«Dum, dum, dum, dum, gonna use my style, gonna use my sassy, gonna use my, my, my imagination, yeah…»
Jen canticchiava insieme a Chrissie Hynde, sparata a tutto volume dal suo stereo, mentre faceva un bagno bollente e osservava la pelle che pian piano diventava piena di rughe e rosa. “È solo un drink” si ripeté. “Solo un drink con Daniel. Niente per cui valga la pena scaldarsi tanto.”
Ma non credeva alle sue stesse parole, neanche mentre le pensava. Per quanto la riguardava, era il loro primo vero appuntamento. Il primo appuntamento che non aveva niente a che fare con il lavoro, né il master, né altro. Non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarla davanti casa a fine serata, né avrebbero fatto un giro per le librerie. No, in questo caso valeva la pena scaldarsi tanto.
Jen sollevò una gamba fuori dall’acqua e cominciò a depilarsi. Sarebbe andata volentieri a farsi la ceretta, ma trovare un posto disponibile in così poco tempo si era dimostrata un’impresa impossibile – tutti i saloni erano chiusi per le festività natalizie o già pieni. Naturalmente, radersi significava che la prossima volta in cui sarebbe andata a farsi la ceretta, la sua estetista avrebbe bofonchiato e le avrebbe lanciato una di quelle occhiate di rimprovero che la faceva sentire come se avesse confessato di gestire una tratta di schiavi, invece di aver semplicemente tirato fuori il rasoio in un’emergenza. Niente però che non si potesse rimediare con una mancia in più.
Una volta finita l’operazione, uscì a malincuore dall’acqua e si sentì subito investire da una corrente di aria fredda. Era questo il problema con gli appartamenti “caratteristici” come il suo. Erano belli, ma le finestre erano sempre molto vecchie e l’ambiente non si riscaldava mai bene. Come le case di campagna: Jen aveva imparato tanti anni prima che se per caso qualcuno ti invitava nella sua casa di campagna (o meglio, dei suoi genitori), non dovevi portarti dietro solo dei maglioni, ma anche coperte, calzini pesanti, biancheria intima termica e berretti di lana, e in ogni caso avresti continuato ad avere freddo. “Forse è per questo che gli inglesi hanno modi gelidi” pensò mentre si asciugava velocemente, prima di spalmarsi un abbondante strato di crema per il corpo. “Forse li congelano così.”
In quattro e quattr’otto, Jen si strinse addosso il suo vecchio, malandato e adorato accappatoio di spugna e cacciò i piedi nei suoi fidati Ugg. Non era un look da “dea del sesso”, ma stava calda, e in quel momento era l’unica cosa importante.
Mentre tirava fuori un paio di pinzette per aggiustare le sopracciglia, si domandò se sapeva ancora vestire i panni di una “dea del sesso”. Erano… quanti?… contò sulle dita della mano… diversi mesi dall’ultima volta che aveva fatto sesso. E quell’ultima volta era stato un tentativo post Gavin non particolarmente riuscito con Jim, amico di un amico, ubriaco fradicio (come Jen, del resto), e che aveva dato luogo a un atroce mattino dopo, in cui entrambi avevano una gran voglia di allontanarsi l’uno dall’altra alla velocità massima consentita a un essere umano.
Non che stasera avrebbe fatto per forza sesso. Sicuramente no.
Scrutò il suo riflesso nello specchio, tentando di decidere come truccarsi. Aveva la pelle pallida con alcune zone piene di brufoli rossi intorno al naso e al mento, conseguenza dei drink di Natale e del clima gelido. Per cui, senz’altro il fondotinta. E un sacco di correttore.
