A mezzogiorno della domenica, Jen era in preda al panico. Un’ora prima era seduta al tavolo in cucina con i suoi jeans preferiti indosso e l’eyeliner applicato alla perfezione in modo da far apparire i suoi occhi grandi il doppio. Era pronta da più di un’ora e si era messa a leggere il giornale, per cercare di non cadere preda del nervosismo. Era solo un giro per le librerie con Daniel. Non era niente di speciale, rifletteva in modo pragmatico. Non era neanche un vero e proprio appuntamento galante, perché era una cosa di lavoro. Di ricerca.
E fu a quel punto che le prese il panico. Si era vestita come per un appuntamento, si era perfino infilata un paio di slip blu, carini, con il reggiseno abbinato. Che cosa si era messa in testa? Lui era il suo professore, il direttore generale di una grande catena di librerie, e lei si era vestita come se stesse uscendo per un incontro galante.
In fretta e furia, Jen corse in camera e si tolse i jeans e la maglia che non era esageratamente scollata, ma senz’altro più provocante di un maglione girocollo. Ma cosa avrebbe dovuto mettersi? Quale combinazione di vestiti diceva esplicitamente “capisco che si tratta di un tour di lavoro, ma è domenica, e io sono una ragazza attraente, a cui magari un giorno ti andrà di chiedere di uscire. Non che io stia suggerendo niente. O che stia per lanciarmi fra le tue…”
Jen si fece piccola, tirò su un cuscino e se lo accostò al viso. Era un’idea terribile incontrare Daniel. Si era illusa di interessargli, ma in realtà a lui serviva solo qualcuno con cui andare in giro per librerie. Probabilmente glielo aveva proposto per levarsela di torno.
Forse era meglio chiamarlo per disdire. Probabilmente Daniel avrebbe tirato un respiro di sollievo. Probabilmente l’aveva invitata senza riflettere e in quel preciso momento si stava chiedendo come uscire da quella situazione.
“Okay, respira profondamente. Non puoi chiamare Daniel: hai solo il numero di telefono del suo ufficio. In ogni caso, lui vuole vederti: perché diamine ti avrebbe invitato altrimenti? E poi i jeans vanno bene.”
Lentamente, Jen si era infilata di nuovo i jeans con una maglietta meno scollata e un cache-coeur azzurro. Poi era tornata al tavolo di cucina e aveva deciso di controllare il battito cardiaco con respiri lunghi e profondi e bevendo sorsi di acqua a intervalli regolari. Si domandò che cosa sarebbe potuto andare storto, ma poi preferì non darsi una risposta. Era una via di mezzo fra una riunione di lavoro e un appuntamento romantico. Sarebbe potuta andare storta qualsiasi cosa.
Si alzò. Forse avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per ammazzare il tempo: mancavano ancora più di venti minuti prima di uscire, e avere il tempo di pensare era sempre una pessima idea prima di fare qualunque cosa. Già da un pezzo aveva perfezionato l’arte di convincersi a non fare niente che potesse spingerla a correre un rischio qualsiasi. Il guaio era che Jen si innervosiva sempre quando si trattava di uscire dal suo ambiente sicuro. Da bambina opponeva resistenza a tutto: non voleva restare a casa dei cugini senza la presenza rassicurante di sua madre né prendere parte alla recita scolastica. Dopo la separazione dei suoi genitori, in un modo o nell’altro, la situazione era addirittura peggiorata. Si giustificava sempre in modo razionale, sostenendo che lei era il risultato di un matrimonio finito male e quindi era logico che affrontasse tutto con più cautela. Ma era una scusa del cavolo, e lei lo sapeva.
“Dovrei leggere un libro. Certo” pensò, abbozzando un sorriso. “È un libraio. Devo essere in grado di parlare di libri.”
