25

Un’ora dopo, Anita entrò da Wolseley e inarcò le sopracciglia quando vide Daniel che fissava fuori dalla finestra con aria avvilita.

«Daniel, eccoti qua. Che gioia che tu fossi libero oggi. Ho avuto una chiacchierata così interessante l’altro giorno…» Le parole le morirono sulle labbra non appena si accorse che Daniel neppure sorrideva. «La situazione è così brutta, quindi?» domandò seria, posando una mano sulla sua.

«Peggio.»

«Ti va di parlarmene?»

«Ho detto a Jen di levarsi dalle palle.»

«Okay, è un bel guaio, allora. Cosa ha fatto per meritarselo?»

«Mi ha detto che vendere libri non è solo una questione di enormi margini di profitto.»

Anita corrugò la fronte. «Eh? Credevo che tu fossi d’accordo con lei.»

Daniel si mise la testa fra le mani. «Certo che sono d’accordo con lei. Avevo appena detto la stessa cosa al presidente della Wyman’s. Ma lui mi ha spiegato che, se non cambio versione per la presentazione della mia strategia quinquennale al consiglio di amministrazione della prossima settimana, posso anche scordarmi il mio posto di lavoro.»

«Ti ha detto così?»

«No. Ma so che è quello che intendeva dire.»

Anita chiamò il cameriere e ordinò del vino e delle olive. «E tu ti sei sfogato con la tua ragazza. Bravo!»

«Ero triste, e lei si è arrabbiata da morire con me, facendomi sentire ancora peggio, e io… io ho perso un po’ la testa. Dio, Anita, all’improvviso è tutto così difficile.»

Anita scosse la testa. «Non è che tutto sia all’improvviso così difficile; hai solo trovato una montagna che non è facile da scalare. Daniel, hai avuto una carriera strepitosa, hai ottenuto grandi successi, ma forse questo ti ha convinto che sia tutto molto facile. Se vuoi qualcosa, devi lottare per ottenerlo.»

«Stai parlando della Wyman’s o di Jen?»

«Di entrambi, probabilmente, ma credo di muovermi meglio sul territorio della Wyman’s…»

«Mi sento così inetto» Daniel scrollò le spalle. «Mi sento… impotente.»

Anita inarcò un sopracciglio. «Okay, stiamo senz’altro sconfinando in un nuovo territorio adesso. Daniel, vuoi davvero un consiglio?»

Lui annuì.

«Basta con l’autocommiserazione» riprese Anita decisa. «Digli le cose così come sono e preparati ad andartene se non stanno a sentirti. Ma prima dovresti probabilmente scusarti con la tua ragazza.» Seguì un lungo silenzio, poi Daniel si allungò sopra il tavolo e baciò Anita sulle labbra.

«Servizio antisuicidi» disse serio. «Come sempre, sei arrivata al nocciolo e mi hai detto esattamente dove sbaglio. E come sempre, sono in debito nei tuoi confronti.»

Anita sorrise. «E come sempre, mi puoi offrire un bel pranzetto per sdebitarti, e lascia che ti parli di un nuovo libro che pubblicheremo il prossimo autunno di cui sono sicura che vorrai acquistare diverse migliaia di copie…»

Jen fissò la sua tazza di caffè vuota. Era passata un’ora e venti minuti, e ancora nessuna telefonata. Non era solo sconcertante, era stranissimo.

Era arrabbiato con lei? Jen scosse la testa. Come poteva essere arrabbiato con lei? L’unica cosa che aveva fatto era dirgli la verità, che si stava comportando come un idiota.

Jen si fece piccola: magari aveva esagerato un po’… ma anche lui, del resto. Si era sentita così umiliata quando le aveva gridato in quel modo. Era come se si fosse trasformato in una persona completamente diversa.

Magari era una persona completamente diversa, rifletté. Probabilmente non lo conosceva tanto bene, dopo tutto.

No, impossibile. L’avrebbe chiamato e avrebbero chiarito la faccenda. Ci doveva essere una qualche spiegazione. Ci doveva essere un’ottima ragione per il suo scoppio di ira.

