato tutte le opere successive di Benjamin. Egli non ridusse mai il progetto della cultura giovanile al programma di riforma scolastica ma aspirò sempre a una rivoluzione nel pensiero e nei sentimenti. Solo una trasformazione culturale poteva determinare un cambiamento istituzionale significativo. La gioventú era vista come l’avanguardia di un’«umanità nuova» e di «un modo radicalmente nuovo di vedere» (OC, I, 30, 167). Essa rappresentava non tanto un movimento politico-culturale ma una filosofia della vita, o una filosofia viva – meglio ancora, una filosofia del tempo storico e della religione. Per il giovane Benjamin queste dimensioni del pensiero erano strettamente legate l’una all’altra nell’autentico concetto tedesco di spirito, Geist. La gioventú era definita «senso costante, vibrante [vibrierende] per l’astrattezza del puro spirito» (L, 20), come emerge da una delle lettere piú infervorate scritte fra il 1913 e il 1914 alla sua amica e compagna di lotta Carla Seligson, studentessa di medicina a Berlino e poi moglie di Herbert Belmore. Quasi ogni frase ha una carica esoterica, pensata per far esplodere la logica dei padri. Carla aveva chiesto: «Come è possibile?» Turbato, egli risponde in termini decisamente mistici: il fine è semplicemente il sentimento della giovinezza in se stesso, qualcosa di cui non tutti sono capaci – «la grande felicità della sua presenza». In altre parole, il fine non è «progredire», ma il compimento (Vollendung, un termine centrale in Rickert), qualcosa di immanente in ogni individuo che diventa giovane. Quindi prosegue:

Oggi ho sentito l’immensa verità delle parole di Cristo: Vedete, il regno di Dio non è in un luogo o nell’altro, ma dentro di noi. Vorrei leggere con Lei il dialogo di Platone sull’amore, dove questo pensiero è sviluppato con piú profondità ed espresso in forma cosí bella che non si ritrovano altrove (L, 20 – 15 settembre 1913)5.

Essere giovani, afferma, non significa essere al servizio dello spirito ma attenderlo. (Il che ricorda l’idea di Amleto dell’«essere pronti», che si ricollega all’intento di battersi)6. La terminologia quasi teologica indica ciò che è in gioco nell’«astrattezza» dello spirito: piuttosto che irrigidirsi in una determinata posizione, l’anima vibrante, «eternamente realizzante» del giovane mantiene lo sguardo libero. Benjamin scrive infatti: «Questa è la cosa piú importante: non dobbiamo ancorarci a un pensiero determinato, [neppure] sul pensiero della cultura giovanile» (L, 20; cfr. anche 18, sulla libertà). In altre parole, bando ai dogmi e a un sistema rigido, chiuso, per non dire alla partigianeria; occorre illuminazione (Erleuchterung), che porti alla luce «lo spirito piú lontano». Benché queste idee ricordino un romanticismo «ingenuo» che piú tardi Benjamin avrebbe decisamente rifiutato (OC, VI, 63), esse rivelano la radice di quell’ambiguità costitutiva che incontriamo nei suoi scritti piú significativi – ambiguità che esprime la concezione dinamica, dialettica della verità come rivelazione che si mantiene fedele a ciò che nasconde. Non la verità su qualcosa, ma la verità in qualcosa7.

La domanda di Carla Seligson «Com’è possibile?» era in realtà un invito all’azione politica; la risposta di Benjamin sposta l’attenzione dall’invito all’azione all’orizzonte delle idee, idee molto elevate per di piú. Nei suoi scritti degli anni universitari Benjamin si occupò direttamente di politica solo in rare occasioni. Nel Dialogo sulla religiosità contemporanea, dell’autunno 1912, egli immagina un «socialismo onesto» contrapposto a quello odierno, cosí convenzionale (OC, I, 131). E in una lettera a un amico sionista, Ludwig Strauss, egli accenna quasi casualmente alla propria indecisione fra l’orientamento socialdemocratico e di sinistra liberale. In ogni caso, aggiunge, dato che la politica è il veicolo dei partiti politici, non delle idee, in definitiva l’azione politica si riduce a questo: l’arte di scegliere il male minore (GB, I, 82-83). Ciò nonostante, la fede nell’«educazione» – l’idea che la politica inizi con l’educazione e si realizzi nella cultura – lo avrebbe indotto, negli ultimi anni della sua vita universitaria, ad assumere un ruolo sempre piú in vista nell’organizzazione politica della corrente del movimento giovanile in cui militava. E avrebbe continuato a orientare la sua opposizione alla scuola e alla famiglia e a costituire un modello per il suo rigoroso programma etico, con venature estetiche.

L’elemento specificamente etico del suo pensiero è un’idea dell’amicizia che, come tante altre idee diffuse nelle correnti riformiste dell’epoca, ha importanti precedenti classici: in questo caso l’idea platonica della philia (l’amicizia tra eguali) come tramite per la realizzazione della comunità perfetta. Ebbero forse una certa influenza anche l’idea di Nietzsche della polis come aggregazione di «cento solitudini profonde» e quella kantiana della «socialità asociale». L’espressione di Benjamin, eine Freundschaft der fremden Freunde, l’amicizia di amici tra loro distanti (GB, I, 182), evoca la dialettica della solitudine e della comunità alla quale spesso ricorre nelle lettere di questo periodo. E si riflette nell’atteggiamento adottato nei rapporti umani per tutto il resto della sua vita. La solitudine deve essere coltivata come presupposto della vera comunità, la quale non può che essere comunità di menti e di coscienze individuali. In questa convinzione hanno la loro radice le complesse strategie di distanziamento che nel corso della sua vita Benjamin mise in atto quasi in ogni rapporto: gli atteggiamenti rigidamente codificati, il muro impenetrabile eretto fra sé e i suoi amici, la rigorosa elusione di ogni accenno a questioni personali nelle conversazioni e nelle lettere.

Ma allo stesso tempo, per essere sensata o efficace, la solitudine presuppone una comunità vitale:

dove sono quelli che oggi sono soli? Anche alla solitudine può portarli soltanto un’idea o una comunanza di idee. È vero, credo persino che soltanto un uomo che ha fatto propria l’idea (non importa «quale») possa essere solo; egli, credo, deve essere solo. […] Ma la solitudine piú profonda è quella dell’uomo ideale nel rapporto con l’idea, che distrugge il suo momento umano. E questa solitudine, la piú profonda, ci può essere data solo da una comunità perfetta. […] Per la solitudine fra gli uomini [Einsamkeit unter Menschen], che oggi è conosciuta solo da pochissimi, devono essere create le condizioni (L, 15-16).

In un’altra lettera dello stesso periodo (estate 1913) suggerisce ciò che ha in mente quando parla delle «condizioni» della solitudine profonda nella comunità, dell’ideale annullamento di ciò che è «troppo umano», spiegando di sentire «tutta la nostra umanità come un sacrificio allo spirito» e che non si possono tollerare interessi privati di nessun tipo, «nessun animo privato, nessuna volontà, nessuno spirito privato» (L, 10). Queste regole, che oltre a un astratto entusiasmo giovanile denotano un elitario rigore morale, appaiono singolari in un uomo che neanche un decennio dopo collezionava entusiasta libri rari e illustrazioni originali per il proprio piacere e che proteggeva accuratamente la sua vita privata anche dagli amici piú stretti – peraltro contestando, va detto, la concezione tipicamente borghese della proprietà privata. Ma queste contraddizioni erano tipiche del suo carattere multiforme e si armonizzavano con ciò che egli stesso definí «la totalità mobile e contraddittoria» costituita dalle sue convinzioni (TU, 127). Dal punto di vista di Benjamin il rapporto tra filosofia e politica non fu mai di reciproca esclusione, ed egli tentava in continuazione di associarsi a gruppi ai quali quasi sempre, per carattere se non ideologicamente, mal si adattava. In una lettera del 23 giugno 1913 avrebbe scritto: «la redenzione dell’irredimibile [è] un senso del mondo decretato da noi» (L, 9)8. L’atteggiamento di Benjamin è al contempo aristocratico ed egualitario e non è affatto diverso dalle testimonianze piú sfumate che emergono dagli abissi dell’esilio e della miseria.

Se negli anni precedenti la prima guerra mondiale l’antagonismo classico tra philosophia e politeia non poteva piú essere risolto attraverso le soluzioni precostituite di un tempo, esso forniva tuttavia l’occasione per chiarire e rielaborare i suoi presupposti teorici. Sotto questo aspetto gli scritti giovanili di Benjamin costituiscono il laboratorio della sua filosofia successiva. Ciò emerge con assoluta evidenza in relazione al problema del tempo, sul quale si esercitarono alcune delle migliori menti della sua epoca. Nell’esperienza di sé, della propria presenza, tipica della gioventú – la gioventú come sede di una «rivoluzione spirituale permanente» (OC, I, 257) – è decisivo l’ampliamento della nozione stessa di presente, di quella presenza (Gegenwart) che si può solo attendere (erwarten). Come è evidente, la concezione di Benjamin della storia è fin dall’inizio metafisica. Vale a dire, essa trascende la concezione cronologica del tempo considerando, in ogni suo momento, la totalità del tempo (OC, VIII, 75; Benjamin usa il termine Gesamtheit). La storia è lotta tra passato e futuro (OC, I, 170) e il luogo dinamico di questa lotta è il presente. Già Nietzsche aveva sostenuto la priorità epistemologica del presente nel suo saggio Sull’utilità e il danno della storia per la vita, citato da Benjamin in un articolo del 1913 su «Der Anfang», intitolato Insegnamento e valutazione. Nella sesta sezione del suo saggio Nietzsche definisce una legge dell’interpretazione storica: «Solo con la massima forza del presente [Kraft der Gegenwart] voi potete interpretare il passato», poiché «il responso del passato è sempre un responso oracolare»9. Non siamo lontani da quanto afferma Novalis in un frammento su Goethe del periodo 1797-1800: «ci si sbaglia di grosso se si crede che esistano “antichità”. Soltanto ora l’antichità incomincia a sorgere. Essa si forma davanti agli occhi e all’anima dell’artista»10. All’inizio del saggio La vita degli studenti Benjamin richiama la critica di Nietzsche dello storicismo ottocentesco – la critica della teoria di Ranke che il passato possa essere conosciuto in modo oggettivo, «com’era realmente». Anziché considerare la storia come un’estensione infinita del tempo, un continuum omogeneo di eventi visti come cause ed effetti, egli la concepisce come raccolta e concentrata nel momento attuale, come in un «punto focale» (Brennpunkt). Il compito critico-storico ricordato prima non è né la ricerca del progresso né la restituzione del passato, ma lo scavo del nostro presente, la liberazione delle sue energie nascoste. In ogni presente è infatti inglobato uno «stato immanente della perfezione» che consiste nei pensieri piú «minacciati» e «malfamati» (OC, I, 250), e proprio queste distorsioni che giacciono nel suo grembo profondo sfuggono allo sguardo dello storico tradizionale.

