“Stupido master del cavolo.” Jen appoggiò quattro enormi manuali e due quaderni ad anelli sul tavolo della cucina e scosse le braccia, che le tremavano per aver portato tutto quel peso in metropolitana. Nessuno l’aveva avvisata dell’enorme quantità di roba da leggere durante il corso. Né da portare, se era per questo. Al diavolo i colloqui, avrebbero dovuto fare un esame di idoneità fisica agli aspiranti studenti. Trascinarsi dietro Le basi del management non era certo una cosa di poco conto.
Si fiondò sulla bottiglia di vino che aveva aperto la sera prima, ne versò un bicchiere, si sedette e fissò furibonda i libri davanti a sé. Aveva dovuto sorbirsi cinque ore di lezione. Più un’ora e mezzo di team building, il “lavoro per la costruzione del gruppo”, attività per la quale Lara, Alan e lei erano dovuti andare in una stanza e tornare con tre particolari della vita l’uno dell’altro che prima non conoscevano. Dio mio, che depressione. A che cavolo serviva sapere che Alan amava i libri di storia, era nato nello Hampshire e nell’infanzia trascorreva le vacanze in Galles? E se scoprire che Lara aveva una quarta di reggiseno era stato piuttosto interessante, Jen non si era divertita granché a dare la notizia a tutta la classe. Soprattutto visto che lei aveva una taglia che si avvicinava più a una seconda e sapeva che tutti avrebbero mentalmente fatto un rapido confronto.
Jen sospirò. Era solo il primo giorno, si disse. Dopo sarebbe andata meglio.
E se invece non fosse accaduto? E se fosse andata solo peggio? E se fosse rimasta incastrata a fare esercizi di team building tutto il giorno senza neppure avvicinarsi al motivo per cui si trovava lì, ovvero scoprire un complotto e dimostrare che suo padre era il bastardo che lei aveva sempre saputo essere? Non aveva idea di come avrebbe potuto cominciare a trovare informazioni, ma starsene seduta in un’aula tutto il giorno non serviva di certo.
Trangugiò il vino e se ne versò un altro bicchiere. Forse sarebbe diventata un’alcolista, pensò. Forse, se fosse stata sempre ubriaca, non le avrebbe dato noia restare seduta ad ascoltare lezioni estenuanti sulla strategia aziendale.
O forse no.
Lentamente si alzò e dalla porta di servizio raggiunse la zona che lei chiamava giardino, ma che era troppo piccola per un nome così magniloquente. Era uno spazio di tre metri per due, un minuscolo pezzetto di terra che negli ultimi mesi Jen aveva trasformato in un luogo dove sedersi in santa pace, con tanto di erbe aromatiche e rampicanti che crescevano ovunque.
Era un modo di prendersi in giro, si domandò, raccontare a se stessa che stare alla Bell Consulting significava davvero costruire qualcosa? Si trattava davvero di spionaggio aziendale e di portare suo padre davanti alla giustizia, oppure Jen aveva qualcosa da dimostrare? Sapeva che aveva fatto bene a lasciare Gavin, sapeva che doveva crearsi una propria vita. Ma era questa la direzione giusta da prendere? Nel suo intimo, non frequentava forse il master alla Bell Consulting nella speranza che Gavin la scoprisse? Che ne rimasse colpito? Che si accorgesse di non avere l’esclusiva sulle imprese eroiche?
Jen rise di se stessa. Frequentare un master era un’impresa eroica? Stava delirando sul serio.
Si guardò intorno sconcertata. La situazione le stava sfuggendo di mano. La clematide cresceva ovunque, il gelsomino era pieno di fiori vecchi da togliere, il povero basilico stava appassendo e il rosmarino stava seccando. Non era sorpresa: quelle piante non erano attrezzate per difendersi dall’aria sporca e dal clima instabile di Londra. D’altro canto, neanche lei lo era.
«Che ne dite, fuggiamo insieme nel sud della Francia?» domandò alle piante in tono leggero, infilando i guanti da giardinaggio.
Con gesti pacati e metodici, Jen annaffiò e potò le piante, diede delicatamente aria alla terra, aggiunse il compost e il fertilizzante restituendo così un po’ d’ordine alla sua piccola enclave. Era l’unica attività in cui se la prendeva comoda, osservò con curiosità. L’unica cosa che faceva senza andare di corsa, senza tirare via. Ed era anche una delle poche cose di cui andava davvero molto fiera. Non che fosse chissà quale impresa: si trattava di pochi metri quadrati con qualche pianta all’interno, ma le aveva piantate lei una o una con le sue mani. Nessuno l’aveva influenzata o aveva avuto voce in capitolo al riguardo. In effetti nessun altro sapeva della loro esistenza. Era il suo piccolo rifugio. E le tornava anche piuttosto comodo quando c’era da preparare una bella caprese con tanto di basilico.
