Jen fissò il corpo di suo padre, debole e immobile, collegato a tubi e macchinari che facevano bip e lampeggiavano in modo protettivo intorno a lui, e si sentì inadeguata. Le frullavano per la mente tutta una serie di “se”, e Jen era incapace di concentrarsi su uno di essi prima che un altro si facesse strada a forza nei suoi pensieri. Se solo non avesse parlato con Gavin della Bell Consulting. Se solo non avesse urlato a suo padre che lo odiava e non voleva più vederlo quando sua madre le aveva detto che se ne sarebbe andato via. Se solo avesse scoperto prima la verità. Se solo avesse risposto al telefono quando l’aveva chiamata. Se solo fosse stata una persona migliore, una figlia migliore. Se solo non fosse stata egoista a tal punto che perfino in quel momento si immaginava Daniel nel suo letto e desiderava che fosse lì con lei e che niente di tutto ciò fosse accaduto…
Era tutta colpa sua, lo sapeva. Eppure l’unica cosa che desiderava era incolpare qualcun altro. Gavin, soprattutto, per aver parlato con i giornali. Doveva essere stato lui, rifletteva. C’era il suo nome stampato come un marchio di fabbrica in quella vicenda. Era l’unica persona a cui aveva detto della lettera. E poi era il più grande opportunista che avesse mai conosciuto: senza dubbio, questa soffiata lo avrebbe messo in ottima luce con il giornalista. Ma non si era fermato neppure un attimo a pensare all’impatto che avrebbe avuto? Non si era minimamente preoccupato di quello che sarebbe potuto accadere a lei? Ovviamente no. Bastardo.
Bene, adesso Gavin avrebbe potuto aggiungere al suo elenco di successi l’attacco di cuore che aveva procurato a George Bell. Suo padre aveva senza dubbio saputo che la storia stava per essere pubblicata e aveva dato i numeri. Jen si domandò se era stata la storia in se stessa o il fatto che suo padre avesse pensato di essere stato tradito da sua figlia ad avere provocato l’attacco di cuore.
Non aveva importanza! Il punto era che Gavin l’avrebbe pagata cara. Lo avrebbe tormentato così tanto, che avrebbe passato il resto della sua vita a scusarsi, e non sarebbe comunque bastato.
Chi altri? si domandò Jen, avendo ormai preso il via. Chi altri poteva prendersi un po’ di colpa? Be’, c’era sempre sua madre: era stata lei la prima a piantare i semi del sospetto, dopo tutto. Era stata lei a costringere Jen a spiare una persona che era sangue del suo sangue. L’uomo che per lei voleva essere un padre e a cui Harriet aveva sempre mentito. Sì, era tutta colpa sua. Be’, sua e di Gavin.
E poi c’era Daniel. Se non le avesse chiesto di uscire, se non fosse stato lì, la cosa sarebbe andata in modo diverso. Jen avrebbe risposto al telefono, sarebbe stata presente quando suo padre aveva chiamato…
Jen avvertì una lacrima rigarle il viso e l’asciugò. Stava davvero perdendo la testa se in un modo o nell’altro tentava di addossare a Daniel una parte di responsabilità. Proprio lui. La persona più adorabile al mondo. Doveva riprendere il controllo su se stessa. In ogni caso era tutta colpa sua: era stata lei a pavoneggiarsi con Gavin, era stata lei a lasciarsi convincere da sua madre a iscriversi al master perché era annoiata, perché voleva fare qualcos’altro, e spiare suo padre le era sembrata un’idea buona come un’altra.
Questo però non significava che Gavin non l’avrebbe pagata per aver agito alle sue spalle. Jen gli aveva già lasciato un messaggio durissimo sul cellulare e stava progettando di lasciargliene uno al giorno, finché non l’avesse richiamata e non si fosse scusato. Voleva anche sapere come era riuscito a impossessarsi di una copia della lettera. Jen aveva controllato: la lettera era ancora dove l’aveva nascosta lei, per cui come avevano fatto a vederla al giornale? Anche se ormai non era importante.
Lentamente, Jen si avvicinò al letto di suo padre e si sedette sulla sedia accanto a lui. Lo fissò, tentando di imprimere nella memoria il suo volto, tentando di sovrapporlo a quello che conosceva così bene. Il dottore aveva solo detto che probabilmente se la sarebbe cavata, ma non aveva dato alcuna garanzia. E anche nel caso in cui suo padre si fosse ripreso, se si fosse arrabbiato come lei si aspettava, quella poteva essere l’ultima occasione che aveva di guardarlo da vicino.