L’idea del presente come dialettica vivente del passato e del futuro permea la Metafisica della gioventú scritta tra il 1913 e il 1914, forse il piú importante dei saggi inediti del giovane Benjamin. In questo testo Benjamin parla del presente che è sempre stato (die ewig gewesene Gegenwart). Ciò che noi facciamo e pensiamo è colmo dell’essere dei padri – il quale, essendo passato, diviene futuro. Ogni giorno, come dormienti, usiamo «forze immense» del passato che si rinnova. A volte, al risveglio, ricordiamo il sogno e riportiamo «alla luce del giorno» le sue energie spettrali. In questo modo chi si risveglia fortifica se stesso sognando, e «rari lampi» illuminano le profondità stratificate del presente11. Risvegliando il suo stesso potere evocativo storico, il presente si appella a una decisione e attraverso di essa, radicandosi nel passato, fonda il futuro (si veda La posizione religiosa della nuova gioventú, OC, I, 207-9). In questo scritto il motivo del «risveglio della gioventú» anticipa chiaramente un tema centrale del suo pensiero successivo, vale a dire l’immagine dialettica di un insieme temporaneo di tensioni storiche, un campo di forze nascenti nel quale l’adesso del riconoscimento si desta da «quel sogno che chiamiamo passato» e vi ritorna12. Ciò che è in questione in questa dialettica storica è l’«arte di esperire il presente come il mondo della veglia [die Gegenwart als Wachwelt]», ciò che piú tardi chiamerà l’«adesso»13.

La pubblicazione del primo nucleo di scritti autonomi di Benjamin accompagna la sua crescita come giovane adulto. La distaccata alterigia morale che si coglie in questi scritti era in una certa misura l’eredità di Wyneken, ma molte delle posizioni espresse in questi anni erano peculiari di Benjamin e avrebbero caratterizzato gran parte dei suoi scritti degli anni successivi. Quando nel 1932, nell’imminenza dell’esilio, ricorderà i suoi giorni come studente Benjamin non esiterà ad ammettere che il movimento giovanile era destinato al fallimento perché privo di radici nella vita della mente:

Era un tentativo estremo, eroico, di cambiare l’atteggiamento della gente senza mettere in discussione la loro posizione. Non sapevamo che era destinato al fallimento, ma anche sapendolo difficilmente qualcuno di noi avrebbe cambiato idea (OC, V, 258).

In molti casi, quando dal consapevole tono esortativo di questi primi scritti vediamo emergere l’acume delle opere successive, scorgiamo un aspetto fondamentale del carattere dell’autore. Fin da giovane Benjamin era conscio dell’eccezionalità del proprio talento, e disponiamo di molte testimonianze del ripetuto apprezzamento della sua straordinaria intelligenza. Fin dagli anni universitari egli cercò di usare questo suo talento per acquisire una posizione di supremazia intellettuale. E poiché le sue doti erano eminentemente intellettuali e linguistiche egli sperava – e cosí fece per tutta la vita – che il valore dei suoi scritti sarebbe stato sufficiente a procurargli autorevolezza nel mondo. Piú volte manifestò apertamente questa speranza ad amici come Gershom Scholem e Hugo von Hofmannsthal. Dopo il suo profondo coinvolgimento nell’organizzazione del Movimento tedesco della gioventú e nei suoi organi di stampa, il suo desiderio di supremazia intellettuale in un gruppo sarebbe riemerso solo in tre tentativi di fondare una rivista: lungamente perseguiti, fallirono tutti.

Ovviamente in quell’epoca la leadership del movimento giovanile non doveva sempre apparire come qualcosa di eroico. Benjamin si lamenta di quasi ogni aspetto del suo primo semestre a Friburgo. I corsi sono noiosi e gli studenti ignoranti, e se ciò non bastasse i Liberi studenti accusano il movimento di essere «un’accozzaglia di spregiudicati venditori di fumo e di incompetenti», benché egli prenda parte al gruppo per la riforma scolastica che, a differenza della piú neutrale organizzazione dei Liberi studenti, era rimasto fedele al radicalismo di Wyneken (GB, I, 52). L’unico vantaggio che egli riscontrava vivendo a Friburgo era la sua vicinanza all’Italia dove, durante il suo viaggio di Pentecoste, ebbe modo di apprezzare l’arte del Rinascimento. Le sue speranze si riaccesero alla metà di giugno, quando fece la conoscenza di un «giovane artista», forse Philipp Keller, che studiava medicina a Friburgo e il cui romanzo Gemischte Gefühle (Sentimenti contrastanti) sarebbe stato pubblicato l’anno successivo. In realtà i rapporti di Benjamin con Keller e con la cerchia letteraria espressionista di cui faceva parte sarebbero rimasti ambigui14. Alla fine del semestre estivo egli decise comunque di lasciare Friburgo per tornare a Berlino, dove sarebbe vissuto nella casa sulla Delbrückstraße frequentando i corsi all’università e partecipando piú da vicino all’attività del movimento giovanile.

Prima dell’inizio del nuovo semestre sarebbe andato in vacanza a Stolpmünde sul Baltico (ora Ustka, in Polonia) con un amico della Kaiser-Friedrich-Schule, Franz Sachs; come scrisse a Belmore in agosto, il suo «A.N.G. (Allgemeine normale Geistigkeit)», il suo intelletto normalmente funzionante era riemerso dai marosi dei quattro mesi precedenti. A Stolpmünde Sachs lo presentò a uno studente dell’ultimo anno delle superiori, Kurt Tuchler, un fondatore del gruppo giovanile sionista Blau-Weiß, con il quale Benjamin si impegnò in un interminabile dialogo epistolare ora perduto. Questo dialogo stimolò l’interesse di Benjamin per la propria identità ebraica e lo obbligò a confrontarsi per la prima volta con «il sionismo e l’attività sionistica come possibilità, dunque forse come un dovere» (GB, I, 59). Ma il discorso sul «dovere» si rivelò prematuro. Prima di incontrare Tuchler l’esperienza di Benjamin riguardo alle questioni ebraiche era stata trascurabile. Per tradizione familiare (come egli spiega in Cronaca berlinese), la madre era in certa misura devota alla comunità ebraica riformata di Berlino mentre il padre, per l’educazione ricevuta, era piú orientato al rito ortodosso; ma come abbiamo visto la famiglia Benjamin celebrava anche con grande solennità il Natale e organizzava per i bambini la caccia alle uova di Pasqua. Cresciuto in una famiglia della borghesia liberale ebraica pienamente assimilata, Benjamin non subí il fascino delle tradizioni ebraiche e le funzioni religiose lo annoiavano e lo infastidivano. Il profondo interesse teologico che animava fin dall’inizio i suoi scritti e che col passare del tempo fu relegato sempre piú sullo sfondo faceva a pugni con ogni forma di religione istituzionalizzata. Non poteva che essere cosí. Di fatto, l’«ebraicità» di Benjamin si manifestava nella scelta degli amici: con poche (ma importanti) eccezioni, ogni uomo e donna con cui strinse un’amicizia profonda proveniva dallo stesso tipo di famiglia agiata, assimilata, come la sua.

Il precoce confronto con il sionismo era dunque funzionale al suo nuovo interesse per l’ebraicità come un problema complesso sia esistenzialmente sia storicamente. In una lettera a Martin Buber di circa tre anni piú tardi scriveva: «Il problema dello spirito dell’ebraismo è oggetto tra i piú importanti e duraturi delle mie riflessioni» (GB, I, 283). Prima di allora aveva condotto le sue ricerche sul tema con uno studente di Friburgo, il suo amico Ludwig Strauss, che gli aveva presentato Philipp Keller. Già affermatosi come poeta e in seguito, dopo aver sposato la figlia di Buber, come storico della letteratura all’Università ebraica di Gerusalemme, Strauss faceva parte della cerchia espressionista vicina al poeta e drammaturgo Walter Hasenclever. Come disse a Strauss, Benjamin incominciò a occuparsi dell’identità ebraica nella cerchia di Wyneken, dove molti erano ebrei. Prima di allora la sua coscienza di essere ebreo non era niente di piú che un «profumo» esotico nella sua vita (GB, I, 61-62). La presa di coscienza di Benjamin non era dissimile da quella di molti altri giovani intellettuali ebrei dell’epoca. Nel marzo 1912 Moritz Goldstein, fino ad allora uno sconosciuto, pubblicò sull’importante rivista «Der Kunstwart» un articolo intitolato Parnaso ebraico-tedesco, che provocò immediatamente una gran mole di risposte su questa e su altre riviste e fu oggetto di accesi dibattiti in tutta la Germania. L’articolo di Goldstein getta una luce violenta sul problema dell’identità ebraica dei tedeschi, sostenendo la natura essenzialmente apolide dell’intellettuale ebraico. «Noi ebrei, – scrive Goldstein, – teniamo a freno le ossessioni intellettuali di un popolo che ci nega il diritto di farlo. […] Anche se noi ci sentiamo pienamente tedeschi gli altri non ci considerano per niente tali». E anche se l’intellettuale ebreo tenta di spogliarsi degli aspetti «tedeschi» del suo temperamento, i risultati non cambiano: «E se con un risoluto scatto d’orgoglio dovessimo voltare le spalle al popolo tedesco che ci disprezza, potremmo forse evitare di essere soprattutto tedeschi?»15.

La conseguenza di queste discussioni con altri studenti ebrei fu che Benjamin finí per considerare la sua ebraicità «come il nucleo di tutto il suo essere» (GB, I, 69). Egli è comunque attento a distinguere la questione ebraica dalla questione del sionismo politico. Scrivendo a Strauss descrive il sionismo tedesco come qualcosa di totalmente estraneo a una coscienza ebraica matura: Halbmenschen (un po’ questo un po’ quello), «fanno propaganda per la Palestina e poi si ubriacano come i tedeschi» (GB, I, 72). Egli prende in considerazione l’ipotesi di un «sionismo culturale», ma in ragione delle malcelate tendenze nazionalistiche del movimento di colonizzazione ebraico non può far altro che prendere le distanze dal «sionismo pratico»16. E benché si dichiari pronto a collaborare con Strauss a una rivista sulle questioni ebraiche, mette in chiaro che «un deciso impegno nella sfera ebraica è qualcosa che mi è precluso» (GB, I, 77).

