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Jen sollevò lo sguardo sul grande edificio grigio che aveva davanti e tentò di convincersi che stava facendo la cosa giusta.

In qualche modo, quando si era trattato solo di dire a sua madre che avrebbe frequentato il master la faccenda le era parsa più semplice. Nella sua fantasia si era vista a spiare le riunioni del consiglio di amministrazione, a origliare le conversazioni mentre camminava lungo i corridoi, a compilare un dossier di informazioni e a portare i malfattori e i loro orrendi crimini in tribunale. Nella sua mente era l’eroina del suo film personale in cui lei (praticamente da sola) salvava il mondo e riceveva una lettera di ringraziamento dalla regina. Neanche le proteste di Angel, secondo cui Jen aveva definitivamente perso la testa, l’avevano scoraggiata. Anzi, per tanti versi l’avevano fatta sentire più ribelle, rendendo l’intero progetto più affascinante.

Aveva ricevuto il modulo di iscrizione. Aveva dovuto scrivere brevi saggi, superare test e farsi intervistare da uomini in abito grigio che aveva dovuto convincere del fatto che una carriera nella gestione aziendale era il suo sogno da sempre. Adesso però doveva entrare realmente negli uffici della Bell Consulting per seguire la sua prima lezione. In qualche modo, nei suoi sogni a occhi aperti, aveva tralasciato la parte in cui avrebbe dovuto frequentare realmente il master.

“Non può essere così difficile” si disse. “Sarà solo noioso. Come trovarsi di nuovo a una lezione di fisica al liceo. O a una su Durkheim all’università”. Jen aveva frequentato sociologia per un semestre, pensando di capire le motivazioni della gente, di scoprire la chiave della felicità umana, e invece aveva trascorso intere settimane a studiare i motivi per cui ci sono meno suicidi nei periodi di guerra. Evidentemente, le lezioni erano diventate più interessanti solo dopo: chi era rimasto al corso continuava a ripeterle quanto fosse fantastico. Ma Jen non aveva avuto la pazienza di aspettare così tanto. Era passata a filosofia senza nessun rimpianto. Be’, almeno finché non aveva dovuto sopportare le lezioni su Hegel, ma a quel punto era troppo tardi per tornare indietro.

In ogni caso, si ricordò, doveva interpretare solo una parte. Tutti lì dentro avrebbero pensato che Jen era una studentessa perfettamente normale. L’unica cosa che doveva fare era lasciarglielo credere, fingere di trovarlo un corso interessante. Jen rabbrividì. Aveva letto tutto il dépliant, dalla prima all’ultima pagina: avrebbero studiato cose tipo “Riprogettazione dei progetti aziendali” e “Gestione dei profitti e delle perdite”. Era troppo spaventoso anche solo pensarci.

Eppure, per lo meno avrebbe fatto qualcosa che valeva la pena. A dire il vero negli ultimi tempi si era domandata che direzione stesse prendendo la sua vita. Aveva cominciato ad avere la sensazione di star semplicemente ammazzando il tempo a una scrivania della Green Futures, e aveva perfino iniziato a domandarsi se aveva fatto bene a mollare Gavin. Era come se non fosse più perfettamente sicura che il suo posto nel mondo fosse di nuovo a Londra, come se non fosse più perfettamente sicura della sua identità.

Aveva pensato che sarebbe stato diverso, in un modo o nell’altro, lavorare alla Green Futures. Quando l’azienda era nata, sua madre era finita sulla bocca di tutti. La sua era la prima società di consulenza a parlare di responsabilità sociale di impresa, a suggerire che le società non potevano semplicemente andarsene in giro a fare quel che cavolo volevano per ricavare profitti sempre maggiori. All’epoca del liceo e dell’università, tutti pensavano che Jen avesse una mamma tostissima, e lo pensava anche lei. Ne andava davvero fiera, ed era una cosa molto bella, considerando che suo padre era un bastardo di prima grandezza che spingeva le aziende a fare l’esatto contrario, a concentrarsi sui profitti e a fregarsene di temi irrilevanti come le persone o il riscaldamento globale.