Mentre lo osservava, Jen fece una promessa a se stessa. Se suo padre se la fosse cavata, sarebbe stata la migliore figlia al mondo. Avrebbe trascorso più tempo con lui, lo avrebbe reso orgoglioso di lei. Sarebbe stata come una di quelle sequenze al rallentatore in cui i protagonisti corrono insieme lungo la spiaggia, costruiscono castelli di sabbia e fanno lunghe conversazioni sulla vita e l’universo. Forse loro avrebbero saltato la parte della corsa – suo padre aveva appena avuto un infarto, dopo tutto. Ma sicuramente avrebbero fatto lunghe chiacchierate insieme. Jen guardò l’orologio. Erano le undici e mezzo. Bene, da quel momento in poi si sarebbe occupata di lui. Da quel momento in poi, le cose sarebbero andate in modo diverso.
«Da quanto sei qui?»
Jen trasalì all’udire la voce di suo padre e aprì subito gli occhi. Lanciò una rapida occhiata all’orologio sull’altro lato della parete e si rese conto che doveva aver dormito un paio di ore. Okay, per cui il programma della brava figlia cominciava all’una e trenta.
«Da pochissimo» rispose esitante. «Papà, mi dispiace davvero tanto. Mi…» Scoppiò a piangere suo malgrado: tutte le frustrazioni e i sensi di colpa cominciarono a sgorgare in lacrime calde e salate che le gocciolavano dagli occhi e dal naso.
«Dài, su» si affrettò a dire George. «Non devi… Mi rimetterò in forze in poco tempo. Dài, Jen, dai, tesoro mio.»
«Ho pensato… ho pensato che avrei potuto perderti. Di nuovo» farfugliò Jen, tirando su con il naso e prendendo un fazzoletto di carta dal comodino di suo padre. «E avrei dovuto essere forte anche per te, e invece guardami. Sono una frana. Sono una figlia tremenda.»
«Nessuno perde nessuno» disse George, con la voce flebile e il fiato corto.
Jen annuì seria. «Hai ragione tu. Ovviamente, hai ragione tu. Allora, cosa è successo?» domandò, asciugandosi le lacrime e corrugando la fronte per concentrarsi sulla situazione attuale, invece di rimuginare sui suoi tanti difetti come essere umano. Doveva essere forte, doveva affrontare qualsiasi cosa suo padre stesse per dirle con coraggio.
«Una maledetta rottura di scatole, ecco cos’è successo» rispose George, abbozzando un sorriso ironico. «Prima esco da qui, meglio è, no?»
Jen annuì in silenzio, domandandosi se suo padre stesse parlando dell’articolo o del suo infarto. «Ma cosa… cosa l’ha provocato? L’infarto, intendo dire» domandò esitante.
“Tu”, immaginò che le rispondesse: “Sei tu la responsabile dell’articolo, no? Colei che rovinerà la mia azienda? Sei stata tu a provocarmi l’infarto…”.
Ma George si limitò a scrollare le spalle. «Suppongo sia colpa mia, perché non mangio cibo da conigli e non corro come uno scemo in palestra per ore e ore di fila. Una maledetta perdita di tempo. Non posso soffrire quei posti. Allora, Jen…»
Lo guardò nervosamente. «Sì?»
«Come è andato il Natale? Hai lavorato sodo per il master? Avrei voluto chiamarti, ma sai com’è…»
“Non lo sa” si rese conto Jen. “Non ha ancora visto i giornali.” Il pensiero le diede sollievo per un attimo – non era colpa sua se aveva avuto l’infarto! Poi, però, si rese conto che non era la fantastica notizia che aveva pensato. Suo padre l’avrebbe scoperto comunque – la parola “ancora” era una sorta di killer. E una volta che l’avesse scoperto, probabilmente George avrebbe avuto una ricaduta.
Sorrise esitante, ricordandosi che avrebbe dovuto tenere una conversazione normale. «Oh, sai com’è Natale» disse, tentando di sembrare il più allegra possibile. «Troppo tempo trascorso in famiglia per i miei gusti…» Arrossì, rendendosi conto troppo tardi di quello che aveva detto. Per tanto tempo la sua idea di famiglia prevedeva solo sua madre. «Non volevo dire… voglio dire…» balbettò, e George fece un gran sorriso.