Sospirò. Lei non poteva chiamarlo. Era lui che avrebbe dovuto telefonarle. Se lo avesse fatto lei, era come se volesse scusarsi. E non ne aveva la minima intenzione, soprattutto visto che lui non si prendeva neppure il disturbo di chiamarla.

Con aria cupa, Jen controllò di nuovo il cellulare per vedere se c’era segnale. C’era. “Bene” pensò stizzita. “Benissimo. Se è così che vuole giocarsela, io me ne torno alla Bell. Impiegherò il mio tempo in modo proficuo.”

Si incamminò a passi pesanti lungo Piccadilly per raggiungere le Bell Towers, borbottando sottovoce. “Maledetti uomini” smaniava stizzita. “Sono tutti uguali. Pensi di averne trovato uno carino e poi scopri che è come tutti gli altri. Egoisti, ecco cosa sono. Assolutamente e totalmente ego…”

All’improvviso si fermò. Era arrivata proprio davanti a Wolseley, uno dei suoi ristoranti preferiti, e un uomo che assomigliava come una goccia d’acqua a Daniel era seduto a un tavolo insieme a una bionda strepitosa.

Jen aggrottò la fronte. Non poteva essere lui. Oppure sì?

Sperando che il portiere non la considerasse troppo strana, Jen si avvicinò lentamente per guardare meglio. Era lui. Jen rimase a bocca spalancata per lo shock – per più di un’ora aveva sorseggiato una tazza di caffè aspettando una sua telefonata, mentre lui era a pranzo fuori? Era incredibile. Intollerabile.

Arretrò pian piano per non farsi vedere da Daniel sulla porta e rimase a osservarli raccapricciata, mentre i due parlavano tranquillamente. La donna aveva una mano su quella di Daniel, e sembravano… intimi. All’improvviso Jen provò un senso di nausea. Voleva andare via, ma non ci riusciva. E invece, le toccò prima guardare la donna che sorrideva a Daniel con aria indulgente e poi guardare lui che si allungava sopra il tavolo e la baciava sulle labbra.

Scioccata, Jen si sentì vacillare. Era questo il motivo per cui Daniel era così agitato, il motivo per cui aveva avuto tanta voglia di liberarsi di lei. Usciva con un’altra. Da quanto tempo? si domandò con amarezza. E quando aveva intenzione di dirglielo?

Mentre Daniel si metteva di nuovo a sedere, la faccia illuminata da un sorriso enorme, Jen si girò di scatto e cominciò a correre. Doveva scappare, il più lontano possibile.

“Quando imparerò?” si chiese correndo, mentre i lacrimoni le rigavano le guance. “Quando capirò che nella vita non esiste il lieto fine? La vita è orribile e crudele, e la gente è bastarda, e tutti mentono su tutto, anche le persone che ami…”

Dopo qualche minuto, rallentò un po’, il respiro affannato e la gola dolorante da quanto aveva pianto. Era vicino alla Bell Consulting ormai, ma per un motivo o per l’altro non aveva voglia di entrare. Tanto per cominciare, aveva un aspetto spaventoso, ma, cosa ancora più importante, non se la sentiva. Voleva infilarsi in un enorme letto, tirarsi il piumone sopra la testa e rimanere lì finché non avesse smesso di soffrire. “Non si può fare affidamento su nessuno” pensò sconsolata. “Non appena ti fidi di qualcuno, ecco che ti delude e ti calpesta il cuore.” Bene, non si sarebbe più fidata di nessuno. Era quella l’unica soluzione.

“Che importa se ho delle lezioni?” si disse. “Non devo mica andare per forza. Perché dovrei? Odio la Bell Consulting. Li odio tutti.”

Sollevando una mano, fermò un taxi, salì e riuscì a malapena a dare il suo indirizzo all’autista prima di crollare rannicchiata sul sedile posteriore.

