26

Angel aveva la pelle luminosa e gli occhi scintillanti.

«Mi sembrava che tu avessi detto di avere i postumi di una sbronza» disse Jen, dopo aver raggiunto la sua amica per il brunch, scrutandola attentamente alla ricerca di segni, tipo occhi iniettati di sangue o pelle grigiastra.

«Infatti» disse Angel, che sembrava fosse appena tornata da una settimana di relax in una SPA. «Ho un aspetto spaventoso.»

Jen inarcò le sopracciglia e prese il menù.

«Anche se a essere sincera, ce l’hai anche tu, Jen. Cosa è successo?»

Jen posò il menù. «Com’è possibile» domandò «che una vita possa cambiare in modo così drammatico, e così tanto in peggio, nel giro di neanche due giorni? Non riesco a capacitarmi.»

Angel corrugò la fronte. «La tua vita è cambiata in peggio? In che modo? Non si tratta di tuo padre, vero?»

Jen guardò il tavolo davanti a sé. Angel non se ne sarebbe mai uscita con una frase tipo “te lo avevo detto io”; non le avrebbe mai fatto notare che se le avesse dato ascolto e si fosse protetta un po’ di più, invece di tuffarsi a capofitto e di lasciarsi trascinare dall’idea di avere di nuovo un padre, non si sarebbe trovata in questo pasticcio. Ma il concetto aleggiava comunque nell’aria.

«Avevi ragione tu» ammise semplicemente. «Lui non è come pensavo che fosse. O meglio, è come pensavo che fosse, prima che mi convincessi che non lo era.»

Angel arricciò il naso perplessa. «Ti dispiacerebbe spiegarti?»

Jen sospirò. C’erano così tante cose da spiegare. Su suo padre e i fogli di calcolo; su sua madre e Paul Song; su Gavin; su Daniel e quella donna… Mentre ripassava l’elenco, Jen sentì le lacrime pungerle gli occhi come al solito, ma le ricacciò indietro. Non era il momento adatto per autocommiserarsi. Era il momento di fare qualcosa.

Dunque, cominciò a raccontare, osservando Angel che sgranava gli occhi allibita e di tanto in tanto esclamava «no!», oppure «no, lui no, non ci credo», o ancora «no, tu no, non è vero», mentre Jen annuiva con aria saggia e confermava che sì, era andata proprio in quel modo e lui o lei l’avevano fatto per davvero.

Dopo un po’, Jen concluse il suo racconto e si mise comoda. Angel rimase in silenzio per qualche secondo, come se stesse elaborando le varie informazioni. Poi guardò la sua amica.

«E che cosa hai intenzione di fare? Con chi ne parlerai? E come mai non sei ancora andata a prendere a schiaffi Daniel?»

Jen si ritrovò ad abbozzare un sorriso all’idea di presentarsi in ufficio da Daniel, minacciandolo di dargli un pugno.

«A essere sincera, non lo so» ammise. «Ho tentato di parlarne con mia madre, ma appena ho accennato a Paul Song si è messa sulla difensiva.»

«Pensi davvero che lui sia coinvolto?»

Scrollò le spalle. «Mi auguro proprio di no, per la mamma, ma non sembra una bella situazione, ti pare? Voglio dire, per quale motivo Paul dovrebbe telefonare a casa di mio padre? E quello stupido blocco di legno che lui ha detto che veniva dalla Cina, mentre in realtà arriva dall’Indonesia… è un po’ troppo per essere una coincidenza.»

«Sai già a cosa servivano quei bonifici?»

Jen scosse la testa. «No, ma dài! Dei soldi che finiscono in un conto corrente numerato e il nome della Axiom sparso tutt’intorno… Ho guardato quel foglio di calcolo mille volte e non riesco a trovare nessuna spiegazione oltre alle tangenti.»

«Allora dovresti andare alla polizia.»

«Lo so.»

«Ma?»

Angel guardava Jen dritto negli occhi e lei si spostò imbarazzata. «Lo farò» rispose Jen in tono evasivo. «È solo che… non so cosa dovrei dirgli ancora.»

«Hai parlato con tuo padre?»

Jen scosse la testa.

«Non credi che forse dovresti farlo?»

Jen scrollò le spalle. «Forse sì. È solo che non ho avuto l’energia. E sono ancora furiosa con lui.»

«Il che è positivo. Parlagli mentre hai ancora la rabbia addosso. Dài, Jen. Devi farlo.»