«Non potrei essere più d’accordo. Allora, i tuoi studi?»
Jen scrollò le spalle e abbozzò un sorriso. «Sono le mie vacanze, papà. Non ho voglia di lavorare.»
Le parole rimandavano alla conversazione che avevano avuto il Natale prima che lui se ne andasse di casa. Forse “litigio” sarebbe stato il termine più appropriato. Jen aveva sbattuto la porta, lui l’aveva minacciata di decurtarle la paghetta, e tutto perché George avrebbe voluto che Jen studiasse di più per l’esame finale della scuola media.
George sorrise in segno di intesa. «Come ti sono andati gli esami di terza media, a proposito?» domandò con tenerezza.
«Il massimo dei voti in tutte le materie» rispose Jen, sentendosi un po’ soffocare. «Pensavo che non me lo avresti mai chiesto.»
Le sue parole rimasero sospese per aria un paio di secondi, poi George sorrise allegramente. «È stato un bene che ti abbia costretto a studiare durante le vacanze, allora, no?»
«Sei in ritardo.»
Jen guardò la sua amica con aria colpevole e le diede un bacino. «Angel, scusa. Ero in ospedale. Ho solo dieci minuti di ritardo però.»
Si trovavano alla stazione della metropolitana di Shepherd’s Bush, un avamposto di West London che ospitava la BBC, una piccola quantità di crimini a mano armata, un numero sempre più ampio di famiglie londinesi che non si potevano permettere di vivere a Notting Hill o Holland Park, nonché il mercato di Shepherd’s Bush, dove si poteva comprare di tutto, dalle patate dolci alla piantaggine, dai DVD pirata ai completi con più lustrini di qualsiasi capo si potesse trovare nel guardaroba di R. Kelly.
Due settimane prima Jen aveva promesso ad Angel che l’avrebbe accompagnata e, dopo cinque telefonate di promemoria e due SMS, non aveva avuto il coraggio di disdire, anche se andare in giro per comprare abiti da matrimonio non si intonava benissimo con il nuovo programma della “figlia perfetta”, soprattutto visto che erano appena due giorni che l’aveva messo in atto. Ma Jen suppose che essere una buona amica fosse probabilmente altrettanto importante. E comunque, suo padre aveva trascorso gran parte del giorno precedente dormendo, per cui con un pizzico di fortuna non si sarebbe accorto della sua assenza.
«Quindici. Sei in ritardo di quindici minuti, ho undici abiti da comprare e abbiamo solo un pomeriggio, per cui quindici minuti fanno la differenza, sai?»
Jen annuì seria. «Ti servono davvero undici abiti? Credevo che guardassi i matrimoni combinati con sospetto e non fossi d’accordo con il paradigma culturale sottostante» disse, citando direttamente una tirata di Angel di qualche mese prima. «Com’è possibile che adesso tu abbia tanta voglia di conformarti?»
Angel affilò lo sguardo. «Non mi sto conformando, sto sostenendo mio fratello nella scelta che ha fatto. La vita non è solo bianco e nero, Jen, come tu ben sai… c’è un sacco di grigio, e il trucco è attraversarla senza perdere la propria integrità lungo il percorso. Io non voglio un matrimonio combinato, né voglio passare la mia vita a cucinare il curry per cinque figli. Se però mio fratello è felice di vivere una vita così, per me non c’è problema.»
Jen abbassò la testa. «Mi dispiace, non volevo…»
«Lo so» disse Angel in tono spiccio. «In ogni caso, per rispondere alla tua domanda, sì, mi servono undici abiti, ed è già un bel risultato visto che sono partita da sedici. Sinceramente, Jen, non hai idea. La festa di pre-fidanzamento, la festa di fidanzamento, la festa in cui la nostra famiglia dà il benvenuto alla sua famiglia, la festa in cui la sua famiglia dà il benvenuto alla nostra, la riunione di sole donne formale, la riunione vera di sole donne, la cena prima delle nozze… e così via. Credimi, undici abiti per un matrimonio indiano non è male.» Di colpo tacque e guardò Jen. «Scusami tanto. Non ti ho neanche chiesto… come sta tuo padre?»
Jen sorrise. «Piuttosto bene, in effetti. Voglio dire, i medici dicono che si riprenderà alla perfezione. Un’altra settimana o giù di lì in ospedale, una dieta severa di lenticchie e verdure, e tornerà alla normalità.»