Arrivata a casa, Jen si preparò un caffè e decise di andare a berlo in giardino. Uscì, rabbrividì leggermente e si strinse il cardigan addosso.

Il suo piccolo giardino era gelido, eppure, a dispetto del clima freddo, si comportava in modo spavaldo, come fosse primavera: erano apparsi dei bocci e tutto stava diventando più verde dopo i cupi e spogli mesi invernali. Jen si guardò intorno con aria malinconica. Sembrava così carico di aspettative, così ottimista, e se di solito quel luogo sarebbe bastato a tirarla su di morale, adesso ingigantiva la sua tristezza. Il problema era che lei non voleva essere ottimista. Era stato proprio per quello che si era cacciata nei guai.

Mentre si sedeva, Jen sentì suonare il campanello ed ebbe un tuffo al cuore. Era Daniel? Era venuto qui con un’ottima spiegazione per quel bacio? Si sarebbe scusato e avrebbe sistemato tutto?

Si precipitò alla porta e l’aprì. Ma fu subito travolta da una miscela di disperazione e sollievo quando vide che non era lui.

«Gavin» disse con un sospiro. «Cosa ci fai qui?»

«Nessun problema, bella» rispose Gavin in tono affabile, dandole un piccolo bacio. «Ho ricevuto dei folli messaggi in segreteria da qualcuno che aveva la voce uguale identica alla tua. Ti dice niente?»

Jen corrugò la fronte. «Sarà meglio che tu venga dentro.»

Jen preparò il tè per tutti e due, poi si sedettero al tavolo da cucina.

«Grazie, Jen. Senti, ti dispiacerebbe dirmi per quale motivo mi hai lasciato tutti quei messaggi?»

Jen stralunò gli occhi. La sua rabbia verso Gavin sembrava risalisse a una vita fa, e adesso riusciva a malapena a raccogliere l’energia per spiegarsi.

«Per via della lettera» rispose sconsolata, girando il cucchiaino nel tè.

«Quale lettera?»

«Hai raccontato al Times della lettera che ti ho mostrato, ecco qual è il mio problema. Non che adesso abbia più importanza.» Aveva un tono di voce spento, privo di entusiasmo.

Gavin la guardò, con un’espressione perplessa dipinta sul viso. «Che cosa?»

«La lettera, Gavin» ribatté Jen, spazientita. «Era sul Times verso Natale. Senti, non c’è problema, è una storia vecchia ormai, è solo che… be’, pensavo di potermi fidare di te, ma a quanto pare mi sbagliavo…»

Gavin mise giù il tè. «Jen, non ho idea di cosa tu stia parlando. Sono stato in Scozia. Non ho parlato con un solo giornalista.»

Jen sospirò. «Senti, non capisco perché tu stia mentendo, tanto ormai non ha più importanza.»

«E invece importa perché io non sto mentendo, che cazzo!» Aveva alzato il tono di voce di diverse ottave e Jen corrugò la fronte.

«Davvero? Davvero non sei stato tu? Ma chi può essere stato?»

«Non ne ho idea. Dio mio, non vengo più da te se è questa l’accoglienza. Quante volte devo dirti che non sono stato io? Sarà stato uno dei tuoi tanti ragazzi…» La fissò, in attesa di una reazione.

«Non ce l’ho un ragazzo, a dire il vero» disse sconsolata, sondando l’effetto che facevano a lei stessa quelle parole e comprendendo troppo tardi che non aveva ancora finito di piangere tutte le sue lacrime.

Gavin balzò in piedi e l’abbracciò. «Dài, cara, dài, va tutto bene. Ci sono io adesso…»

Jen si concesse di rilassarsi fra le sue braccia per qualche secondo. L’unica cosa che aveva desiderato prima era un abbraccio, una parola gentile, e invece Daniel le aveva urlato contro. Gavin non era esattamente la persona che avrebbe voluto per essere consolata, ma si accontentò.