Andò allo stereo e mise gli Style Council a tutto volume. Non c’era niente come la prospettiva di una storia d’amore per far sembrare tutto un po’ più fulgido e nuovo. Era la stessa sensazione (anche se, insomma, molto più forte) che aveva a settembre quando alle medie ricominciava la scuola e indossava una divisa perfettamente stirata, non ancora macchiata di inchiostro, né con pezzi di cibo appiccicati sopra; l’astuccio pieno di penne nuove di zecca e la classe in cui era passata testimoniavano senza alcun dubbio che si era fatta strada nel mondo. C’erano così tante aspettative, così tanta speranza che quell’anno le cose sarebbero andate meglio – che all’improvviso si sarebbe ritrovata nel giro che contava, che avrebbe saputo a memoria tutte le canzoni che i suoi compagni cantavano nel cortile, che non avrebbe preso nemmeno un’insufficienza o peggio ancora non le avrebbero scritto sul quaderno la malaugurata frase: I genitori sono pregati di contattarmi.
Naturalmente, bastava una settimana o poco più perché Jen si rendesse conto che un nuovo banco e una nuova divisa non la rendevano affatto diversa. Sua madre si rifiutava ancora di farle ascoltare la musica pop alla radio o perfino di permetterle di guardare Top of The Pops, cosa che la poneva in una situazione di svantaggio nel cortile della scuola. Jen continuava a sognare troppo a occhi aperti, facendo scattare la penna rossa dell’insegnante ogni volta che si metteva a scrivere qualcosa. E di solito era la stessa solfa con le storie d’amore: troppo alla svelta il suo splendido splendente oggetto del desiderio si dimostrava un uomo come tutti gli altri, si “dimenticava” di chiamare, si rifiutava di progettare qualsiasi cosa con più di una settimana di anticipo, insisteva per andare al pub a vedere la “partita”, che fosse di calcio, di rugby o di cricket.
Jen sospirò, poi si riscosse. Non era il momento adatto per pensare a queste cose. Si stava preparando per uscire con un uomo e, chissà, magari questa volta sarebbe stato diverso.
«Sei… bellissima.»
Daniel sorrideva, e Jen si sentì vacillare un po’. Una fredda serata di dicembre non era il momento più adatto per indossare gonna e tacchi alti, lo sapeva, ma la comodità non era tutto nella vita. Prima di uscire aveva sbirciato la neve che si accumulava sul davanzale e aveva trascorso qualche minuto a tentare di convincersi che gli stivali di montone erano, in realtà, molto attraenti e avrebbero dimostrato quanto si sentisse rilassata in compagnia di Daniel. Soprattutto quando aveva aperto il portone ed era stata travolta da una raffica di vento gelido. Ma sapeva che le gambe non avrebbero dato il meglio di sé dentro un paio di stivali bassi e pesanti, per cui alla fine era arrivata a un compromesso indossando un paio di décolleté nere piuttosto robuste, ma ancora abbastanza raffinate e con un tacco non altissimo. E stava congelando di brutto.
«Entriamo?» suggerì Daniel, tenendole la porta aperta. Erano da Ketners, un bar di Cambridge Circus, appena fuori da Oxford Street e a un tiro di schioppo da Soho.
Jen annuì con gratitudine e si ritrovò ad attraversare una sala piccola e accogliente con camerieri in completo nero e gruppi di persone sedute intorno ai tavoli a bere champagne.
«Immagino che la gente abbia voglia di festeggiare» disse a Daniel, che sorrise.
«In effetti è una champagneria» le sussurrò. «Ho sentito dire che le ragazze adorano lo champagne. Scusa, le donne. Ehm…»
Sembrava perplesso, ma Jen sorrise. «“Ragazza” va benissimo» disse. «Solo quando sei una teenager vuoi essere definita donna. Una volta superati i venticinque anni, “ragazza” è sempre gradito. Ma non se lo dici in tono condiscendente. Comunque, mai dire “signora”, è il termine peggiore di tutti.»
Daniel annuì serio, mentre venivano accompagnati a un tavolino in un angolo della sala. «Cercherò di ricordarmelo» disse. «Ma nel frattempo cosa ordiniamo?»
Jen corrugò la fronte. «Abbiamo un’alternativa?»