«Hai passato molto tempo con lui.» Angel pronunciò la frase come fosse una constatazione più che una domanda. Ma Jen sapeva a cosa mirava la sua amica. Dire “molto tempo” era troppo poco, in effetti: era stata lì due giorni di fila, raccontandogli tutto della sua vita, rifiutandosi di comprargli i muffin al cioccolato e portandogli banane e mele al loro posto. Era quasi come quando lei era piccola. Solo con un po’ di imbarazzo in più.
«Mi sa di sì» rispose in tono vago. «Allora, dove andiamo a fare tutti questi acquisti?»
«Seguimi.»
Passando attraverso il mercato, Angel la condusse in Goldhawk Road e poi in un negozio di tessuti, con stoffe in simil seta che adornavano la vetrina. Angel guardò Jen e le sorrise. «È qui che compriamo gli abiti ufficiali.»
Inarcò un sopracciglio e guardò la commessa che si avvicinava. «Dovrei ordinare cinque sari» annunciò decisa Angel, assumendo il forte accento indiano di sua madre. «Nessuna delle vostre schifose stoffe. Voglio solo seta pura. E non ho molto tempo. Okay? Bene, vada!»
Mentre la commessa correva via ubbidiente, Angel fece l’occhiolino a Jen. «Sarei una fantastica matriarca indiana, no?»
Due ore dopo, lasciarono finalmente Shepherd’s Bush e si diressero verso Kensington High Street.
«E adesso» disse Angel «andiamo da Karen Millen.»
Le vetrine di Karen Millen erano la fiera dello sfarzo. Era la fine delle feste di Natale ed erano già cominciati i saldi invernali; gli espositori erano pieni di gonne con motivi scintillanti, corsetti ornati di gioielli e giacche ricoperte di paillette. Ad Angel si illuminarono gli occhi, mentre Jen rimase allibita. Non era mai riuscita a capire la passione dell’amica per tutta quella roba luccicante. Angel era un’insegnante di yoga vegetariana e, per come la vedeva Jen, avrebbe dovuto andarsene in giro con il tipo di cose che indossava Christie Turlington – linee lunghe e pulite, uno stile fluido e naturale, e non come se avesse compiuto una razzia nel guardaroba di Jennifer Lopez.
Jen seguì Angel, guardandola ad occhi sgranati mentre passava da uno scaffale di vestiti all’altro, prendendone uno di quasi tutti i modelli e porgendoli a una commessa alquanto stupefatta.
Finalmente, Angel esaurì il materiale a disposizione del negozio e sospirò. «Bene, per ora dovrebbe bastare» disse prima di scomparire nei camerini, lasciando Jen a sedere sulle sedie di solito riservate a fidanzati e mariti annoiati. Jen cominciò a capire perché gli uomini non impazziscono dalla voglia di fare shopping: non è per niente divertente quando non hai nulla da comprare.
Si ritrovò a posare casualmente gli occhi su un espositore vicino ai camerini a cui erano appesi tailleur blu gessati insieme a canottiere rosa fucsia e top di seta con stampa leopardata. Jen quasi li immaginava sulle pagine di una rivista di moda che spiegava come trasformare un completo da ufficio in uno da sera con un abile cambio di maglia e qualche accessorio, una cosa di cui lei non aveva mai capito il senso, dato che aveva difficoltà a distinguere fra abiti da giorno e da sera. Certo, indossava i tacchi alti se usciva di sera, magari un po’ di rossetto, ma trovava che i jeans fossero fantastici per passare senza soluzione di continuità dal lavoro al divertimento. Li potevi indossare per una serata fuori, ma erano altrettanto funzionali a casa per ciondolare davanti alla televisione. Una combinazione perfetta, pensò.
Distolse di nuovo lo sguardo mentre Angel emergeva dal camerino con la Mise Numero Uno: la serata ufficiale di sole donne. Top: non troppo scollato, ma abbastanza elegante per dire: “Sto facendo uno sforzo”. Gonna: appena sotto il ginocchio, di seta, svasata e con una quantità di paillette tale da dimostrare che valeva le ottantacinque sterline indicate sull’etichetta, invece delle centocinquanta a prezzo pieno. Scarpe: alte in modo esagerato, ma d’altro canto Angel non aveva problemi con i tacchi. Era alta solo un metro e cinquantotto e aveva trascorso l’infanzia a imparare a camminare con le scarpe di sua madre finché i suoi piedi non avevano praticamente assunto una posizione diagonale. Forse era questo il motivo per cui aveva una fissazione con lo yoga, constatò Jen. Era un’occasione per distendere di nuovo tutto il corpo.