E anche i media all’inizio erano entusiasti della Green Futures. Dopo tutto, Harriet aveva lavorato alla Bell Consulting prima di mettere su la sua azienda. La rottura con George Bell e il successivo lancio di una propria azienda in concorrenza avevano riempito le colonne dei giornali per varie settimane. All’epoca, Harriet compariva regolarmente sulla copertina di Newsweek, The Economist e del Times. Faceva notizia e lei ne era felicissima.

Ma, in realtà, Jen aveva scoperto che la Green Futures era come un qualsiasi altro ufficio: un sacco di scrivanie e di persone sedute lì davanti che lavoravano come forsennate al computer e parlavano di figli, animali domestici e hobby davanti alla macchina del caffè (biologico). Forse in passato era stata un’azienda rivoluzionaria, però adesso sembrava un po’… sotto tono. E, a dire il vero, non aveva neanche lontanamente lo stesso numero di clienti di un tempo. Altre società si erano inserite nel settore della crescita sostenibile, ma sua madre pareva non rendersi conto di non avere più la fama di un tempo. Per molti aspetti, era un po’ un sollievo starsene fuori da lì.

“Dalla padella alla brace” pensò sconsolata, sollevando di nuovo lo sguardo verso l’edificio di fronte a sé, le Bell Towers, costruite per intimidire e impressionare tutti coloro che ne varcavano la soglia. Per un verso o per l’altro, Jen non si era mai immaginata di lavorare per uno dei suoi genitori, e invece avrebbe finito per lavorare per entrambi. “Ma non per molto” si disse. “È solo un mezzo per raggiungere un obiettivo.”

Stampandosi a forza un sorriso in faccia, Jen varcò la soglia e in men che non si dica si ritrovò alla reception, a firmare l’entrata.

«Frequenti il master?»

Jen guardò il tizio dall’aria austera che si trovava accanto a lei in ascensore.

«Stai andando al settimo piano» si affrettò a spiegare il ragazzo. «Non credo che ci siano altri uffici lì… ma solo aule, sai».

Jen esaminò il suo volto per un attimo. Leggermente paffuto, un po’ rubicondo, occhiali lievemente appannati. Il tipico studente di un MBA, nel caso ne esistesse uno di quel genere. Anche lui la stava osservando, e se ne accorse quando lui inarcò le sopracciglia nel vedere che indossava un paio di jeans e gli Ugg ai piedi. Jen avrebbe voluto comprarsi dei vestiti eleganti perché era sua intenzione interpretare la parte con tutta se stessa, però non ne aveva avuto il tempo. E poi, nell’opuscolo informativo c’era scritto che l’abbigliamento doveva essere «smart casual». Si immaginò che soddisfare uno dei due parametri potesse bastare per il momento.

«Sì» rispose Jen in tono spiccio, ma si ricordò che anche lei doveva comportarsi come la tipica studentessa di un master di economia aziendale.

«Anch’io!» precisò lui, senza che ce ne fosse bisogno. Aveva quattro manuali e un quaderno ad anelli pieno di appunti che recava un’etichetta molto chiara: MBABELL CONSULTING: ALAN HINCHLIFFE. «Sono Alan, piacere. Allora, hai già fatto delle letture preliminari? Io ho cominciato da Strategie in movimento, ma avevo già studiato quasi tutto il programma durante il corso di scienze economiche, per cui mi sono concentrato su Gestione strategica d’impresa… questo qui…» Indicò il più grosso dei quattro volumi. Jen li fissò con aria incredula, ma si trattenne. “Sono una studentessa dell’MBA” cercò di convincersi. “Devo fingere interesse per queste schifezze.”

