14

Il giorno dopo, seduto in uno dei suoi ristoranti preferiti, George guardò con avidità l’appetitosa bistecca che aveva davanti. Era cotta al sangue, proprio come piaceva a lui. Era quello il cibo che gli esseri umani mangiavano da secoli, non i fagioli e le foglie a pezzetti. George era sicuro che nel giro di poco tempo la medicina avrebbe scoperto che tutti i consigli che aveva elargito a piene mani erano semplicemente errati.

«Allora» domandò con un sorriso «hai grandi programmi per Natale?»

Il suo vecchio amico Malcolm scosse la testa. «Niente di troppo avventuroso. La solita riunione di famiglia nel Surrey – mio figlio viene giù con i suoi due bambini, sai, queste cose qui. Grandi scorpacciate e troppo alcol, e poi di nuovo al lavoro con un terribile mal di testa.»

George sorrise e annuì, tentando di gioire poiché il suo Natale sarebbe stato una faccenda più solitaria. “Pace e tranquillità,” si disse “non c’è niente di paragonabile.”

«Immagino che sia piacevole liberarsi da quei titoli spaventosi per un po’» disse George, buttando giù un boccone accompagnato da un sorso di Margeaux.

Malcolm inarcò le sopracciglia. «Hai perfettamente ragione» concordò. «Quei maledetti giornalisti agitano le acque. Ci dovrebbe essere una legge per fermarli.»

George annuì con aria saggia. «Allora farai un’offerta d’appalto per i lavori di ricostruzione, se non ho capito male.»

Malcolm gli versò un altro bicchiere di vino. «Oh, penserei di sì» rispose, abbozzando un sorriso. «Hai visto i dessert sul menù? Mi sa che sarà una bella esperienza.»

Jen sospirò e guardò Lara con un certo nervosismo. Andava tutto molto bene, avere un rapporto molto cordiale con suo padre e condividere dei bei pranzetti intimi come quello che avevano avuto il giorno prima, però adesso non le era d’aiuto. «Mi sa che si sta esaurendo la penna» disse, scuotendo la testa. «Lara, me ne presteresti una, per favore?»

Lara le porse una biro. «Non sono le penne che mi preoccupano… ma se si esaurisce il mio cervello» disse in tono teatrale. «Cavolo, odio gli esami. Non capisco perché dobbiamo farli. Soprattutto la settimana prima di Natale. Voglio dire, è da sadici.»

Jen scrollò le spalle. Mancavano una decina di minuti all’esame del primo semestre e avevano i nervi a fior di pelle. Jen mostrava scarso interesse riguardo all’esito, ma sapeva che dentro di sé non era vero. Non era mai stata bocciata, e non voleva cominciare adesso.

«Ciao Jen, ciao Lara.» Le due ragazze sollevarono gli occhi e videro Alan che gironzolava intorno al loro tavolo.

«Ciao, Alan» rispose Jen in tono allegro. «Non vedi l’ora di fare l’esame, eh?»

Alan appariva pensieroso. «È sempre bene avere l’opportunità di consolidare quanto si è appreso» rispose serio. «Ma non direi che non vedo l’ora di farlo. Lo ritengo più un male necessario. Ho una domanda, però: secondo voi, l’analisi degli stakeholder fa parte dell’analisi interna o esterna? Voglio dire, sono gli stakeholder di una impresa, per cui sono interni, ma non stanno lì dentro, per cui sono esterni. Giusto?»

«Oh, taci, cervellone che non sei altro» commentò Lara, stizzita. «Non ne ho la minima idea, e se tu avessi una vita normale, non ce l’avresti neanche tu.»

Alan la guardò con espressione perplessa. «Mi domandavo solo…» ribatté sulla difensiva prima di sedersi.

«Bene, è il momento di entrare, mi sa» li richiamò Jen, radunando le sue cose.

«Entrare dove?»

Jen si girò velocemente. Quella voce la riconosceva. Ma non poteva essere Daniel, vero? Lui era senz’altro al lavoro, no?

Invece era proprio Daniel. Era di una bellezza strepitosa con le maniche della camicia arrotolate e i pantaloni di lana blu. Le sorrise impacciato e si passò una mano fra i capelli, mentre Jen sentiva lo stomaco che faceva le capriole. Si alzò velocemente e per poco non buttò giù il tavolo.