«Non va tutto bene» disse in tono funesto. «Non va bene niente. Ho litigato con Daniel, e papà… be’, credevo di potermi fidare di lui, e invece, ueeeh

Si mise a singhiozzare sulla spalla di Gavin, e lui le accarezzò i capelli con delicatezza. «Non preoccuparti di loro» cercò di consolarla. «Quel Daniel non è mai stata la persona giusta per te in ogni caso.»

«Mi stavo innamorando di lui» confessò lei, fra un singhiozzo e l’altro, all’improvviso incapace di trattenersi. Era bello lasciar sgorgare le lacrime.

«No, non ti stavi innamorando. Te ne eri solo convinta. Andrà tutto per il verso giusto, aspetta e vedrai.»

Jen si concesse ancora qualche altro singhiozzo e poi si scostò. «Davvero non hai detto a nessuno della lettera?» domandò, tirando su con il naso.

«Lo giuro.»

«Allora chi è stato?» La sua era una domanda retorica, ma Gavin parve non accorgersene.

«Quell’idiota con cui uscivi? O forse tua madre?»

Jen scosse la testa. «Non ne ho parlato con nessuno dei due.»

Gavin fu contento di sentirselo dire. «Giusto ragionamento. Parlare solo con le persone di cui ti puoi fidare.»

Jen inarcò un sopracciglio e lo guardò.

«Senti, Jen» disse Gavin serio, prendendole una mano. «Dimentichiamoci tutte queste stronzate, okay? Stiamo bene insieme, tu e io. Se quell’altro scemo è uscito di scena, e tu hai finito di giocare alla detective privata, possiamo ricominciare da dove eravamo rimasti, no?»

Jen lo guardò in modo un po’ meno affettuoso di prima. «Giocare alla detective privata?»

«Oh, insomma, tutta quella roba sterile, giocherellare, spiare papà. Non volevo dirti niente, ma era un po’ triste, no?»

«Spiare papà? È questo che stavo facendo, secondo te?»

Gavin parve perplesso. «È quello che stavi facendo, no?»

Jen scosse la testa. «Sai, per un momento mi avevi quasi convinto» disse con un sorriso sconsolato.

«Quasi?» ribatté Gavin in tono speranzoso.

«Ciao, ciao Gavin. È il momento che tu te ne vada, mi sa.»

Le prese una mano. «Senti, non intendevo offenderti, dandoti della detective privata» disse serio. «Dài, Jen. Tu e io… eravamo una bella squadra, no? Ci divertivamo. Mi manca tutto questo.»

Jen guardò la mano di Gavin e scrollò le spalle. «Sì, eravamo una bella squadra» concordò. «Ora non più.»

«Lo dici solo per via di quel tizio, vero?» insisté Gavin. «Senti, lui adesso è fuori dai giochi. Eri innamorata anche di me, ricordi?»

Jen corrugò la fronte. Non aveva tutti i torti, pensò. Ma per un motivo o per l’altro non si ricordava di essere stata innamorata di Gavin. Non si ricordava di essere stata così disperata al pensiero di perderlo.

«Gavin, no» disse sottovoce.

Lui la fissò pensieroso, scostò la mano e le rivolse un sorriso leggero. «Nessuna chance di una sveltina di addio, quindi?»

Jen inarcò le sopracciglia e lo guardò.

«Be’, chiamami, se cambi idea.»

Uscendo dall’edificio, Gavin la salutò bonariamente con la mano e Jen rimase a guardarlo mentre spariva dietro l’angolo. Se Gavin le aveva detto la verità sulla lettera, chi era stato a fare la soffiata?, si domandò. E soprattutto, di chi diavolo si poteva fidare adesso?

Qualche minuto dopo, Jen si spogliò per fare un bagno. Riempì la vasca, accese le candele e mise un CD dei Groove Armada, poi scivolò nell’acqua accogliente e sentì il corpo rilassarsi.

Chiuse gli occhi e tentò una tecnica di rilassamento che le aveva insegnato Angel: immaginati nel tuo luogo preferito, esploralo con tutti i tuoi sensi e convinci la tua mente di trovarti lì. Angel la chiamava la vacanza di mezz’ora.