«Io… ehm… sai, ho dato un’occhiata qua e là» rispose cauta, sperando che Alan non le chiedesse niente di preciso. «Io sono Jen, fra parentesi. Jen Bellman.» Nel dirlo si fece piccola, ma scegliere un cognome nuovo non era stato facile come aveva pensato. La cosa era rimasta in sospeso finché non aveva dovuto compilare il modulo di iscrizione e allora aveva trascorso una mezz’ora buona a guardarsi intorno nel suo appartamento alla ricerca d’ispirazione: Jennifer Tivù, Jennifer Lampadario, Jennifer Parete. Poi aveva preso l’elenco telefonico e aveva provato con alcuni cognomi trovati lì sopra, ma aveva il terrore di sceglierne uno e poi scordarselo. Per cui, alla fine, aveva optato per Bellman, l’adattamento di Bell meno fantasioso che si potesse immaginare. Ma almeno se lo sarebbe ricordato.

Alan spostò piano le cartelline su un braccio e allungò la mano. Jen rimase a fissarla un attimo, poi capì che avrebbe dovuto stringergliela. E così fece, sorridendo esitante.

«Entriamo?» suggerì Jen, guardando dentro l’aula con trepidazione.

«Oh, sì. Senz’altro.»

Entrarono nell’aula e trovarono due posti accanto. La sala era gremita: c’erano circa cinquanta persone, tutte sulla trentina, anno più anno meno, e tutte molto serie.

Jen tirò fuori l’orario del corso. Presentazione, seguito da Strategia in azione e pausa pranzo. Dopo di che, incontro con il tutor personale, presentazione alla propria squadra, ricapitolazione di Strategia in azione e fine.

Si guardò attorno in attesa.

«È libero?» Jen sollevò lo sguardo e si trovò davanti un bel viso sorridente incorniciato da una chioma bionda. «Sei l’unica altra persona con i jeans e che ha un’aria vagamente umana, per cui se non ti dispiace…»

«Immagino» commentò Jen, esitante. Non sapeva se voleva sembrare umana a una studentessa del master.

«Lasciatelo dire,» riprese la nuova compagna, mentre si accomodava e tirava fuori blocchi, penne, libri e cartelline «c’è un sacco di roba da leggere in questo corso. Hai visto la bibliografia? Da incubo.» Si guardò attorno e corrugò la fronte. «Non ci sono molti tipi fichi.»

Jen inarcò le sopracciglia. «Fichi?»

«Uomini, sì. Dio, è l’unico motivo per cui sono qui. Ho provato con i bar, ho provato con internet, ho provato a comprare un cane, ma che cavolo, niente di niente. Non ci sono uomini single a Londra, a quanto mi è dato sapere. Non sani di mente, in ogni caso, o che non sembrino dei serial killer nel tempo libero. Poi mi sono accorta che sempre più persone mettevano l’MBA come titolo sui siti di appuntamenti on-line. E ho pensato: perché aspettare che abbiano concluso il corso? Perché non entrarci fin dall’inizio?»

Jen la fissò. «Frequenti il master per conoscere degli uomini?»

«Certo. E tu perché ti sei iscritta?»

Jen fece un gran sorriso, sollevata di aver incontrato un’altra impostora. «Oh, avevo un po’ di tempo libero. Mi chiamo Jen, a proposito. Jen… Bellman.»

La ragazza sorrise. «Lara. Io sono Lara. Piacere.»

Un uomo entrò nell’aula e si fermò nei pressi della cattedra. Pian piano tutti smisero di parlare e cominciarono a fissarlo. Aveva la mascella molto pronunciata e i capelli biondo platino.

«Buongiorno, ragazzi» esordì con accento newyorchese. «Mi chiamo Jay Gregory e sono il direttore dell’MBA della Bell Consulting. Sono molto felice di dare a tutti voi il benvenuto a bordo… So che avete affrontato una dura selezione per arrivare fin qui, per cui abbiamo un bel gruppo di persone in gamba sedute in questa stanza.»

Si levò un leggero brusio nell’aula, che suggeriva l’idea che nessuno si reputasse così fantastico ma che, sotto pressione, tutti avrebbero dato risalto al fatto di essere persone meravigliose.

«Secondo te, si tinge i capelli?» sibilò Lara.

Jen arricciò il naso. «Tu li tingeresti di quel colore?» le domandò sottovoce.

«Andy Warhol sì.»

Jen scrollò le spalle e le sorrise.