«Daniel! Ciao!» disse con un tono di voce un po’ troppo acuto. «Abbiamo l’esame. Comincia fra cinque minuti. Allora, hai… hai lezione qui oggi?»

Daniel fece un gran sorriso. «No, approfitto solo di alcuni consulenti» rispose in tono leggero. «E volevo anche salutare… stasera parto per il Northumbria per festeggiare il Natale con i miei.»

Jen avvertì una repentina fitta di delusione, ma si sforzò di sorridere. «Oh, giusto. Bene, ehm…» Avrebbe voluto baciarlo. Avrebbe voluto gettargli le braccia al collo. Ma si sentiva gli occhi di Alan e Lara puntati addosso e, in ogni caso, Daniel non era il suo ragazzo né altro. Per l’ennesima volta, maledisse Gavin per essere comparso all’improvviso a casa sua. Se non fosse arrivato lì domenica, probabilmente adesso Jen avrebbe baciato Daniel.

«Ci vediamo quando torno?» domandò a bassa voce, costringendola a chinarsi verso di lui così tanto da sentire l’odore della sua pelle.

«Dio, spero proprio di sì» sussurrò Jen; poi fece una smorfia stizzita. «Volevo dire, be’, sarebbe carino…»

«Ho pensato anch’io la stessa cosa. In bocca al lupo per l’esame!»

Mentre lui se ne andava, Jen si accasciò sulla sedia.

«Bene, Alan» intervenne Lara con un tono impassibile. «La tua analisi degli stakeholder di questa breve interazione riterrebbe Daniel Peterson un fattore interno o esterno?»

Alan si alzò. «Dato che non ho una vita normale, come hai gentilmente sottolineato, proprio non saprei.»

Lara scrollò le spalle. «Pronta, Jen?»

Jen stava ancora sorridendo come un’ebete. «Cosa? Oh, sì. Sì, nel modo più assoluto.» E, camminando a venti centimetri da terra, seguì Lara e Alan nell’aula degli esami.

«Mi sono scordato tutto sulla Ansoff.»

Jen corrugò la fronte, mentre Alan si prendeva la testa fra le mani e si chinava sul tavolo davanti a sé. Jen tolse rapidamente di mezzo un portacenere.

«Dài, Alan, ormai è andata. Non ha senso rimuginarci adesso.» Sorrise senza entusiasmo, ben sapendo di essersi dimenticata non solo la matrice di Ansoff, ma anche tutti gli altri modelli e le teorie che avrebbe dovuto usare nell’esame: aveva avuto la testa troppo piena di Daniel per riuscire a concentrarsi su una domanda su un’azienda vinicola californiana che perdeva soldi.

«Ah no?» domandò Alan, raddrizzandosi lentamente. «Credevo che venire al pub servisse a questo: rimuginare sull’esame e capire dove abbiamo sbagliato. Per prepararci al fallimento. Attenzione, io sono già preparato. Mi preparo da tutta la vita.»

Jen stralunò gli occhi. «Alan, non essere ridicolo. Ti sei laureato con il massimo dei voti, per l’amor del cielo. Non lo chiamerei fallimento. Soffri solo di stress da dopo esame. Lara arriverà fra poco con i drink, e ti sentirai subito meglio.»

Alan la guardò con aria afflitta. «Non starò meglio. Lara ha ragione: non ho una vita. L’unica cosa che faccio è superare esami e se mi vanno male, be’, non mi rimane più niente.»

«Alan, non essere sciocco… nella tua vita ci sono tante altre cose oltre agli esami.»

«Tipo cosa?»

Jen corrugò la fronte, cercando qualcosa di positivo da dire. Alan le era simpatico, davvero molto simpatico, ma con lui aveva parlato solo del master.

«Tipo la tua personalità, Alan. Sei un bravo ragazzo.»

Alan scosse la testa con aria sconsolata. «Sono un ragazzo noioso. È per questo che non ho una fidanzata.»

Jen fece un gran sorriso. Allora era questo il gran dramma. «Vuoi una ragazza? È questo il problema? Alan, ci sono probabilmente delle ragazze che non vedono l’ora di uscire con uno come te.»

«Non mi pare di vedere la coda.»