Nella questione dell’identità ebraica, affrontata nella corrispondenza con Ludwig Strauss tra il settembre del 1912 e il gennaio del 1913, era in gioco secondo Benjamin l’idea stessa di cultura, l’esigenza «di preservare l’idea della cultura, di trarla in salvo dal caos dei tempi» (GB, I, 78). Fondamentalmente la cultura è sempre cultura umana. Può sembrare che qui egli si richiami all’intuizione cosmopolita di Nietzsche, l’insistenza sul «buon europeo» da parte di un uomo profondamente sensibile al carattere nazionale, ma in realtà cita Nietzsche come espressione dei pericoli connessi all’idea di cultura. Nello spirito del suo mentore Wyneken egli riconosce la necessità del conflitto, della lotta con il «nemico» nascosto, per la creazione di una cultura viva e radicata; ma è soprattutto qui che si deve temere una volgarizzazione dell’ideale, se non la rinuncia a esso. «I biologi sociali alla maniera di Nietzsche pescano in acque agitate», scrive (GB, I, 78). Procede quindi deciso nella critica al «filisteismo intellettualizzato» di Nietzsche, evidente non solo nel biologismo della sua teoria (volontà di potenza) ma anche nella riduzione del concetto di amicizia all’orizzonte strettamente personale. (Benjamin fa riferimento alla sezione intitolata Dell’amico nella prima parte di Cosí parlò Zarathustra, e specificamente al passo sull’amico addormentato nel cui volto il narratore vede riflesso il proprio). Contro tutto ciò, e forse alludendo indirettamente alla «sfera ebraica», Benjamin recupera l’ideale di Wyneken dell’amicizia filosofica, «alleanza etica nel pensiero». Le sue argomentazioni ricordano il Dialogo sulla religiosità contemporanea che egli terminò alla metà di ottobre del 1912 e di cui accenna a Strauss. In questo colloquio notturno tra due amici, che a dire il vero individua in Nietzsche (ma anche in Tolstoj e Strindberg) il profeta del nuovo sentimento religioso, il tema è il recupero alla «nostra attività sociale» della «serietà metafisica» che essa ha perduto (OC, I, 124). Ancora una volta si immaginano una dialettica della solitudine e della comunità, dell’individuale e del collettivo: non «l’energia sterile della pietà», ma il «peso» fisico e spirituale «dell’individualità» – in realtà una «coscienza appena raggiunta di una personale immediatezza» – è il requisito di una fondazione autenticamente religiosa del vivere comune (OC, I, 134, 137). Ciò che distingue la religiosità di Benjamin da quella di Nietzsche è l’enfasi su una piú profonda coscienza sociale ed etica – che include «la coscienza del proletariato» (OC, I, 124; cfr. anche GB, I, 64) –, la preoccupazione di nobilitare le convenzioni della vita quotidiana. Ciò non significa negare l’importanza di Nietzsche per tutti gli aspetti del pensiero e del linguaggio di Benjamin, il cui carattere paradossale o dialettico rispecchia la decostruzione nietzscheana del sistema di opposizioni che dominano la metafisica tradizionale e la sua logica di non contraddizione. La cultura moderna ha dovuto fare i conti con l’infondatezza dell’essere, l’oceano dionisiaco dell’esistenza, nel quale si dissolve ed è messa in dubbio ogni forma di identità, a cominciare dall’«Io» del soggetto: «Incerto è il nostro proprio Io» (OC, I, 208). Di fronte all’abbandono delle sicurezze esistenziali e all’immersione nella vita era tipico di Benjamin affermare una regola di sobrietà.

L’idea del sociale di Benjamin, orientata in senso metafisico, doveva qualcosa ai suoi studi universitari di quell’autunno e inverno. Iscrittosi alla Facoltà di filosofia della Friedrich-Wilhelms-Universität a Berlino, dove nell’ottobre del 1912 frequentò il primo di cinque semestri non consecutivi, seguí le lezioni del famoso filosofo e sociologo Georg Simmel. Come insegnante Simmel era «straordinario»; in quanto ebreo non raggiunse mai nella facoltà il ruolo di docente ordinario. Ma allora a Berlino egli era forse il docente piú popolare e autorevole, ed ebbe tra i suoi allievi importanti teorici della società e della politica come Ernst Bloch, György Lukács e Herbert Marcuse. A detta di tutti era un oratore affascinante, parlava senza appunti, e quando affrontava un tema da diverse angolazioni seguiva il «corso del pensiero»: Simmel concepiva il lavoro filosofico come sintesi di aspetti epistemologici, storico-artistici e sociologici17. È certo che la sua attenzione per il particolare e per ciò che storicamente e culturalmente è ai margini affascinò Benjamin e alimentò le sue inclinazioni nascenti. Il saggio fondamentale di Simmel del 1903, La metropoli e la vita dello spirito, ispirò per molti aspetti la successiva «svolta sociologica» di Benjamin e le originali analisi della metropoli moderna svolte da lui e da Siegfried Kracauer all’inizio degli anni Venti. Nonostante alcune riserve di ordine filosofico, negli scritti degli anni Trenta Benjamin citerà passi di Simmel sulla fenomenologia della vita urbana, e nell’elaborazione della sua teoria dell’esperienza si avvicinerà alla sua concezione dell’esperienza della grande città. Non sappiamo invece praticamente nulla degli altri suoi docenti a Berlino – egli seguí corsi di filosofia (in particolare del neokantiano Ernst Cassirer), di letteratura tedesca e di storia dell’arte. Fra tutti sembra emergere, per il suo atteggiamento indipendente, solo lo storico della cultura Kurt Breysig, teorico di una «storia universale».

Tornato a Berlino Benjamin riallacciò i contatti con «Der Anfang», che nella primavera del 1913 riprese le pubblicazioni della terza e ultima serie, dopo un lavoro preparatorio nel quale anch’egli fu coinvolto. Tra maggio e ottobre, pubblicando comunque anche su altre riviste, scrisse sotto pseudonimo cinque articoli sulla gioventú per la nuova «Anfang», l’ultimo dei quali è il breve saggio Esperienza, dove – in una forma che anticipa il suo duraturo interesse per questo tema – attacca il filisteismo della nozione «borghese» di esperienza intesa come l’abbandono della gioventú in nome di un’esperienza piú alta, immediata, che attinge all’«inesperibile» (OC, I, 165). Possiamo farci un’idea dell’atmosfera che circondava la riorganizzazione della rivista (il cui ultimo numero fu pubblicato nel luglio del 1914) dalla descrizione di Martin Gumpert in Hölle im Paradies. Selbstdarstellung eines Arztes (L’inferno in paradiso. Ricordi di un medico), pubblicato nel 1939, che vale la pena riportare per intero.

Un giorno fui invitato a una riunione che si proponeva di fondare una nuova rivista. Mi ritrovai in una cerchia di giovani che non avevo mai incontrato prima. | Avevano chiome al vento, portavano camicie aperte, […] peroravano con frasi solenni e armoniose l’esigenza di staccarsi dalla borghesia e il diritto dei giovani di avere una cultura propria. […] L’avere una guida da seguire svolse una funzione importante. Leggevamo Stefan George e gli austeri poemi del poeta svizzero Carl Spitteler. […] In quei giorni, si viveva in un mondo di possibilità concettuali [in «Begriffen»]. Volevo analizzare e definire tutti gli elementi dell’esistenza, scoprirne le contraddizioni, la varietà, il mistero. Niente era irrilevante; ogni foglia, ogni oggetto – al di là del suo aspetto materiale – aveva un significato metafisico, che si tramutava in un simbolo cosmico. […] Il movimento giovanile era formato esclusivamente di giovani della classe media. […] Conscio di questo limite, scrissi un rozzo proclama nel quale sostenevo che la gioventú della classe operaia era solidale con noi e che dobbiamo incominciare a conoscerla e a guadagnare il suo appoggio. Wyneken [che negli anni 1913-14 sovrintendeva alla pubblicazione] rifiutò l’articolo con commenti fortemente negativi: è troppo presto, dobbiamo ancora riflettere su noi stessi. Di qui […] il rischio di intellettualismo sempre piú forte nel nostro gruppo. […] La politica era considerata una questione non intellettuale e indegna (in GS, II, 867-70)18.

A dire il vero, il giovane Benjamin – che Gumpert reputava «il piú dotato» del gruppo – concordava con Wyneken nel rifiutare coerentemente qualunque idea di schieramento della gioventú con i partiti politici esistenti, e cercò di mantenere anche la rivista «a debita distanza dalla politica». Possiamo però dire con certezza che egli non avrebbe considerato impolitico il suo lavoro per il movimento.

A quell’epoca Benjamin intendeva la politica sia in senso stretto sia in senso lato; la riforma educativa era politica in quest’ultimo senso. Solo se la filosofia è posta al centro del curriculum, fin dai primi anni di scuola, l’umanità potrà essere trasformata – cosí sosteneva, perlomeno, nei suoi discorsi e negli articoli del 1913 e del 1914, efficacemente sintetizzati nella Vita degli studenti. Durante il primo semestre alla Friedrich-Wilhelms-Universität lavorò su diversi fronti per promuovere i suoi ideali, con un coinvolgimento e una posizione di rilievo molto superiori rispetto alla sua attività a Friburgo. Si adoperò nell’organizzazione dell’Unità per la riforma della scuola a Berlino, e fu eletto nel comitato direttivo del piú rilevante movimento dei Liberi studenti. Al di fuori dell’università fu attivo nel capitolo berlinese della Lega per le libere comunità scolastiche, e s’incontrò spesso con Wyneken, che in un’occasione fu ospitato a casa di Benjamin nella Delbrückstraße.

Gli anni tra il 1913 e il 1914 videro il primo, e in qualche misura unico, impegno diretto di Benjamin nella vita pubblica. Egli cercò di raggiungere posizioni di leadership nel movimento giovanile, al fine di promuovere un programma di riforme, prima all’interno di gruppi locali come quelli di Berlino e di Friburgo quindi a livello nazionale. Ma come emerge dall’accento idealistico degli scritti, questo impegno diretto e determinato nel mondo della politica contrastava con le sue inclinazioni piú profonde. Egli era infatti un giovane estremamente cauto e riservato, a disagio in compagnia, felice solo nell’impegno intellettuale solitario o nel dialogo con un singolo interlocutore. Ma anche lo scambio apparentemente diretto con un unico interlocutore avrebbe spesso assunto la forma dell’aneddoto, dell’analogia, dell’allusione. L’iscrizione sulla tomba di Kierkegaard, «Quel Singolo», ci fa capire la natura della costante avversione di Benjamin per i gruppi, anche, o forse soprattutto, per i gruppi degli amici. L’intensa attività politica dei primi anni di università costituisce quindi un’assoluta eccezione nel modello di comportamento sociale proprio di Benjamin. Forse non sorprende che questa attività in prima persona sia sempre stata provocatoria e molto spesso divisiva. Ci sono tuttavia molte attestazioni del suo carisma personale. Ernst Joël parla dell’«incredibile potere» che Benjamin poteva esercitare sulle persone, mentre Herbert Belmore afferma che già alle scuole superiori la sua «intelligenza precoce e la profonda serietà» esercitavano una viva impressione sugli amici, che diventavano «quasi suoi discepoli»19.

Alla fine di un altro semestre particolarmente impegnativo Benjamin decise di ritornare a Friburgo per l’estate del 1913. Non era riuscito a farsi rieleggere nel comitato direttivo del movimento dei Liberi studenti, e Wyneken voleva che egli assumesse il controllo dell’Unità per la riforma della scuola a Friburgo. Inoltre, Benjamin vedeva nell’amicizia con Philipp Keller un’ottima ragione per ritornare. A Friburgo affittò una bella camera vicino alla cattedrale, «con santi venerabili alle pareti». Per tutta la vita, e indipendentemente dalle circostanze, era importante per lui che i locali in cui viveva fossero ricchi di immagini, e proprio le immagini di santi cristiani furono un elemento costante della sua iconografia domestica sempre piú complessa. Alla fine di aprile scrisse a Belmore da Friburgo:

Fuori della finestra vedo la piazza della chiesa con un alto pioppo (e il sole che traspare dalla sua chioma verde), e di fronte a esso una vecchia fontana e le pareti delle case inondate dal sole – posso perdermi in questo spettacolo per interi quarti d’ora. Quindi […] mi sdraio per un po’ sul divano con un volume di Goethe. Ma non appena mi imbatto in una frase come “Breite der Gottheit” (ampiezza della divinità) perdo subito, di nuovo, il controllo (GB, I, 88).

