Dopo aver completato Su alcuni motivi in Baudelaire Benjamin non ebbe il tempo di respirare. Il 23 agosto 1939 fu firmato il patto Hitler-Stalin e il 1° settembre le truppe tedesche invasero la Polonia. Benjamin non perse tempo e lasciò immediatamente Parigi: all’inizio di settembre fuggí a Chauconin, vicino alla città di Meaux a est di Parigi, dove fu ospitato dalla moglie del traduttore Maurice Betz. Era lí anche Helen Hessel: aveva ottenuto lei l’invito per il suo amico. Il suo piú grande timore era l’arruolamento, al quale era soggetto fino ai cinquantadue anni. Data la gravità della situazione e la tremenda incertezza sull’immediato futuro, Benjamin scrisse a Horkheimer supplicandolo di concedergli 15-20 dollari in piú per ciascuno dei successivi due mesi.
Risultò che l’arruolamento era l’ultima cosa che dovesse temere. Nonostante l’impressione generale che la guerra fosse imminente, le autorità francesi non si erano occupate delle migliaia di profughi tedeschi e austriaci entro i confini del paese; l’invasione della Polonia non lasciò loro il tempo di verificare l’orientamento politico dei profughi. Il 3 settembre furono affissi avvisi in tutta la regione che intimavano ai cittadini tedeschi e austriaci di recarsi con una coperta allo stadio olimpico Yves-du-Manoir a Colombes, un sobborgo nord-occidentale di Parigi. Il 9 settembre, o forse pochi giorni dopo, Benjamin fu internato insieme a migliaia di altri tedeschi e austriaci in età di leva. Hans Sahl, poeta e critico recluso insieme a lui, ci ha lasciato un ritratto vivo e rivelatore, anche se inevitabilmente parziale, dei due mesi di internamento di Benjamin. Nel suo racconto Benjamin è ricordato come il perfetto esempio dell’intellettuale totalmente privo di senso pratico. «Quanto piú tentava di capire la situazione usando la propria intelligenza e cultura storico-politica, tanto piú se ne allontanava». La visione di Sahl è senza dubbio influenzata dal suo anticomunismo – a partire dalla metà degli anni Trenta si era progressivamente distanziato dalla sinistra radicale –, ma l’immagine di un Benjamin i cui tentativi di gestire una difficile situazione pratica erano ostacolati dal suo stesso acume è coerente con ciò che sappiamo della sua vita in esilio1. Ma la mancanza di senso pratico non è il tratto dominante descritto da Sahl. In piú di un passo egli descrive Benjamin come una persona cosí profondamente immersa in se stessa da essere visto da coloro che lo circondavano come una sorta di veggente. Anche questo tratto si concilia con l’impressione generale di un uomo la cui interiorità si trincerava dietro la facciata imperturbabile e impenetrabile della sua cortesia.
Lo stadio di Colombes, come lo chiamavano i detenuti, offriva riparo dalle intemperie con i suoi posti coperti solo a una parte dei reclusi. Si nutrivano con una dieta sempre uguale di paté di fegato a buon mercato spalmato sul pane, ed erano costretti a costruirsi latrine provvisorie. Sahl racconta che le condizioni di vita erano difficili anche per chi era giovane e sano; per Benjamin, che a 47 anni era uno dei detenuti piú vecchi e già in uno stato di salute precario, erano proibitive. È certo che la vita gli fu salvata da un giovane, Max Aron, che venne in suo aiuto. Aron ricordò tempo dopo:
La prima sera ho notato un uomo piú vecchio seduto in silenzio, immobile, su uno dei posti. Forse non aveva ancora cinquant’anni. […] Solo quando lo rividi la mattina dopo, seduto (cosí mi parve) allo stesso posto, incominciai a preoccuparmi. C’era qualcosa di dignitoso nel suo silenzio e nella sua postura. Semplicemente non c’entrava nulla con quell’ambiente2.
A Sahl sembrò che «nelle cure che questo giovane si prendeva per quell’individuo fisicamente fragile, smarrito in tutte le cose pratiche, [ci fosse] un rispetto quasi biblico per lo spirito in tempi di tormenti e di pericolo».
Dopo dieci giorni di segregazione i detenuti furono divisi in gruppi e mandati in campi di internamento (camps des travailleurs volontaires) sparsi in tutta la Francia. Benjamin e i suoi amici – non solo Aron e Saxl ma anche il drammaturgo Hermann Kesten – cercarono di restare uniti; furono portati sotto scorta armata prima alla Gare d’Austerlitz e quindi in treno a Nevers, circa 250 chilometri a sud di Parigi al confine occidentale della Borgogna. All’arrivo, nel tardo pomeriggio, i prigionieri furono costretti a una marcia di due ore per essere poi lasciati al Château de Vernuche. Per Benjamin la marcia fu una tortura, il suo cuore fu messo a dura prova, fino al limite. Tempo dopo disse a Adrienne Monnier di essere crollato per la strada, nonostante che Aron trasportasse i suoi miseri averi. I trecento prigionieri trovarono un castello completamente vuoto e finché qualche giorno dopo non fu portata della sabbia dormirono sul pavimento. Questi continui shock furono una dura prova per Benjamin; aveva bisogno di molto piú tempo dei suoi compagni per adattarsi alla situazione: alla fame, al freddo, alla sporcizia e al «frastuono costante». La sua salute ne soffrí, e c’erano giorni in cui rimaneva completamente prostrato, incapace perfino di leggere. Con l’aiuto di Aron si stabilí in una specie di riparo sotto una scala a chiocciola; una tela di sacco gli garantiva una certa riservatezza.
I problemi posti dalla vita nel campo non si limitavano naturalmente alle privazioni materiali. Ai detenuti non veniva data nessuna informazione sulle intenzioni delle autorità: erano totalmente all’oscuro sul proprio futuro. Circolavano voci di ogni genere, alludendo a volte a una liberazione imminente, a volte alla definitiva privazione di ogni libertà. E in un continente lacerato dalla guerra ai detenuti non arrivava nessuna notizia sugli amici e sulle persone care. Benjamin sapeva, perlomeno, che Dora e Stefan erano al sicuro a Londra. Non aveva invece notizie di sua sorella, e solo dopo molte settimane seppe qualcosa dai suoi amici a Parigi e in Svizzera. Uno degli eventi piú importanti degli ultimi mesi di vita di Benjamin fu il consolidamento della sua amicizia con lo scrittore Bernard von Brentano, in stretti rapporti con Brecht; Brentano fu uno dei pochi a cui Benjamin scrisse in questo periodo, facendo di tutto per tenerlo informato sui propri spostamenti e sulle proprie condizioni di vita. Temeva inoltre che lo scoppio della guerra avrebbe significato la fine, una volta per tutte, dello stipendio, anche se l’Istituto era in grado di pagarlo; sapeva che i conti correnti dei detenuti erano stati bloccati, almeno temporaneamente. Non si sapeva in che modo i cittadini stranieri avrebbero potuto ritirare i propri depositi presso le banche francesi. Scrisse perciò a Juliane Favez, amministratrice dell’Istituto a Parigi, chiedendole aiuto affinché i suoi fondi fossero messi al sicuro e venisse pagato l’affitto dell’appartamento. Le chiese anche di informare Horkheimer e Pollock sulle proprie condizioni: «Non ho quasi mai la tranquillità necessaria per scrivere personalmente a New York» (GB, VI, 339). Risultò che sua sorella e Milly Levy-Ginsberg (moglie del suo amico Arnold Levy-Ginsberg, lo storico dell’arte nipote di Else Herzberger) stavano occupandosi dei suoi affari e curando il suo appartamento e i suoi averi.
