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«Tu?» esclamò George. L’espressione sul suo viso passò dalla rabbia all’incredulità fino al totale sbigottimento.

“Mi ha riconosciuta!” pensò Jen, rimanendo sorpresa di quanto si sentisse sollevata. Se non l’avesse riconosciuta, non era sicura che sarebbe stata capace di perdonarlo.

Non che lo avrebbe perdonato adesso.

«Non è possibile. Pazzesco! Sei così diversa. Sei cresciuta…»

Aveva un tono di voce fragile, così differente dal tono sicuro e stentoreo che Jen aveva sentito da dentro l’armadio, e le diede sui nervi. Era un orco, si ricordò. Un orco infedele, egoista e immorale.

Le porse le mani e Jen uscì goffamente dall’armadio, le gambe che cedevano mentre tentava di trovare qualcosa da dire.

Si appoggiò alla scrivania, mentre suo padre la squadrava dall’alto in basso allibito.

«Sei tu, giusto?»

Jen annuì e, prima che riuscisse a proferire parola, lui la strinse in un abbraccio. «Oh, mia piccola Jen. Oh, mia cara bambina.»

Jen si liberò dalla sua stretta. «Non sono la tua cara bambina» disse, tentando di avere un tono di voce deciso. «Non sono la tua piccola Jen. Non lo sono più.»

«Hai ragione. Fatti guardare. Dio mio, sei una donna… Cosa… cosa ci fai qui? È meraviglioso vederti, ma perché proprio adesso? E perché… perché eri nel mio armadio? Credevo di aver preso un ladro.»

Jen abbassò lo sguardo e George la fissò con aria strana.

«Jen?»

«Forse hai preso una ladra.»

Jen si morse un labbro. Probabilmente aveva ragione Angel: era un gioco pericoloso. Se non fosse stato suo padre, sarebbe uscita da quella situazione inventando qualcosa, buttandola sul ridere, facendo del suo meglio per allontanare ogni sospetto. Ma era suo padre. E Jen voleva che si accorgesse di lei.

«Che vuoi dire?» George era confuso. «Vuoi dei soldi? Non capisco.»

Jen alzò gli occhi e lo guardò. «Voglio la verità. Sulla Axiom in Indonesia. Sulle tangenti che hanno provocato la morte di tante persone il mese scorso…» Le tremava la voce.

George strinse gli occhi. «La Axiom? Cosa diavolo c’entra con te?»

Così va meglio, pensò Jen con gratitudine. Era molto più semplice essere spavalda e arrabbiata con un uomo che non aveva l’aria di volerti abbracciare.

«C’entra molto con me. E quelle povere persone in Indonesia convinte che avrebbero avuto una vera e propria casa sulla loro testa. E tutte le persone in giro per il mondo che hanno donato soldi, pensando che sarebbero stati impiegati in modo onesto…»

George non replicò e si sedette al tavolo delle riunioni. Invitò Jen ad accomodarsi e lei esitò a sedersi. L’adrenalina viaggiava ancora a mille nelle sue vene.

«E tu credi che tuo padre si farebbe incasinare in una cosa del genere, giusto?» Aveva un’aria così triste che Jen distolse lo sguardo.

«Non posso dire di conoscere mio padre abbastanza da avere un’opinione al riguardo» disse ottusamente.

«No» ribatté George con un sospiro. «Immagino di no. Eppure, il sospetto da qualche parte sarà venuto fuori.»

Jen incrociò per un attimo i suoi occhi, ma distolse di nuovo lo sguardo. Sulla faccia di suo padre all’improvviso spuntò una specie di sorriso. «Oh, è ovvio. Da tua madre.»

Jen diventò rossa. Si era sentita quasi potente fino a quel momento. Adesso si vedeva come una ragazzina piagnucolosa.

«Forse.»

«Harriet» riprese lui, soppesando le parole «ha un’immaginazione molto vivida, lo sai.»

«Ti sono arrivati dei biglietti per l’Indonesia la scorsa settimana. A cosa servivano?»