«Nel modo più assoluto. Champagne liscio, cocktail di champagne, champagne d’annata, champagne nuovo, rosé, bianco…»
«Okay, okay. Ho afferrato il concetto. Per me champagne liscio.»
Daniel annuì e un cameriere apparve dal nulla. «Una bottiglia di champagne» disse. «E un po’ di stuzzichini. Olive, pane, cose del genere.»
Il cameriere scomparve e rimasero soli loro due. Jen si accorse di avere lo stomaco sottosopra.
«Allora, hai trascorso un bel Natale?» domandò Daniel.
Jen stralunò gli occhi. «Non lo definirei esattamente bello. Interessante, forse.»
Daniele sorrise calorosamente. «Non dirmi che vieni da una famiglia disfunzionale anche tu?»
Jen annuì. «Non esiste che la tua sia disastrata come la mia» commentò con un mezzo sorriso.
A Daniel si illuminarono gli occhi. «Oh, quindi facciamo a gara, giusto? Be’, okay, la mia non è propriamente disfunzionale, ma i miei vivono in mezzo al nulla e amano perdersi in frivolezze il giorno di Natale. E prendono estremamente sul serio il discorso della regina. Per quale motivo pensi che ti abbia mandato un SMS il giorno di Natale? Ero disperato.»
Jen fece finta di offendersi. «Oh, lo hai fatto solo perché eri disperato, giusto?»
«No, no, Dio, no, non volevo dire…» Daniel si rese conto troppo tardi che Jen stava scherzando e diventò rosso. «Oh, ma va là!» disse in tono gioviale. «Allora continua tu, perché la tua è la famiglia regina della disfunzionalità?»
Jen scrollò le spalle imbarazzata. Era ancora ferita dalla discussione con sua madre.
«È così disastrata?» domandò Daniel con un tono partecipe, che fece addolcire Jen.
«Oh, niente di grave. Ho semplicemente dei genitori che mentono, si tradiscono e si detestano a vicenda, tutto qua» raccontò. E parlando, all’improvviso non le sembrò più tutto così terribile. In effetti era divertente. Be’, o quasi. Il fatto era che si sentiva così a suo agio con Daniel, come se potesse parlargli di tutto, prenderlo in giro, aprirsi con lui. Era questo che intendevano dire le persone quando parlavano di amore a prima vista?
«Devi aver avuto un’infanzia molto interessante!» commentò Daniel con un gran sorriso. «Vanno d’accordo? Nonostante le bugie e i tradimenti? Voglio dire…»
«A dire il vero, sono divorziati.»
«Ah, scusa.» Adesso sembrava un po’ a disagio.
«Nessun problema. È successo tanti anni fa.»
Lui annuì. «Forse sono troppo simili.»
Jen corrugò la fronte. «Simili? Per certi versi sì. E al tempo stesso non c’entrano niente l’uno con l’altra. Mamma è fissata con i cristalli, i guaritori e quei ridicoli guru spirituali che di spirituale non hanno nulla, e papà… be’, papà è un maniaco del lavoro. È…» Non finì la frase, non sapendo cosa dire, non volendo ammettere che non lo conosceva bene. Sapeva come aveva immaginato che fosse suo padre, e sapeva com’era stato negli ultimi tempi, ma le due cose erano talmente diverse l’una dall’altra che in quel momento capì che non aveva la minima idea di come fosse in realtà, fatta eccezione per i ricordi di infanzia, quando i suoi genitori litigavano quasi tutto il tempo e lui sembrava stare sempre in ufficio.
«È un uomo competitivo» concluse. «E a dire il vero, probabilmente lo conosci. È… be’, è George Bell.»
Jen osservò attentamente Daniel mentre sgranava gli occhi. «Perbacco. Hai vinto tu! Per cui sei realmente la figlia di George Bell?»
Jen annuì. «Nessuno lo sa alla Bell» rispose seria. «È un po’… complicato.» Pensò ad Angel e abbozzò un sorriso.
«Per cui in realtà sei Jennifer Bell, non Jennifer Bellman?»