Trovò che Friburgo era cambiata rispetto all’estate precedente. Il movimento dei Liberi studenti era praticamente agonizzante: «Non ci sono annunci in bacheca – dice a Carla Seligson, – né gruppi organizzati né conferenze» (GB, I, 93). L’Unità per la riforma della scuola, nella quale era coinvolto l’anno prima, era diventata un circolo letterario di sette o nove studenti, che si riuniva il martedí sera per letture e discussioni. Il gruppo era guidato da Philipp Keller, che «lo governa come un despota e continua a leggere a voce alta» (GB, I, 89). Benjamin continuò ad apprezzare gli scritti espressionisti di Keller (in una recensione sulla «Literarische Welt» del 1929 avrebbe ricordato il libro di Keller «purtroppo dimenticato»), ma cominciò a lavorare contro di lui e i rapporti tra i due si raffreddarono: «Io […] li ho liberati [da Keller] dopo essermi liberato da lui, […] affinché il loro pensiero possa evolvere in modo non sentimentale e obiettivo» (GB, I, 99). Qui si esprime al meglio la regola che guidò l’attività politica di Benjamin a quel tempo. Kurt Tuchler ricorda il punto fondamentale del dissidio a Stolpmünde:

Da parte sua cercò di coinvolgermi nell’orizzonte dei suoi pensieri e soprattutto di convincermi a non unirmi a una confraternita, come invece intendevo fare. Mi spinse a rimanere “indipendente” e a legarmi personalmente a lui20.

Ripudiare il gruppo significava essere indipendenti – ma esserlo in una forma mediata da Benjamin. Non sorprende che all’inizio di giugno Keller abbandonasse le serate di discussione e che Benjamin ne diventasse la figura dominante, discutendo le opere del poeta svizzero Carl Spitteler (del quale parla nel suo saggio su «Der Anfang» La bella addormentata) e leggendo al gruppo testi di Wyneken; fece quindi collaborare alla rivista alcuni dei partecipanti.

A quell’epoca l’evento piú importante per Benjamin sul piano personale fu la profonda amicizia intellettuale che strinse quell’estate con uno dei partecipanti al circolo di lettura, il giovane poeta, incline alla depressione, Christoph Friedrich Heinle (1894-1914), che lo avrebbe accompagnato a Berlino per il semestre invernale. Originario di Aquisgrana, Heinle aveva studiato a Göttingen prima di iscriversi a filologia nel semestre estivo del 1913 a Friburgo, dove all’interno del movimento dei Liberi studenti partecipò al gruppo per l’arte e la letteratura. Quell’estate a Friburgo Benjamin lavorò con Fritz Heinle per fondare una comunità educativa «per alcuni, non pochi, di noi» (GB, I, 230). L’amicizia di Benjamin con Heinle, che sarebbe durata poco piú di un anno, è uno degli episodi piú oscuri nell’enigmatica vita di Benjamin. Decisivo e impenetrabile a un tempo, l’incontro con Heinle avrebbe profondamente segnato la vita intellettuale ed emotiva di Benjamin per molti anni a seguire.

In aprile, negli intervalli di una lotta corpo a corpo con la Fondazione della metafisica di costumi di Kant (citata nel suo saggio rigorosamente antinomico sull’Insegnamento della morale, che sarebbe stato pubblicato in luglio), egli lesse Aut-Aut di Kierkegaard, che incominciava a diffondersi allora in Europa e che lo appassionò «piú di qualunque altro libro»21. Scrive a Carla Seligson:

Lei forse sa che egli ci spinge all’eroismo sulla base dell’etica cristiana (o dell’etica ebraica, se preferite) con la stessa spietatezza con cui Nietzsche lo fa su altre basi, e che si impegna in analisi psicologiche altrettanto demolitrici di quelle di Nietzsche (GB, I, 92).

Figura 4.

Christoph Friedrich Heinle.

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Mentre si preparava a passare le vacanze di Pentecoste immerso «nella filosofia e nella pioggia», come dice a Belmore, il «destino» intervenne nella decisione di visitare per la prima volta Parigi. Vi si recò con Kurt Tuchler, il sionista che aveva incontrato a Stolpmünde dieci mesi prima, e con l’amico di Tuchler Siegfried Lehmann. Ritornò con «la coscienza di aver vissuto, per quattordici giorni, con la stessa intensità con cui vivono solo i bambini», e con la sensazione di sentirsi «a casa mia, alla fine, al Louvre e sul Grand Boulevard quasi piú che al Kaiser-Friedrich-Museum o nelle strade di Berlino. […] Sul Grand Boulevard conoscevo i negozi, le réclame luminose, le persone, quando ho lasciato Parigi» (L, 3, 4). Tuchler ricorda che per tutto il tempo che rimasero nella capitale Benjamin si aggirò in una specie di estasi. Quel soggiorno di due settimane sarebbe stato piú «fatale» di quanto Benjamin potesse immaginare, perché Parigi sarebbe diventata per lui non solo un oggetto di studio totalizzante ma anche la sua dimora in esilio.

Durante il soggiorno parigino lo scrittore ventenne ebbe forse la sua prima esperienza sessuale con una donna incontrata per strada22. Ma possiamo veramente credere che l’iniziazione sessuale di Benjamin avesse avuto luogo solo a vent’anni? I dipinti di Ernst Ludwig Kirchner e le poesie di Georg Heym mostrano che le strade e i caffè di Berlino avrebbero offerto a un giovane ampie occasioni di seguire la consuetudine della sua classe sociale di cercare esperienze sessuali con prostitute o donne del demi-monde. Un capitolo di Infanzia berlinese intitolato Mendicanti e puttane (non incluso nella versione riveduta del 1938) parla dell’«incomprimibile impulso ad abbordare per la strada una puttana», un episodio forse accaduto nell’adolescenza.

Potevano volerci ore prima che accadesse. L’orrore che provavo era lo stesso che mi avrebbe trasmesso un congegno automatico per la cui messa in funzione sarebbe stata sufficiente una domanda. E cosí inserivo la mia voce nella fessura. Allora mi sentivo le orecchie in fiamme e non ero in grado di raccogliere le parole che cadevano da quella bocca carica di trucco. Correvo via (OC, V, 398).

Ma, naturalmente, è del tutto verosimile che data l’innata prudenza e sensibilità di Benjamin il primo rapporto vero e proprio dopo tanti approcci sia avvenuto in una città straniera, lontano dal giudizio degli amici e della famiglia.

Nel secondo semestre alla Albert-Ludwig-Universität proseguí negli studi di filosofia seguendo un seminario sulla Critica del giudizio di Kant e sull’estetica di Schiller – «depurata chimicamente delle idee», come disse a Belmore – e un corso sulla filosofia della natura. All’incirca in questo periodo seguí due corsi di Rickert. Uno era un seminario sulla metafisica di Bergson, dove «gli piaceva sedersi e seguire il corso dei [suoi] pensieri»23. (Le teorie di Bergson, ampiamente discusse nei circoli accademici negli anni prima della guerra, avrebbero trovato un’eco potente nel saggio di Benjamin Metafisica della gioventú). L’altro era un ciclo di conferenze frequentato «da tutta la Friburgo letteraria»:

come introduzione alla sua logica Rickert presenta una sintesi del suo sistema che getta le basi di una disciplina filosofica completamente nuova: la filosofia della vita compiuta (la donna come sua rappresentante). Tanto interessante quanto problematica (GB, I, 112).

In una lettera a Wyneken di metà giugno esprime una posizione piú critica su questo corso e sulla sua Wertphilosophie (filosofia dei valori): «Per me ciò che dice è inaccettabile, dato che considera la donna per principio incapace del piú alto sviluppo morale» (GB, I, 117). Qui egli adotta una posizione coerente con le idee di Wyneken sulla necessità di un’educazione comune e di liberare le donne da «un ideale di vita familiare che diventa ogni giorno piú problematico» (in OC, I, 38). In una famosa lettera del 23 giugno 1913 a Herbert Belmore, che gli aveva scritto sul significato simbolico della prostituta, Benjamin si addentra nella questione «femminile»:

potrai capire come io consideri un po’ primitivi i tipi “uomo” e “donna” per il pensiero delle persone colte. […] L’Europa è costituita di individui (in cui sono presenti il fattore maschile e quello femminile), non di uomini e donne. […] Che cosa sappiamo della donna? Ben poco, come sappiamo poco della gioventú. Non abbiamo ancora sperimentato una civiltà della donna, come non conosciamo una civiltà della gioventú (L, 8-9)24.

Per quanto riguarda il ruolo della prostituta, rimprovera a Belmore il suo «insulso estetismo»: «Per te la prostituta è una cosa bella. L’apprezzi come la Gioconda […] Protesto in nome della poesia» (L, 10). A questo stadio, per Benjamin l’importanza della prostituta (che nei Passages emergerà come un tipo sociale fondamentale dell’Ottocento) consiste nel fatto che essa «scaccia la natura dal suo ultimo santuario, la sessualità». La prostituta rappresenta quindi «la sessualizzazione della spiritualità […] Eros […] anch’egli può venire pervertito, può servire alla cultura» (L, 10).

Queste riflessioni sul significato culturale della prostituzione sono strettamente legate alle prime sezioni dello scritto esoterico di Benjamin Metafisica della gioventú, iniziato con ogni probabilità nella primavera del 1913 a partire dai due nuclei speculativi Il colloquio e Il diario, ai quali nel gennaio successivo aggiunse la terza parte, piú breve, Il ballo25. In quanto metafisica della gioventú (una metafisica decisamente post-nietzscheana, che si spinge ben oltre la classica idea di sostanza), esso si lega ai saggi Due poesie di Friedrich Hölderlin e La vita degli studenti, che possiamo considerare, rispettivamente, alla base dell’estetica e della politica della gioventú. (La vita degli studenti era stato scritto in occasione della campagna per la riforma della scuola e fu pubblicato per la sua stretta attualità, mentre gli altri due saggi non erano destinati a un lettore specifico, circolarono manoscritti fra pochi amici e furono pubblicati solo postumi). Le riflessioni metafisiche di Benjamin, che hanno per lo piú a oggetto il problema della percezione nel tempo e nello spazio, sono espresse in uno stile aforistico e rapsodico, analogo per certi aspetti allo stile visionario degli espressionisti26. Anche se il saggio di Benjamin non è né morboso né apocalittico, viene in mente in particolare il gelido bagliore dei poemi in prosa di Georg Trakl, scritti all’incirca negli stessi anni. Lungo tour de force, quasi intollerabile nella sua intensità, delinea un modo di fare filosofia condensato in immagini. Il lessico del saggio – «tendersi», «compenetrato», «irraggiamento», varie dinamiche di relazioni «erotiche» – allude a una realtà che vibra. La stessa dinamica sorregge anche la struttura linguistica, che nello sforzo di articolare i legami tra le diverse dimensioni adotta una paronomasia filosofica che a volte sfocia nella ricercatezza: «Die ewig gewesene Gegenwart wird wieder werden» («Il presente che è eternamente stato sarà nuovamente», OC, I, 196). Questo linguaggio suona consapevolmente arcaico, come lo sarà il linguaggio di Heidegger dopo la seconda guerra mondiale. Sotto questo aspetto tanto Benjamin quanto Heidegger si richiamano alla pratica poetica di Hölderlin (i cui magnifici versi sulla giovinezza appaiono come esergo all’inizio del Colloquio, un titolo che richiama a sua volta un tema caro a Hölderlin).

