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«Allora, come sta il paziente?» provò a domandare Jen. Suo padre era in ospedale da quattro giorni ormai e, per quanto lei avesse convinto le infermiere che permettergli di leggere un giornale di qualunque tipo sarebbe stata una cattiva idea, temeva sempre che ogni sua visita potesse capitare nel giorno in cui suo padre l’avrebbe aggredita, il giorno in cui avrebbe tirato fuori una vecchia copia strapazzata del Financial Times e le avrebbe puntato contro un dito accusatorio. George avrebbe cominciato con l’assumere un’aria ferita e agitata, poi si sarebbe infuriato davvero e si sarebbe messo a tirare roba in giro, e infine avrebbe concluso dicendole che lui non aveva più una figlia, come Blake Carrington aveva detto a Sammy Jo in Dynasty, quando quest’ultima aveva dato una mano a rapire Krystle – oppure era stata Sammy Jo con sua nipote? Jen non se lo ricordava, ma supponeva che non facesse chissà quale differenza.

«Meglio, adesso che ci sei tu» disse George con voce burbera. «Ho detto alle infermiere che sono stufo e oggi me ne vado a casa. Devo uscire da questa topaia.»

«Non la definirei esattamente una topaia» disse Jen cautamente. “Ancora non sa niente. Sono salva per un altro giorno.” «Voglio dire, hai una camera privata, un pulsante che fa correre le infermiere a ogni tua richiesta, una buona alimentazione, un sacco di libri, fiori freschi…»

«Ciononostante, me ne vado di qui oggi.»

«No!» esclamò Jen, preoccupata. «Se ti dimettono oggi, ti sentirai di nuovo male. Hai bisogno di riposo.» Mentre parlava si diceva che aveva a cuore suo padre, e in effetti era vero: se George avesse lasciato l’ospedale, avrebbe scoperto l’esistenza dell’articolo, e inevitabilmente le condizioni del suo cuore si sarebbero aggravate. Inoltre, più lui rimaneva lì, più lei avrebbe avuto modo di dimostrargli di essere una brava persona, che ogni tanto commetteva qualche errore, ma non una stronza tremenda che tradiva suo padre e lo spediva in galera. Avrebbe dovuto essere un toccasana per la salute mentale di suo padre, giusto?

«Devo tornare al lavoro» ribatté deciso George. «Ho delle cose importanti da sbrigare.»

«Può farle qualcun altro» si affrettò a dire Jen. «Dài, papà, mai sentito parlare di delegare?»

George la guardò, inarcando le sopracciglia. «Io delego molto spesso» disse in tono secco. «Ma certe cose non si possono delegare. E devo riprenderle in mano.»

«Quali cose?» proseguì Jen. «Non stai bene, e non puoi lavorare. Dimmi quali sono, e ti do una mano io.»

George stralunò gli occhi. «Cose normali, tutto qui. Ho bisogno del mio cellulare, del mio portatile.»

«Se tu ce li avessi, rimarresti qui ancora un po’?» domandò Jen premurosa. «Insomma, se te li portassi, rimarresti finché i medici non ti dicono che puoi andare via? Senti, è già venerdì in ogni caso, per cui non ha senso andare via adesso. Datti tempo almeno fino a lunedì.»

George parve poco convinto. «Non mi permettono neanche di avere la TV

Jen arrossì con aria colpevole. «Dimmi cosa ti serve e te lo procuro io. Ma promettimi che rimarrai qui ancora qualche giorno.»

George fece una smorfia. «Là ci sono le mie chiavi. Sai dove abito? Il portatile è in salotto. E il cellulare… credo che sia nella tasca del soprabito nell’ingresso. Non riesco a credere di essermelo dimenticato.»

«Nessun problema. Te li prendo io. Te li porto domani.»

George guardò sua figlia e in volto gli spuntò una minuscola traccia di sorriso. «Sono così fiero di te» disse in tono sommesso. «Così contento che tu sia di nuovo nella mia vita, anche se è accaduto in circostanze piuttosto strane.»

Jen si illuminò e abbozzò un sorriso. «Anche io» rispose pacata.