Come era accaduto spesso in passato, le difficoltà della situazione lo indussero a trascrivere i suoi sogni. Uno soprattutto, che aveva a che fare col tema della «lettura», fu abbastanza straordinario da indurlo a condividerlo con New York:
L’altra notte, mentre giacevo nella paglia, ho fatto un sogno cosí bello che non resisto alla tentazione di raccontarlo. […] Il medico di nome [Camille] Dausse che mi accompagna in questo sogno, è un amico che si era preso cura di me quando avevo contratto la malaria [nell’autunno del 1933]. Dausse e io eravamo in compagnia di molte altre persone che non ricordo. A un certo punto ci siamo separati dal gruppo. Dopo aver lasciato gli altri ci siamo ritrovati in una fossa, al fondo della quale c’erano alcuni letti di forma strana. Avevano la forma e la lunghezza di bare; sembravano inoltre fatti di pietra. Tuttavia, inginocchiatomi, ho visto che ci si poteva comodamente sdraiare all’interno come in un letto. Erano coperti di muschio e di edera. Vedevo che questi letti erano accoppiati a due a due. Proprio quando stavo per sdraiarmi in uno di essi, vicino a un letto che sembrava destinato a Dausse, mi sono accorto che era già occupato da altri. Cosí abbiamo ripreso il cammino. Il luogo assomigliava a una foresta; ma nella posizione dei tronchi e dei rami c’era qualcosa di artificiale, che faceva vagamente assomigliare questa parte del paesaggio a una costruzione navale. Camminando lungo alcune travi e attraversando diversi sentieri nella foresta ci siamo ritrovati su una specie di imbarcadero in miniatura, una piccola terrazza fatta di assi di legno. Lí abbiamo trovato la donna con cui viveva Dausse. C’erano tre o quattro di loro, e sembravano molto belli. La prima cosa che mi colpí fu che Dausse non mi presentò. Non mi disturbavano quanto la scoperta che feci quando posai il cappello su un pianoforte a coda. Era un vecchio cappello di paglia, un Panama che avevo ereditato da mio fratello (non esisteva piú da molto tempo). Prendendolo mi colpí un largo taglio sulla sommità. I bordi del taglio mostravano inoltre tracce di rosso. Mi fu portata una sedia. Quando volli portare un altro me stesso non me lo impedirono: lo feci sedere un po’ discosto dal tavolo a cui erano seduti gli altri. Io non mi sedetti. Nel frattempo una delle donne si dedicava alla grafologia. Vidi che aveva in mano qualcosa scritto da me, e che le era stato dato da Dausse. Ero un po’ turbato da questo esame, temevo che potesse svelare qualche mio tratto nascosto. Mi avvicinai. Vidi un vestito coperto di disegni; l’unico elemento grafico che potei distinguere era la parte superiore della lettera D, le cui linee appuntite rivelavano un’estrema tensione verso la spiritualità. Anche questa parte della lettera era stata coperta con un piccolo pezzo di stoffa dal bordo blu, che si sollevava dal disegno come se fosse esposto all’aria. Questa fu l’unica cosa che fui in grado di «leggere» – il resto presentava disegni e nuvole indistinti e vaghi. Per qualche istante la conversazione si spostò su questo scritto. Non ricordo quali opinioni furono espresse; ma ricordo molto bene che a un certo punto dissi queste esatte parole: «Il problema è trasformare una poesia in una sciarpa». Avevo appena parlato quando accadde qualcosa di interessante. Vidi che tra le donne ce n’era una molto bella che si era sdraiata in un letto. Mentre ascoltava le mie spiegazioni fece un movimento veloce come un lampo. Sollevò un lembo molto piccolo della coperta sotto la quale si era sdraiata. Compí questa azione in meno di un secondo. E non lo fece per mostrarmi il suo corpo, ma il disegno sulla coperta, simile all’immagine che avevo dovuto «scrivere» molti anni fa come regalo per Dausse. Sapevo bene che la donna aveva fatto questo movimento. Ma questa informazione mi veniva da una sorta di seconda vista. I miei occhi veri e propri, infatti, guardavano altrove ed io non potei distinguere nulla di ciò che era stato rivelato dalla coperta cosí fugacemente sollevata per me (BG, 390-92; originale in francese).
Ma la preoccupazione principale di Benjamin riguardava il destino del suo saggio su Baudelaire. Temeva che l’Istituto, nell’impossibilità di contattarlo, operasse dei cambiamenti e lo pubblicasse senza il suo consenso. Fu sollevato quando alla fine di settembre ebbe notizie da sua sorella, che gli passò il testo di un cablogramma da New York: «Il Suo straordinario studio su Baudelaire ci ha colpito come un raggio di luce. I nostri pensieri sono con Lei» (BG, 390 n). Non poté leggere le bozze, ma il saggio fu pubblicato senza cambiamenti nel numero successivo della «Zeitschrift».
Nonostante queste preoccupazioni, come la maggior parte dei detenuti Benjamin si faceva coraggio giocando a scacchi o condividendo il «piacevole spirito cameratesco» che dominava al castello (BG, 388). Sahl lo descrive nel dettaglio: «Una comunità che incominciava a funzionare fu subito attratta dal vuoto; dal caos e dall’impotenza nacque una società»3. I detenuti incominciarono ben presto a organizzare tutti gli aspetti della vita nel campo: scopare e pulire con ramazze e stracci, stabilire un’economia primitiva usando come monete sigarette, chiodi e bottoni. Il campo offriva un’insolita varietà di opportunità culturali. Sahl dava lettura delle sue poesie (per esempio la sua Elegia per l’anno ’39); una volta ristabilitosi Benjamin fece delle conferenze (una delle quali riguardava il concetto di colpa) e tenne, dietro compenso, un seminario di filosofia «per studenti avanzati». Il compenso gli veniva pagato nella rudimentale valuta del campo4.
A un certo punto un gruppo di cinefili tra i detenuti convinse il comandante a concedere loro un pass giornaliero (sotto forma di una fascia al braccio) per condurre ricerche per un documentario filofrancese; al ritorno da Nevers intrattennero i loro invidiosi camerati rimasti al campo con racconti di vino e cibo francesi. Con la speranza di ottenere una fascia, per la terza volta nella sua vita – dopo i tentativi falliti con «Angelus Novus» all’inizio degli anni Venti e «Krisis und Kritik» nei primi anni Trenta – Benjamin tentò di fondare una rivista. Come direttore del progettato «Bulletin de Vernuche: Journal des Travailleurs du 54e Régiment» raccolse tra la popolazione del campo un’eccellente squadra di scrittori e redattori. Le bozze del primo numero, conservate alla Akademie der Künste di Berlino, comprendevano studi di sociologia della vita del campo, studi critici sull’arte del campo (cori, rappresentazioni teatrali dilettantistiche ecc.) e uno studio sulle abitudini di lettura dei carcerati. Il contributo proposto da Sahl, un’analisi della costituzione «dal nulla di una società», avrebbe assunto la forma di un racconto nello stile del Robinson Crusoe di Defoe. Come i due tentativi precedenti, ma per ragioni molto piú ovvie, la rivista non fu mai pubblicata.
Il resoconto di Sahl sulla vita del campo è aspramente critico nei confronti delle autorità francesi. Benjamin era invece pieno di ammirazione per tutte le forme di resistenza francese al «furore criminale di Hitler». Il 21 settembre scrisse a Adrienne Monnier dichiarandosi pronto a servire «la nostra causa» come meglio poteva, anche se la sua forza fisica era «ridotta a niente» (GB, VI, 334). Alla metà di ottobre, dopo piú di cinquanta giorni di prigionia, Benjamin poté riferire a Brentano di aver recuperato «la forza morale» per leggere e scrivere (GB, VI, 347). Molte amiche, soprattutto Adrienne Monnier, Sylvia Beach e Helen Hessel, gli mandarono cioccolata, sigarette, riviste e libri. Leggeva ciò che gli veniva mandato: le Confessioni di Rousseau (che lesse per la prima volta) e i Mémoires del cardinale Retz. Come dimostra la sua ossessione per la fascia al braccio, non abbandonò mai il pensiero della libertà. A sostegno della sua domanda di naturalizzazione aveva già raccolto testimonianze di Paul Valéry e di Jules Romains; ora vi aggiunse testimonianze di Jean Ballard e di Paul Desjardins nella speranza che potessero sostenere i tentativi di liberarlo. Adrienne Monnier lavorò intensamente allo stesso scopo, e alla fine riuscí a convincere il Pen Club, l’organizzazione internazionale degli scrittori e dei letterati, a intervenire con il ministro dell’Interno a favore di Benjamin e di Hermann Kesten, internato in un altro campo. All’inizio di novembre i primi detenuti furono liberati. La liberazione di Benjamin fu decretata da una commissione interministeriale il 16 novembre, dopo l’intervento del diplomatico Henri Hoppenot, amico della Monnier.
Il 25 novembre Benjamin era di nuovo a Parigi. I suoi amici, preoccupati per la sua salute, avevano fatto in modo che Gisèle Freund lo andasse a prendere in automobile. Aveva perso peso ed era a tal punto esausto che fu piú volte costretto «a fermarsi a metà strada perché incapace di proseguire» (L, 389). Ma al ritorno scrisse a Scholem (al quale non aveva scritto durante la prigionia perché la corrispondenza era limitata a due lettere a settimana) che si sentiva relativamente bene. Tornava spesso col pensiero al campo. Tra i primi prigionieri a essere liberato, proprio quando incominciava a farsi sentire il clima invernale, apprezzava in modo particolare la sua buona stella: scrisse a molte delle persone che aveva da poco conosciuto a Nevers e mandò rifornimenti a molti di loro. Un effetto positivo dell’internamento fu il consolidarsi della sua amicizia con Kesten. Nelle discussioni con gli amici a Parigi si parlava spesso del campo e dei motivi per cui erano stati internati tanti oppositori di Hitler. Apprese da Gisèle Freund che in Inghilterra la situazione era molto diversa. Là erano stati internati solo i simpatizzanti nazisti. Agli altri cittadini tedeschi e austriaci, forse quasi cinquantamila persone, era stato chiesto di sottostare a un interrogatorio in tribunale: quelli che potevano dimostrare di essere vittime del regime tedesco ottenevano la libertà (GB, VI, 352).
Tornato al lavoro in Rue Dombasle, si dedicò a nuovi progetti. Mandò all’Istituto per la ricerca sociale la proposta di un saggio sulle Confessioni di Rousseau e sui diari di Gide, «una sorta di critica storica della “sincerità”». Spedí allo scrittore tedesco Paul Landsberg, che aveva incontrato qualche volta alle conferenze del Collège de Sociologie, copie del Narratore. Benjamin sperava che i residui contatti di Landsberg con il «Circolo Lutetia» potessero aiutarlo nella pubblicazione del saggio in traduzione francese. Votato alla caduta del regime hitleriano, il Circolo Lutetia era stato organizzato da Willi Münzenberg nel 1935 e aveva continuato l’attività fino alla fine del 1937. Il gruppo comprendeva comunisti, socialdemocratici e membri dei partiti borghesi di centro; vi avevano preso parte fra gli altri Heinrich e Klaus Mann, Lion Feuchtwanger ed Emil Ludwig.