«Allora?» domandò Angel. «Manda il messaggio: “Me la cavo ovviamente bene da sola e faccio onore alla mia famiglia, so come vestirmi, ma per il momento non sono assolutamente sul mercato matrimoniale”.»
Jen ci pensò su un attimo. «È proprio il messaggio che manda» rispose seria. «Almeno per la parte chic e strepitosamente ricca. Spiegami però come fa questo look a trasmettere il messaggio “non sono sul mercato matrimoniale”.»
Angel fece spallucce. «Era solo un pio desiderio. La fidanzata di mio fratello ha un fratello, e so che la famiglia sta già ordendo un piano per me. Okay, è il momento della Mise Numero Due. Il messaggio è: “ragazza festaiola che non pensa altro che a divertirsi ma fa ancora onore alla sua famiglia, pur sapendo come godersela”. Okay?»
Jen annuì, lievemente confusa. Angel scomparve di nuovo nel camerino; dopo un po’ gli occhi di Jen si posarono di nuovo sull’espositore.
Non aveva mai indossato un tailleur e aveva sempre guardato con sospetto chi lo faceva. I tailleur erano una questione di conformismo, una dimostrazione di potere – in altre parole, tutto quello che lei detestava. E non erano neanche particolarmente comodi. I manifestanti non tendevano a indossare uno dei più bei capi di Calvin Klein quando partecipavano a un sit-in in un campo che sarebbe diventato edificabile, e alla Green Futures il look era più da “insegnante di geografia” che da “consulente per una smart city”. Alcuni dipendenti indossavano perfino i calzini con i sandali, per l’amor di Dio. Tim era l’unico che usava giacca e cravatta, ed era un commercialista. Sarebbe sembrato strano se non lo avesse fatto.
La Bell era una storia diversa, ovviamente. Lì indossavano tutti tailleur o giacca e cravatta. Anche gli studenti del master li mettevano a volte – quando dovevano fare una presentazione o cose del genere. E suo padre… be’, senza giacca e cravatta aveva un’aria strana, come le insegnanti di educazione fisica quando compaiono alle riunioni dei docenti con la gonna invece che con la solita tuta. Era semplicemente… sbagliato, in un modo o nell’altro. Il fine settimana, George gironzolava per casa con i pantaloni di velluto o di lana e un maglione sopra una camicia senza il collo inamidato; nessuno di questi capi si combinava particolarmente bene con gli altri, e tutti insieme lo rendevano leggermente ridicolo. In giacca e cravatta era George Bell della Bell Consulting. Senza, era uno come tutti gli altri.
Bene, Jen non aveva quel problema. Non doveva indossare un tailleur per essere qualcuno. Andava bene così com’era.
Si vide di sfuggita allo specchio e riconobbe che forse non andava così bene come credeva. Era passabile, forse, ma non avrebbe sfondato con un look simile: una vecchia T-shirt sformata e un paio di vecchi jeans. E quel tailleur non era esattamente un completo in stile anni Ottanta che trasudava potere. Aveva i pantaloni a vita bassa. La giacca era piuttosto fica, in effetti. Jen avrebbe potuto ignorare il fatto che si trattava di un tailleur e indossare i due capi separatamente…
Con lentezza si alzò e si diresse all’epositore, prese uno dei completi e se lo accostò davanti. Si domandò come le sarebbe stato. Si domandò che sensazione le avrebbe dato camminare a grandi passi con un tailleur gessato come quello, mentre suo padre la guardava orgogliosamente dalle retrovie. “Salve, sono Jennifer Bell. Sì, la figlia di George. Ah, lo conosce? Sì, andiamo d’accordo. Pensa che gli assomigli? Be’, sa, magari ha ragione lei – forse sì. Allora, in ogni caso, credo che le serva una mano per utilizzare i suoi punti di forza fondamentali in modo da rilanciare le prestazioni della sua azienda. Mi faccia vedere cosa posso fare…”
Corrugò la fronte. Cosa c’era che non andava in lei? Detestava i tailleur. Non se ne sarebbe messa uno neanche morta, punto, fine della storia. Rimise rapidamente il completo al suo posto.