«Ci sono poche persone al mondo di cui ti puoi fidare» riprese George. «Ma la famiglia… be’, credo ci si possa fidare della propria famiglia. Non credi, Jen?»

Jen annuì in silenzio.

«Sei andata avanti con lo studio per il tuo master?»

«Vuoi che venga a trovarti e che studi?» gli domandò con un mezzo sorriso.

«È esattamente quello che voglio.»

«Okay. Vedrò cosa posso fare.»

«Grazie, Jen. Sei una brava ragazza.»

E lei gli sorrise, desiderando in cuor suo di esserne altrettanto sicura.

«Daniel, mi sembri un po’ magro. Stai mangiando?»

Anita aveva un tono di voce preoccupato, ma le brillavano gli occhi, e Daniel si avvicinò per scambiarsi un bacio sulle guance. Seduta a un tavolo alla finestra, con i suoi tratti delicati e i capelli biondi che scintillavano sotto il sole, gli lasciò una lieve traccia di rossetto sul viso.

«Sei molto carina a preoccuparti di me» disse lui con un gran sorriso.

«Mi preoccupo dei miei autori, Daniel, tutto qua. Devo assicurarmi che siate abbastanza in forma da spingere la gente a comprare i vostri libri, e se questo significa che prima devo darvi da mangiare, bene, così sia.»

«Lo sai, è passato tantissimo tempo, Anita.»

Lei inarcò le sopracciglia e lo guardò. «Ed entrambi sappiamo di chi è la colpa» commentò in tono caustico. «Ora, sei pronto per ordinare?»

Daniel diede una rapida occhiata al menù e annuì.

«Non me lo dire. Prendi la pasta.» Anita sorrise, sollevando il bicchiere di acqua e bevendone un sorso. «Immagino i ravioli.»

«A dire il vero, no» rispose Daniel con un sorrisetto. «Credo sia arrivato il momento di abbandonare certe abitudini, ti pare? Mi sa che prenderò una bistecca.»

«Santo cielo! Stai davvero cambiando, eh!»

Daniel scrollò le spalle. «Forse sì. Ma ricordati che ti offrivo io il pranzo, anche se ero al verde, per cui non c’era da meravigliarsi che mangiassi sempre pasta.»

Anita sorrise. «E guardati, adesso» disse, inarcando le sopracciglia. «Direttore generale. Sei una storia di successo esemplare, sai.»

Daniel scosse la testa. «Non direi» commentò.

«Non lo credi?» domandò Anita con aria interrogativa.

«Credo di aver fame» ribatté Daniel in tono evasivo, tornando al menù.

Ordinarono, e Anita scosse i capelli all’indietro. «Allora, dài, raccontami di cosa si tratta, Daniel.»

Lui osservò il volto intelligente e pieno di aspettative di Anita e si mise comodo sulla sedia.

«Ti capita mai di guardare la tua vita e domandarti come diavolo hai fatto a finire dove sei?»

Lei corrugò la fronte. «Non dirmi che stai attraversando una crisi di mezza età, Daniel. Non so se riuscirei ad affrontare una cosa simile a pranzo. Mi ci vorrebbe un drink, tanto per cominciare.»

«No, no, niente del genere. È solo che… mi preoccupo del fatto che magari ho sbagliato strada. Sai, passo la vita fra una riunione e un’altra, in cui non ho voglia di dare il mio contributo. Devo dirigere un’azienda e non credo di metterci più il cuore.»

Anita sorrise. «Fare il manager è tremendamente noioso, Daniel. È per questo che ti pagano tanto.»

«Credi che sia stupido lamentarsi?»

«Credo che lamentarsi sia la direzione sbagliata da prendere. Fare qualcosa per cambiare è più nel mio stile.»

«Il presidente della mia azienda vuole crescere e tagliare i costi, a spese di tutto il resto. Grandi librerie, un mucchio di negozi sparsi ovunque, comprarli e venderli alla svelta. Non è per questo che mi sono messo nel settore. Ho la sensazione di tradire qualcosa.»

Anita sospirò. «È così che va il mondo, Daniel, ma c’è ancora spazio per i librai di nicchia. La Wyman’s dava i migliori consigli sui libri. Cosa è accaduto a quella rivista che pubblicavate? Era fantastica.»