Benjamin si sentiva ancora profondamente legato a Parigi, che non solo era stata la sua patria per sette anni ma anche il soggetto dell’opera della sua vita: prima attraverso l’indagine della preistoria del XIX secolo quale appariva attraverso la luce soffusa dei passages parigini, ora attraverso lo studio di Baudelaire che ne era derivato. Sapeva che «nulla al mondo potrebbe sostituire per me la Bibliothèque Nationale» (L, 390). Ma era anche perfettamente consapevole che la sua libertà era solo temporanea e che se voleva abbandonare la Francia avrebbe dovuto lasciare in fretta la città. I suoi amici francesi (con la significativa eccezione di Adrienne Monnier) lo spingevano a partire, ed egli ricordava bene che solo l’insistenza di Gretel Adorno aveva avuto ragione della sua resistenza a tagliare tutti i legami con un’altra patria – la Germania – nel 1933. Nella prospettiva di lasciare la Francia intraprese perciò una serie di nuove iniziative. Fra queste il tentativo di imparare l’inglese. Disse perciò a Gretel che non aveva difficoltà a leggere le sue lettere in inglese e scrisse lui stesso, forse con l’aiuto di un amico, una lettera di ringraziamenti in inglese a Cecilia Razowsky, un’assistente sociale nell’ufficio di Parigi del National Refugee Service. Il 17 novembre la Razowsky aveva trasmesso al consolato americano a Parigi la richiesta di un visto per Benjamin; era accompagnata da affidavit di sostegno da parte di Milton Starr di Nashville, Tennessee, un ricco uomo d’affari e mecenate. L’imprevisto manifestarsi di questo appoggio galvanizzò Benjamin. Mosso in parte dalla gratitudine per la disponibilità del Pen Club di intervenire in suo aiuto durante l’internamento, ma di certo anche nel tentativo di acquisire nuovi sostenitori, Benjamin si era candidato come membro della divisione dell’organizzazione per i profughi tedeschi. La sua candidatura era sostenuta da lettere di Hermann Kesten e di Alfred Döblin, e all’inizio di gennaio del 1940 venne informato dallo scrittore Rudolf Olden, direttore della divisione, che essa era stata accolta. Essa gli dava diritto alla tessera di membro, in tempi in cui qualunque documento di identificazione era prezioso. Scrisse anche a Horkheimer sollecitandolo a cercare il modo di utilizzare il visto, che sembrava ora a portata di mano. Horkheimer aveva certamente un’idea molto chiara del probabile destino degli esuli tedeschi ancora in Francia, ma prese tempo, facendo capire a Benjamin che per l’Istituto sarebbe stato piú facile continuare a dargli uno stipendio a Parigi che a New York. Nonostante questi segnali contraddittori, il 12 febbraio 1940 Benjamin presentò al consolato americano domanda formale per un visto per l’America.
In quel periodo incontrò due volte la sua ex moglie, Dora, che viaggiava tra Sanremo e Londra per trasferire la sua attività. Nel 1938 aveva sposato l’uomo d’affari sudafricano Harry Morser e stava per aprire una pensione nella capitale britannica. Vi sono diverse versioni del suo primo incontro con Morser. Alcune testimonianze documentano che la sua famiglia, i Kellner, avessero rapporti amichevoli con la famiglia di Heinrich Mörzer a Vienna; ma Dora potrebbe averlo incontrato quando egli era suo ospite nella pensione di Sanremo. Mörzer era diventato cittadino sudafricano all’inizio del secolo e aveva cambiato il proprio nome in Harry Morser. Molte testimonianze – tra le quali quella delle due figlie di Stefan Benjamin – sostengono che Dora fece un matrimonio di convenienza finalizzato alla sua definitiva immigrazione in Inghilterra. Morser la accompagnò comunque in almeno uno dei suoi viaggi a Parigi, e fece su Benjamin un’impressione favorevole. Ernst Schoen raccontò, da Londra, che Dora, Stefan e «Herr Morser» si erano isolati da tutti i loro vecchi amici fino al punto di tener nascosto il loro indirizzo, il che farebbe pensare che vivessero insieme come una famiglia. È significativo il fatto che Dora presentasse Morser a Benjamin come «un amico». Lo sollecitò inoltre, ma invano, a seguirli in Inghilterra. Questo sarebbe stato l’ultimo incontro di Benjamin con la sua ex moglie. Dora visse a lungo, dirigendo diverse pensioni a Notting Hill, a Londra, e morí nel 1964, otto anni prima della scomparsa di suo figlio all’età di 53 anni5. Durante la guerra Stefan Benjamin fu internato in Australia, ma tornò a Londra e avviò un commercio di libri rari. Nonostante i sentimenti contrastanti che egli provava per il padre, li univa perlomeno una cosa: erano entrambi collezionisti.
Figura 1.
Documento d’accesso di Walter Benjamin alla Bibliothèque Nationale di Parigi, 1940.
All’inizio del nuovo anno Benjamin era alle prese con i problemi di una vita da ricostruire dopo l’internamento: dettagli quali riaprire il conto in banca, rinnovare l’accreditamento alla Bibliothèque Nationale e cercare di conservare le sempre piú scarse opportunità di pubblicazione. Il suo lavoro era ostacolato dalle condizioni materiali (un appartamento rumoroso e freddo, senza riscaldamento per due settimane alla fine di gennaio) e la salute precaria (il cuore non gli permetteva di fare le sue usuali, lunghe passeggiate). Scrisse a Gretel Adorno che passava la maggior parte del tempo a letto. Ma andava avanti a forza di presentimenti. Come molti altri abitanti di Parigi, i primi mesi dell’anno comprò una maschera a gas; diversamente dagli altri, considerava la sua presenza nel piccolo mondo in cui viveva un’ironica allegoria in cui Medioevo e modernità, spirituale e tecnologico si sovrapponevano: «un’inquietante copia di quei teschi che adornavano le celle di monaci studiosi» (L, 394). L’11 gennaio scrisse a Scholem: «Ogni riga che possiamo pubblicare oggi è una vittoria strappata alle potenze delle tenebre – per quanto sia incerto il futuro a cui la consegniamo» (TU, 299). Le ultime vittorie erano state forse la pubblicazione del saggio Su alcuni motivi in Baudelaire e del saggio di Jochmann con l’introduzione di Benjamin, i primi giorni del 1940, sulla «Zeitschrift für Sozialforschung».
Tuttavia Benjamin aveva ben poco da dire riguardo alla pubblicazione della versione rivista del saggio su Baudelaire; ne fece un breve accenno a Scholem chiedendogli la sua opinione, e scrisse un caloroso ringraziamento a Horkheimer per l’incoraggiamento rappresentato dall’accettazione del saggio, ma niente di paragonabile alla lettera del 6 agosto del 1939 a Adorno, nella quale discuteva «la piú precisa articolazione del quadro teorico» nella revisione del testo che aveva appena spedito. Autentico entusiasmo espresse invece Adorno, la cui «cattiva coscienza» si era trasformata in un «piuttosto vanitoso sentimento d’orgoglio» per aver favorito «la cosa piú perfetta che Lei ha scritto dal tempo del libro sul Trauerspiel e del saggio su Kraus» (BA, 415). È da notare come questa lunga lettera si diffonda in dettagli sul fatto che il saggio di Benjamin, come lo vedeva Adorno, fosse in sintonia con il suo stesso lavoro. All’affermazione di Adorno che «la Sua teoria del dimenticare e la teoria dello “shock” sono realmente in stretta sintonia con i miei scritti musicali» Benjamin rispose con una delle sue tipiche, cortesi digressioni:
Perché dovrei nasconderle che trovo la radice della mia “teoria dell’esperienza” in un ricordo della mia infanzia? Nelle località di villeggiatura in cui trascorrevamo l’estate, i nostri genitori – com’è naturale – facevano delle passeggiate con noi. Noi fratelli eravamo in due o in tre. Qui penso a mio fratello. Dopo che, partendo da Freudenstadt, Wengen o Schreiberhau, avevamo visitato una delle mete d’obbligo delle nostre escursioni, mio fratello soleva dire: «Ora possiamo dire di essere stati qui». Questa osservazione si è impressa in modo indelebile nella mia memoria (L, 399).
Questo scambio con Adorno è particolarmente rivelatore dello stato d’animo di Benjamin all’inizio del 1940. Il suo silenzio riguardo al saggio su Baudelaire dimostra come fosse ancora irritato per il rifiuto del testo sulla Parigi del Secondo Impero in Baudelaire, e come fosse perplesso su quest’ultimo, con la sua forzata soggezione a una teorizzazione astratta. Ma è ancora piú significativo il ricorso a ricordi dell’infanzia come fonti della sua ultima teoria dell’esperienza e la sostituzione di Adorno, e per estensione dell’Istituto, con Georg Benjamin. Il fratello e la sorella di Benjamin non avevano avuto la minima parte nella sua rielaborazione di Infanzia berlinese intorno al millenovecento nel 1938; due anni dopo, con alle spalle il campo d’internamento e davanti a sé la guerra, la sua vera famiglia aveva sostanzialmente preso il posto dell’Istituto, la famiglia intellettuale che lo aveva adottato alla metà degli anni Trenta.