Si precipitò in salotto e trascorse vari minuti a fissare i volumi sugli scaffali in cerca d’ispirazione. Qualcosa che faccia colpo, pensò. Forse James Joyce. Oppure la biografia di William Pitt che aveva visto nella vetrina di una libreria e aveva comprato un giorno in cui aveva deciso che di storia non ne sapeva abbastanza, ma che non era mai riuscita a leggere. Il libro aveva avuto ottime recensioni. E più rimaneva lì in attesa di venire letto, più la riempiva di assoluto terrore: una pagina dopo l’altra di dettagli concreti senza sesso, intrighi o una trama di qualche tipo. Jen si sentì come la protagonista di Alice nel Paese delle Meraviglie che si domandava come si potesse leggere un libro senza illustrazioni.
Eppure, Daniel sarebbe rimasto colpito se fosse stata capace di parlare di un libro su un uomo politico del Settecento, no? O William Pitt era vissuto nel Seicento?
Prese il libro e ne sfogliò l’introduzione. Bla bla bla primo ministro. Bla bla bla morì giovane. Si occupò di politica tutta la vita.
“Ma non devi mica parlare di politica, religione o sesso, no?” pensò all’improvviso Jen. “Non al primo appuntamento. E poi non è un appuntamento” si ricordò Jen. “È ricerca.”
Guardò l’orologio. Mezzogiorno e un quarto. Era ora di uscire.
Daniel l’aspettava davanti al negozio con un bel maglione grigio di cachemire indossato con classe, tanto che Jen sentì un desiderio quasi irresistibile di toccarlo. Invece, fece il sorriso più naturale possibile date le circostanze, gli disse ciao e rimase lì imbarazzata per un paio di secondi, prima che lui le porgesse il braccio e le dicesse: «Andiamo?».
«Allora, vai spesso in giro per librerie?» le chiese girandosi a guardare Jen dritto negli occhi non appena si ritrovarono nell’atmosfera accogliente di Book City. «O la ricerca per il master è stata un lavoro più a tavolino finora?»
«Abbastanza spesso…» rispose Jen con qualche esitazione. Si sentiva tremendamente nervosa e le era difficile rilassarsi.
«Quando? Quando vai e quanto tempo ci rimani? E cosa ti convince a comprare?»
Daniel la stava guardando ancora in modo intenso e Jen si rese conto che si stava accaldando. Si tolse la giacca, in parte per rinfrescarsi, in parte per avere una scusa per distogliere un attimo lo sguardo. Si rischiava di affogare in occhi come quelli di Daniel.
«Be’» rispose infine, prendendo un po’ di tempo per tentare di ricordarsi non solo quando andava in libreria, ma anche come si chiamava, dove viveva e che giorno era. «Mi sa che ci vado spesso durante la pausa pranzo – quando la faccio. E anche di sabato – se sono a fare shopping o qualcosa del genere. Tipo l’altro giorno, ho comprato l’ultima biografia di William Pitt.»
«Quale?»
Jen arrossì. «Quale biografia?» domandò.
«No, quale Pitt? Il vecchio o il giovane?»
«Ce ne sono stati due?» Quell’assurdo commento le scappò di bocca prima che avesse il tempo di riflettere, di rispondere in maniera sensata. Ma, invece di guardarla come se fosse una totale cretina, Daniel sorrise calorosamente.
«Scusa, era una domanda scorretta. Cosa ti ha convinto a comprarlo? Di solito non molte ragazze acquistano libri di storia. Il target tipico sono gli uomini di cinquanta o sessant’anni.»
Jen esitò. «A dire il vero, l’ho preso con l’idea di migliorarmi. Ho capito che non ne so molto di storia inglese.»
«E adesso invece sì?»
Jen abbozzò un sorriso. «In effetti, non l’ho letto. Per ora.»
Daniel fece di nuovo un gran sorriso e si passò una mano fra i capelli, rigirandosi fra le dita alcune ciocche. Jen si ritrovò a fissare quel gesto ma rapidamente si riscosse.