La concezione metafisica della «gioventú» implica quindi un certo tipo di linguaggio e un certo tipo di temporalità – un linguaggio legato a questioni di genere. Nel Colloquio, dopo il paragrafo iniziale sull’energia del passato che si manifesta nel sogno, Benjamin distingue tra due concezioni del linguaggio, una dominata dal «silenzio», l’altra dalle «parole». (Nel saggio del 1916 Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo egli fa una distinzione analoga fra la natura e l’umanità). Il linguaggio del silenzio è associato alle donne e il linguaggio delle parole agli uomini, ma non dobbiamo dimenticare la lettera di Benjamin del 23 giugno a Belmore, che insiste sul significato funzionale, non sostanziale, del «maschile» e del «femminile». (In caso contrario una frase come «Il linguaggio delle donne non fu creato» – OC, I, 198 – sembrerebbe inaccettabile, nonostante i riferimenti a Saffo, al pari delle affermazioni di Rickert sul tema, perché anche il concetto di Benjamin della «donna», nella prima parte del saggio, è consapevolmente arcaico). Nel Colloquio l’uomo è colui che parla, dedito alla bestemmia e carico di disperazione, e la donna colei che ascolta, dedita al silenzio e piena di speranza27. Chi parla, ci viene detto, entra in colui che ascolta, chi ascolta è la fonte di colui che parla. In realtà nel colloquio chi ascolta in silenzio è la «fonte non contenuta del senso» e colui che, inoltre, «difende il senso dalla comprensione». Poiché incarna tutte queste funzioni, chi ascolta racchiude in sé il «passato femminile», il passato concepito come riserva di energie, una «notte della notte» in cui entra chi parla, ossessionato dal presente. Nel silenzio nato dalla conversazione (si pensi a Penelope e Ulisse) l’energia del sogno si rinnova e la notte si fa piú splendente. Pochi anni dopo Benjamin formulerà tale concetto in questi termini: «Lo splendore è vero solo se trionfa nella notte» (OC, I, 268 – Socrate). Ancora una volta la nostra idea della verità deve bilanciare la rivelazione e il mistero. Il destino della conversazione è inseparabile dal destino del silenzio.

Nel Diario (nella seconda parte del saggio, piú propriamente metafisica), alla distinzione fra i due tipi di linguaggio si accompagna la distinzione tra due forme del tempo: il «tempo immortale», intrinsecamente giovane, e il «tempo dello sviluppo», il tempo del calendario, dell’orologio e della Borsa. Questa distinzione è tributaria di Bergson, la cui idea di durata vivente, nella quale il passato si prolunga nel presente, si distingue dal tempo astratto, lineare e meccanico della scienza e del senso comune, da ciò che egli definisce la logica dei solidi. (Si veda «Trauerspiel» e tragedia del 1916, dove il «tempo meccanico» si oppone al «tempo storico» [OC, I, 274]). Per Benjamin, il tempo puro scorre senza continuità nella vita quotidiana scandita dal tempo cronologico: «In lui, nell’Io a cui accadono fatti, che è incontrato da persone […] scorre il tempo immortale». Ma poiché scorre nel profondo, trascende ciò che lo ingloba, proprio come il silenzio piú profondo trascende le parole; il tempo dello sviluppo, con la sua «catena dei vissuti», è superato (aufgehoben) nel tempo giovane che si irradia dall’Io, che è il tempo del «diario» (Tagebuch). Come abbiamo visto, tenere un diario è per Benjamin una seria occupazione filosofico-letteraria, e non stupisce che questo strumento espressivo cosí tipicamente giovanile finisca per rappresentare tutto un modo di pensare e di fare esperienza. Nella Metafisica della gioventú, il diario è il luogo di un dissolvimento e di un compimento simultanei dell’Io – un’abdicazione del soggetto che «mi chiama Io e mi tormenta con la sua confidenza» e un riscatto «dell’altro che parve incalzarmi e che pure io stesso sono: raggio del tempo». Il tempo trasformato del diario è anche una trasformazione dello spazio: ciò che incontriamo nei suoi intervalli, sotto «l’incanto del libro», non è piú definito indipendentemente dallo scorrere del tempo come nella metafisica classica, o indipendentemente dalla percezione del soggetto, ma è esso stesso parte di questo flusso e di questa coscienza. Le cose gravitano verso (leben… dahin) l’Io, che a sua volta accade (widerfährt) a ogni cosa. Nell’arco di questa oscillazione, che acuisce lo spazio del tempo, gli oggetti entrano nel campo della percezione umana ponendo «domande» – il concetto viene da Bergson –, appelli ai quali l’Io che si è ricomposto risponde: «Nell’avvicendarsi di queste vibrazioni vive l’Io [lebt das Ich28. «Le cose ci vedono» (OC, I, 202), scrive Benjamin in una sorprendente anticipazione delle sue riflessioni sull’aura (OC, VIII, 411); «il loro sguardo ci lancia [schwingt] nel futuro». Perciò, muovendoci attraverso il paesaggio delle cose (nel diario ogni evento ci circonda come un paesaggio), «noi accadiamo a noi stessi» – «noi, il tempo delle cose». Irradiando e gravitando, il ritmo del tempo scandisce l’interazione fra soggetto e oggetto, il distacco dal «grembo del tempo» e il simultaneo ritorno a esso. Oscillando in questa dialettica spaziotemporale il diario fa sí che le cose passate diventino future e ci fa incontrare a tu per tu con la coscienza, il nostro piú intimo nemico, nel «tempo della morte». Per un istante (Augenblick) la sovranità della morte, a un tempo lontana e prossima, concede l’immortalità al vivente. In quanto luogo di una momentanea redenzione, il diario iscrive il destino nella forma delle «resurrezioni dell’Io». Circa cinque anni piú tardi l’idea di una sopravvivenza delle opere acquisterà un’importanza fondamentale nella teoria della critica di Benjamin, ma il rapporto tra la filosofia e la teologia (una teologia non dogmatica e non escatologica) contraddistinguerà il suo pensiero in ogni momento del suo sviluppo, dalla parabola del 1910 I tre che cercavano la religione allo scritto del 1940 Sul concetto di storia.

Il secondo semestre di Benjamin a Friburgo terminò il 1° agosto 1913, dopo quella che egli descrisse come una sequenza di «molte settimane da dimenticare» (GB, I, 170). A ravvivare questo periodo ci fu comunque l’amicizia con Heinle, «un inguaribile sognatore dall’anima tedesca» (GB, I, 88). Una lettera di metà luglio a Herbert Belmore, che studiava architettura d’interni a Berlino, fa riferimento «ad alcune poesie di Heinle che potrebbero piacerti», per poi osservare che «qui siamo forse piú aggressivi, piú avventati e irriflessivi (letteralmente!), o meglio: lui lo è ed io mi identifico, simpatizzo e a volte lo divento anch’io» (GB, I, 149). Con Heinle Benjamin faceva lunghe passeggiate nella Foresta Nera nei dintorni di Friburgo: parlavano di Wyneken, del movimento giovanile, di altre questioni genericamente etiche. (Nel numero di luglio di «Der Anfang» Heinle pubblicò un infuocato intervento sull’educazione in classe). Alla fine del mese essi strinsero amicizia con un altro giovane poeta, Anton Müller, figlio del direttore della rivista cattolica ultramontana «Freiburger Boten»: «ieri abbiamo passeggiato nel bosco […], parlando del peccato originale e della paura. Ho sostenuto che il timore di fronte alla natura è il segno di un genuino amore per la natura» (GB, I, 156). Subito dopo aver incontrato Heinle Benjamin cercò invano di far pubblicare le poesie del suo nuovo amico su «Der Anfang». Fu il primo di una serie di tentativi intrapresi negli anni successivi per diffondere e promuovere il lavoro di Heinle. Molti amici di Benjamin di quell’epoca non mancarono di fare osservazioni sulla particolare natura della loro amicizia. Heinle era universalmente considerato un giovane di rara bellezza – dieci anni dopo Benjamin poteva ancora parlare di Heinle e di suo fratello Wolf come dei «piú bei giovani che io abbia mai conosciuto» (a F. C. Rang, 4 febbraio 1923). Tuttavia, sembra che Benjamin non distinguesse tra queste manifestazioni fisiche di bellezza e l’impressione di cupa bellezza del carattere e della poesia di Heinle. Alcuni lettori di Heinle lo hanno trovato adatto ai giovani, altri ne sono rimasti turbati29.

Il periodo di Friburgo non fu privo di diversivi. Benjamin visitò una mostra sull’arte del Rinascimento tedesco nella vicina Basilea, dove vide dal vero i dipinti che piú tardi avrebbero influenzato il suo monumentale studio sul Trauerspiel tedesco, come la Melancholia di Dürer. E oltre ai libri che lesse per i corsi universitari (Kant, Husserl, Richter), ne lesse molti altri per la sua formazione e per piacere personale: Kierkegaard, san Bonaventura, Sterne, Stendhal, Maupassant, Hesse e Heinrich Mann. Trovò anche il tempo di scrivere un paio di racconti, fra i quali il delizioso La morte del padre (OC, I, 171-73). Quando il padre, che continuava a disapprovare le sue «aspirazioni», gli fece visita in luglio, Benjamin riuscí a essere «riservato e gentile». Alla fine del semestre fu arduo lasciare Friburgo, forse proprio a causa del suo profondo attaccamento a Heinle:

Infine, con l’arrivo del bel tempo alla fine del semestre, anche la vita era diventata improvvisamente bella e luminosa. Le ultime quattro sere noi (Heinle ed io) eravamo sempre fuori insieme fino a mezzanotte passata, per lo piú nella foresta (L, 14).

All’inizio di settembre, dopo aver viaggiato diverse settimane con la sua famiglia in Alto Adige, ritornò a Berlino per continuare sia i suoi studi filosofici alla Friedrich-Wilhelms-Universität sia la sua attività nel movimento giovanile, che durante l’estate aveva trascurato e che entrò ora nella sua fase piú intensa.