«Ma quello che avete fatto finora sono bazzecole in confronto a ciò che farete in questo corso» continuò Jay. «Il prossimo anno sarà il più duro che abbiate mai affrontato. Dovrete dimostrare il vostro impegno, apportare valore aggiunto e offrire spunti in ogni fase del percorso. E lavorerete in team per imparare il valore del lavoro di squadra, e che lavorare come un’unità e non come individui separati è un’esigenza. Avrete tempo fino a giugno, signore e signori… nove mesi entusiasmanti, e mi auguro che ne trarrete il meglio.»

Jen si fece piccola, mentre un paio di colleghi commentavano «Senz’altro» e Jay sorrideva calorosamente.

«E adesso» proseguì Jay «sono felice di presentarvi il docente di Strategia in azione, il professor Richard Turner. Molti di voi avranno già sentito parlare di Richard: è uno dei più influenti strateghi d’Europa e ha scritto più libri lui di quanti molti di noi ne abbiano letti. Sono sicuro che imparerete moltissime cose da quest’uomo, per cui, adesso passo la parola a te, Richard.»

Si alzò in piedi un uomo piuttosto magro e con i capelli grigi; Jen apprezzò che sembrasse un professore universitario; con i tipici lineamenti da talpa di chi trascorre tutta la vita sui libri.

L’uomo scrutò la sala per diversi minuti, mentre tutti tacevano in attesa che cominciasse a parlare.

«La Coca-Cola» disse infine il professore. «Immaginatevi che le vendite siano crollate per qualche motivo. Secondo voi, dovrebbe produrre cola generica per i supermercati in modo da compensare la perdita di valore che si trova ad affrontare?»

Si guardarono tutti titubanti, poi Jen notò tra le prime file un ragazzo che alzava la mano. Il professore gli fece cenno di parlare.

«No, altrimenti per quale motivo la gente dovrebbe comprare l’originale?» disse, e molti studenti cominciarono ad annuire.

«La Kellogg’s lo fa» commentò Richard. «La gente non smette mica di comprare i loro Cornflakes, giusto?»

«Secondo me, potrebbe succedere» si affrettò a dire una ragazza vicino a Jen. «Le persone sono sempre meno attaccate al marchio, e molti supermercati stanno cercando di imporre il marchio della loro azienda.»

«Ma così la Coca-Cola perderebbe il fattore che la contraddistingue. E per di più, sarebbe in obbligo nei confronti dei supermercati, che in qualsiasi momento potrebbero scegliere un fornitore di cola diverso e più economico, e nessuno se ne accorgerebbe dal packaging. Non sarebbe una situazione in cui mi sentirei tranquillo, se fossi nel consiglio d’amministrazione della Coca-Cola.»

Nella sala calò il silenzio e la ragazza divenne rossa come un peperone.

«Benvenuti nel mondo della strategia» disse il professore con un mezzo sorriso. «E nel caso impariate una cosa – e una soltanto – dal corso, deve essere questa: potete analizzare i fattori esterni, potete analizzare i fattori interni e potete prevedere qualsiasi cosa vogliate. Ma potete sempre combinare un casino, perché al mondo là fuori non interessa la vostra strategia. Il mondo cambia. I vostri clienti cambiano, i vostri fornitori cambiano. E a meno che non teniate il passo, a meno che non siate pronti a cambiare, ad adattarvi e ad accettare che la strategia è come una festa mobile, finirete come un vecchio fossile. Sono stato chiaro?»

Tutti annuirono.

«Personalmente, credo che lei abbia ragione» continuò il professore, guardando il ragazzo che aveva detto che la Coca-Cola non avrebbe dovuto produrre per altri. «Ma questo non significa che domani potrebbe essere in errore.»

Il ragazzo annuì serio, e Jen si ritrovò a bofonchiare irritata. A chi importava se la Coca-Cola produceva per altri? È una bibita orribile, zuccherosa e che fa male ai denti. E il fatto che la lezione le avesse fatto venire una gran voglia di berne una, sinceramente, aggiungeva l’offesa al danno.