«Allora, torniamo al negozio. Cosa potrebbe migliorarlo? Cosa farebbe entrare più clienti? Ti trovi in libreria: cosa stai guardando?» le domandò.
“Tu” pensò Jen, ma non glielo disse. Si girò intorno e posò lo sguardo sui tavoli davanti a lei. «I tavoli con i libri esposti?»
«Solo i tavoli?»
Jen tentò di concentrarsi: cominciava a sembrarle un esame. «Be’, a meno che non sappia di preciso cosa voglio» rispose seria. «In quel caso, vado a cercare in ordine alfabetico il nome dell’autore o qualcosa del genere.»
Daniel annuì, gli occhi scintillanti. «Quanto spesso sai esattamente cosa vuoi?»
Jen ci pensò su un attimo. «A dire il vero, non molto spesso» ammise. «Voglio dire, cerco in modo automatico gli autori che conosco, ma di solito do un’occhiata e aspetto che qualcosa mi colpisca.»
Fantastico, pensò, si trattava esattamente del tipo di cose che avrebbe dovuto fare per il master. Si sentiva davvero soddisfatta. E se il suo sorriso si era un po’ spento, non era la fine del mondo. Era quello che aveva sempre pensato: un incontro di lavoro. Daniel voleva l’input di Jen per la sua strategia, non un appuntamento intimo per guardare i libri insieme. Era stato ridicolo da parte sua aver pensato a qualsiasi altra cosa; le parole esatte di Daniel erano state… okay, le parole esatte non se le ricordava, ma di sicuro aveva utilizzato i termini ricerca e fattori esterni, non appuntamento galante e baci.
Guardò Daniel e le prese l’ansia quando vide che corrugava la fronte.
«Tutto a posto?» si azzardò a domandare.
Daniel si affrettò ad annuire. «Sì, certo. Stavo solo pensando quanto mi manchi tutto questo. Mi manca stare in libreria, parlare ai clienti, osservarli quando si entusiasmano per i libri. Ho cominciato vendendo libri e adesso ho a malapena il tempo di comprarne uno.»
«Come hai fatto ad arrivare dove sei?» domandò Jen con interesse. «Voglio dire, partendo come libraio?»
Daniel sorrise pensieroso. «È una storia molto lunga. Ma la versione breve è che ho messo su una libreria per conto mio, e quando ha cominciato a funzionare bene ne ho aperta un’altra, e quando ne ho avute diverse sparse in giro per il paese, la Wyman’s mi ha proposto di comprarle e investire perché potessi aprirne altre ancora. Ho accettato e sono diventato direttore generale.»
«Wow! Quando è successo?»
«L’anno scorso» si affrettò a dire Daniel.
«E ti piace?»
Daniel scrollò le spalle. «Non mi lamento. Il consiglio di amministrazione spinge per un’ulteriore crescita, forse un altro assorbimento, o possibilmente un ingresso nei mercati internazionali, cose così. E hanno ragione loro, ovviamente. Ma a me manca… be’, vendere i libri…»
Jen lo osservò attentamente, notando le piccole rughe sopra le sopracciglia e un velo di tristezza nei suoi occhi. «E allora è quello che dovresti fare» disse d’un fiato. «Chi se ne frega dei mercati internazionali, fai quello che vuoi fare e basta.»
«È quello che stai facendo tu? Quello che vuoi fare?»
Jen corrugò la fronte. «Nel modo più assoluto. Insomma, sai, più o meno. Voglio dire…» Le parole le morirono sulle labbra, perché si rese conto che a mala pena sapeva cosa voleva fare, figuriamoci se sapeva come muoversi per riuscirci.
Sorrise imbarazzata. «Forse è più facile a dirsi che a farsi» riprese, dando una lieve scrollata di spalle.
Daniel la fissò e poi sorrise. «Hai fame?»
Jen contraccambiò il sorriso. «Non dovremmo osservare i movimenti dei clienti e la disposizione dei libri esposti?» domandò, gli occhi scintillanti.