Quali che fossero le sue persistenti riserve riguardo a Su alcuni motivi in Baudelaire, esse non interferirono con il suo atteggiamento di fondo riguardo al libro su Baudelaire, la cui prosecuzione «decisamente mi sta piú a cuore di qualunque altro lavoro» (L, 394). Dopo un lungo periodo di debilitazione e depressione, all’inizio di aprile ritornò a lavorare sullo schema che aveva elaborato nell’estate del 1938 in Danimarca, lo schema da cui era nato La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire. Non perse mai del tutto la speranza che questo saggio potesse essere pubblicato, da solo o come parte del libro su Baudelaire. Scrivendo a Stephan Lackner espresse la speranza che «il mio primo lavoro [su Baudelaire] arrivi prima o poi in mano Sua» (GB, VI, 441). In primavera, come disse a Adorno, aveva deciso di sospendere il saggio su Rousseau e Gide che aveva proposto, nonostante fosse piú adatto per l’Istituto e di piú agevole pubblicazione sulla «Zeitschrift»: «[Baudelaire] è l’oggetto che attualmente mi sta dinnanzi come il piú urgente; la cosa che piú mi preme è ottemperare a queste esigenze» (L, 400). Ma il nuovo periodo di attività produsse solo una serie di appunti sulla riorganizzazione dei materiali e su specifici aspetti del libro, non un testo vero e proprio.
All’inizio del 1940 i successi dell’esercito tedesco all’Est facevano apparire inevitabile un allargamento del conflitto. Come è ovvio Benjamin rivolse sempre piú i suoi pensieri alla situazione politica. Se gli mancavano gli aspri dibattiti politici che aveva avuto con Scholem fin dal 1924, in gennaio scrisse al suo vecchio amico che essi non avevano piú ragion d’essere, forse perché dopo la firma del patto fra Hitler e Stalin egli aveva perso ogni simpatia per la politica dell’Unione Sovietica. La percezione di una rinnovata intesa con Scholem emerge senza dubbio in qualche misura dal nuovo testo cui lavorava nei primi mesi del 1940, che includeva «un certo numero di tesi sul concetto della storia» che collegavano in modo originale aspetti politici, storici e teologici. Alla fine queste tesi diedero origine al saggio Sul concetto di storia, l’ultima grande opera di Benjamin. A diversi interlocutori disse che esse erano state stimolate dall’esperienza della sua generazione negli anni che portarono alla guerra di Hitler. Ma altrettanto importanti furono le intense discussioni con Hannah Arendt e Blücher, nell’inverno 1939-40, sul libro di Scholem Le grandi correnti della mistica ebraica, di cui l’autore aveva spedito a Benjamin il manoscritto. La Arendt ricordò che essi discussero in particolare l’analisi di Scholem del movimento del sabbatianesimo del XVII secolo. Il suo accostamento di una tradizione mistica messianica con un’agenda politica operativa è certamente alla base di alcune formulazioni di Benjamin nella sua nuova opera e soprattutto di alcuni motivi messianici largamente rimasti sotto traccia fin dall’inizio degli anni Venti. Le tesi in quanto tali derivavano in parte dai paragrafi iniziali del saggio su Eduard Fuchs, in parte dalle riflessioni legate al «quadro teorico» del libro su Baudelaire; ed entrambe queste fonti avevano naturalmente i loro fondamenti testuali nel materiale sui passages (GB, VI, 400).
Sul concetto di storia si apre con un memorabile pezzo di bravura di Benjamin. Immagina un automa che gioca a scacchi – un manichino vestito da turco davanti a un tavolo nel quale è nascosto un maestro di scacchi, un nano gobbo – che può battere tutti i suoi avversari. Il corrispettivo filosofico di questo congegno immagina che il manichino – il materialismo storico – vinca sempre purché prenda al proprio servizio ciò che è piccolo, brutto e segregato, cioè il nano gobbo della «teologia» (OC, VII, 483). Come spiega la sezione immediatamente successiva delle diciotto che costituiscono il saggio, nel 1940 l’interpretazione di Benjamin della teologia si concentra su una particolare idea di redenzione: a ogni generazione è stata consegnata «una debole forza messianica a cui il passato ha diritto»6. La radice teologica di queste ultime tesi non può essere colta in nessuna religione specifica; come tutti gli scritti di Benjamin che fanno esplicito uso di temi teologici essa deriva molto liberamente da fonti ebraiche e cristiane. Il concetto di redenzione discusso qui presuppone la categoria patristica di apocatastasi (richiamata, come abbiamo visto, nel convoluto N dei Passages). Oggi l’interpretazione corrente di questo termine designa la salvezza universale: per nessuno la redenzione è definitivamente esclusa. Il termine ricorre solo in un passo della Bibbia, Atti, 30 21, in una discussione sulla fine dei tempi. Qui il termine «apocatastasi» denota quella che si ritiene la restitutio ad integrum, la restaurazione di tutte le cose dopo la fine dei tempi. Ma in altre fonti note a Benjamin – soprattutto I principi di Origene di Alessandria, ma anche una serie di testi stoici e neoplatonici – l’apocatastasi conserva una dimensione cosmologica che ha a che vedere con la rigorosa alternanza delle ere di distruzione e rinascita. Nello stoicismo il termine designa la contrazione del cosmo nella mente di Zeus, da cui viene rigenerato come logos; piú specificamente, si riferisce al processo per il quale, in una conflagrazione che coinvolge tutte le cose, il cosmo è ricondotto al suo elemento primo, il fuoco. Solo allora può avvenire la rinascita di tutte le cose.
Con una delle mosse piú sottili delle sue ultime opere, Benjamin sposta questo concetto teologico-mistico dell’alternanza delle ere cosmiche sul piano politico e storiografico: «solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti». L’essere «citabile» è la condizione necessaria della tradizione vivente. Benjamin definisce il compito dello storico materialista – al quale, come a tutti, il pieno possesso del passato non è concesso – come l’appropriazione «di un ricordo cosí come balena in un attimo di pericolo»; questo ricordo (involontario) ha il carattere di una «immagine che balena, per non piú comparire, proprio nell’attimo della sua conoscibilità». Infatti, «l’immagine storica autentica balena fugacemente» e può essere recuperata, cioè citata, solo nel presente che riconosce se stesso come ciò che è inteso (gemeint) in quell’immagine. Il libro su Baudelaire – e il progetto di delineare una storia del XIX secolo che lo sorreggeva – era inteso come il tentativo di cristallizzare proprio quelle immagini e di presentare la storia stessa come «oggetto di una costruzione». Benjamin era convinto che l’autentica storiografia fosse un’impresa rischiosa, aspra, antitetica al tradizionale storicismo di un Ranke, teso a cogliere il passato, attraverso un processo di empatia intellettuale, «come realmente era». In definitiva, questa è un’empatia con un’unica cosa: con il vincitore. Tutti gli sforzi di conservare come reliquie, e dunque di reificare, gli eventi del passato presuppongono proprio quel continuum uniforme e vuoto che si frantuma nell’«adesso» (Jetztzeit), concentratosi in forma di monade, dell’immagine dialettica e del suo «balzo di tigre» nel «folto di tempi lontani» (OC, VII, 490-91 e n).
Tutto ciò che il materialista storico coglie […] del patrimonio culturale gli rivela una provenienza che non può meditare senza orrore. Tutto questo deve la sua esistenza non [solo] alla fatica dei grandi geni che l’hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie.
Si può riporre speranza nel passato, afferma Benjamin, solo se si sottrae la tradizione al conformismo volto a dominarla, solo se la si apre al momentaneo arresto e all’improvviso irrompere del «tempo messianico» – qualcosa che è al di là dei nessi causali e della cornice cronologica del moderno storicismo scientifico. Nell’esperienza messianica dell’«attualità universale e integrale»7, il momento presente del ricordo è la «strada» per la redenzione, l’occasione rivoluzionaria nella lotta per il passato oppresso (o soppresso). Ne consegue che il giorno del giudizio non è distinguibile dagli altri giorni. «Tener ferma l’eternità degli accadimenti storici, – leggiamo negli «Appunti sul tema», – vuole dire propriamente: attenersi all’eternità della loro transitorietà» (OC, VII, 506-10). Questa idea della eterna transitorietà prepara la strada «dell’esistenza storica autentica», dove gioia e sofferenza sono inscindibili. Ma chiunque voglia sapere esattamente a cosa potrebbe assomigliare questa «umanità redenta», e quando potrebbe manifestarsi, «pone domande alle quali non c’è risposta».
Al cuore del saggio, e quasi alla fine della sua vita, Benjamin evoca l’immagine che lo aveva accompagnato per quasi vent’anni: l’Angelus Novus di Klee. L’angelo di Klee, con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali spiegate, è diventato l’angelo della storia.
Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosí forte che l’angelo non può piú chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera (OC, VII, 487).
Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio Sul concetto di storia era, provvisoriamente, terminato e Benjamin ne mandò una copia dattiloscritta a Gretel Adorno a New York. Era perfettamente consapevole che la libera combinazione di materialismo storico (non alieno da commenti sulla socialdemocrazia e sulla lotta di classe) e di teologia speculativa presente in queste tesi si sarebbe rivelata esplosiva. Nonostante l’importanza che rivestivano per lui egli non aveva evidentemente intenzione di pubblicarle, soprattutto nella loro forma attuale, sperimentale: avrebbero suscitato «entusiastici fraintendimenti» (BG, 410). Grondanti di pessimismo per il presente e di disprezzo per qualunque idea di progresso che eludesse il presente, le tesi portano chiaramente impresso il segno della capitolazione della Russia e dell’Occidente alla volontà di potenza di Hitler. Si scagliano contro coloro che hanno tradito l’umanità: il fascismo, l’Unione Sovietica e infine quegli storici e politici che non hanno afferrato la situazione. Sul concetto di storia è piú in generale una summa del pensiero di Benjamin sulla storia – un pensiero che, attraverso il progetto dei Passages, risale ai giorni che seguirono la prima guerra mondiale. Come sottolineò nella lettera a Gretel Adorno con cui le inviò gli «Appunti»:
La guerra e la costellazione che l’ha prodotta mi ha indotto a scrivere alcuni pensieri che ho tenuto per me, o meglio nascosti anche a me stesso per quasi vent’anni. […] Anche oggi te li consegno piú come un mazzo di erbe fruscianti raccolte in pensose passeggiate, che come una raccolta di tesi (BG, 410).
L’immagine del mucchio di macerie ai piedi dell’angelo ricorda da vicino la reinterpretazione di Benjamin del teatro barocco, con i suoi oggetti storici disseminati a caso ma soggettivamente sovraccaricati. Per Walter Benjamin la storia rimase dall’inizio alla fine un Trauerspiel.
Come traspare dal tono di queste tesi, ben poco poteva alleviare il crescente isolamento di Benjamin e il senso di premonizione che lo assillava. Gustav Glück, amico stretto e ispiratore del saggio del 1931 Il carattere distruttivo, era fuggito con la famiglia a Buenos Aires. Pierre Klossowski, amico e traduttore, aveva lasciato Parigi per Bordeaux, dove aveva assunto un incarico nell’amministrazione comunale. Il giornalista ceco-tedesco Egon Erwin Kisch veniva sollecitato da Parigi ad andare in esilio in Messico. Alcuni nuovi amici, come il musicista Hans Bruck, erano ancora nei campi di internamento che costellavano la campagna francese. Altri amici e conoscenti, fra i quali Paul Desjardins, spiritus rector del centro di Pontigny, erano morti. Il giovane illustratore Augustus Hamburger, che Benjamin aveva conosciuto nel campo di Nevers, si era suicidato insieme alla sua compagna, Carola Muschler. Per lasciare il campo, diventato insostenibile, Hamburger si era arruolato nella legione straniera. Aveva trascorso i cinque giorni di vacanza che gli erano stati concessi per l’arruolamento all’Hôtel Georges V insieme a Carola Muschler; il quinto giorno si erano tolti la vita8. Benjamin aveva scritto a Scholem:
l’isolamento in cui mi vengo a trovare per natura è acuito dalle circostanze del tempo. A quanto pare quella capacità di intendere che è ancora rimasta agli ebrei dopo tutto ciò che hanno passato non è particolarmente salda. Il numero di quelli che riescono ancora a cavarsela in questo mondo si assottiglia sempre piú (TU, 299).
In altri momenti sarebbe stato ancora in grado di manifestare il suo senso dell’ironia; in queste circostanze fu indotto a ipotizzare che la storia stesse per produrre una «ingegnosa sintesi» – una combinazione del «buon europeo» di Nietzsche e del suo «ultimo uomo». Da questa sintesi sarebbe nato «l’ultimo europeo: tutti noi lottiamo per non diventare qualcosa di simile» (GB, VI, 442)9.
All’arrivo della primavera la salute di Benjamin continuava a peggiorare. La crisi cardiaca che si era manifestata durante l’internamento non migliorò con il ritorno a Parigi; all’inizio di aprile riferí a Horkheimer che «la mia debolezza è progredita in modo allarmante», cosicché di rado lasciava l’appartamento. Quando era costretto a farlo, si ritrovava spesso «madido di sudore e incapace di proseguire». Alla fine consultò uno specialista, il dottor Pierre Abrami, che diagnosticò tachicardia, ipertensione e ipertrofia cardiaca: diagnosi che fu confermata da Egon Wissing a cui Benjamin aveva mandato in primavera le sue radiografie. Il medico gli raccomandò, a quanto pare in tutta serietà, di passare qualche tempo in campagna. Poiché i costi delle cure mediche erano troppo alti per le già precarie finanze di Benjamin, dovette di nuovo cercare aiuto. L’Istituto per la ricerca sociale rispose con un generoso pagamento straordinario di 1000 franchi. L’unico lato positivo della situazione fu di essere scartato al servizio militare – un’eco ironica dei suoi ripetuti ed efficaci tentativi di fingersi malato per evitare l’arruolamento nella prima guerra mondiale.
L’idea di cercare un porto sicuro negli Stati Uniti era diventato il pensiero dominante di Benjamin ben prima che l’esercito tedesco invadesse la Francia il 10 maggio. All’inizio della primavera aveva incominciato a prendere lezioni di inglese insieme con Hannah Arendt e Heinrich Blücher, che si erano sposati il 16 gennaio. Raccontò con orgoglio del suo primo tentativo di leggere un testo inglese, Examples of Antitheta (dall’Advancement of Learning) di Bacone, integrato da un libro piú legato all’esperienza americana, Luce d’agosto di Faulkner (in traduzione francese). Le lezioni continuarono, saltuariamente, anche dopo che Blücher fu internato, ma per ammissione dello stesso Benjamin il suo inglese parlato rimase sempre zoppicante. Era consapevole di aver aspettato troppo a lungo: tornavano a ossessionarlo le occasioni di emigrare in Palestina, in Inghilterra, in Scandinavia che non aveva sfruttato. Mesi dopo, quando era già in fuga, scrisse a Gretel Adorno:
Puoi star certa […] che ho conservato l’unico stato d’animo che si addice a chi è esposto a rischi che avrebbe dovuto prevedere, e che ha corso con coscienza di causa (o quasi) (BG, 414).
Alla fine di marzo Benjamin ricevette un attacco sgradevole. Leggendo il saggio di Jochmann e l’introduzione di Benjamin sulla «Zeitschrift für Sozialforschung» il suo amico di un tempo Werner Kraft mandò una lunga lettera direttamente a Horkheimer a New York, accusando Benjamin non tanto di plagio quanto di pretendere di essere lo scopritore di Jochmann quando in realtà, secondo Kraft, lui stesso aveva per primo parlato a Benjamin dello scrittore ottocentesco. Horkheimer, sempre sensibile alla situazione dell’Istituto e delle sue pubblicazioni in un paese straniero ancora fortemente ostile a qualunque sospetto di marxismo, fu turbato. Gretel Adorno consigliò a Benjamin di rispondere immediatamente e dettagliatamente per non compromettere la benevolenza di Horkheimer proprio nel momento in cui ne aveva piú bisogno. Come abbiamo visto nel capitolo IX, la risposta di Benjamin forní un resoconto onesto di come avesse lui stesso scoperto Jochmann alla Bibliothèque Nationale e delle conversazioni con Kraft che ne seguirono. Non c’è dubbio che Kraft avesse parlato con Benjamin di alcune opere di Jochmann, anche se, con ogni evidenza, Benjamin ne conosceva già l’esistenza.
Confinato in casa e incapace di concentrarsi su Baudelaire, Benjamin si dedicò ad altre letture, in alcuni casi apparentemente disorganiche. Studiò non solo Rousseau e Gide per il testo che aveva in mente, ma anche il saggio autobiografico Età d’uomo (1939) dell’etnologo Michel Leiris, che lo assorbí completamente e che raccomandò a diversi amici. Fra gli amici e conoscenti del Collège de Sociologie, l’opera di Leiris era quella per la quale sentiva la maggiore affinità. Inviò inoltre a Adorno, in una lettera a Gretel, una serie di commenti sul suo manoscritto Fragmente über Wagner; la teoria di Adorno della riduzione come fenomeno di fantasmagoria gli ricordava le sue prime riflessioni sul racconto di Goethe La nuova Melusina. Disse a Brentano che aveva letto il suo nuovo romanzo Die ewigen Gefühle (Sentimenti eterni) «in quarantotto ore». Raccomandò inoltre a Karl Thieme Sant’Agostino e la fine della cultura antica di Henri-Irénée Marrou, sottolineando soprattutto la sua interpretazione della decadenza tardoromana e le sue analogie con l’opera di Riegl.
Il 23 marzo Benjamin spedí a Horkheimer, a New York, una nuova sintesi sulla letteratura francese contemporanea. La parte principale della lettera riguarda tre testi: la descrizione dello svizzero Charles-Ferdinand Ramuz della sua città di adozione, intitolata Paris: Notes d’un Vaudois; Età d’uomo di Michel Leiris; e una serie di osservazioni di Gaston Bachelard sul poeta protosurrealista Lautréamont, forse tratte dalla Psicoanalisi del fuoco. Benjamin elogiò lo studio di Ramuz su Parigi: l’impostazione era sufficientemente diversa dal progetto dei Passages per consentirgli di parlarne con autentico apprezzamento. La lettera a Horkheimer è significativa perché rivela la natura dell’interesse di Benjamin per Leiris: allo stesso modo in cui gran parte dell’opera di Benjamin degli anni Venti e Trenta esplora sentieri aperti dal surrealismo, Leiris e il Collège de Sociologie alla fine degli anni Trenta seguono inediti percorsi di ricerca antropologica complementari a quelli di Benjamin – pur con molte differenze. Anche l’indagine su Bachelard è svolta da un punto di vista che deriva dai piú autentici interessi di Benjamin, che ne apprezza le interpretazioni del contenuto nascosto della poesia simbolista – una serie di «figure ambigue» (Vexierbilder) che hanno in sé un’energia e un significato potenziali. La lettera contiene anche critiche piú sintetiche del Journal d’une “révolution” di Jean Guéhenno; di Le regard di Georges Salles, al quale Benjamin dedicò una recensione (di cui apparve una seconda versione in forma di lettera nella «Gazette des Amis des Livres» di Adrienne Monnier); e della Théorie de la fête di Caillois. Un altro saggio di quest’ultimo su Hitler suscitò il suo commento ironico che Caillois avrebbe passato gli anni di guerra in Argentina, dove aveva seguito la famosa autrice Victoria Ocampo.