Jen si stava infervorando e voleva a ogni costo spostare la conversazione da sua madre, da qualsiasi argomento di tipo personale.

George corrugò la fronte. «Come diavolo fai a saperlo?» domandò e scrollò le spalle. «Erano per un collega, in effetti. Abbiamo delle succursali laggiù. Ho appena nominato un nuovo capo dei servizi professionali e partirà la prossima settimana per conoscere la squadra prima di cominciare a lavorare lì formalmente da gennaio. Ma sono sicuro che sapevi già anche questo, giusto?»

Jen si agitò imbarazzata sulla sedia.

«Non sei mai venuto a trovarmi» le scappò detto all’improvviso, la voce tenera ma sofferente. «Neanche una volta.»

Le tremava un labbro e dovette fare un grosso sforzo per non scoppiare in lacrime. “Vai così, Jen” si rimproverò amareggiata. Bel modo di dimostrargli che di lui non ti importa niente.

«Mi hai detto a chiare lettere che non mi volevi nella tua vita» ribatté George secco. «Mi ha spezzato il cuore andarmene via, ma avevo un’altra scelta?»

Jen lo fissò, allibita. «Avevi tutte le scelte possibili. Mi avresti potuto vedere in qualsiasi momento. Non mi hai spedito neanche un biglietto di “in bocca al lupo” per gli esami della scuola media. Dopo tutto il lavoro che avevamo fatto insieme.»

«Ma mi hai detto che non volevi più vedermi.»

Jen stralunò gli occhi. «No, io no. Non tentare di dare a me la colpa. Sei andato a letto con un’altra donna. Ci hai abbandonato. Probabilmente ti ho detto che ti odiavo e probabilmente lo pensavo davvero, il che non significava che potevi tagliarmi fuori dalla tua vita così.»

«Tagliarti fuori? Dio mio, Jennifer, sono stato io a essere tagliato fuori. Tua madre si rifiutava di farmi parlare con te, mi diceva che non volevi più vedermi. Che ti avrebbe sconvolto se ci avessi provato. E, per la cronaca, io, per dirlo con parole tue, non sono andato a letto con un’altra donna. Credo che tua madre abbia riscritto la storia su questo punto.»

Jen lo fissò. La conversazione non andava assolutamente come doveva andare.

«Che vuoi dire?»

«Significa che è stata lei ad andare a letto con un altro uomo. Non che adesso sia importante. È storia antica.»

«Ti ha tradito lei?» La voce di Jen era a malapena udibile. «Stai mentendo. Lei non lo farebbe mai. Lei…»

«Non è stata tutta colpa sua» la interruppe suo padre con voce sommessa. «Stavamo attraversando un brutto periodo. Non passavo molto tempo a casa. Lei… Credo che avesse un gran desiderio di attenzioni.» Adesso George sembrava in imbarazzo, a disagio.

«Lei ha avuto un’altra storia? Dici sul serio?»

Lui annuì.

Jen scostò la sedia e si rimise a sedere, la testa che le girava. Questo cambiava tutto. Sua madre le aveva mentito. Le aveva tenuto lontano suo padre. Harriet, la madre dai comportamenti tanto etici e coscienziosi, era una traditrice e una bugiarda.

Ma questo significava che suo padre era quello bravo? Jen aveva i suoi dubbi.

«Jen, non pensare male di tua madre» disse George con voce burbera. «È accaduto tanto tempo fa, e io ero ben lontano dall’essere il marito ideale. Mi dispiace tantissimo che… be’, mi dispiace tantissimo per quello che è successo. Mi dispiace non averti visto per così tanto tempo. È… è imperdonabile.» La guardò con aria implorante. «Ma capisco che tu non mi voglia fra i piedi. Mi sono tagliato i ponti alle spalle, lo accetto. Fammi solo sapere se posso aiutarti in qualche modo: con i soldi, il lavoro, queste cose qua, sai. Mi piacerebbe essere un padre per te… in qualche modo.»

