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La mattina dopo, seduto nel suo ufficio, Daniel si rese conto che la sua mente vagava e si sforzò di concentrarsi. Il suo presidente stava spiegando con voce monotona i vantaggi di vendere e poi dare in locazione il portfolio di beni immobili della Wyman’s, e Daniel lo trovava un discorso interessante come stare a guardare la vernice che si asciuga.

«Perché non lasci che me ne occupi io?» suggerì infine Daniel, non vedendo l’ora che Robert Brown se ne andasse dal suo ufficio. Era agitato, si sentiva un leone in gabbia.

Robert annuì e si alzò. «Come sta andando la strategia di crescita?» domandò mentre si dirigeva alla porta.

Daniel indugiò un attimo, tentando di allontanare l’immagine di Jen dalla mente – la sfuggente, splendida Jen, che faceva apparire sexy ed eccitanti parole come strategia e stakeholder.

«Oh, sai, procede» mentì. La verità era che al momento trovava tutto quello che riguardava il suo lavoro di una noia mortale. Era tutto una questione di grafici e schede di valutazione bilanciate, di fusioni e acquisizioni, non c’entrava più niente con i libri, il marketing e i clienti, le cose in cui Daniel eccelleva.

«Be’, fammi sapere se ti serve una mano.» Robert fece un lieve cenno del capo per salutarlo e uscì. Daniel si alzò e cominciò a camminare in su e giù per l’ufficio. Da quanto faceva questo lavoro? Dieci mesi? Undici, forse. E cosa aveva costruito in quel periodo? Niente. Assolutamente niente. Ma cosa avrebbe potuto costruire dato che tutto ciò di cui prima si occupava gli era sfuggito di mano? Aveva una squadra che trattava con gli editori, un’altra che seguiva la pubblicità. C’era un direttore marketing, un intero settore che si occupava dell’esperienza dei clienti, e per quanto Daniel ne potesse capire, a lui non era rimasto nient’altro da fare se non stare a guardare fuori dalla finestra, domandandosi come diavolo fosse finito lì.

Si appoggiò sul tavolo delle riunioni e lesse alcuni titoli del Financial Times, aperto lì sopra. Era stata avviata un’indagine sui fondi di una compagnia petrolifera. Il corso azionario di un’azienda manifatturiera era crollato in seguito a un trimestre lento.

Era tutto di una monotonia tremenda. Daniel non era entrato nel mondo degli affari per dirigere. C’era entrato per inventare, per scoprire nuovi modi di gestire le cose, per innovare. Eppure in qualche modo era finito lassù, al vertice, annoiato a morte.

“Maledizione” pensò e prese il telefono. «Ufficio di Anita Bellinger.»

«Sono Daniel Peterson, della Wyman’s. C’è Anita?»

«Un attimo, per cortesia.» Daniel tamburellò con le dita sul tavolo in attesa della comunicazione.

«Daniel! Che bella sorpresa! Non credevo che tu avessi ancora tempo per noi editori. Cosa posso fare per te?» Anita sembrava entusiasta di sentirlo.

«Volevo parlarti del vostro listino, se per te va bene. Magari potremmo pranzare insieme uno di questi giorni.»

«C’è qualche problema, Daniel? Ho esaminato il nostro listino con i tuoi compratori il mese scorso e ne sembravano molto contenti.»

Daniel corrugò la fronte. Ovviamente Anita l’aveva già fatto. Ecco un’altra cosa di cui lui non riusciva più a occuparsi. «Anita, voglio solo parlare di libri, va bene? Sono bloccato qui, a fissare fogli di calcolo e ad ascoltare persone che parlano di riprogettazione dei processi aziendali, e io voglio ricordarmi per quale cavolo di motivo sto facendo tutto questo.»

«Ti capisco perfettamente, Daniel. Nessunissimo problema» si affrettò a dire Anita, percependo la frustrazione nel suo tono di voce. «Senti, per Natale vado via, ma organizziamo qualcosa non appena torno, okay? E Daniel, va tutto bene, vero?»

Daniel sorrise con gratitudine. Sapeva che poteva contare su Anita. Lo conosceva da quando aveva cominciato, gli aveva fatto enormi favori e gli aveva insegnato tutto quello che doveva sapere sul mercato librario, dal modo di concludere gli affari con gli editori a come sistemare le vetrine. Se esisteva qualcuno capace di fargli ritrovare l’entusiasmo per il suo lavoro, era lei.

«Tutto a posto, davvero. Senti, grazie, Anita. Vorrei dirti che sono in debito con te, ma lo sai già, vero?»

«Buon Natale, Daniel. Riposati un po’. E prepara un po’ di contanti per tutti i libri di cui ti parlerò.»

Daniel sorrise di cuore e riattaccò, poi tornò ai suoi fogli di calcolo.

«E sei assolutamente sicuro di seguire la dieta che ti ho dato?»

George fissò con aria irascibile il suo dottore e sbuffò rumorosamente. «Mi dai del bugiardo?» lo sfidò.