«Be’, mica devono farla, no? Voglio dire, devi parlare un po’ con una persona prima che ti dichiari il suo eterno amore.» Jen lanciò un’occhiata verso il bancone per capire cosa trattenesse Lara e la vide uscire in quel momento dalla toilette. Oddio, si rese conto Jen, non era ancora andata a prendere da bere.

Alan scosse la testa. «Non riesco a intavolare una conversazione. Non so come si fa.»

«Certo che ci riesci. Parli con me e Lara, no?»

Alan la guardò di sguincio. «Solo di roba di lavoro. Quando voi due vi mettete a parlare di scarpe, del tempo o di vacanze, io devo spegnermi.»

Jen corrugò la fronte. Aveva ragione Alan: avevano avuto tante conversazioni sulle schede di valutazione bilanciata e tante altre discussioni sulla natura degli affari, ma non avevano mai parlato di altro.

«Okay, allora provaci adesso. Raccontami della tua famiglia. Li vedrai per Natale?»

Alan scrollò le spalle. «Sì.»

«Questo non è esattamente raccontare.»

Alan sospirò. «E invece sì. Ho una famiglia normale. Vivono in una casa. E per cena avremo il tacchino. Tutto qui.»

«Dove abitano?»

«A Chester»

«È un bel posto?»

Alan la guardò, poi si grattò la nuca. «Non proprio. Senti, mi dispiace, ho avuto una brutta mattinata, tutto qui. Ignora tutte le fesserie che ho vomitato.»

Jen sorrise, un po’ sollevata. Poi corrugò la fronte e si avvicinò a lui. «Alan, quando è stata l’ultima volta che sei uscito con una ragazza?»

Alan parve imbarazzato. «Non lo so. Un bel po’ di tempo fa, probabilmente.»

«Sii più preciso.»

Alan si guardò intorno e cominciò ad arrossire. «Non lo so» ripeté, più sulla difensiva. Poi si strinse nelle spalle. «Mai, okay? Non sono mai uscito con una donna. Avevo una ragazza al liceo, siamo stati insieme dieci anni, e poi lei mi ha lasciato per un tizio che ha conosciuto al lavoro. Fine della storia. E in ogni caso non ha importanza…»

Jen annuì, tentando di non far trapelare quanto ne fosse sbalordita mentre osservava Alan che si sforzava di mantenere la calma. Ci pensò su un attimo.

«Vuoi che ti dia una mano?» gli domandò infine. «Alan, sei un ragazzo fantastico. Dovresti uscire con delle donne. Devi solo… rilassarti un po’. Imparare l’arte della conversazione.»

«La vedo dura» tagliò corto lui, ma gli si drizzarono un po’ le orecchie.

«Dài» insisté Jen. «Almeno provaci. Cosa hai da perdere?»

Alan si sistemò gli occhiali sul naso. «Mi daresti davvero una mano?» domandò; per qualche ragione la voce all’improvviso era diventata più esile.

«Una mano per cosa?» Lara era tornata dal bancone e stava appoggiando i bicchieri sul tavolo.

«La Ansoff» si affrettò a rispondere Jen, facendo l’occhiolino ad Alan, che le sorrise con gratitudine. «Aiuterò Alan a capire meglio la matrice di Ansoff.»

Lara stralunò gli occhi. «Sarà meglio che tu aiuti anche me, allora» commentò. «Non mi ricordo neanche chi è Ansoff.»

«Allora, ieri avevi l’esame? Spero sia andato bene.»

Jen guardò suo padre con un po’ di nervosismo, ma tirò un sospiro di sollievo quando vide che gli scintillavano gli occhi. George era ossessionato dai risultati degli esami quando lei era piccola e Jen quasi si aspettava che la rimproverasse per non aver lavorato abbastanza sodo. Anche se, dato che pranzava insieme a lui un giorno sì e uno no, suppose che in parte fosse colpa di suo padre se non aveva fatto bene. «Secondo me, chiunque pensi che gli esami sotto Natale siano una cosa positiva è uno squilibrato» affermò, sedendosi con attenzione mentre un cameriere le sfarfallava intorno, posandole un tovagliolo sulle ginocchia e versandole un po’ di acqua nel bicchiere.

«Adesso che l’esame è finito ti godrai di più il Natale, no?»

«Immagino di sì» gli concesse Jen. «Ma è come dire che si deve patire la fame prima di pranzo per poterlo apprezzare meglio.»

George rise. «Sei sempre stata polemica. Proprio come tua madre.»