Nel settembre del 1913 la cosiddetta Sprechsaal (sala di conversazione) riprese l’attività. Si trattava di un organismo costituito al fine di rappresentare gli interessi degli studenti delle scuole secondarie e dell’università, soprattutto di quelli su cui «Der Anfang» contava come propri lettori. La struttura e i temi delle riunioni erano i soliti: incontri serali per conferenze e discussioni su temi come la cultura giovanile, la forza e l’etica, la lirica moderna, l’esperanto, allo scopo di promuovere il libero scambio di idee. Nel corso del semestre invernale 1913-14 Benjamin si dedicò intensamente al suo nuovo spazio di dibattito culturale, come cofirmatario per l’affitto della sala per le riunioni, il piccolo appartamento nel quartiere di Tiergarten, suo vecchio luogo di incontri che fungeva sia da sala per le riunioni sia da ufficio per le attività sociali dell’associazione dei Liberi studenti di Berlino. Per Scholem il primo ricordo di Benjamin è un incontro alla sala di conversazione nell’autunno del 1913: «parlava con grande intensità e sicurezza, […] non guardava l’uditorio e teneva gli occhi fissi su un angolo del soffitto» (SA, 18). In concomitanza con questo impegno, Benjamin allentò sempre piú i legami con «Der Anfang», dove in ottobre pubblicò l’ultimo scritto firmato «Ardor». Pochi mesi dopo si sarebbe trovato coinvolto in una lite non piú ricostruibile nei dettagli ma nata forse dalla decisione di Wyneken di non operare piú come supervisore della rivista. Un gruppo formato da Heinle e da Simon Guttmann, favorevoli a un orientamento letterario della rivista, cercò di sottrarne la direzione a Georges Barbizon e a Siegfried Bernfeld, favorevoli a un orientamento politico in senso socialista. Dopo aspri dibattiti la questione fu risolta quando l’editore Franz Pfemfert, che pubblicava anche «Die Aktion», l’influente rivista dell’espressionismo di impostazione politica radicale, intervenne a sostegno di Barbizon e Bernfeld. Benjamin, il cui tentativo di mediazione era fallito, pensò di scrivere un articolo di commiato denunciando l’attuale tendenza di «Der Anfang» (il numero di dicembre del 1913 commentava la costituzione di una sala di conversazione «ariana» a Vienna; si veda GB, I, 245), ma la rivista cessò le pubblicazioni prima che egli potesse portarlo a termine.

In ottobre Benjamin parlò per la prima volta davanti a un vasto pubblico ai due congressi nazionali, molto seguiti, sulla riforma della scuola e sui movimenti giovanili. Al Primo congresso pedagogico-studentesco, organizzato da un gruppo dell’Università di Breslavia, tenne una conferenza intitolata Finalità e metodi dei gruppi pedagogici studenteschi nelle università tedesche, in cui difese la «linea di Friburgo», esplicitamente wynekeniana, contro la corrente di Breslavia, piú conservatrice. Appellandosi a una «nuova pedagogia filosofica» e alla «moderna sensibilità degli studenti», sostenne che l’attivismo studentesco «ha una base interiore e al tempo stesso è altamente sociale» e che non si sarebbe legato a nessun partito (OC, I, 175-80). Le due correnti studentesche riuscirono ad accordarsi solo sull’obiettivo di tenersi reciprocamente informate. Da Breslavia si spostò a Kassel, nella Germania centrale, per partecipare al primo Freideutsche Jugendtag (Convegno della libera gioventú tedesca), nel quale si incontrarono molte diverse correnti giovanili e gruppi studenteschi di tutta la Germania e dell’Austria. Oggi considerato l’evento decisivo del movimento giovanile tedesco, il congresso ebbe luogo il fine settimana del 10-12 ottobre sul monte Meißner (ridenominato per l’occasione «Hohe Meißner», e il nome gli rimase) e sul vicino monte Hanstein. Molti intellettuali di primo piano, come lo scrittore Gerhart Hauptmann e i filosofi Ludwig Klages e Paul Natorp, inviarono un saluto e parole di incoraggiamento. Quei tre giorni furono segnati da aspri contrasti ma anche da grandi festeggiamenti. Come scrisse piú tardi un partecipante di Bonn, lo scrittore Alfred Kurella, la gente che formava questi gruppi era «approssimativamente divisa in parti uguali tra fascisti, antifascisti e filistei indifferenti»30. Alla sezione di apertura del congresso, avvenuta un piovoso giovedí sera alla base del castello diroccato del monte Hanstein, ci fu un violento scontro tra chi premeva per la preparazione militare dei giovani e per l’«igiene della razza» e i leader della Libera comunità scolastica di Wickersdorf, Gustav Wyneken e Martin Luserke. La posizione della comunità di Wickersdorf era per l’«autonomia della gioventú» contro ogni «interesse particolare politico o vicino alla politica». Bisognava dare ascolto non al rumore delle sciabole ma alla chiamata della coscienza. Per Wyneken, la lotta per incoraggiare «il sentimento condiviso della gioventú» era in ultima analisi una lotta per difendere la vera anima tedesca. La sua influenza fu decisiva nell’adozione da parte del congresso di una dichiarazione proposta quella notte dai delegati, una dichiarazione la cui frase di apertura è nota da allora come «formula del monte Meißner». L’abbiamo già incontrata: «La libera gioventú tedesca vuole conformare la propria vita ai propri principî, assumendosi le proprie responsabilità e nella fedeltà a se stessi». Gli scontri ideologici continuarono tuttavia anche i successivi due giorni, quando la scena si spostò al monte Meißner e ritornò il sole. La folla dei giovani in attesa si diede alla musica, ai balli popolari, alle gare sportive e all’esibizione di abiti da cerimonia, mentre discutevano dei rapporti fra le razze, dell’astinenza (dall’alcol e dalla nicotina), della riforma agraria. Lo stesso Benjamin fu piuttosto pessimista sugli esiti del convegno nella sintetica critica che pubblicò la settimana successiva su «Die Aktion», La gioventú tacque (il titolo era una diretta risposta a un articolo elogiativo pubblicato dall’editore Franz Pfemfert, La gioventú parla!), ma non fu tuttavia insensibile alla presenza di qualcosa di nuovo nel raduno:

Non vogliamo assolutamente lasciarci sconvolgere dalla realtà di fatto della Giornata della libera gioventú tedesca. Abbiamo in effetti vissuto una realtà nuova; si sono radunati duemila giovani di idee nuove, e sullo Hoher Meißner lo spettatore vedeva una gioventú fisicamente nuova, una nuova tensione nei volti. Per noi questo non è nulla, come garanzia di spirito giovanile. Escursioni, abiti di gala, danze popolari non sono niente di nuovo né sono ancora, nel 1913, una realtà spirituale (OC, I, 181).

Trovò particolarmente sconcertante la diffusa bonomia perché depredava la gioventú della «sacra serietà» con cui si era radunata. L’ideologia e il compiacimento garantivano entrambi che «solo pochi» capivano il significato della parola «gioventú» e della sua vera missione, «la protesta contro la famiglia e la scuola».

La leadership di Benjamin nel movimento si consolidò nel febbraio del 1914, quando fu eletto presidente dell’associazione dei Liberi studenti di Berlino per il successivo semestre estivo. In poco tempo aveva raccolto alcuni illustri oratori per un ciclo di conferenze: tra questi Martin Buber, che doveva parlare del suo libro fresco di stampa Daniele, e Ludwig Klages, il filosofo della vita e grafologo, per parlare del dualismo di spirito e intelletto. Possiamo capire gli scopi di Benjamin riguardo ai Liberi studenti da una lettera del 23 maggio al suo vecchio compagno di scuola (e piú tardi dirigente radiofonico), il compositore, scrittore e traduttore Ernst Schoen: «fondamentalmente ciò che possiamo fare è creare una sorta di comunità colta» (GB, I, 229). Ciò che è in gioco in questo obiettivo apparentemente modesto è, ancora una volta, l’istituzione di una comunità educativa (Erziehungsgemeinschaft) «che dipenda in tutto e per tutto dagli individui produttivi che rientrano nella sua orbita». Questo comunitarismo individualistico, che pervadeva le lettere a Carla Seligson, fu oggetto del suo discorso inaugurale di maggio; ciò che resta di questo discorso è una lunga citazione nella Vita degli studenti. Il passo inizia cosí:

C’è un criterio molto semplice e sicuro, per verificare il valore spirituale di una comunità. La domanda: trova la totalità di colui che opera la sua espressione in essa, impegna la comunità l’uomo intero, l’uomo tutto è per essa indispensabile? Oppure ciascuno può fare a meno della comunità, proprio come la comunità può fare a meno di lui? (OC, I, 252).

Benjamin procede invocando lo «spirito tolstoiano», associato al concetto del servizio «ai poveri», esempio dello «spirito veramente serio di un lavoro sociale» alla base di una «comunità veramente seria»31. Per contrasto l’attuale comunità universitaria rimane prigioniera di un concetto meccanico – cioè retrivo – del dovere e dell’interesse egoistico e l’immedesimazione degli studenti con «i lavoratori» o con «il popolo» è assolutamente astratta. Il discorso fu efficace. Uno dei membri piú attivi del circolo, Dora Sophie Pollack – la futura moglie di Benjamin –, ne fu travolta: «Il discorso di Benjamin fu una sorta di liberazione. Toglieva il respiro»32. Alla fine Dora si presentò all’oratore con un mazzo di rose. «Mai un mazzo di fiori – osservò Benjamin in seguito – mi ha reso cosí felice» (GB, I, 216).

In giugno egli partecipò al quattordicesimo congresso dei Liberi studenti a Weimar, caratterizzato da aspri dibattiti sulla responsabilità politica degli studenti indipendenti nel loro complesso. Il congresso vide una clamorosa sconfitta dei seguaci di Wyneken; le loro mozioni furono in gran parte «brutalmente messe in minoranza giorno dopo giorno» (GB, I, 236). Per esempio, una mozione congiunta delle delegazioni di Berlino e Monaco che proponeva di difendere il diritto degli studenti delle scuole superiori alla propria libertà d’opinione fu respinta con una maggioranza di diciassette voti a cinque (GS, II, 877). Come presidente del gruppo di Berlino, Benjamin ebbe una parte importante in questa assemblea nazionale, dove il primo giorno tenne una conferenza intitolata La nuova università, evidentemente simile nel contenuto al suo discorso inaugurale del mese precedente. Sembra che a Weimar egli abbia parlato senza una traccia scritta. Dalle sue lettere di quel periodo si evince che basò le sue osservazioni sulle lezioni sull’educazione di Nietzsche e di Johann Gottlieb Fichte33. I Discorsi alla nazione tedesca di quest’ultimo, del 1807, proponevano un sistema universitario finalizzato a realizzare la vita della ragione come precondizione principale per l’instaurazione di una nazione tedesca; Sul futuro delle nostre istituzioni educative di Nietzsche, del 1872, si opponeva alla macchina educativa guidata dallo Stato e finalizzata alla specializzazione a spese di un’autentica autoeducazione condotta sotto la guida di grandi maestri e legata alla filosofia e all’arte. Per gli studenti indipendenti tutto ciò riconduceva alla «necessità della decisione morale»34. In un rapporto sul congresso, un rappresentante della maggioranza conservatrice parlò in modo piuttosto sprezzante del discorso di Benjamin:

era stupefacente vedere come egli – che nello spirito del suo maestro ha seguito una strada personale – abbia focalizzato tutti i suoi pensieri verso un unico polo magnetico: l’idea della piú elevata formazione educativa. Il punto è che questo giovane proveniente da Wickersdorf, con la tipica arroganza, ha rimesso tutto in questione: l’università, la scienza, la dottrina, la cultura del passato (in GB, I, 239 n).