«No, George. Ti ho solo fatto una domanda, tutto qui. È in ballo la tua salute – se non vuoi prenderla sul serio, non sarò io a costringerti a farlo.»

George abbassò gli occhi e guardò il pavimento. Maledetta dieta. Al diavolo il programma di esercizi. Era disumano: si aspettavano che sopravvivesse con una dieta a base di verdure e facesse diecimila passi al giorno. Diecimila! Si era portato dietro per un giorno intero il ridicolo contapassi che il dottore gli aveva dato e aveva raggiunto un fantastico totale di duemilacinquecento passi. E fra l’altro, era stata anche una giornata particolarmente stancante: non aveva l’autista e aveva avuto una riunione in città, il che aveva voluto dire camminare fino in strada per chiamare un taxi. Il suo medico stava diventando peggio di Harriet: lei aveva sempre tentato di convincerlo a mangiare carote e alimenti abominevoli che rispondevano al nome di ceci, ma George non aveva mai avuto assolutamente niente a che vedere con roba simile. E non aveva intenzione di cominciare adesso.

«Credevo di pagarti abbastanza perché ti occupassi della mia salute» disse immusonito George. Non aveva tempo per le debolezze – né sue, né degli altri – e l’idea di poter essere tutt’altro che invulnerabile era troppo da sopportare. «In ogni caso, voi medici esagerate sempre, no? Siete sempre molto cauti. Io sono più uno che ama correre rischi. Vivere veloce e…»

«Morire giovane?» lo interruppe il dottor Richards. «George, dammi retta. Tu non vuoi morire giovane. E senz’altro non vuoi ritrovarti costretto a letto, né invalido, vero?» George si guardò i piedi.

«No, non credo. Per cui niente più sigari. Niente più carne rossa. Un po’ di movimento. E stai lontano dal vino rosso, okay?»

George scrollò le spalle. «La cosa non mi rallegra» commentò arrabbiato. «Per niente. Potrei sempre chiedere un secondo parere.»

Il dottor Richards si alzò e gli strinse calorosamente la mano. «Sarei deluso se tu non lo facessi» ribatté sorridente.

George uscì dall’ambulatorio del dottor Richards in Harley Street e decise di tornare a piedi in ufficio per segnare un po’ di passi su quel pedometro della Woods. Non capitava spesso che avesse tempo da dedicare a se stesso durante il giorno, ed era una giornata piuttosto mite e luminosa. Faceva un gran freddo, vero, ma gli inglesi erano congegnati in modo tale da reggere le basse temperature, rifletté. Era il sole che creava loro problemi.

Si domandò cosa stesse facendo Jen in quel momento. Probabilmente era alle Bell Towers a seguire una lezione o a studiare in biblioteca. Dio, com’era incredibile tutta quella storia. Una settimana prima aveva una figlia solo di nome. Adesso era di nuovo un vero e proprio padre, e lei gli assomigliava pure tanto.

Avrebbe voluto potersi vantare di lei. Raccontarlo a Emily, ai suoi colleghi – soprattutto a quelli che parlavano ininterrottamente dei successi dei loro figli. Ma Jen gli aveva fatto promettere di non farlo, e in ogni caso George poteva aspettare. L’ultima cosa che voleva era che si mettesse in mezzo Harriet, dopo tutto. Aveva trascorso degli splendidi momenti insieme a sua figlia e non voleva che niente e nessuno si intromettesse fra di loro.

E naturalmente doveva ricordarsi delle circostanze. Era sua figlia, ma si era nascosta nel suo ufficio, per l’amor di Dio. Era sicuro che gli avesse creduto, ma doveva stare attento.

Magari l’avrebbe chiamata. Per vedere se era libera a pranzo. Tirò fuori rapidamente il cellulare e compose il numero di Jen. Scattò la segreteria.

«Jen? Sono papà, mi domandavo se eri libera a pranzo. In caso contrario, non ti preoccupare. Ci… be’, ci sentiamo presto, spero. Lavora sodo. Ciao!»

“Era ridicolo?” si domandò. Probabilmente le sembrava un vecchio. Era facile ignorare lo scorrere del tempo, lasciar passare gli anni e fingere di non esserne stato toccato, osservò. Fingere di essere ancora l’uomo giovane e dinamico di sempre. Ma i figli hanno un modo tutto loro per riportarti di colpo con i piedi per terra. Jen aveva ventotto anni, no? Quindici anni in più dell’ultima volta che l’aveva vista. George cominciava ad avere i capelli grigi, la pancia e la faccia cadente. Cosa doveva pensare Jen? Era stato uno shock per lei vederlo così?

Corrugò la fronte. “Dài, George” si disse in modo burbero. “Smettila di compiangerti! Hai da fare.” Sempre tenendo il cellulare in mano, digitò un altro numero.

«Pronto? Qui è Paul Song.»

«Ah, Paul. Volevo solo sapere come è andato il viaggio ad Aceh? Ci vediamo al solito posto stasera? Diciamo alle sette? Bene, bene. Non vedo l’ora.»

Infilandosi di nuovo il cellulare in tasca, George accelerò il passo e tornò verso St. James.