Jen sospirò. Angel aveva ragione. Erano giorni che rimandava ormai, incapace in un modo o nell’altro di raggranellare l’energia per affrontare qualunque cosa. Avrebbe voluto soltanto nascondersi, far finta che non fosse accaduto niente, convincersi che la responsabilità non era sua. Non era affatto da lei: di solito si fiondava nelle situazioni senza pensarci due volte, ma stavolta si stava facendo sopraffare.

«Immagino che tu non voglia perdere tuo padre un’altra volta» continuò Angel pensierosa. «Ma se quello che dici è vero, allora secondo me probabilmente lo hai già perso.»

«Oltre a mamma. E a Daniel» commentò Jen, avvilita. «Ma senti, ne ho abbastanza dei miei problemi per il momento. Cosa mi racconti di te? Come va il matrimonio?»

La faccia di Angel si illuminò. «È una cerimonia quanto mai ridicola» disse, stralunando gli occhi. «Spendono tutti troppi soldi, gli abiti scelti sono folli, ed entrambe le famiglie sono così tese che stanno per scoppiare. Dimmi, secondo te, è una cosa semplice avere un elefante per un matrimonio a Londra? Dovrebbe essere difficile, no? Ecco, noi ne avremo due…»

Mentre la sua amica parlava, Jen si ritrovò ad ascoltare con invidia i racconti di Angel sulla sua grande famiglia allargata. Tutti sapevano gli affari di tutti; tutti dovevano lavorare d’amore e d’accordo. E anche se Angel si lamentava, Jen capiva che non le dispiaceva in realtà. “Com’è rassicurante” rifletteva “far parte di un qualcosa di così solido. Quanto è bello sapere che qualunque cosa accada, hai una tribù di persone intorno a sostenerti, a brontolarti e a dirti dove sbagli.” Se i suoi sospetti erano giusti, Jen probabilmente non avrebbe più parlato con suo padre, mentre sua madre avrebbe perso Paul Song e forse non l’avrebbe mai perdonata per questo.

«…e così sono stata costretta a scendere lungo la grondaia. È stato così emozionante… come essere di nuovo una ragazzina.»

Jen corrugò la fronte. Si era persa qualche particolare interessante? «Sei scesa dalla grondaia?» domandò.

«Sì! Be’, non potevo certo far scoprire ai miei che avevo un appuntamento con l’uomo che loro vogliono farmi sposare!»

«Avevi un appuntamento con l’uomo che loro vogliono farti sposare e volevi che rimanesse un segreto? Sono confusa.»

Angel stralunò gli occhi. «Jen, seguimi, okay? È un uomo meraviglioso, e mi piace. L’ultima cosa che voglio è che i miei genitori si mettano in testa di combinarmi un matrimonio con lui.»

Jen corrugò la fronte, poi scosse la testa. «E tu pensi che a me piaccia complicarmi la vita» commentò con un mezzo sorriso.

La mattina seguente, Jen si ritrovò di nuovo nel piccolo ufficio di Bill, seduta dritta, pronta a partire. La sera prima aveva ideato un piano, dopo il brunch con Angel, e adesso era pronta a dare il calcio d’inizio.

Numero uno: lasciare la Bell. Non voleva avere più niente a che fare con la Bell Consulting, né voleva un MBA se significava diventare come Daniel.

Numero due: dire a suo padre esattamente quello che pensava di lui e chiarire che lo avrebbe detto anche a tutti gli altri, polizia inclusa.

Numero tre: dire a sua madre di Paul Song senza mezzi termini. Harriet avrebbe dovuto semplicemente stare ad ascoltarla, volente o nolente.

Numero quattro: mettere in chiaro la situazione con Daniel. Dirgli che lo aveva visto al ristorante, che sapeva cosa aveva combinato e che non aveva intenzione di tollerare una cosa simile.

Ovviamente la numero quattro era la parte che Jen temeva di più, quella a cui sperava di non dover arrivare così alla svelta. Una cosa era urlare contro suo padre, tutt’altra era affrontare l’uomo che amava. O che pensava di amare. Soprattutto visto che a quanto pareva lui non la ricambiava. Eppure, se ne sarebbe occupata quando fosse arrivato il momento. In quel preciso istante, era concentrata sulla numero uno.

«Allora, come sta Jennifer oggi?» domandò Bill con un gran sorriso. «E come vanno i tuoi studi?»

Jen guardò Bill dritto negli occhi. «A dire il vero, non sono stata molto presente negli ultimi giorni. Sto… sto pensando di abbandonare il master.»