Jen si fece piccola. «Già. Mi… be’, mi è mancata l’ispirazione in questo caso. E avevo il terrore di dimenticarmi il nome.»
«Io preferisco Bell. Ti sta bene. Allora, hai preso da tuo padre? O assomigli di più a tua madre? Solo perché credo che dovrei essere avvisato, no?»
Daniel rideva e la guardava dritto negli occhi, e Jen si sentì mancare, sentì che perdeva la capacità di connettere e che pensava a nient’altro che a lui, a quanto fosse vicino, a quanto fosse una sensazione meravigliosa.
«A nessuno dei due» disse con voce sommessa, mentre Daniel si avvicinava per baciarla. «A tutti e due. Un po’ a tutti e due. Solo… per gli aspetti positivi…»
Cinque ore dopo, Jen era su un taxi insieme a Daniel, la testa che le girava per l’eccitazione, seduta, il capo rannicchiato sulla sua spalla, il braccio di lui che la stringeva a sé. Lei gli teneva una mano, mentre lui le accarezzava i capelli con l’altra. Sarebbe stata pronta a morire e ad andare dritta in paradiso in quel momento, se non fosse stata così eccitata di scoprire cosa sarebbe accaduto dopo.
Jen chiuse gli occhi un attimo, tentando di imprimere nella memoria l’intera serata, in ogni minimo dettaglio. C’era stato il bacio, ovviamente. Quello era stato l’inizio, il momento in cui aveva smesso di essere nervosa. Con quell’unico bacio – o, a dire il vero, diversi baci, se qualcuno li avesse contati – Jen aveva percepito qualcosa dentro di lei che si agitava, qualcosa che le faceva venire voglia di piangere e ridere al tempo stesso.
Riconobbe che era un po’ esagerata come reazione, e per questo all’inizio incolpò lo champagne. Ma poi, a cena, avevano parlato come se si conoscessero da una vita. Lei aveva raccontato all’infinito dei suoi genitori, riferendo a Daniel cose che non aveva mai ammesso neanche con se stessa. E, di tanto in tanto, lui le aveva stretto la mano o si era avvicinato per baciarla – e quando lei ebbe finito, più o meno all’arrivo del dessert, aveva preso la parola lui. Aveva parlato con garbo di se stesso, della sua infanzia prima in Scozia e poi nel Northumbria, della decisione di andare all’università – in contrasto con la tradizione della sua famiglia che lavorava nell’agricoltura –, dei suoi primi successi e della sua attuale angoscia esistenziale sul senso delle cose.
E, quando ebbero finito, nessuno dei due aveva voglia di tornare a casa, per cui Daniel l’aveva portata al Ronnie Scott’s, l’aveva trascinata al piano superiore su una piccola pista da ballo dove imperava la musica salsa e si erano messi a ballare insieme, senza nessuno intorno, guancia a guancia, e Jen aveva sinceramente pensato che se continuavano a ballare, la serata non sarebbe mai dovuta finire.
Poi, quando si era ritrovata a occhi chiusi con la testa sulla spalla di Daniel e lui le aveva sussurrato che forse era arrivato il momento di andare a casa, Jen aveva annuito assonnata, sapendo che quella notte avrebbe seguito Daniel ovunque…
«Dài, dormigliona, siamo quasi a casa» le disse Daniel, arruffandole i capelli e svegliandola.
«A casa di chi?» chiese, ancora nel dormiveglia.
«Tua, ovviamente.» Daniel fece un gran sorriso. «Ho pensato che poteva essere un po’ presuntuoso portarti a casa mia.»
Jen lo guardò di traverso. «Casa mia è un casino totale» disse con un po’ di imbarazzo. «Dovrai tenere gli occhi chiusi.»
«E se ti prometto di dimenticare tutto quello che vedo?»
«No» rispose Jen. «Non voglio che tu ti dimentichi questa serata, se per te va bene.»