«È stata cancellata perché ritenuta troppo costosa» rispose Daniel sconfortato. «Dal mio dipartimento di marketing, dopo un’accurata ricerca su cui non potevo non essere d’accordo.»

«Ma tu sei il direttore generale. Certo che puoi non essere d’accordo.»

«Non proprio. È troppo operativo. Anita, è proprio questo il problema» disse Daniel, giocando con la forchetta. «Non ho più niente a che fare con i libri. Analizzo solo fogli di calcolo.»

«Immagino che il tuo lavoro non sia più concentrarti sui libri.»

«Lo so…»

Daniel sospirò e Anita gli prese una mano. «Forza, Daniel, stai solo passando un brutto periodo, tutto qui… ma troverai il modo di venirne fuori. Però non deprimiamoci troppo, okay? Raccontami cosa succede sugli altri fronti. Spezzi ancora i cuori in giro per Londra?» Sorrise, sperando di distoglierlo dallo sconforto, e tirò un sospirò di sollievo quando vide che gli si illuminarono gli occhi.

«A dire il vero, no» rispose, il volto all’improvviso più vivace e colorito. «Ho… be’, ho incontrato una persona.»

Anita batté le mani. «Daniel, non riesco a credere che tu sia stato qui a parlare di lavoro quando hai una notizia così incredibile! Vuoi dire che l’eterno scapolo è stato finalmente domato?»

«Può darsi» rispose lui con un sorrisetto. «Stai a sentire, tu ti lasci rincretinire da ogni più piccolo dettaglio su Jen, e io ascolto tutto quello che hai da dire sui libri e gli autori del tuo catalogo. Chissà, magari riesci a farmi tornare in mente perché diavolo ho cominciato a lavorare in questo settore innanzitutto…»

Il giorno dopo era sabato. Jen si alzò presto e, dopo una rapida colazione, prese la metropolitana per recarsi a casa di suo padre. Le sembrava strano andare là, vedere il posto dove lui aveva vissuto la sua vita senza di lei, senza sua madre; la casa in cui aveva abitato negli ultimi quindici anni, vivendo la sua vita come una qualsiasi altra persona, come se lei non fosse mia esistita.

Eppure, era anche un’occasione per curiosare un po’, controllare le fotografie, frugare in giro per sbirciare nella vita privata di suo padre. Non proprio nella sua vita privata privata, sarebbe stato strano e anche piuttosto rivoltante – nessuno ha voglia di pensare ai propri genitori che hanno una vita privata, neanche quando stanno insieme – e lei senz’altro non aveva voglia di trovare foto di donne in giro per casa. O, peggio ancora, capi di abbigliamento… Mentre apriva il portone, rabbrividì. Forse avrebbe abbandonato l’idea di curiosare. Forse avrebbe cercato solo il portatile e il cellulare e se ne sarebbe andata via subito.

Era una casa grande, uno di quegli edifici bianchi ed eleganti di St. John’ Wood dotati di inferriate e grandi cancelli con i lucchetti, che danno l’impressione che i loro abitanti facciano di tutto per tenere il mondo lontano. E non c’era da meravigliarsi, pensò Jen, mentre sgranava gli occhi davanti ai quadri alle pareti, alle sculture, ai mobili costosi. Non c’erano divani sfondati, né libri con le orecchie sparsi ovunque; c’erano solo legno, velluto e pelle.

Jen girò per la casa; il rumore dei passi che riecheggiava tra le pareti la metteva a disagio. Era strano vedere quella serie di oggetti, tutti appartenenti a suo padre, che lei non aveva mai visto prima. In qualche modo, se lo era sempre immaginato in un universo parallelo, che viveva nella stessa casa in cui avevano vissuto assieme, ma senza di lei né Harriet. Se lo immaginava così, oppure che viveva in un monolocale davvero squallido, tipo quello in cui si era trasferito Arthur di EastEnders dopo aver lasciato Pauline.

Entrò in cucina e vide un bicchiere di porto bevuto a metà sul tavolo e un giornale del ventotto dicembre, il giorno in cui George era entrato in ospedale. Sbiancò. In un certo senso, l’infarto le sembrava più reale adesso che era a casa di suo padre: adesso se lo immaginava a sedere lì, mentre usava il telefono là in fondo.