Il sorriso scomparve dalla faccia di Bill e fu sostituito da uno sguardo preoccupato.

«Abbandonare il master? Ma se te la stai cavando magnificamente! Sono gli elaborati che ti mettono in agitazione? Perché non devi davvero preoccuparti. Posso aiutarti per le ricerche… è una passeggiata, in realtà.»

Jen sorrise. «Grazie, Bill, ma non è per la mole di lavoro. È che… be’, non credo di voler avere niente a che fare con il mondo del business, né con la Bell Consulting.»

Bill si accarezzò la barba preoccupato. «Capisco. È una posizione molto netta la tua. Ti piacerebbe condividere qualche motivo?»

«A quanto mi è dato capire, l’unica cosa che le aziende fanno è tentare di estorcere denaro alla gente, e io non voglio averci niente a che fare. Mentre per quanto riguarda la Bell… diciamo solo che non voglio neanche diventare una consulente.»

Bill annuì. «Certo» disse. «Il mondo del business è terribile. Tutta quella gente che lavora sodo e fornisce beni e servizi di cui le persone hanno bisogno. Tremendo, concordo.»

Jen corrugò la fronte, rendendosi conto che Bill si prendeva gioco di lei. «Possono anche produrre beni e fornire servizi, ma lo fanno solo perché gli rende del denaro» ribatté decisa.

Bill corrugò la fronte.

«È una visione molto ingenua del mondo del business, se vuoi sapere come la penso io» ribatté serio.

Jen inarcò un sopracciglio e lo guardò. «Ingenua?» domandò indignata. «Non credo proprio.» Aveva cominciato a pensare che stava diventando troppo cinica, semmai.

Bill si accarezzò di nuovo la barba. «Okay, allora permetti che ti chieda una cosa. Prendiamo un’azienda farmaceutica. Cosa fanno?»

Jen si mise a sedere dritta. «Facile. Sviluppano farmaci che poi vendono con enormi profitti e convincono i governi a non far produrre gli stessi medicinali a prezzo inferiore alle altre compagnie, anche se potrebbero salvare tante vite in tutto il mondo. Sono aziende ripugnanti. Davvero spaventose.»

Bill sorrise. «Okay, quindi, secondo te, una volta sviluppato un farmaco, dovrebbero distribuirlo gratis?»

«Dovrebbero venderlo al prezzo che gli costa produrlo. Non farlo pagare un occhio della testa.»

«Ma il prezzo non dovrebbe includere i costi della ricerca e dello sviluppo, ovvero scienziati che conducono esperimenti gravosi per anni?»

«Sì, ma…»

«Ma?»

«Ma ricavano sempre enormi profitti.»

«Il che rende le persone felici di investire in queste aziende, il che significa che hanno a disposizione più soldi per la ricerca.»

«Sono interessati solo ai farmaci che permettono di fare soldi» disse Jen in tono cupo.

«Ma se non ne ricavassero un profitto, credi che ci sarebbero gli stessi livelli di investimento?»

Jen corrugò la fronte. «Immagino di no…» rispose, ma poi si bloccò.

«Gli affari non sono un male di per sé» commentò Bill in modo delicato. «Ci vogliono regole, codici di condotta. Ma guadagnare soldi non è di per sé una cosa negativa. Stimola certe persone più di altre, ovviamente…»

«E la corruzione?» domandò Jen in tono perentorio. «Negli affari abbonda.»

«Non quanto in molti governi.»

Jen rimase senza parlare per alcuni secondi. Cosa avrebbe detto Bill, se gli avesse raccontato del foglio di calcolo che aveva trovato sul computer di suo padre? Avrebbe continuato a pensare che la corruzione non abbonda?

«Jen, non mollare. Non ora. Se ti stanno a cuore questi temi, occupatene, non andartene via e basta. Ti ho sempre visto più come una combattente…»

Jen lo fissò. «Ma…» cominciò a dire, lasciando la frase a mezz’aria.

«Ma è una parola fantastica se vuoi prendere le distanze da una situazione. È questo che vuoi?»

Jen annuì, poi scosse la testa. Era l’ultima cosa che voleva. Ma rimanere alla Bell? Sarebbe stato impossibile, no? Jen corrugò la fronte e notò Bill che la osservava, speranzoso.

«Allora continuerai?» le domandò, mentre dentro di lei infuriava una battaglia. Forse aveva ragione lui. Forse andarsene via era una scelta vigliacca.