All’inizio di maggio Benjamin mandò una lunga lettera a Adorno in risposta alla bozza di un saggio sui rapporti tra Stefan George e Hugo von Hofmannsthal. Questa lettera costituisce l’ultima dichiarazione formale di Benjamin sulla letteratura; raccoglie intuizioni su Kafka, Proust e Baudelaire e considerazioni sul neoromanticismo di George e di Hofmannsthal. Anche se elogia il coraggio di Adorno per il suo tentativo di «redimere» George in un momento in cui i circoli liberali lo attaccavano come protofascista, Benjamin è tuttavia apertamente critico verso l’interpretazione adorniana di Hofmannsthal, di cui offre di fatto una lettura diversa.
In realtà due sono i testi che nel loro insieme delimitano ciò che ho da dire. A uno di essi fa riferimento Lei stesso, quando cita la Lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal. Qui ho in mente questo passo: «Non so quante volte questo Crasso con la sua murena mi torna alla mente come un’immagine riflessa di me stesso, gettata oltre l’abisso dei secoli […] Crasso […] che piange sulla sua murena. E su questa figura, la cui ridicolaggine e volgarità salta cosí all’occhio nel mezzo di un Senato che domina il mondo e tratta delle cose piú elevate, su questa figura, dicevo, qualcosa di inesprimibile mi impone di pensare in un modo che giudico completamente sciocco, nel momento stesso in cui tento di esprimerlo a parole». (Nella Torre ci si imbatte nello stesso motivo: il ventre del maiale macellato, che il principe fu costretto a guardare nella sua infanzia). Tra l’altro è sempre nella Torre che si trova il secondo dei due passi di cui parlavo: è il dialogo tra il medico e Julian. Julian, l’uomo a cui manca solo un piccolissimo sforzo di volontà, un unico momento di dedizione per partecipare a ciò che vi è di piú elevato, è un autoritratto di Hofmannsthal. Julian tradisce il principe: Hofmannsthal ha rinunciato al compito che emerge dalla Lettera di Lord Chandos. Il suo «mutismo» era una sorta di punizione. La lingua di cui Hofmannsthal si è privato potrebbe essere proprio quella che all’incirca nello stesso momento venne data a Kafka. Kafka si è infatti assunto il compito di cui Hofmannsthal si è mostrato moralmente, e quindi anche poeticamente, incapace. (La teoria del sacrificio, sospetta e cosí debole nelle fondamenta, a cui Lei rinvia, reca tutti i segni di questo fallimento).
Penso che rispetto alle sue doti naturali Hofmannsthal si sia comportato per tutta la vita come si sarebbe comportato Cristo rispetto al suo regno se esso fosse stato il frutto di trattative con Satana. In lui, mi sembra, la straordinaria versatilità si accompagna alla coscienza di avere tradito quanto di meglio aveva in sé (L, 401-2).
Questo ritratto del grande scrittore austriaco è un commovente omaggio a una delle piú grandi figure che riconobbero e sostennero il talento di Benjamin senza cercare di piegarlo ai propri scopi.
Quando l’esercito tedesco attaccò prima il Belgio e i Paesi Bassi, e subito dopo, all’inizio di maggio, la Francia, il governo francese avviò un nuovo ciclo di internamenti. Benjamin, e con lui Kracauer, il giornalista Hanns-Erich Kaminski e Arthur Koestler, furono risparmiati dal nuovo intervento dell’amico della Monnier, Henri Hoppenot. Ma ora piú di due milioni di persone fuggivano dalle armate naziste. Benjamin vuotò in fretta il suo appartamento e provvide a mettere in salvo la mole delle sue carte10. Le meno importanti rimasero nell’appartamento, dove furono confiscate dalla Gestapo; alcune scomparvero durante la guerra, le rimanenti furono sequestrate dall’Armata Rossa e trasportate in Unione Sovietica, per finire quindi a Berlino Est. Un secondo gruppo di carte fu lasciato a pochi amici. Sappiamo poco sul destino di queste carte durante la guerra, ma nel 1946 erano conservate a Zurigo da sua sorella Dora, che in seguito le mandò a Adorno a New York. Ma i manoscritti per lui piú preziosi Benjamin li consegnò a Georges Bataille: si trattava in particolare dei materiali fondamentali sui passages, della revisione del 1938 di Infanzia berlinese intorno al millenovecento, della terza versione dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, della copia manoscritta di Sul concetto di storia, dei sonetti11, di dattiloscritti del Narratore e di Commenti a poesie di Brecht, e di diverse lettere di Adorno di grande rilevanza teorica. Bataille affidò la maggior parte di questo materiale a due bibliotecari della Bibliothèque Nationale a Parigi, dove fu conservato durante il conflitto; a guerra finita, Pierre Missac rintracciò parte del materiale nascosto, soprattutto gli appunti sui passages, se lo fece consegnare da Bataille e organizzò il suo trasferimento finale da Adorno attraverso un inviato personale. Quanto al resto dei materiali, tra i quali la versione piú recente e appunti per l’opera quasi completata Charles Baudelaire: un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, si pensò per molti anni che fossero andati perduti. Nel 1981 il curatore italiano delle opere di Benjamin, Giorgio Agamben, scoprí un corpus di materiali di pugno di Benjamin nell’archivio Bataille della Bibliothèque Nationale e tra le carte che gli aveva consegnato la vedova di Bataille; questo risultò essere il prezioso nucleo perduto dei manoscritti affidati a Bataille nel 1940. Non sappiamo se dopo la guerra Bataille avesse recuperato per sbaglio solo una parte del corpus di manoscritti che gli erano stati consegnati da Benjamin o se questo materiale fosse stato conservato separatamente e poi dimenticato12.
Con l’aiuto di amici francesi, Benjamin e la sorella Dora, che era stata rilasciata solo pochi giorni prima da un campo d’internamento a Gurs, poterono prendere posto su un treno che il 14 giugno, o uno di quei giorni, lasciava Parigi: uno degli ultimi treni che trasportò i profughi dalla città verso sud. Benjamin aveva con sé poche cose per lavarsi, la maschera a gas e un libro, le memorie del cardinale Retz. A Lourdes, nei Pirenei, scesero dal treno e trovarono alloggi a poco prezzo. Benjamin apprezzò la gente del luogo: anche se la città era piena di profughi – molti dei quali belgi – regnava un senso di ordine e di quiete. Insistette subito con gli altri amici rimasti a Parigi, soprattutto con Gisèle Freund, perché lo raggiungessero in quella «bella campagna». Gisèle Freund rimase a Parigi ancora cosí a lungo che fu costretta a fuggire in bicicletta; si rifugiò a Saint-Sozy in Dordogna, fino a quando nel 1941 riuscí a riparare in Argentina. Hannah Arendt e Heinrich Blücher erano stati separati; quando Blücher fu rimesso in libertà dall’internamento fuggí nella zona non occupata, mentre la Arendt si nascose vicino a Montauban. Alla fine si ritrovarono entrambi a Marsiglia, dove li avevano preceduti Kracauer e la moglie. Altri amici, troppo vecchi o troppo deboli per fuggire, rimasero indietro. Benjamin scrisse una commovente nota sul «notevole coraggio» della madre di Fritz Fränkel, che a Parigi era stata sua vicina: «Baudelaire aveva ragione: “a volte le petites vieilles sono quelle che dimostrano il piú autentico eroismo”» (GB, VI, 471).
Tre settimane dopo il suo arrivo a Lourdes scrisse a Hannah Arendt che la descrizione di La Rochefoucauld del cardinale Retz era un ritratto adeguato dello stesso Benjamin: «La sua indolenza lo ha sorretto in gloria per molti anni, nell’oscurità di una vita errabonda e appartata». Nonostante il sostegno delle persone del posto, la vita durante quelle settimane divenne ben presto estremamente precaria. Dora, che soffriva di spondilite anchilosante e di arteriosclerosi avanzata, era quasi immobilizzata. Lo stesso Benjamin scoprí che le condizioni del suo cuore erano aggravate non solo dalla situazione generale e dalle tensioni della vita quotidiana, ma anche dall’altitudine. La mancanza di risorse economiche e di contatti con le persone piú vicine a lui costituivano ogni giorno di piú un motivo di sconforto. «Negli ultimi mesi ho visto un gran numero di esistenze non dico declinare, ma addirittura precipitare dalla loro vita borghese» scrisse a Adorno (L, 407). Sembra che il suo unico elemento di conforto durante le settimane di Lourdes sia stata la letteratura, soprattutto la rilettura del romanzo di Stendhal Il rosso e il nero.