Jen si immaginò su una spiaggia: percepiva la sabbia soffice e calda fra le dita dei piedi; entrava in un mare azzurrissimo, mentre il sole le riscaldava le ossa. In un’altra scena cominciava a costruire un castello, mettendo la sabbia nel secchiello con meticolosità, rovesciandolo ben dritto prima di toglierlo con cura per non rovinare il suo capolavoro. Aveva tirato su un fossato, quattro torri, alcuni appartamenti per la servitù. Mentre Jen stava lavorando, il mare cominciava ad arrivare, per cui lei accelerava il ritmo, ma l’acqua arrivava troppo rapidamente, devastandole il castello e buttandone giù un lato. Come una pazza, Jen tentava di costruire ancora, ma la sabbia si era impregnata troppo di acqua e non tratteneva la forma. I suoi genitori le gridavano dei consigli, ma lei non riusciva a sentirli bene perché parlavano tutti e due insieme, e quando vedevano che il castello era rovinato, se ne andavano via.

Di scatto, Jen si mise a sedere dritta. Un violento squillo l’aveva svegliata. In fretta e furia, saltò fuori dalla vasca e indossò un accappatoio di morbida spugna. Infilando i piedi in un paio di pantofole di montone, si diresse in cucina, dove il cellulare vibrava all’impazzata e il nome MAMMA lampeggiava sullo schermo.

Jen si sentì sprofondare il cuore. Si era preparata pian piano a una conversazione con sua madre, l’aveva pianificata con cura e l’aveva rimandata per giorni. Adesso la montagna era venuta a Maometto, e Jen aveva dimenticato tutto quello che avrebbe voluto dirle.

«Mamma?» rispose, pensando che sarebbe stato meglio non essere uscita dalla vasca.

«Ah, allora ti ricordi ancora chi sono?»

«Sì, mamma» disse Jen con un sospiro, domandandosi con aria colpevole se in quel preciso momento l’amnesia non avrebbe potuto essere un’alternativa allettante.

«Mi dispiace davvero.»

«Jen, volevo dirti che mi dispiace.»

«Jen, senti, a proposito di questo pomeriggio. Ho reagito in modo eccessivo e volevo scusarmi…» farfugliava Daniel fra sé, mentre usciva dalla metropolitana e cominciava a percorrere i venti minuti a piedi che lo separavano da casa di Jen, alla ricerca di una frase di apertura migliore. Aveva pensato di telefonarle, ma gli era sembrato troppo impersonale, e in ogni caso non si può fare la pace al telefono. Lo sanno tutti. Per prima cosa è un’impresa gravida di difficoltà: non vedere la faccia dell’altro rende molto difficile capire se puoi cominciare a fare battute, e il massimo a cui puoi aspirare alla fine è la promessa di un incontro. Quando ti rappacifichi di persona, invece, si possono… rafforzare i legami.

“Tranquillo, Daniel, non correre prima di aver imparato a camminare” si disse, mentre cominciava a farsi trasportare dalle immagini di lui e Jen che rafforzavano il loro rapporto a più riprese. Per prima cosa, doveva convincerla che non era un totale cretino.

«Oooh!»

Gridò contro qualcuno che l’aveva investito. “Maledetta gente che non guarda dove va” pensò, sollevando gli occhi e vedendo una faccia che gli parve di riconoscere. Cambiò subito idea: non conosceva nessuno con l’aria di chi ha dormito all’aperto diverse settimane di fila.

«Tieni gli occhi aperti» disse la faccia, provocando l’indignazione di Daniel.

«Io?» esclamò Daniel incredulo. «Sei tu quello che va a sbattere contro la gente.»

La faccia lo guardò incuriosito. «Sei l’ex di Jen, vero?»

Daniel corrugò la fronte. Certo. Era l’ex ragazzo di Jen. Il vagabondo. «Mi sa che hai le idee un po’ confuse al riguardo» si affrettò a replicare, decidendo che non aveva la minima voglia di intavolare una conversazione con quel tizio. «Tu sei l’ex. Io sono il suo attuale ragazzo.»