Si mise comoda ad ammirare il suo lavoro. Le erbe aromatiche si trovavano nell’angolo in fondo a sinistra, mentre a destra, dove il sole batteva più a lungo, Jen aveva piantato il gelsomino e la clematide che coprivano la malridotta staccionata che separava il suo giardino da quello dei vicini. Sul davanti, accanto al piccolo spazio pavimentato dove aveva infilato un tavolino e due sedie, c’erano vasi e vasi di lavanda che emanava un profumo delizioso.
Tutte piante piuttosto robuste, ammise. Non c’era niente che potesse creare fastidi a un mediocre appassionato di giardinaggio. Ma era pur sempre un bel risultato. Con dei profumi fantastici, per di più.
Soddisfatta, fece un salto dentro a prendere il vino, poi uscì di nuovo e si accomodò su una delle sue sedie sgangherate. La vita le sembrava così facile quando stava là fuori, pensò. Così semplice: vita, rinnovamento e morte erano gli unici principi reali. Le piante non dovevano preoccuparsi di ex fidanzati, genitori spariti da una vita, allineamento strategico. Si limitavano a vivere, a crescere in direzione del sole e a scavare nel terreno per trovare acqua e nutrienti. Erano pure toste. Non c’era niente che Jen amasse di più di una erbaccia che cresceva nel cemento, una piccola ostentazione di forza che le ricordava che, malgrado tutti gli edifici, le strade e i computer che avevano costruito, gli esseri umani non sarebbero mai stati capaci di addomesticare Madre Natura.
Sospirò e bevve un altro sorso di vino. Addomesticare sua madre era altrettanto difficile, si rese conto, posando gli occhi sulla clematide. La pianta si era attorcigliata intorno ai sostegni che Jen aveva appositamente piantato nel terreno per sostenerla, ma anche intorno al gelsomino lì accanto, che a sua volta si era infilato nella staccionata, approfittando di ogni buco o fessura che aveva trovato. E lì, alla base delle due piante, c’era una piccola gardenia, i cui deboli tentativi di crescita erano stati frustrati dall’avidità dei rampicanti.
Jen non aveva mai notato la gardenia, né tanto meno si ricordava di averla piantata. Rapidamente tirò fuori la paletta e, facendosi strada a mani nude, con delicatezza scavò intorno alle sue radici e sollevò la pianta dal terreno.
Si domandò dove metterla. La parte sinistra del giardino era troppo in ombra, ma a destra la gardenia sarebbe stata alla mercé dei vari rampicanti che lottavano spietatamente per crescere.
«Dove vorrei andare?» si domandò Jen ad alta voce. «All’ombra o al sole? Per conto mio, o a combattere in mezzo agli altri per farmi spazio?»
Alla fine decise per un posticino a una trentina di centimetri dalla clematide, dove scavò una piccola buca. Dopo averla riempita di compost e terriccio, adagiò la piantina e le diede una rapida annaffiata. A quel punto si mise comoda a godersi il tepore degli ultimi minuti di sole autunnale sul viso prima di vederlo scomparire dietro il muro.
Stava cominciando a rilassarsi e ad allontanare dalla mente i pensieri su sua madre e Gavin, quando il telefono squillò, rovinandole i suoi pacifici sogni a occhi aperti. Controvoglia, Jen rientrò per rispondere.
«Allora com’è andata?» Era la voce di sua madre e a Jen dispiacque quasi non averlo lasciato squillare. Magari poteva imparare qualcosa dalla gardenia: se avesse ignorato le chiamate di Harriet un po’ più spesso, forse non si sarebbe ritrovata a frequentare il master, innanzitutto, il che avrebbe voluto dire niente braccia doloranti, né mal di testa.
«Oh, mamma. Ciao. Sì, è andata… be’, lo sai. È andata normale.»
«Hai visto tuo padre? Hai scoperto niente?»
Sospirò. «Mamma, ci ho passato solo un giorno. No, non l’ho visto e no, non so ancora niente. Sono stata sempre a lezione. Sono distrutta, a dire il vero, e ho un bel mal di testa in arrivo…»
«Oh, cara» disse Harriet, con un tono che alla figlia parve piuttosto poco solidale.
«A ogni modo, tu come va? È successo niente alla Green Futures?» domandò Jen per conversare. Aveva voglia di sentir parlare di qualcosa di diverso dalla strategia aziendale ed era perfino pronta ad ascoltare uno dei folli racconti di sua madre, se era l’unica cosa a disposizione.
«Oh, sai, le solite cose. Avremo un incontro la prossima settimana a cui magari potrebbe farti piacere partecipare… sul sacro femminile. Ti ricordi? È saltato fuori al club del libro mentre leggevamo Il codice da Vinci. Abbiamo avuto una riunione per elaborare strategie femminili che consentano di raggiungere il successo negli affari, rafforzando il sacro femminile in tutti noi… e nei nostri clienti. Credo che potrebbe essere un gran colpo per noi.»