«Vuole provarlo?» Jen si girò, vide una commessa che la guardava e arrossì. «Oh, no!» si affrettò a rispondere. «Davo solo un’occhiata. Voglio dire, non sono proprio la persona adatta per un tailleur…»
«È un tailleur più per uscire che da lavoro» le spiegò la commessa. «È per quello che è appeso insieme alle maglie scintillanti.»
La commessa indicò le maglie e Jen sentì il bisogno di guardarle con interesse come se non le avesse già viste.
«Oh, capisco» disse, sorridendo alla commessa per sottolineare che le stava osservando.
«Allora, vuole provarne una?»
Angel tirò fuori la testa dal camerino. «Questi pantaloni non mi vanno proprio. Mi serve un’altra taglia. E delle scarpe diverse…»
La commessa annuì e la raggiunse, dando le spalle a Jen. «Può andare lì» disse, indicando il camerino accanto a quello di Angel.
Jen esitò, poi, tenendo il tailleur a diversi centimetri di distanza come fosse un cane bagnato, si diresse spedita nel camerino. “Me lo provo e basta”, si disse decisa. “Non c’è niente di male.”
«Wow!» esclamò Angel in tono di apprezzamento cinque minuti dopo, mentre uscivano tutte e due dai camerini per guardarsi, con un certo imbarazzo, mettendosi davanti allo specchio grande e controllando dietro per vedere se si vedevano pieghe strane. «Non ti ho mai visto prima con un tailleur. Ti sta benissimo!»
Jen scosse timidamente la testa, ma sapeva che non avrebbe convinto nessuno. Stava davvero benissimo. Molto meglio che con i jeans, che erano diventati così comodi da non avere più alcuna forma e le ricadevano sopra le gambe come se avessero i postumi della sbornia e non sapessero più cosa fare.
«È strano» confessò, incapace di guardare la donna dall’aria autorevole che la fissava dallo specchio. «Non sono “io”.»
«Cosa significa “non sei tu”?» domandò Angel, scrollando le spalle. «Non siamo creature semplici, no? Frequenti un prestigioso master… dovevi assumere un’aria un po’ più da business woman.»
Jen guardò l’amica, indignata. «Non frequento un prestigioso master. Voglio dire, sì lo seguo, ma non… insomma… Non propriamente.»
«Stai facendo un lavoro discreto, però, no? Hai studiato per l’esame prima di Natale, hai trovato un ragazzo che ha un lavoro vero e proprio e non trascorre il tempo a dormire per terra a casa di altri. E tuo padre…»
«Pensi che sia una venduta?»
Angel scosse la testa. «Sei tu che lo pensi. Io penso che tu stia voltando pagina. E il tailleur ti sta bene. Ma senti, non siamo qui per occuparci della tua crisi di identità, dobbiamo preoccuparci della mia. Per cui dimmi la verità: mi dà un’aria da sgualdrina? Sì, vero? Già sento la voce di mia madre: “Anuragini, vuoi rovinare la reputazione della tua famiglia? Non hai nessun rispetto per i tuoi? Oh, perché mi è capitata una figlia del genere? Perché non mi dai mai ascolto?”.»
Imitò alla perfezione l’accento di sua madre, e Jen ridacchiò. «Sei favolosa a mio parere. E questa è la mise per la serata di sole donne non ufficiale, giusto? Quindi tua madre non ti vedrà neppure.»
Angel gemette. «Tu non hai la minima idea di come funziona, vero? Certo, che mi vedrà. Non di persona, ma tramite le descrizioni delle mie cugine, che diventeranno sempre più esagerate mano a mano che la storia passa di bocca in bocca, finché mia madre non verrà a sapere che indossavo solo un tanga.»
«Per cui forse non ha importanza quello che ti metti, se dovrai comunque passare delle rogne» suggerì Jen.
Angel sorrise. «Sapevo di averti portato per un motivo. Logica stringente. Mi piace. Okay, dunque, adesso mi serve una mise “da sorella modesta e rispettabile che non allontana la famiglia della sposa dal fratello”. Te lo compri il tailleur?»
Jen scosse la testa. «Oddio, no. No, assolutamente no. Voglio dire, non è che… Be’, semplicemente no. No, non lo compro.»
«Quindi hai deciso di sì?»
Angel fece un gran sorriso e Jen la guardò disperata. «Cosa mi sta succedendo, Angel?»
«Stai interpretando un nuovo ruolo» le rispose semplicemente. «Abituati.»