Mentre si avvicinavano all’edificio dove abitava Jen, Daniel scrutò il portone. «Solo un controllo» spiegò, mentre Jen lo infastidiva con fare giocoso. «Non aspetti un altro ex fidanzato, vero?»
Jen scese dal taxi e si diresse verso l’ingresso, all’improvviso terrorizzata che potesse ripresentarsi Gavin, che per qualche orrendo scherzo del destino si fosse arenato a Londra una seconda volta. Ma, con suo grande sollievo, il gradino davanti casa era vuoto. Mentre girava la chiave, Daniel le si avvicinò alle spalle e cominciò a sbaciucchiarle il collo. Jen si girò per baciarlo, e tutti e due caddero contro il portone, spalancandolo. Poi, in silenzio, si diressero al primo piano, all’appartamento di lei, e Jen aprì la porta, facendo passare lui per primo.
«Che bei soffitti alti» si complimentò Daniel. «Carino.» Daniel si avvicinò poi a Jen e le mise le mani intorno alla vita, e mentre si chinava per baciarla, Jen gli cinse le braccia al collo.
Daniel le tolse con delicatazza il cappotto, lei gli sbottonò la giacca, poi lui cominciò a baciarle il collo e a sfilarle il maglione.
Brrr. Brrr. Brrr.
Jen trasalì.
«È il tuo telefono?» sussurrò Daniel. «Perché non lo spegni?»
Annuì, mentre Daniel la lasciava andare. Jen tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto e corrugò la fronte.
«È papà» disse, disorientata. «Come mai chiama a questa ora?»
Esitò. Era strano: aveva inserito il numero di suo padre nella rubrica solo pochi giorni prima ed era bizzarro ed eccitante vedere la scritta PAPÀ che lampeggiava sullo schermo. Ma era lì insieme a Daniel. Ne aveva avuto abbastanza della sua famiglia nei giorni scorsi. Quello era il suo momento e non aveva intenzione di concedere spazio a suo padre.
Con decisione, premette il tasto CHIUDI e spense il telefono.
«Tutto a posto?» domandò Daniel con tenerezza, e lei annuì, lasciandosi prendere fra le sue braccia e quasi trasportare in camera. Si lasciò spogliare e poi lo aiutò a togliersi i vestiti. Pochi minuti dopo si dimenavano sul letto, Jen che si stringeva contro di lui e si domandava quando era stata l’ultima volta che si era sentita così elettrizzata.
«Voglio fare l’amore con te» sussurrò Daniel e Jen annuì, spostandolo sopra di lei e consentendogli di avere il totale controllo. Quando lui la penetrò, Jen rimase senza fiato e, mentre si muovevano avanti e indietro, ebbe la sensazione che il suo mondo scomparisse. Non c’era niente di più importante di loro due lì insieme. Daniel dentro di lei. Sopra di lei. Tutto intorno a lei. Jen si sentì sollevare, cadere, vorticare, e poi alla fine ansimò, stringendolo con una forza che non sapeva di avere, e poi, dopo, ma non capì quanto tempo dopo, allentò la presa su di lui e rimase distesa sbalordita.
«Che cazzo!» sospirò Daniel e appoggiò la testa sul cuscino accanto al suo.
«Niente male, sì» ribatté Jen con aria sognante, le loro membra aggrovigliate, mentre si addormentava lasciandosi trascinare dalla corrente, accaldata, sfinita e felice come una pazza.
Jen si svegliò con qualcuno che le accarezzava i capelli, aprì subito gli occhi e si accorse che qualcuno le porgeva una tazza di tè fumante.
«Non so se ci metti lo zucchero» disse Daniel in tono di scusa. «Per cui ne ho messo un cucchiaino… ho pensato che dopo stanotte, magari ti serviva un po’ di energia.»
Jen si concesse una risatina, poi si tirò su seduta. «Hai preparato il pane tostato!» esclamò e lui scrollò le spalle.
«Non ce n’era molto. E il frigo è vuoto. Ma sono riuscito a preparare un po’ di pane tostato, se hai fame. E ho comprato anche il giornale.»