Lo stesso Benjamin commenta il «rancore diffuso in queste riunioni», dalle quali i seguaci di Wyneken, che agivano in nome di «una certa decenza, un certo portamento spirituale», emergevano comunque mantenendo la propria dignità, salvaguardando in definitiva tanto le proprie «posizioni nobili ma isolate» di fronte al mondo esterno, quanto il «timore reverenziale degli altri» (GB, I, 236). Per un po’ essi avrebbero proseguito nello sforzo di realizzare «una comunità di giovani fondata solo su se stessa e sulla propria forza e non piú, in alcun modo, politicamente» (GB, I, 231), benché anche questa volta il rifiuto dei partiti politici e dei concreti obiettivi politici non escludesse il fine del cambiamento sociale, di un serio «lavoro sociale» e di conseguenza un certo livello di responsabilità politica.

Il saggio dell’estate del 1914, La vita degli studenti, che Benjamin sviluppò direttamente dal discorso inaugurale e dalla conferenza di Weimar, si distingue fin dall’inizio sia da una chiamata alle armi sia da un manifesto programmatico. Abbiamo già discusso l’importante paragrafo iniziale, il messaggio di un compito storico il cui obiettivo fondamentale è rivelare le energie messianiche del presente; il recupero della storia a beneficio del presente si ricollega a una tradizione di pensiero che da Novalis e da Friedrich Schlegel arriva a Nietzsche attraverso Baudelaire. Si impone il compito di riflettere, e precisamente di riflettere sulla «crisi» che avanza, nascosta nell’organizzazione sempre piú protetta della vita. Piú nello specifico il saggio cerca di delineare il significato della vita studentesca all’università da un punto di vista al contempo metafisico e storico, e attraverso un’opera di critica (Kritik) tale da «liberare il futuro dalla forma falsa e guasta che lo imprigiona nel presente» (OC, I, 250). Come Wyneken, Benjamin prende di mira la strumentalizzazione dell’educazione, la perversione per cui «lo spirito creativo decade a spirito professionale». Egli accusa l’intero «apparato» professionale che opera nelle università, e la fiacca e acritica acquiescenza degli studenti di fronte a questa situazione, come se avessero soffocato ogni loro autentica vocazione per l’apprendimento e l’insegnamento. Come correttivo dell’attività estrinseca di formazione e di conferimento di titoli egli si appella all’idea dell’«unità interna» (che avrà il suo equivalente estetico nel saggio su Hölderlin, iniziato quello stesso anno). In sostanza, il meccanismo della formazione professionale, sostiene Benjamin, isola le diverse discipline dalla loro comune origine nell’idea di conoscenza (Idee des Wissens), cioè nella filosofia intesa come «comunità di uomini conoscenti». La soluzione dell’attuale «concezione caotica della vita scientifica» consiste quindi nel restituire le discipline alla loro origine nella sensibilità e nella prassi filosofica, nel fare di ogni tipo di studio uno studio autenticamente filosofico.

Naturalmente Benjamin non si preoccupa di spiegare in che modo possa essere realizzata questa trasformazione della vita accademica, si limita a suggerire che non si tratta di far sí che gli avvocati si occupino di questioni letterarie o i medici di questioni legali, ma di subordinare gli specifici ambiti della conoscenza all’idea del tutto rappresentato dall’università stessa – che naturalmente non significa subordinarli al Dipartimento di filosofia. La vera sede dell’autorità è la comunità universitaria come ideale operativo. Vediamo in questo uno sviluppo logico: dall’affermazione dell’intrinseca unità della conoscenza all’idea di unificare le discipline accademiche, e da qui alla richiesta di istituire rapporti non gerarchici tra docenti e studenti e tra maschi e femmine nella comunità universitaria e nella comunità piú ampia. Costituire un’avanguardia intellettuale, questo era il ruolo degli studenti nella loro dedizione alla «rivoluzione spirituale permanente» e al «dubbio radicale»: tenere aperta la possibilità dell’interrogazione e della discussione, della «cultura del dialogo», non solo per prevenire la degenerazione dello studio nell’accumulo di informazioni ma anche per preparare la strada a cambiamenti fondamentali nella vita sociale di tutti i giorni35.

La sconfitta di Weimar in giugno poteva essere vista retrospettivamente come un segno premonitore dell’imminente scioglimento del movimento studentesco d’anteguerra che era stato al centro delle attività di Benjamin per piú di quattro anni. È vero che in luglio egli fu rieletto per altri sei mesi presidente dell’associazione dei Liberi studenti di Berlino, ma in agosto, allo scoppio della guerra, abbandonò ogni interesse per la riforma della scuola (se non per la teoria dell’educazione) e ruppe i rapporti con la maggior parte dei compagni del movimento giovanile. Le lettere di quell’estate dimostrano che non aveva superato, perlomeno nel contesto della sua vita quotidiana, l’opposizione tra isolamento e comunità. Egli esprime il bisogno di «una vita rigorosa» (GB, I, 245) e manifesta l’intenzione di cercare, durante le vacanze, «una capanna isolata nella foresta per trovare la pace e dedicarsi al lavoro»; di fatto non trova mai il tempo «di concentrarsi su qualcosa» (GB, I, 238). Quando, in luglio, andò in vacanza non partí per qualche avamposto isolato ma per le Alpi bavaresi in compagnia di Grete Radt, della quale era intimo amico fin dal 1913, e di suo fratello Fritz; tornati a Berlino annunciarono alquanto frettolosamente il loro fidanzamento36. Allo stesso tempo frequentava sempre piú spesso Dora Pollak e il suo primo marito, lo studente di filosofia Max Pollak; passavano le ore a parlare e sedevano intorno al piano per studiare un libro dell’esperto musicale della cerchia di Wyneken, August Halm. Dora non era sempre tranquilla come sarebbe piaciuto a Benjamin, ma «capisce sempre ciò che è fondamentalmente giusto e semplice e perciò io so che siamo intellettualmente affini» (GB, I, 222).

Parecchi amici di Benjamin hanno lasciato ritratti poco lusinghieri di Dora Pollak. Secondo Franz Sachs era una specie di

Alma Mahler en miniature. Pretendeva sempre di avere l’uomo che nella nostra cerchia di amici le appariva come il futuro leader o intellettualmente promettente, e lo cercò in varie persone senza grande successo finché approdò a W. B. E lo sposò. Non credo che sia mai stato un matrimonio felice37.

Secondo Herbert Belmore era «un’oca ambiziosa che voleva sempre nuotare nelle correnti intellettuali piú recenti»38. Il tono di queste affermazioni, provenienti da due dei suoi piú vecchi amici, è senz’altro da attribuire almeno in parte alla gelosia: Benjamin era il leader intellettuale del gruppo, ed era molto richiesto. Inoltre, Dora era «una donna molto bella ed elegante [… che] partecipava a quasi tutte le nostre conversazioni in modo vivace ed empatico», come scrisse Scholem, confermando il «rapporto amichevole» tra lei e Benjamin, perlomeno nel 1916 (SA, 45). Per molti aspetti Dora era perfettamente complementare a Benjamin: se negli anni successivi egli visse interamente immerso nel lavoro intellettuale, avventurandosi solo occasionalmente in lavori pratici, spesso incerto e impacciato, Dora, senza venir meno al suo talento musicale e letterario (era figlia di un professore d’inglese di Vienna, un’autorità su Shakespeare), era un’abile organizzatrice, energica, acuta, orientata al risultato, e proprio questa sua attitudine pratica permise spesso a Benjamin di dedicarsi alla ricerca e alla scrittura.

Figura 5.

Dora Kellner.

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Durante gli anni passati nella capitale Benjamin si formò a poco a poco come intellettuale a pieno titolo. Influí non poco sulla sua formazione il fascino dei caffè berlinesi. Nel vecchio Café des Westens – luogo di ritrovo dei bohémien della città e piú noto come Café Grössenwahn (Caffè Megalomania) – incontrò personaggi di rilievo come i poeti espressionisti Else Lasker-Schüler e Robert Jentzsch e l’editore Wieland Herzfelde, anche se manteneva generalmente le distanze dalla «bohème appagata e consapevole del proprio valore» (OC, V, 261), forse cosciente della propria «giovane età» in confronto a questa élite estranea all’università. La principale attrazione dei caffè era la presenza delle cocottes, che costituivano l’indistinta periferia della sua vita erotica; è dall’«incomprensibile» erotismo che nasce evidentemente l’osservazione rivolta a Belmore subito dopo il suo ventiduesimo compleanno: «non devi piú pensare a me come a una singola persona [nicht mehr als einzeln denken], è come se io fossi appena entrato in un’età divina, mi fossi realizzato appieno […] So di non essere nulla, ma di esistere nel mondo di Dio» (GB, I, 245). Quando, piú di dieci anni dopo, il demi-monde divenne il tema dei Passages, Benjamin poté scriverne forte di una lunga esperienza di prima mano. Nel frattempo, i suoi studi universitari sembravano diventare meno importanti che mai; come si legge in una lettera dell’inizio di luglio, «L’università non è affatto il posto giusto per studiare» (GB, I, 242).

Fu nel Café des Westens, «nei primissimi giorni d’agosto» in cui la Germania dichiarò guerra alla Russia e alla Francia, che Benjamin e alcuni amici decisero di arruolarsi – non in un impeto di fervore militaresco, come spiega in Cronaca berlinese, ma nel tentativo di «assicurarsi un posto con gli amici […] vista l’inevitabilità dell’arruolamento» (OC, V, 260). Com’era prevedibile alla visita fu scartato, almeno inizialmente, data la sua miopia e una piú generale gracilità. Ma poi, l’8 agosto, «accadde il fatto che fece scomparire a lungo ai miei occhi questa città e questa guerra»: Fritz Heinle e Rika Seligson (sorella di Carla) si suicidarono aprendo il gas nella sala di conversazione39. Benjamin fu svegliato la mattina dopo da un messaggio urgente che diceva: «Ci troverà nello Heim» (OC, V, 260, 257). I giornali descrissero l’evento come il risultato di un amore impossibile, ma gli amici della coppia videro in esso la piú terribile protesta contro la guerra. Lo stesso Benjamin prese possesso dei manoscritti di Heinle, che intendeva curare e pubblicare; dopo anni di vani tentativi furono abbandonati e finirono persi quando nel 1933 andò in esilio. Per commemorare il suo compagno scomparso egli scrisse un ciclo di cinquanta sonetti, aggiungendone altri negli anni; poesie composte con grande cura e spesso struggenti, che avrebbe letto a voce alta agli amici piú stretti (OC, II, 297-373). La morte di Heinle fu un’esperienza dalla quale Benjamin non si riprese mai completamente. Mentre sulla base degli scritti di Heinle o delle varie affermazioni di Benjamin sul tema è pressoché impossibile ricostruire la vera natura del rapporto fra i due giovani, è tuttavia fuori discussione l’effetto dirompente che il suicidio di Heinle ebbe su Benjamin. I riferimenti a Heinle, spesso cifrati, costellano i suoi scritti editi e Heinle, o meglio il suo cadavere, svolge un ruolo drammatico nelle pagine iniziali di due tra le piú importanti opere di Benjamin, Strada a senso unico e Infanzia berlinese. Ma per Benjamin il suicidio è molto piú di un tema letterario; l’immagine del suo amico morto non sarebbe stata estranea ai suoi stessi impulsi suicidi, che divennero sempre piú intensi a partire dalla metà degli anni Venti.