Benjamin sentiva scendere intorno a sé una «calma glaciale». La sua ultima lettera a Gretel Adorno, della metà di luglio, parla del conforto che gli avevano dato le sue lettere: «Vorrei dire la gioia, ma non so se nel prossimo futuro sarò ancora in grado di sperimentare questo sentimento» (BG, 413). Nonostante la situazione, Benjamin cercava di mantenere il tipo di contegno e di padronanza di sé che poco prima, quando era ancora a Parigi, aveva descritto a Adorno:
non credo di osare troppo affermando che ci imbattiamo nel contegno quando la solitudine essenziale di una persona entra nel nostro campo visivo. La solitudine che, lungi dall’essere il luogo della pienezza individuale potrebbe invece essere benissimo il luogo della sua vacuità storicamente determinata, della persona come sua mala sorte (L, 404).
A Lourdes la preoccupazione piú immediata di Benjamin era il timore di essere nuovamente internato, che avrebbe significato cadere direttamente in mano tedesca. Scrisse a Adorno:
L’assoluta incertezza su ciò che porterà il prossimo giorno, la prossima ora, domina da molte settimane la mia esistenza. Sono condannato a leggere ogni giornale (qui sono ormai ridotti a un solo foglio) come un messaggio indirizzato a me e a individuare in ogni trasmissione radiofonica la voce del messaggero di sventura (L, 408).
Sempre piú disperato, si mise a cercare ogni via di fuga, e ottenere un visto era diventato una questione di importanza «primordiale» (GB, VI, 465; in francese, corsivo e sottolineato nel testo). Molti suoi amici, compresi Kesten e la Arendt, stavano per raggiungere Marsiglia, dove si raccoglievano un gran numero di profughi nella speranza di fuggire in Spagna attraverso i Pirenei. Girava anche voce dell’internamento di alcuni amici, tra cui Heinrich Blücher. Subito dopo l’arrivo a Lourdes di Benjamin e di Dora, tuttavia, le autorità francesi proibirono a tutti i cittadini stranieri di viaggiare senza un permesso, che era possibile ottenere solo dietro presentazione di un visto valido. Il 10 luglio i negoziati tra i governi francese e tedesco si conclusero con la fine della Terza Repubblica e la costituzione del regime di Vichy retto dal maresciallo collaborazionista Philippe Pétain. Il precedente armistizio, firmato il 22 giugno, conteneva già un articolo che aboliva di fatto il diritto d’asilo in Francia per gli stranieri13. Le lettere di Benjamin di queste settimane rivelano un’angoscia crescente:
Il mio timore è che il tempo a nostra disposizione possa essere assai piú limitato di quanto pensassimo. […] Spero di averle dato finora l’impressione di mantenere la calma anche in momenti difficili. Non creda che ciò sia mutato. Ma non posso nascondermi che la situazione si è fatta pericolosa. Temo che coloro che riusciranno a cavarsela saranno ben pochi14.
Persa la fiducia nella possibilità di raggiungere l’America, aveva sondato quella di emigrare in Svizzera, anche se il paese, privo di sbocchi al mare, non era certo il rifugio piú sicuro per un ebreo tedesco. Scrisse all’amico di Hofmannsthal, Carl Jacob Burckhardt, diplomatico e storico svizzero, chiedendogli aiuto in una situazione che «in tempi brevissimi potrebbe arrivare a dirsi disperata [ausweglos]» (GB, VI, 473). Dopo la guerra Burckhardt disse all’amico di Benjamin Max Rychner che tramite amici spagnoli aveva fatto tutto ciò che poteva per facilitare a Benjamin il transito attraverso quel paese, ma quando tutto fu pronto era ormai troppo tardi.
Poiché i contatti con il mondo al di fuori di Lourdes non erano costanti, Benjamin sapeva poco dei tentativi che venivano fatti in suo favore. Dopo la sua partenza erano arrivate a Parigi lettere e cartoline postali dall’Istituto per la ricerca sociale; alcune erano andate perse, altre lo avevano raggiunto solo dopo settimane. Fino a luglio Benjamin non fu a conoscenza del fatto che Horkheimer, disperando di poter ottenere in fretta un visto per l’America, aveva cercato di procurargli una residenza e un impiego ai Caraibi, prima a Santo Domingo e poi, dopo che questo piano era fallito, come professore all’Università dell’Avana in carico all’Istituto. Ci vollero piú di due mesi perché Benjamin riuscisse a raggiungere i suoi amici a Marsiglia. Solo alla fine di agosto egli seppe che l’Istituto gli aveva garantito un visto fuori quota che gli permetteva di entrare negli Stati Uniti e che il consolato di Marsiglia era stato debitamente informato. Una volta soddisfatta questa condizione, ottenne un salvacondotto e alla metà di agosto lasciò la città. Sua sorella Dora rimase a Lourdes; si nascose in una fattoria in campagna e nel 1941 riparò in Svizzera. A Marsiglia Benjamin aveva trovato una città piena di profughi, dominata da un clima di agitazione. Al consolato gli furono consegnati non solo il visto d’entrata negli Stati Uniti ma anche visti di transito attraverso la Spagna e il Portogallo. Non riuscí invece a ottenere un visto di uscita dalla Francia. Ai porti e ai posti di confine venivano inviati elenchi di ebrei tedeschi e di oppositori del regime; la milizia di Vichy ispezionava i campi d’internamento liberando i sostenitori del regime e riconsegnando alla Gestapo i «nemici dello Stato»15. Quasi un mese dopo aver ricevuto il visto per il quale aveva tanto lottato Benjamin osservò con Alfred Cohn che «finora non mi è servito in nessun modo. Sarebbe superfluo elencarti tutti i miei piani falliti o ripensati da capo» (GB, VI, 481). Uno di questi fu forse il tentativo, insieme con Fritz Fränkel, di comprare un passaggio su un mercantile travestiti da marinai francesi – di sicuro i piú vecchi e meno esperti nella storia del commercio marittimo16. Il suo nome era anche nella lista dei profughi sostenuti dal Centre Américain de Secours, l’organizzazione fondata da Varian Fry a difesa degli esuli antifascisti. Malgrado questi sforzi, il «soggiorno» a Marsiglia si era trasformato alla metà di settembre in una «terribile prova di nervi»; era oppresso da una grave depressione (GB, VI, 481-82). Ma sembra che nonostante la situazione cosí critica egli non avesse perso la sua energia intellettuale e la sua vivacità. Lo scrittore Soma Morgenstern racconta un incontro a pranzo con Benjamin a Marsiglia, in quel periodo, nel quale parlarono di Flaubert.
Non avevamo ancora visto il menu né ordinato da bere, che Walter Benjamin mi guardò piú volte insistentemente negli occhi attraverso gli occhiali, come se si aspettasse da me qualche osservazione che avrei già dovuto fare da tempo. […] Alla fine, piuttosto agitato, mi chiese: «non ha notato niente?» «Che non abbiamo ancora mangiato, – dissi, – che cosa dovrei aver notato?» Mi allungò il menu e aspettò. Guardai di nuovo la lista delle portate, ma non mi colpí nulla. Allora perse la pazienza. «Non ha notato il nome di questo ristorante?» Guardai il menu e vidi che il padrone si chiamava Arnoux. Gli comunicai questa scoperta. «Bene – continuò, – e questo nome non le dice niente». Capii che avevo fallito; che non avevo superato l’esame. «Non si ricorda chi è Arnoux? [Madame] Arnoux è il nome della donna amata da Frédéric nell’Educazione sentimentale!» Si riprese dalla delusione che gli avevo provocato solo dopo la minestra, e il tema delle nostre conversazioni per tutto il pranzo fu naturalmente Flaubert17.
Alla fine di settembre Benjamin, accompagnato da due suoi conoscenti di Marsiglia, Henny Gurland, di origini tedesche, e il figlio adolescente Joseph, prese il treno da Marsiglia verso il confine spagnolo. Le possibilità di uscire legalmente dalla Francia sembravano inesistenti e Benjamin scelse di tentare di passare illegalmente la frontiera; sperava di attraversare la Spagna per arrivare in Portogallo e da lí imbarcarsi per gli Stati Uniti. A Port Vendres incontrarono Lisa Fittko, un’attivista politica di trentun anni vissuta a Vienna, Berlino e Praga, di cui Benjamin aveva conosciuto il marito, Hans, nel campo d’internamento di Vernuche. La Fittko non era una guida professionale, ma aveva studiato molto accuratamente le possibilità di fuga. Poteva guidarli lungo un sentiero attraverso la dorsale dei Pirenei alla città di confine di Port Bou, in Spagna, aiutandosi con la descrizione ottenuta dal sindaco di Banyuls-sur-Mer, vicino a Port-Vendres. Dalla vicina Cerbère c’era una via piú diretta per arrivare a Port Bou, della quale si erano serviti molti profughi, ma le gardes mobiles di Vichy avevano scoperto il sentiero e lo tenevano sotto stretto controllo. I profughi dovevano quindi prendere la strada delle montagne, piú a ovest, lungo la route Lister, chiamata cosí perché la stretta gola era servita da via di fuga per Enrique Líster, un anziano ufficiale della Repubblica in fuga dai fascisti spagnoli. Attraverso questo accidentato sentiero erano fuggiti Lion Feuchtwanger, Heinrich e Golo Mann, Franz Werfel e Alma Mahler Werfel. La Fittko chiese a Benjamin se, viste le condizioni del suo cuore, se la sentiva di correre il rischio. «Il vero rischio sarebbe quello di non partire», rispose18.