Jen lo fissò, il padre che le era mancato per così tanto tempo, il padre che nei suoi sogni sarebbe andato a cercarla per dirle quanto fosse dispiaciuto, si trovava proprio lì davanti a lei e desiderava far di nuovo parte della sua vita, e lei non aveva la minima idea di cosa dire. Sentì la rabbia che si scioglieva e sospirò. «Papà, il giorno in cui te ne sei andato ho detto una quantità enorme di cose che non pensavo. Ero arrabbiata. Non volevo che te ne andassi.»

Le suonava strano chiamarlo di nuovo papà dopo tutto quel tempo. Usare una parola così intima, quotidiana, per una persona che fino a poco tempo prima aveva creduto potesse restarle lontano per sempre. L’uomo che aveva pensato di rinnegare.

«Credevo di fare la cosa giusta. Credevo di renderti la situazione più semplice. Oh, Jen, oh, mi dispiace tantissimo.»

George si alzò e si avvicinò a lei con titubanza, l’andatura arrogante sostituita da un atteggiamento più umile.

«C’è ancora spazio nella tua vita per un padre?» le domandò esitante.

Jen scosse la testa. Poi annuì. Poi scosse di nuovo la testa.

«Mi faresti l’onore di cenare con me stasera?» le domandò, prendendole la mano e stringendola.

Jen annuì. «E giuri che non sei coinvolto nel pagamento delle tangenti?»

George sorrise. «Jen, quanto pensi che guadagni la Bell Consulting in un anno?»

Jen scrollò le spalle.

«Lasciatelo dire. Il nostro utile si aggira sui venti milioni di sterline annue. È cresciuto di circa il cinque per cento l’anno nell’ultimo decennio. Sono un sacco di soldi. E puoi immaginare che mettiamo a repentaglio un utile del genere per pagare tangenti per alcune attività immobiliari che hanno gli occhi del mondo puntati addosso?»

«Ma… ma la Axiom ha ottenuto l’appalto più importante, e le case non sono state costruite bene, e a quanto pare c’è stato un insabbiamento, per cui nessun funzionario statale è in grado di scoprire quello che è accaduto realmente…»

«Non mi occupo di regolamenti edilizi, temo che non sia affar mio, né di questioni governative, se è per questo. Però ci sono persone che se ne occupano, e sono sicuro che esamineranno molto attentamente le case costruite dalla Axiom e la documentazione cartacea sugli appalti. Ma se ti interessa questa faccenda, dovresti essere in Indonesia, non nel mio ufficio.»

Jen si mise a braccia conserte. Si sentiva imbarazzata. Stupida. «Sono ancora tuoi clienti?» domandò infine.

George corrugò la fronte. «Hai mai sentito l’espressione “innocente fino a prova contraria”, Jen?»

Lei annuì.

«È un bel modo di pensare, a mio parere. Per cui sì, sono ancora nostri clienti. Nessun’altra domanda?»

«La lettera, quella in cui ti ringrazia per i tuoi consigli. Di cosa si trattava?»

George scosse la testa, sorridendo. «Sei tenace, eh? Si tratta dei nostri consigli a proposito delle trattative. Una prassi abituale per noi.»

«Trattative nel senso di tangenti?» insisté Jen.

«Trattative nel senso di trattative.»

Jen scrollò le spalle, avvilita. «Per quale motivo dovrei crederti?»

George la guardò dritto negli occhi. «Le persone credono solo a ciò in cui vogliono credere, e suppongo che tu non sia diversa. L’unica cosa che posso fare io è dire la verità, l’unica cosa che puoi fare tu è decidere se crederci o meno. Hai creduto a tua madre, ricordatelo.»

Jen arrossì. «Lo so.»

«Allora ceni con me stasera?»

«Mi sa di sì» rispose pacata. La testa le girava così tanto che aveva paura di parlare.

«Bene» commentò George un po’ più allegro. «E poi forse mi spiegherai come cavolo hai fatto a eludere il servizio di sicurezza della Bell e a entrare nel mio ufficio.»