Jen arricciò il naso. Non era esattamente quello che aveva in mente quando pensava a quattro chiacchiere al telefono.
«Il sacro femminile?» chiese, fissando le proprie unghie e domandandosi come riuscisse Lara ad averle tanto lunghe e lucide. Jen non era mai stata il tipo da unghie lunghe e lucide, né aveva molta voglia di diventarlo adesso, ma era pur sempre curiosa. «Credevo che Il codice da Vinci fosse pura fantasia.»
Udì sua madre sbuffare con disprezzo.
«Fantasia? È così che la pensi? La più grande cospirazione della nostra epoca è stata scoperta, e tu pensi che sia fantasia?»
Jen sorrise fra sé, mentre Harriet si lanciava in un’apologia del libro e delle sue teorie.
«E credi che ti aiuterà a procurarti più incarichi?» domandò infine Jen.
«Ne sono certa. Mi è venuta l’idea mentre sceglievo i cristalli con Paul. Mi è sembrata quasi una visione, tanto era nitida.»
Jen si lamentò. I capricci di sua madre erano una cosa, ma quelli di Paul Song, esperto di feng shui e ultimo guru di Harriet erano tutt’altra. Jen sapeva che avrebbe dovuto essere più tollerante, ma per lei, chiunque se ne andasse in giro con pantaloni lunghi e fluenti a parlare di cristalli e meditazione non poteva essere preso sul serio. Sua madre lo conosceva solo da poche settimane e lo infilava in ogni conversazione come se lo conoscesse da una vita.
«Adesso scegli i cristalli insieme a lui. Che romantico!» commentò sarcastica. Harriet non si lasciò sfuggire il tono della figlia.
«So che sei in un’età in cui tutto sembra legato al sesso, tesoro, ma alcuni di noi si sono spostati dal piano fisico a quello spirituale» commentò stizzita. «Non capisco perché non ti piaccia Paul, ma credo che si rifletta negativamente su di te. È un sostegno meraviglioso, davvero. E mi capisce come nessun altro…»
«Vuoi dire che ti lascia parlare più di quanto sopporterebbe chiunque altro» ribatté Jen in tono amabile. «Senti, sono sicura che la tua idea sul sacro femminile sia fantastica, ma ho i tempi un po’ stretti con questa storia del master. Per cui dovrai lasciarmene fuori, mi sa.»
«Bene» disse Harriet, tagliando corto. «Oh, ti ho già accennato che ho prenotato un tavolo per la cena di beneficenza a favore dello tsunami? Verrai, vero?»
«No, non me l’avevi accennato» rispose Jen decisa. Era già stata a qualche cena di beneficenza e non aveva intenzione di partecipare ad altre. Erano piene di persone convinte che pagare ottanta sterline per un biglietto le trasformasse in esperti mondiali sul tema per cui raccoglievano fondi, e in ogni caso non c’era mai nessuno sotto i cinquant’anni.
«Sono sicura di sì, tesoro. È venerdì. I biglietti sono molto cari.»
«Be’, allora me lo avrai detto. Io venerdì sera esco, con Angel…»
“E credo di essere un tantino troppo grande per trascorrere il venerdì sera con la mamma” avrebbe voluto aggiungere, ma poi pensò che era meglio tacere.
Harriet sospirò con aria drammatica. «Credevo che per te fosse importante, Jennifer. Sinceramente, ti ho preso un biglietto per una cena a favore dello tsunami, sapendo che la Bell Consulting ha prenotato un tavolo, e tu non puoi perdere il tuo prezioso tempo a…»
«Ci sarà papà?» la interruppe Jen, con un tono all’improvviso più serio.
«No, tuo padre no. Non me lo vedo che si degna di partecipare a un evento a favore di una buona causa. Ma ci saranno alcuni suoi consulenti. Conosco gli organizzatori, sai. E mi hanno gentilmente concesso di dare una sbirciatina alla lista degli ospiti. Ma se la tua vita sociale ha la precedenza, lo capisco perfettamente.»
«Credo che ne avrò già abbastanza della Bell per questa settimana, non ti pare?» tentò ancora di difendersi Jen. Sentiva già una vocina dentro di sé che le suggeriva che forse non avrebbe dovuto escludere in modo categorico l’ipotesi della cena.
«E poi pensavo che ti interessasse davvero quella povera gente che non ha più una vita» aggiunse Harriet con voce piuttosto titubante. «Non credi che una cena con vino e champagne a volontà potrebbe essere una buona occasione per cogliere le persone alla sprovvista? Per ascoltare conversazioni che probabilmente nessuno farebbe mai camminando nei corridoi?»
Jen sospirò. Come faceva sua madre a riuscirci tutte le volte? Come riusciva a non farsi mai dire di no?
«A che ora comincia?» domandò, rassegnata.
«Alle sette e mezzo, o forse alle otto. Oh, sarà molto divertente.»
“Chissà perché, ho i miei dubbi” pensò Jen mettendo giù il telefono.