Jen infilò rapidamente il piatto e il bicchiere nella lavastoviglie e si diresse in salotto, una stanza sontuosa con due grandi specchi d’oro decorati appesi sopra i due camini. Lì, sul tavolino accanto a uno di essi, c’era il portatile di suo padre. Jen lo prese, staccò la spina, avvolse il cavo intorno con cura e cercò la borsa del computer.

Non vedendola da nessuna parte, andò nello studio, dove la trovò appoggiata alla base della scrivania.

Proprio mentre stava per prenderla, fu spaventata da uno squillo di telefono che con il suo suono acuto perforò il silenzio. Jen fissò l’apparecchio per qualche secondo, non sapendo se rispondere o meno. Alla fine decise di sì: avrebbe potuto essere una telefonata importante e la persona che chiamava avrebbe almeno saputo che suo padre al momento non c’era.

Jen sollevò la cornetta e, prima di riuscire a proferire parola, una voce cominciò a parlare in tono urgente.

«Pronto, George? Sono io. Dove sei stato? Ho bisogno di parlarti.»

Jen corrugò la fronte. Quella voce la conosceva, ma le sembrava strano sentirla lì. «Paul?» domandò. «Sei tu? Sono Jen.»

Ci fu un clic. «Pronto? Paul?»

Troppo tardi, però: era caduta la linea. Jen rimase immobile qualche secondo, tentando di trovare un motivo plausibile per cui Paul telefonasse a suo padre, avendo urgenza di parlargli. Ma non sapeva cosa pensare.

A meno che non fosse l’ennesimo stratagemma di sua madre, si disse Jen. Harriet sfruttava Paul per spiare suo padre adesso che la figlia non le parlava più? Era possibile, suppose Jen, ma Paul al telefono non aveva neanche detto chi era. Sembrava conoscesse suo padre molto bene. E perché mai avrebbe dovuto riattaccare sentendo la sua voce?

All’improvviso si rese conto che Paul avrebbe senz’altro raccontato a sua madre che lei aveva risposto al telefono a casa di suo padre, il che significava che avrebbe ricevuto una telefonata furiosa entro breve. Ma Jen avrebbe affrontato l’inevitabile collera di sua madre più tardi. In quel momento, voleva capire cosa stava accadendo.

Lentamente, Jen mise giù il telefono, infilò il portatile dentro la sua borsa e tornò nell’ingresso, dove trovò il cellulare di suo padre nella tasca del cappotto, proprio come le aveva indicato.

E poi si fermò di nuovo. Sulla mensola del camino dell’atrio, accanto a un grosso orologio da viaggio, Jen vide qualcosa che le parve familiare. Era un blocco di legno, proprio come quello che sua madre le aveva regalato a Natale. Ripensò ad Harriet che glielo dava piena di entusiasmo. “Lo ha portato Paul su mia richiesta, viene direttamente dalla Cina!”

Jen si avvicinò lentamente e lo prese. Sembrava, anzi, era uguale identico. Lo rigirò. Su quello di suo padre c’era un’etichetta sul fondo: «MADE IN INDONESIA». Jen lo rimise a posto con un certo disagio. Non poteva essere lo stesso, no? Il suo veniva dalla Cina, non dall’Indonesia. A meno che non fossero prodotti in Indonesia e poi spediti in Cina. O magari il suo non veniva affatto dalla Cina.

“Cosa sta succedendo?” si chiese con inquietudine. Perché le si annodava lo stomaco? E perché aveva così tanta voglia di trovare spiegazioni semplici, di fingere con se stessa che tutto andasse bene?

Si appoggiò alla porta e trasse un profondo respiro. Cosa le aveva detto suo padre? «È così difficile trovare persone di cui ci si possa fidare» o qualcosa del genere. Okay, di lei si poteva fidare. Jen ne aveva avuto abbastanza di intrighi e imboscate. Era andata lì per prendere il portatile e il cellulare di suo padre, e l’aveva fatto. Per cui adesso avrebbe semplicemente aperto il portone e se ne sarebbe tornata a casa sua.

Sperando contro ogni evidenza che non le sarebbe scoppiato tutto fra le mani.