Daniel sorrise timidamente. «A dire il vero, ho un sacco di ricercatori che si occupano di cose di questo tipo. Speravo piuttosto di poterti offrire il pranzo.»
«Sai,» diceva Jen due ore dopo, incoraggiata da quasi una bottiglia intera di Châteauxneuf du Pape che Daniel aveva ordinato prima di ammettere che non ne avrebbe potuto bere più di un bicchiere perché in effetti avrebbe dovuto guidare «non andrai mai molto lontano con una pianificazione strategica come questa. Non hai osservato i movimenti di un solo cliente in libreria.»
«Invece sì!» ribatté Daniel, fingendosi offeso a morte. «Tu sei una cliente, no? E credo di aver seguito i tuoi movimenti molto attentamente.»
Jen abbassò lo sguardo sul suo piatto, tentando di nascondere l’agitazione. Non si trattava affatto di lavoro. Daniel l’aveva portata nel suo ristorante preferito, in una piccola traversa di Oxford Street, e se ne stavano lì da ore, o almeno così sembrava, a mangiare pietanze divine e a parlare di tutto, dai prezzi del taxi al fatto che purtroppo diventando adulto cominci ad assomigliare ai tuoi genitori e pensi che ora tutta la musica nella Top Ten sia infinitamente più brutta di qualsiasi disco tu ascoltassi da ragazzo.
Non avevano parlato di lavoro neanche per un attimo.
Ma… all’improvviso Jen si irrigidì. E se fosse stata lei a guidare la conversazione? E se Daniel avesse voluto parlare di lavoro, mentre lei continuava a blaterare, sostenendo che non c’era un talento più grande al mondo di David Bowie?
«Che mi dici dei fattori esterni?» domandò timidamente Jen. «Non ne abbiamo mai parlato.»
Daniel la guardò incuriosito. «Vuoi davvero parlare dei fattori esterni?» le chiese.
Jen annuì, poi scosse la testa e infine annuì di nuovo. «Sto pensando di fare il mio prossimo elaborato sui librai.» Notò che Daniel la guardava inarcando un sopracciglio. «Visto che il primo è andato così bene» aggiunse.
«Per librai intendi le persone o le aziende?»
Jen fece un gran sorriso. «Ancora non ho deciso. Sei tu il mio primo libraio.» Incrociò il suo sguardo e arrossì. Forse aveva bevuto un bicchiere di troppo, constatò. Ma d’altro canto non le importava.
Daniel inarcò le sopracciglia e la scrutò. «Hai in programma di incontrarne altri?»
Jen scosse la testa e lui sorrise.
«Okay, allora. Per quel che può valere, credo che tu sia un influsso positivo gradito» spiegò in modo carino, spostando la mano su quella di Jen. «E scusami se prima ti ho investito con una raffica di domande. Mi capita quando sono nervoso.»
Jen lo guardò incredula. «Eri nervoso?»
Daniel scrollò le spalle. «Forse» rispose, abbozzando un sorriso. «Pensavo che tu volessi parlare di lavoro tutto il pomeriggio… Non sapevo se… be’, hai capito.»
«Se?» insisté con delicatezza Jen, domandandosi se sarebbe sembrato un gesto troppo esplicito intrecciare le sue dita con quelle di Daniel.
«Se ti va il caffè» rispose Daniel in tono molto concreto. Jen si accigliò un po’ ma lui stava facendo un cenno verso l’alto. Jen seguì il suo sguardo e vide il cameriere che torreggiava sopra di loro.
«Ah» si affrettò a rispondere. «Capisco cosa vuoi dire.»
Dopo il caffè, Daniel chiese il conto e insisté per accompagnarla a casa in macchina. Girarono l’angolo e si diressero verso la sua auto (una bella Spider vintage dell’Alfa Romeo, notò Jen); Daniel volle a ogni costo aprire la portiera per lei, ma forse dipendeva dal fatto che bisognava assestarle un bel calcio per aprirla e non si trattava dunque di un gesto di cavalleria.