Jen si allungò e lo baciò. «Sei perfetto» esclamò raggiante. «E questo, tutto questo, è assolutamente perfetto.»
Daniel si infilò di nuovo a letto e Jen spolverò una fetta di pane ricoperta di miele, aprì il giornale e lo spulciò alla ricerca di notizie interessanti. A Londra era prevista neve per la settimana successiva. C’era stata un’ampia polemica per i problemi con i mezzi di trasporto la sera di capodanno. E la Bell Consulting era implicata nello scandalo sulla corruzione dello tsunami, stando a fonti…
Jen fissò la pagina. La Bell implicata? Come? Perché?
Lesse velocemente l’articolo. Una fonte vicina alla Bell Consulting aveva scoperto una lettera che il quotidiano aveva avuto modo di vedere, secondo la quale la Bell aveva rivestito un ruolo nell’assicurare preziosi appalti alla Axiom Construction, suo cliente. Una lettera in cui si ringraziava George per il suo aiuto!
Jen corrugò la fronte. Non potevano riferirsi alla lettera che aveva trovato lei, no? Impossibile, era ancora in suo possesso. E nessuno altro l’aveva “scoperta”. Nessun altro l’aveva vista.
Nessuno tranne Gavin.
«Ora, non so se hai dei programmi per oggi» stava dicendo Daniel «ma…» Si interruppe. «Tutto bene?»
«Ehm, no, no, non proprio» rispose Jen, il cuore che le batteva forte. «Io… oh, cazzo!» Il cervello cominciò a frullarle all’impazzata. Doveva essere stato Gavin. Quello stupido aveva spifferato tutto a un giornalista! Era proprio il tipo di azione che avrebbe potuto fare lui. Perché diavolo gliene aveva anche solo accennato? Oddio, come poteva essere stata così stupida? Era per questo che suo padre le aveva telefonato la notte prima? I giornalisti lo avevano chiamato? Il cuore le batteva forte. Aveva appena ritrovato suo padre e lo aveva tradito, e tutto perché non era riuscita a trattenersi dal voler fare colpo su Gavin, nell’intento di fargli sapere quanto lei fosse importante. Suo padre l’avrebbe mai perdonata?
Il telefono fisso cominciò a squillare e Jen pensò di ignorarlo, poi cambiò idea. Se fosse stato di nuovo suo padre, che la ripudiava, tanto valeva non pensarci più. Con un po’ di fortuna invece sarebbe stato Gavin, e lei gli avrebbe detto esattamente quello che pensava di lui.
Guardò Daniel con aria di scusa e si precipitò al telefono, arrivando appena in tempo.
«Pronto?» esordì perplessa.
«Jennifer?»
Jen corrugò la fronte. Non riconosceva la voce. «Sì. Con chi parlo?»
«Oh, bene. Jennifer, sono Emily, l’assistente personale di tuo padre. Temo di avere brutte notizie.»
Sentendosi in colpa, Jen si rese conto che stava parlando con la donna di cui aveva spiato ogni singolo movimento per poter entrare di nascosto nell’ufficio di suo padre. «Bene» disse rassegnata e si fece forza. La cacciavano a pedate dal master, ipotizzò. Suo padre non avrebbe più voluto vederla.
Dal letto, Daniel osservò con curiosità Jennifer, che prima arrossì per il senso di colpa e poi sbiancò nel giro di qualche secondo.
«Bene. Okay, allora. Sì, subito» la sentì dire e corrugò la fronte.
«Tutto a posto?» domandò Daniel, uscendo dal letto e sedendosi su un lato, mentre Jen tornava verso di lui con lo sguardo assente.
Lei lo guardò con aria vaga e si avvolse un lenzuolo intorno al corpo, come se all’improvviso si fosse accorta di essere nuda. «Ehm, no, non proprio» rispose, girandosi lentamente per incrociare il suo sguardo. «Emily, la segretaria di mio padre, viene a prendermi fra cinque minuti. Papà… papà ha avuto un infarto.»