A questo punto della storia, gli ultimi giorni di Walter Benjamin diventano confusi. Su consiglio del sindaco di Banyuls, Azéma, la Fittko condusse il piccolo gruppo in un giro di ricognizione della prima parte del percorso di montagna. Forse Benjamin lasciò Banyuls il 25 settembre19. Lisa osservò il passo calcolato di Benjamin – dieci minuti di cammino seguiti da un minuto di riposo – e il suo ostinato rifiuto che qualcun altro portasse la sua pesante cartella nera, che conteneva, cosí disse, «il mio ultimo manoscritto. È piú importante della mia stessa persona»20. Sul contenuto di questo manoscritto si sono fatte molte congetture. Secondo alcuni si trattava di una versione completa del progetto dei Passages o del libro su Baudelaire; ma alla luce dello stato di salute di Benjamin e della sua capacità di lavoro solo saltuaria nell’ultimo anno di vita queste ipotesi sono poco attendibili. Il manoscritto poteva essere forse la versione finale di Sul concetto di storia, ma egli avrebbe attribuito tanta importanza al testo che portava con sé solo se fosse stata una versione sostanzialmente diversa da quelle che aveva affidato alla Arendt, a Gretel Adorno e a Bataille. Ma questo è solo uno dei misteri dei suoi ultimi giorni.
Durante il cammino attraverso i Pirenei Benjamin dovette soffrire terribilmente, anche se con Lisa Fittko non si lamentò e riuscí perfino a scherzare e, basandosi sulla sua esperienza di molti anni in fatto di escursioni, ad aiutarla a decifrare la piccola mappa manoscritta che costituiva il loro unico riferimento21. Quando la Fittko, i Gurland e Benjamin raggiunsero la piccola radura che costituiva la meta del giorno, Benjamin li informò che avrebbe passato lí la notte; era stremato e non intendeva fare lo sforzo di ripercorrere la stessa strada piú di una volta. I suoi compagni, che avevano preso nota della prima parte del percorso, ritornarono a Banyuls per dormire in una locanda e lo raggiunsero la mattina dopo per l’ultima parte della salita, la piú difficile, e la discesa a Port Bou. Lisa Fittko ricorda il contrasto fra la «mente limpida come il cristallo» e la «inflessibile forza di volontà» di Benjamin e la sua ascetica imperturbabilità. Vacillò solo su uno dei tratti piú ripidi, e la Fittko e Joseph Gurland dovettero quasi trascinarlo su per un vigneto. Anche in queste condizioni la ricercata gentilezza di Benjamin non lo abbandonò. Quando si fermarono per mangiare e bere, chiese a Lisa di passargli un pomodoro: «col suo permesso, potrei […]». Il pomeriggio del 26 settembre, quando arrivarono in vista di Port Bou, la Fittko lasciò la piccola compagnia, che nel frattempo era cresciuta: per strada avevano incontrato altri profughi, tra i quali Carina Birman e tre suoi compagni22. Non appena vide Benjamin, quel giorno di settembre «terribilmente caldo», la Birman avvisò che era forse vicino a un arresto cardiaco: «corremmo dappertutto in cerca di un po’ d’acqua per aiutare quest’uomo sofferente». Colpita dal suo contegno e dalla sua evidente intelligenza pensò che fosse un professore23.
Fin quasi alla fine degli anni Venti Port Bou era rimasto un tranquillo villaggio di pescatori, ma per la sua posizione strategica sulla linea ferroviaria tra la Francia e la Spagna fu pesantemente bombardato durante la guerra civile spagnola. Benjamin e i Gurland, con la Birman e i suoi compagni, si presentarono ai piccoli uffici della dogana spagnola per far timbrare le carte che dovevano permettere loro di attraversare la Spagna. Per ragioni che probabilmente non saranno mai chiarite, il governo spagnolo aveva da poco impedito l’ingresso ai profughi illegali provenienti dalla Francia; a Benjamin e ai suoi compagni fu detto che sarebbero stati ricondotti in Francia, dove quasi certamente sarebbero stati internati e trasferiti in un campo di concentramento. Il gruppo fu scortato in un piccolo albergo, Fonda de Francia, e posto sotto una blanda sorveglianza. La Birman ricorda di aver udito «un forte rumore proveniente da una delle stanze vicine»; quando andò a vedere trovò Benjamin
in uno stato mentale pietoso e in condizioni fisiche di totale esaurimento. Mi disse che non intendeva in nessun modo tornare al confine o muoversi dall’albergo. Quando gli feci osservare che non c’era altra alternativa che ripartire, mi disse che per lui ce n’era una. Mi fece capire di avere con sé qualche veleno molto efficace. Era sdraiato quasi nudo nel letto e su un tavolino vicino a lui aveva posato il grande orologio d’oro del nonno, molto bello, e guardava continuamente l’ora24.
Fu visitato da uno dei due medici del posto, gli fu fatto un salasso e praticate iniezioni per tutto il pomeriggio e la sera. A un certo punto della notte del 26 settembre scrisse un appunto per la sua compagna di fuga Henny Gurland – e per Adorno –, il cui testo fu ricostruito a memoria da Henny Gurland che ritenne necessario distruggere l’originale:
In una situazione senza uscita, non ho altra scelta che farla finita. E la mia vita terminerà [va s’achever] in un paesino dei Pirenei in cui nessuno mi conosce. La prego di trasmettere i miei pensieri al mio amico Adorno, e di spiegargli la situazione nella quale mi sono trovato. Non mi resta abbastanza tempo per scrivere tutte le lettere che avrei voluto scrivere25.
Poco dopo, quella stessa notte, prese una massiccia dose di morfina; Arthur Koestler ricorderà piú tardi di averlo lasciato a Marsiglia con una dose di morfina sufficiente «a uccidere un cavallo».
A questo punto una ricostruzione storica delle ultime ore di Walter Benjamin e del destino del suo cadavere diventa praticamente impossibile. Henny Gurland ricordò in seguito di aver ricevuto un messaggio urgente da Benjamin la mattina del 27 settembre26. Lo trovò nella sua stanza, egli le chiese di descrivere la sua situazione come l’esito di una malattia e le diede l’appunto; quindi perse conoscenza. La Gurland chiamò un medico, che disse che non c’erano speranze. Secondo la Gurland Benjamin morí il 27 settembre. La Birman racconta che la notizia della morte di Benjamin provocò una sollevazione nella piccola città; furono fatte molte telefonate a carico, forse al consolato americano a Barcellona, perché Benjamin aveva con sé un visto d’entrata negli Stati Uniti. Quando il 27 settembre la Birman e il suo gruppo si fermarono in albergo per mangiare qualcosa, un prete guidò attraverso la sala da pranzo un gruppo di circa venti monaci che portavano candele e cantavano. «Ci dissero che erano venuti da un monastero vicino per dire una messa per la morte del professor Benjamin e seppellirlo»27. Il certificato di morte ufficiale conferma alcuni dettagli dei ricordi di Henny Gurland, ma non tutti, e in alcuni punti sostanziali non coincide con i registri parrocchiali28. Questi identificano il morto come Dr. Benjamin Walter e attribuiscono la morte a un’emorragia cerebrale. Il medico spagnolo che visitò Benjamin potrebbe aver accettato il suo ultimo desiderio sperando di occultare il suicidio; o forse potrebbe essere stato corrotto dagli altri profughi desiderosi di evitare il putiferio che ne sarebbe nato e che li avrebbe certamente riportati in Francia. Ma indicano come data di morte il 26 settembre.
Il giorno dopo la frontiera fu riaperta.
Prima di lasciare Port Bou Henny Gurland esaudí l’ultimo desiderio di Benjamin e distrusse un certo numero di lettere – e forse, inavvertitamente, il manoscritto che egli aveva portato con sé. Lasciò anche abbastanza denaro per affittare una tomba per lui nel cimitero comunale per cinque anni. Il certificato di morte del comune riporta come data di sepoltura il 27 settembre, mentre i registri parrocchiali indicano il 28. Benjamin fu sepolto nella parte cattolica del cimitero e non in quella riservata alle altre fedi (e neppure in quella dei suicidi) forse perché sul certificato di morte il nome e il cognome furono invertiti. I registri comunale e parrocchiale riportano inoltre informazioni contraddittorie sul numero esatto della tomba presa in affitto, anche se su uno dei possibili luoghi di sepoltura è stata affissa una piccola targa in memoria. Fra i registri del comune – anche qui sotto il nome «Benjamin Walter» – è stato scoperto molti anni dopo un elenco delle cose appartenute a Benjamin ma non gli oggetti stessi. Esso menziona la cartella di pelle (ma non il manoscritto), un orologio maschile, una pipa, sei fotografie, una radiografia, un paio di occhiali, alcune lettere e giornali insieme ad altre carte, e una piccola somma di denaro.
Scaduti i cinque anni di affitto, nella tomba del cimitero di Port Bou fu sepolta un’altra persona. Molto probabilmente i resti di Benjamin furono trasferiti in una sepoltura comune. Oggi un monumento commemorativo dell’artista israeliano Dani Karavan guarda dal cimitero verso il piccolo porto di Port Bou e verso il Mediterraneo.