Quando l’auto partì e si fece strada lungo Oxford Street, Jen si mise comoda e ripensò alla giornata. Daniel era perfetto, decise. Intelligente, simpatico, capace di non prendersi troppo sul serio, e poi quegli occhi…
E l’accompagnava addirittura a casa. Era un gentiluomo. Era carino. Era… oddio! Cosa sarebbe successo una volta arrivati davanti al suo appartamento? Si sarebbe aspettato di essere invitato a entrare? Per quale motivo altrimenti avrebbe insistito di tornare a casa passando prima da lei?
Ma Jen non poteva invitarlo a entrare: era troppo scontato, e poi suggeriva cose che lei non era pronta a suggerire. O per lo meno, non voleva che Daniel pensasse che era pronta a suggerirle, anche se in quel momento avrebbe quasi voluto…
No, non era il tipo di ragazza che invitava un uomo a casa sua così alla svelta, anche se magari era solo per una tazza di tè.
Però, allo stesso tempo, Jen non era pronta a concludere il pomeriggio…
Corrugò la fronte, desiderò non aver bevuto così tanto vino e compilò mentalmente una rapida lista dei pro e contro. Pro: avrebbe trascorso ancora qualche ora insieme a lui; voleva che la baciasse; era la cosa educata da fare; Dio, aveva voglia di strappargli i vestiti di dosso. Contro: magari non l’avrebbe più visto, casa sua era un casino totale…
«Tutto bene?» domandò Daniel.
«Benissimo, grazie» gli rispose in tono allegro.
La macchina filò lungo Green Park e Chelsea finché non arrivarono a una strada di Fulham, e Daniel si fermò.
«Grazie mille» si affrettò a dire Jen. «Sei stato davvero molto gentile a darmi un passaggio. E grazie anche per il pranzo… sono stata davvero molto bene.»
«Anch’io» disse Daniel, spegnendo il motore e girandosi per guardarla negli occhi. Quel tipo di sguardo di solito indicava che avrebbe potuto esserci un bacio nell’imminente futuro. Jen si slacciò la cintura di sicurezza.
«Allora, qual è il tuo appartamento?» domandò Daniel, guardando l’edificio davanti a loro.
«Oh, non in questo edificio… è dall’altra parte della strada.»
Daniel si girò a guardare. «Quello lì, con il clochard fuori?»
Jen si girò per seguire la direzione del suo sguardo. «Sì» rispose. «Quello con il…» Scrutò più attentamente e poi emise un gridolino. «Oddio. Quello non è un clochard. È Gavin, il mio ex.»
Daniel inarcò le sopracciglia e si raddrizzò un po’. «Oh, perfetto. Sarà… ehm, sarà meglio che ti lasci andare, allora.»
«No. Cioè, non so cosa ci faccia qui. Non c’è motivo per cui tu debba andare…»
Nel frattempo Gavin si era girato e stava fissando Daniel, che faceva del suo meglio per evitare di scrutarlo a sua volta.
«No, davvero, sembra che voglia parlare con te. Io… io comunque devo andare…» disse con un tono di voce all’improvviso meno intimo.
«Mi dispiace tantissimo» disse Jen, avvilita. «Io…»
«Senti, non è un problema, davvero» si affrettò a dire Daniel, stampandosi sul viso un sorriso repentino e falso. «Vai e… be’, vai e basta.»
Mentre scendeva dalla macchina, Jen si chinò per guardarlo un’ultima volta.
«Ci vediamo» disse con un lieve punto interrogativo alla fine.
«Sì. Siamo stati bene» confessò Daniel, strizzando l’occhio e accendendo di nuovo il motore.
Jen rimase a osservarlo mentre lui si allontanava, dopo di che si girò verso Gavin.
«E tu che diavolo vuoi?» gli domandò arrabbiata.