Jen inarcò le sopracciglia.

«Okay, e un po’ anche come me» si affrettò ad aggiungere George. «Allora, dimmi, come stai?»

Jen sorrise di cuore. «Be’, non è cambiato molto dall’ultima volta che ci siamo visti lunedì scorso. E da quando abbiamo parlato ieri al telefono.»

George annuì. «Prendimi pure in giro» commentò, versandole un bicchiere di vino, «ma non raffredderai il mio entusiasmo. È così bello riaverti accanto. Essere… parte della tua vita.»

Jen notò un’espressione un po’ titubante sul suo volto, che scomparve quasi subito, sostituita dal suo solito sorriso sicuro.

«Allora» continuò rapidamente George «cosa prendi? Io penso che mangerò tacchino.»

Jen scosse la testa e guardò il menù. «Tacchino? Stai scherzando! Non ne avrai abbastanza il giorno di Natale?»

George ebbe un lieve sussulto, poi fece un ampio sorriso. «Non mi viene mai a noia il tacchino» rispose. «Ma se tu sei troppo pavida per prenderlo, ti consiglio la bistecca. È davvero strepitosa.»

Jen corrugò la fronte. «Papà, cosa farai per Natale? Hai dei programmi, vero?»

George la guardò con aria incredula. «Programmi? Certo che ce li ho. Troppi inviti, a dire il vero. Non riesco a decidere quali rifiutare.»

Jen sorrise sollevata. Se le avesse detto che era da solo, Jen avrebbe dovuto trascorrere il Natale con lui. Per lei non ci sarebbero stati problemi, ma dare la notizia a Harriet… be’, era inimmaginabile.

«Tu andrai da tua madre, presumo?» continuò George come se le leggesse il pensiero.

Jen annuì.

«Potresti anche mostrarti più entusiasta. È tua madre, sai.»

Guardò suo padre con curiosità. Harriet non era mai così benevola nei confronti di George.

«Non vedo l’ora» disse Jen, cauta. «Ma sai com’è Natale. Tanta gente, tanto alcol, inevitabili discussioni…»

George scosse la testa. «Sciocchezze. Natale è meraviglioso. Ti piaceva come lo trascorrevamo insieme, no? Io me li ricordo tutti.»

George le rivolse un’occhiata malinconica e Jen ebbe all’improvviso una gran voglia di abbracciarlo, di mettersi a sedere sulle sue ginocchia come faceva quando aveva cinque anni e di sentirsi protetta e felice nel modo più assoluto e totale. Le madri erano creature meravigliose, osservò, ma a volte non avevano le spalle abbastanza larghe.

«Anch’io» disse a bassa voce. «In particolar modo quello in cui mi hai regalato la bicicletta.» Avevano trascorso tutta la giornata insieme quel Natale, George che la spronava ad andare sulla bici senza le rotelle, e lei che urlava di gioia quando alla fine ci era riuscita.

George rise. «Be’, ho paura di non avere una bicicletta per te quest’anno, ma spero che ti piaccia lo stesso.»

Tirò fuori una busta e la porse a Jen. Lei l’aprì e trovò un biglietto di auguri di Natale – Con tutto l’affetto del mondo, il tuo papà – e un certificato che recava il suo nome e l’immagine di uno strano pianeta. Jen arricciò il naso, tentando di ricordarsi se avesse mai raccontato a suo padre di essere interessata allo spazio interstellare, ma ebbe un vuoto di memoria.

«È una stella» disse premuroso George. «Ti ho sempre promesso la luna e ti ho deluso profondamente, ma adesso hai una stella che porta il tuo nome. Io… io spero che ti piaccia.»

Jen lo fissò e avvertì le lacrime che cominciavano a pungerle gli occhi. «È bellissima» disse, ficcando le unghie nei palmi per tentare di mantenere un certo contegno – era in un ristorante elegante, dopo tutto. «Grazie, papà. Io… io non ti ho preso niente.»

George corrugò la fronte. «Sei qui, Jen. Credimi, per un vecchio sciocco come me, come regalo di Natale è più che sufficiente.»

Jen annuì in silenzio, mentre il cameriere si avvicinava al loro tavolo per prendere gli ordini. Aveva ragione lui, pensò Jen, e ordinò. Essere lì con suo padre era il più bel regalo di Natale che avesse potuto desiderare.