«Non sembrerebbe da come ne parla lei.»

«L’hai vista?» Daniel si morse la lingua. Non voleva sapere se quel vagabondo aveva visto Jen o meno. Non voleva incoraggiarlo.

Il vagabondo lo guardò, un sorrisetto beffardo sulle labbra. «Ascolta, amico,» disse, come se confidasse a Daniel un grosso segreto «il fatto è che io e Jen… be’, non sono semplicemente, be’… il suo ex. Siamo ancora in ottimi rapporti. E per quanto la riguarda, non ti vuole più vedere.»

Daniel lo guardò in cagnesco. «In tal caso, potrà dirmelo di persona» ribatté deciso.

Il vagabondo sorrise beato. «Hai più palle di me, lasciatelo dire. Non credo che mi piacerebbe l’idea di andare a casa sua solo per farmi mandare al diavolo, ma il mondo è bello perché è vario, suppongo. Il fatto è che, amico, hai perso il tram, per così dire. E io… be’, sono saltato di nuovo su, se capisci cosa intendo.»

Daniel lo fissò. Jen usciva con uno che parlava di lei come fosse un tram? A ogni modo, era impossibile. L’aveva vista un paio di ore prima e non gli aveva detto niente di quel buffone.

«Malgrado ciò, io vado avanti per la mia strada» disse Daniel, e il vagabondo scrollò le spalle.

«Per me nessun problema. Ci vediamo fra un po’, allora.»

«Che cosa?» domandò Daniel in tono secco.

«Ho fatto un salto fuori a prendere del vino, per cui sarò con voi fra pochi minuti. Ti servirà qualcosa da bere probabilmente, se ci pensi su.»

«Torni da Jen?»

Il vagabondo annuì. «Festeggiamo il nostro ritorno insieme» rispose deciso. «A dire il vero, amico, mi hai fatto un bel favore a litigare con lei in quel modo. L’ha portata a migliore consiglio su me e lei. Ti ringrazio.»

All’improvviso Daniel sentì un po’ di nausea. Che cosa aveva combinato? Jen era tornata insieme a quel… quel cretino, e non poteva neanche dare la colpa a lei. Chi avrebbe avuto voglia di uscire con un uomo che dava in escandescenze quando facevi un salto a trovarlo in ufficio?

«A quanto pare sono fuori tempo» disse pacato.

«Proprio come ho detto io» sottolineò il vagabondo, dando una scrollata di spalle. «Hai perso il tram, amico.»

Lentamente, Daniel si girò per allontanarsi, con il mazzo di fiori appena comprato che pendeva floscio lungo un fianco.

Gavin rimase a guardare Daniel che si allontanava e tornò indietro. Stava facendo un favore a Jen, si disse. A volte gli amici vanno protetti – dagli altri, ma anche da sé stessi.

«Be’, devo dire che mi sarei aspettata che tu chiamassi per scusarti. Ma visto che non hai telefonato, ho pensato che avrei fatto meglio a chiamare io.»

«Non credi di essere tu a dovermi delle scuse?» domandò Jen, riuscendo a mantenere un tono di voce pacato. «Per avermi mentito?»

«Ti ho già spiegato tutto» disse Harriet irritata. «Ti stavo proteggendo, tutto qui. È così che si comporta una madre, sai.»

«Io non volevo essere protetta, volevo la verità.»

Harriet sospirò. «Tu non sapevi cosa volevi, e non sono sicura che tu lo sappia neanche adesso. In ogni caso, volevo solo comunicarti che la tua soffiata alla stampa ha innervosito molto tuo padre. L’ha innervosito davvero. Il che mi fa pensare che deve essere vulnerabile. Magari teme che tu sappia più di…»

«Come fai a saperlo?»

«A sapere cosa, tesoro?»

«Che papà è nervoso. E della lettera, di cui io non ti ho mai parlato? Come ha fatto a scoprirlo lui? E tu come sai che papà è nervoso?»