«Davvero? Ti ha trovato nel suo armadio?»

Angel aveva gli occhi sgranati. Jen annuì, un gran sorriso stampato in faccia ormai da due giorni di fila. Suo padre era un brav’uomo. Be’, almeno non era un uomo cattivo. L’aveva ascoltata, le aveva raccontato la sua vita, si era dimostrato entusiasta del fatto che Jen seguisse il master alla Bell. Era suo padre ed era rientrato a fare parte della sua esistenza.

«E adesso è tutto di nuovo a posto fra di voi? Insomma, è bastata una sola cena?»

«Una cena e un pranzo insieme il giorno dopo» precisò Jen.

«E non credi di andare un po’ troppo di corsa? La scorsa settimana a quest’ora era il tuo nemico numero uno.»

Jen guardò Angel, esasperata. «La pensavo in questo modo finché non ho saputo la verità. Mamma mi ha mentito. Dio mio, per tutto questo tempo le ho creduto sulla parola. Sono arrabbiatissima.»

«Gliene hai parlato?»

Scosse la testa. «Non so cosa fare… Papà pensa che non dovrei. Secondo lui, è meglio lasciar stare il cane che dorme o qualcosa del genere. Non credo che voglia rogne, francamente.»

«E tu? Tu cosa vuoi?»

Jen scrollò le spalle impotente. «Vorrei sapere perché mi ha mentito. Ma non voglio coinvolgerla. Sto cominciando adesso a conoscere papà ed è… be’, è molto bello. Ho paura che se lo dico a mamma, se la metto in discussione, potrebbe andare tutto per il verso sbagliato un’altra volta.»

«Per cui lasci semplicemente stare? Pur sapendo che ti ha mentito?»

Jen scosse la testa. «Certo che no. Voglio solo lasciar correre. Per un po’, sai?»

«E nel frattempo lei crede che tu lo stia ancora spiando?»

Abbozzò un sorriso e Angel la guardò esasperata. «E il master? È finito adesso, giusto? Voglio dire, hai smesso di spiare, per cui lo abbandonerai, no?»

Jen corrugò la fronte. Perché Angel doveva sempre fare domande difficili, quelle che Jen faceva finta che non esistessero?

«No» disse dopo un attimo di riflessione. «Voglio dire, insomma, la mamma non sa niente, per cui devo continuare a frequentarlo. E papà era così entusiasta che fossi iscritta al corso… Lo seguirò ancora per un po’. Finché non ho deciso che cosa voglio fare per davvero…»

«Be’, chapeau, Jen» commentò Angel, stralunando gli occhi. «Solo tu sei capace di infilarti in una situazione complicata e renderla un milione di volte ancora più complicata.»

«E tu come te la passi?» si affrettò a domandare Jen.

«Be’, pensavo di avere una vita piena, ma ora come ora mi sembra un bel mortorio!» le rispose sorridendo. «Mio fratello si sta per sposare, per cui dovrò andare a una grande festa di fidanzamento. Un sari da comprare. Cibo da cucinare. Una gran confusione in casa dei miei genitori. E adesso ho sedici persone al mio corso di yoga.»

«Wow! Fantastico!»

Angel sorrise timidamente. «Non è male. Allora, dài, raccontami perché ci siamo viste oggi invece di domani. Pensavo che i nostri brunch della domenica fossero sacri!»

Jen arrossì appena un po’. «Ho… ho un appuntamento con Daniel. È una cosa di lavoro… insomma, ricerca. Sai, per il master. Ma… be’, in ogni caso…»

Angel osservò attentamente la sua amica. «Ti mancano le parole e sei rossa come un peperone» disse. «Sicura si tratti solo di lavoro?»

Jen scrollò le spalle e fece un gran sorriso. «Mi sa che è complicato» rispose, inarcando le sopracciglia e guardando la sua amica.

«Ovviamente!» commentò Angel con un sorriso. «Avrei dovuto immaginarlo, giusto?»