Il primo effetto che il doppio suicidio ebbe su Benjamin fu un periodo di prolungata inattività. Secondo Scholem, in settembre o in ottobre doveva presentarsi alla commissione di leva: «Benjamin si presentò, secondo un piano prestabilito, fingendosi affetto da tremore. Venne dichiarato rivedibile per un anno» (SA, 30). Verso la fine di ottobre scrisse a Ernst Schoen una lettera piena di rabbia repressa nella quale sostiene l’esigenza di un nuovo radicalismo: «naturalmente siamo tutti consapevoli del fatto che il nostro radicalismo era semplicemente un gesto e che per noi dovrebbe diventare assiomatico un radicalismo piú forte, piú puro, piú invisibile» (GB, 257). «La palude che è oggi l’università» non può sostenere questa iniziativa; ma nonostante la barbarie, l’egocentrismo e la volgarità egli continuò a frequentare le lezioni. «Il nudo resoconto che ho fatto della mia timidezza, paura, ambizione e, ancora piú importante, della mia indifferenza, freddezza e mancanza di educazione mi ha terrorizzato. Nessuno [degli studiosi] si distingue per la tolleranza verso la comunità degli altri […] Nessuno è all’altezza di questa situazione» (GB, I, 257-58). La disillusione tanto evidente in questa lettera era se possibile ancora piú palese nella sua vita personale. La perdita dei suoi due compagni affrettò un brusco ripiegamento; per ragioni che rimasero oscure agli interessati, egli ruppe i rapporti con tutti i suoi amici piú stretti del movimento giovanile. Cohn e Schoen non vi erano mai stati coinvolti e perciò sfuggirono a questo strappo. Ma Belmore, il suo amico piú intimo dei primi anni di università, venne di fatto evitato e, nonostante una breve ripresa dei rapporti prima della rottura finale nel 1917, la loro amicizia non fu piú la stessa.

Durante l’inverno del 1914-15 Benjamin compose il suo primo grande saggio filosofico-letterario, Due poesie di Friedrich Hölderlin, provato dal dolore per la morte di Fritz Heinle; come accennò due anni dopo, il saggio fu scritto in sua memoria (OC, I, 627). Era anche il suo primo, importante tentativo di critica letteraria dai tempi della scuola superiore. Il saggio si distingue per l’autonoma teoria della critica e per la lettura estremamente originale di Hölderlin, anche se fu concepito sotto l’influsso delle idee estetiche allora dominanti nella cerchia raccolta intorno al poeta simbolista tedesco Stefan George. Il confronto di Benjamin con il grandissimo e difficile poeta romantico fu reso possibile dalla pubblicazione della prima edizione storico-critica delle opere di Hölderlin da parte del discepolo di George Norbert von Hellingrath, anch’egli morto al fronte40. L’edizione di Hellingrath, che cominciò a essere pubblicata nel 1913, diede in realtà inizio a una straordinaria rinascita di interesse per questo poeta, quasi dimenticato nei primi anni dell’impero guglielmino. Nel periodo immediatamente precedente la guerra, la miscela di estetismo e nazionalismo della scuola di George sfociò in un diffuso fraintendimento di Hölderlin come cantore del nazionalismo: molti soldati tedeschi andavano in trincea portando nello zaino un’edizione speciale delle sue poesie.

Era prassi comune, all’epoca, svolgere minuziose analisi di singole opere di un autore moderno. Come il suo contemporaneo Benedetto Croce, piú anziano di lui, la cui Estetica aprí la strada alla critica della singola opera d’arte come «fatto estetico» concreto e irriducibile, come soluzione piú o meno felice di uno specifico «problema artistico», Benjamin rifiuta le categorie e le classificazioni della filologia comparata e dell’estetica tradizionale. Ma il saggio si distingue anche per altre ragioni. Attraverso analisi rigorose – e a volte tortuose –, esso propone una teoria della verità poetica, una teoria che supera l’usuale distinzione forma-contenuto sviluppando il concetto di compito41. Qui il termine fondamentale, per Benjamin, è «il poetato» (das Gedichtete, dal participio passato del verbo dichten, «comporre opere letterarie»). Ciò che è stato costruito poeticamente apre un orizzonte nel quale è in gioco la verità della singola poesia (Gedicht). Tutt’altro che statica, la verità consiste nel compimento dello specifico compito intellettuale e intuitivo che ogni poesia – in quanto opera d’arte – viene a costituire. Non si tratta di ricostruire il processo della composizione poetica, come Benjamin osserva all’inizio, poiché «questo compito viene dedotto dalla poesia stessa» (OC, I, 217). Allo stesso tempo, in quanto «struttura intellettuale, intuitiva di quel mondo di cui la poesia testimonia», il compito è il presupposto della poesia. La struttura del «poetato» – manifestazione di «plasticità temporale e accadere spaziale» – è sostanzialmente paradossale, non meno di quanto lo fossero la scrittura del «diario» nella Metafisica della gioventú o il compito storico carico di attesa messianica nella Vita degli studenti. In tutte e tre queste concretizzazioni della sua filosofia giovanile, Benjamin delinea una sfera privilegiata dell’intuizione nella quale l’idea classica del tempo e dello spazio si trasforma in un «ordine spazio-temporale» in cui il passato si riverbera nel presente, il centro si fa estensione – nucleo della metafisica decisamente moderna, o teoria dei campi, che fonda il concetto di origine (Ursprung) e di immagine dialettica delle sue opere posteriori.

«Nel poetato la vita si determina tramite la poesia, il compito tramite la soluzione». Non si tratta naturalmente della natura semplicemente imitativa dell’arte. La determinazione di un contesto vitale nella poesia manifesta «la forza della trasformazione», qualcosa di simile al mito, dove proprio le realizzazioni piú deboli sono caratterizzate da «un’eccessiva prossimità alla vita». Benché fondamentalmente la vita sia «alla base del poetato», l’opera d’arte presuppone «una strutturazione dell’intuizione e la costruzione di un mondo spirituale». Nel dialogo coevo sull’estetica e il colore, L’arcobaleno, Benjamin afferma che l’artista afferra la natura nella sua essenza solo attraverso l’atto generatore e costruttivo (AC, 88). Il poetato, diverso da poesia a poesia, emerge quindi come un modo di concepire il rapporto fra la vita e l’opera d’arte: cioè come un’idea del compito della poesia. Esso si manifesta nella lettura della poesia. «Questa sfera è insieme prodotto [Erzeugnis] e oggetto della ricerca» (OC, I, 217-18). La rappresentazione che emerge degli elementi intellettuali e intuitivi di una poesia configura la logica peculiare e la forza della «forma interna» della poesia (un’espressione desunta da Goethe ma rintracciabile anche in Wilhelm von Humboldt, di cui Benjamin quell’inverno, a Berlino, aveva studiato gli scritti sul linguaggio insieme con il filologo Ernst Lewy). In altre parole, il «puro poetato» rimane un concetto essenzialmente metodologico, un obiettivo ideale – «l’interpenetrazione spazio-temporale di tutte le figure in un unico plesso [Inbegriff] spirituale, il poetato, che è identico alla vita». Proiettando l’assoluta interconnessione che la poesia acquisisce nella lettura, l’idea del poetato consente una valutazione della poesia sulla base del suo grado di «intima coerenza e grandezza» (OC, I, 219) (criteri inevitabilmente modificati nell’estetica del frammento che caratterizza l’opera posteriore di Benjamin, dove non è piú in questione l’idea di «organismo» – come in Croce e in Bergson – ma di «monade» e dove la verità si distingue piú nettamente dalla «coerenza»).

Applicando il suo «metodo» critico, Benjamin si concentra su due poesie di Hölderlin, Il coraggio dei poeti (Dichtermut) e la successiva Timidezza (Blödigkeit), ipotizzando un processo di revisione dalla prima alla seconda. Egli sostiene che la revisione di Hölderlin tende sempre a una piú chiara definizione delle componenti intellettuali e intuitive, approdando nella seconda «versione», piú sicura, a una piú compiuta unione di immagine e idea, a una maggiore profondità di sentimento. In questa versione viene elaborata piú compiutamente l’idea del destino poetico – «la vita nel canto» –, fondamento del legame sacrificale tra il poeta e il popolo (o, nei termini della Metafisica della gioventú, isolamento e comunità). Non c’è dubbio che qui Benjamin faccia proprio il culto del poeta riscontrabile non solo in Hölderlin ma anche in tanti suoi epigoni, dallo Zarathustra di Nietzsche alle figure cavalleresche dello Jugendstil fino a Stefan George. Ma ben lontano dall’accontentarsi dell’esaltazione nel sublime, egli fa propria anche la formula di Hölderlin della «santa sobrietà» (heilignüchtern) e sottolinea che «l’analisi delle grandi poesie non incontrerà il mito stesso, è vero, ma un’unità nata dalla forza degli elementi mitici in conflitto tra loro, e che sarà espressione autentica della vita»42. Il superamento del mito – un aspetto programmatico degli scritti di Benjamin di ogni periodo – implica una trasformazione nell’idea dell’eroe. Nella revisione di Hölderlin del Coraggio dei poeti, la qualità del coraggio si trasforma in straordinaria «timidezza», intesa da Benjamin come «esistenza immota, la completa passività, che è l’essenza del coraggioso»43. L’atteggiamento autentico del poeta, che quando scrive è lontano dal centro della vita, consiste nell’«abbandonarsi interamente alla relazione [Beziehung]. Essa muove da lui e a lui ritorna». Il poeta è dunque il centro da cui si irraggiano le relazioni, il punto di indifferenza. La nuova-vecchia dialettica di emanazione e ritorno – che abbiamo visto all’opera nella Metafisica della gioventú e altrove – si ripresenta forse proprio alla fine del saggio, quando Benjamin cita l’ultimo Hölderlin sull’inevitabile ritorno del mito: «Le leggende che si allontanano dalla terra […] si volgono verso l’umanità [Menschheit]» (OC, I, 237). In definitiva ciò che è in gioco nel compito del poeta è dunque l’idea stessa di umanità, del «popolo» e dei «pochi», connessa a un «nuovo significato della morte», che Benjamin scopre nella seconda poesia – forse anche in conseguenza del suicidio di Heinle. La seconda poesia dissolve la «rigida» opposizione tradizionale fra l’uomo e la morte ancora presente nella prima; testimonia l’interconnessione della vita e della morte in un mondo «saturo di pericolo». È qui che Benjamin colloca l’origine del canto, poiché la morte «è il mondo del poeta»44.

Una quindicina d’anni piú tardi, subito dopo il divorzio e vicino ai quaranta, deciso a dare un nuovo inizio alla propria vita ma profondamente consapevole della provvisorietà di ogni cosa, Benjamin avrebbe ripensato a ciò che aveva realizzato negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale con un misto di orgoglio e di rimpianto: «non sono riuscito a costruire tutta la mia vita sulle splendide basi che avevo posto a ventidue anni» (L, 184). Il fermento intellettuale e politico di quegli anni esaltanti, trasformatosi alla fine in un nascosto radicalismo, aveva marcato i tratti della sua vita e, nonostante la vena romantica del suo pensiero avesse lasciato il passo a una tendenza materialistica e antropologica, egli sarebbe sempre rimasto, nel vero senso del termine, un chierico vagante alla ricerca di nuovi inizi.