Harriet sospirò. «Oh, ecco. Sei sempre stata attenta ai dettagli, giusto? Be’, ho immaginato che fossi tu, perché non riuscivo a pensare a nessun altro. E quando, parlando con tuo padre, ho accennato all’articolo, lui mi ha confermato che dovevi essere stata tu a fare la soffiata. Davvero, tesoro, e pensare che ero preoccupata che tu fossi rimasta vittima del suo fascino. Sono stata molto orgogliosa di te, sai…»

«Glielo hai detto tu?» intervenne Jen. «Quando?»

«Vorrei che la smettessi di interrompermi in questo modo, tesoro. Sono stata a trovarlo in ospedale. Un sacrificio enorme, fra parentesi, perché sai quanto detesto quei posti, ma devo dire che ne è valsa la pena. La faccia di tuo padre… be’, era l’immagine…»

Jen si stava irritando, parole roventi e furiose le salivano dalla gola. Ma invece di lasciarle sgorgare come avrebbe fatto di solito, le mandò giù, tentando di ignorarle. Ne aveva avuto abbastanza di litigi. Doveva mitigare la sua rabbia. E in ogni caso, che importanza aveva se Harriet aveva vuotato il sacco? Suo padre lo avrebbe scoperto prima o poi, e visto che a quanto pareva era il bastardo corrotto che sua madre aveva dipinto, probabilmente era un bene che Harriet lo avesse fatto.

«Fantastico» disse Jen, senza convinzione.

«Allora?» chiese sua madre in trepida attesa.

«Allora?»

«Allora, cos’altro hai scoperto? C’è stato un servizio in TV nel pomeriggio, e la polizia in Indonesia non ha cavato un ragno da un buco: non riescono a trovare nessuna prova di corruzione, il che non sorprende poi molto, visto che nessuno ammetterà mai di aver preso una tangente, no? Il fatto, Jen, è che se non la scopriamo noi la verità, non lo farà nessuno.»

Jen si fermò un attimo a riflettere. Se avesse raccontato tutto a sua madre, la situazione sarebbe stata molto più semplice. Harriet avrebbe saputo cosa fare del foglio di calcolo. Avrebbe saputo cosa fare, punto.

Allora cosa c’era che la bloccava?

«Be’, ci sono un paio di cose» disse infine. «Ma mi devi promettere di non dire niente a Paul.»

«Paul? Che vuoi dire, tesoro?»

«Voglio dire: promettimi che non gli dirai quello che ti dico io.»

Harriet sospirò. «Allora è vero. Paul mi ha avvisato.»

«Ti ha avvisato di cosa?» si affrettò a domandare Jen, imbestialita.

«So che non ti è mai piaciuto Paul, ma non ti permetterò di demonizzarlo» ribatté Harriet arrabbiata. «Questo non ha niente a che vedere con lui. È praticamente l’unica persona di cui mi posso fidare di questi tempi, visto che sei in così buoni rapporti con il nemico.»

«Di me ti puoi fidare!» esclamò Jen, indignata. «Paul lo conosci a malapena, e quando sentirai quello che devo dirti io…»

«Non lo farò, Jennifer. Non ti starò a sentire, hai capito? Paul si è domandato se tu fossi la persona giusta per questo lavoro, e io avrei dovuto dargli retta.»

Jen corrugò la fronte. «Hai discusso con Paul se era il caso che io lavorassi alla Bell Consulting?»

«Certo, tesoro. Ci diciamo tutto.»

«Ho molti dubbi al riguardo» disse Jen in tono sarcastico, pensando alla telefonata a casa di suo padre.

«Jen, finché non riuscirai a essere civile, non credo che avremo niente di cui parlare.»

«Bene» replicò Jen con veemenza. «Non potrei essere più d’accordo.»

Piena di rabbia, Jen riattaccò il telefono e si accasciò su una sedia. Sarebbe passata alla storia come la peggiore giornata della sua vita, decise. E aveva l’orribile sensazione che le cose non sarebbero migliorate.