«Non lo so» scandì lentamente, domandandosi cosa ne sarebbe stato del suo piano di azione. «Ma ci penserò senz’altro.»

«Okay, ma mentre ci pensi, probabilmente vorrai continuare le tue ricerche. Fra l’altro, non devi consegnare un elaborato?»

Jen abbozzò un sorriso. «Lo odio ancora il mondo del business» disse con aria di sfida.

«Fa piacere sentirtelo dire. Alla prossima?»

Jen annuì pur sapendo di fare la cosa sbagliata. Se la seconda voce del suo elenco fosse andata come programmato, Jen sarebbe stata buttata fuori a calci comunque.

«Per cui, capisce, signorina Keller, la nostra posizione è molto difficile. In queste circostanze siamo costretti a richiedere ulteriori garanzie collaterali o a suggerire all’azienda di cercare accordi finanziari alternativi.»

«Signora Keller.»

«Mi scusi?» Il giovane in giacca e cravatta si spostò imbarazzato sulla sedia. Odiava questi colloqui. Non capiva perché il suo capo non aveva sbrigato questa faccenda da solo. Nessun problema per lui, tirarsi indietro all’ultimo minuto, dando la colpa a una riunione più importante da qualche altra parte. Probabilmente stava bevendo un caffè da Starbucks, tutto soddisfatto per averla scaricata su un altro.

«Sono la signora Keller. Lei mi ha chiamato signorina Keller.»

«Okay, perfetto. Mi scuso.» “Si sarebbe potuto pensare che la signora avesse cose più importanti di cui preoccuparsi” si disse l’impiegato, domandandosi quanto ancora sarebbe dovuto rimanere lì.

«Allora, di che genere di garanzie collaterali stiamo parlando?»

«Oh, sa, beni immobili. Altri valori – l’occasionale Gran Maestro nascosto da qualche parte, questo tipo di cose.» Guardò Harriet e mentalmente si mangiò le mani. Brutto momento per fare una risata, per dire spiritosaggini. No, rimani serio. Come un impresario di pompe funebri.

«Casa mia credo che sia…»

«Già ipotecata, sì.»

«E le nostre rendite non sono…»

«Non sono sufficienti a garantire le rate di un mutuo, signora Keller, no. È questo il problema che abbiamo. Sa, le banche non sono come i finanziatori di capitale di rischio. Non traggono vantaggi dai suoi successi. Riscuotiamo solo le normali rate con gli interessi. Se lei ottiene dei ricavi doppi rispetto a quanto previsto, noi riscuotiamo lo stesso importo. Non ci piace correre rischi, è questo il punto. Per cui, a meno che lei non riesca a trovare accordi finanziari alternativi…»

«Intende dire che devo vendere la mia società?»

Il giovane si mosse imbarazzato sulla sedia. «Come le ho detto, ha qualche giorno per decidere cosa fare. Può liquidare tutto, o può trovare qualcuno che investa un po’ di soldi, oppure…» Non finì la frase. “Presentare istanza di fallimento” non era una cosa facile a dirsi. «Solo, se la decisione è questa,» continuò, stabilendo che non era necessario spiegarlo nel dettaglio alla signora Keller «non avrà molto tempo, per cui farà meglio, come dire, a riflettere sulle sue opzioni.»

Harriet gli lanciò un’occhiata fulminante e lui si ritrasse un po’.

«Se ne vada adesso, la prego» disse Harriet con voce sommessa. Il giovane afferrò i documenti e li cacciò nella sua valigetta, senza preoccuparsi del fatto che non si sarebbe chiusa bene, e si fiondò verso la porta.

Cinque minuti dopo, Harriet lasciò il suo ufficio e si precipitò in un bar dall’altra parte della strada. Quando uscì, si strinse il cappotto intorno, tenendo ben salda in mano la sua tazza di caffè biologico, equo e solidale. Si rese conto che da giorni non metteva il naso fuori dalla Green Futures quando c’era ancora la luce del sole, neanche per comprare un panino, ed era molto piacevole sentire l’aria fresca in faccia.

Guardò il suo edificio e sospirò. Non aveva voglia di rientrare, non subito. Era troppo sfinita e stanca di lottare. Le sembrava di aver combattuto una guerra da sola, e non sapeva se voleva continuare a farlo ancora.

Si girò e camminò per la strada finché non trovò una panchina. Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui si era seduta a guardare la gente che passava? Troppo tempo. Anni, probabilmente. C’era sempre stato qualcosa di urgente da fare, sempre qualcuno con cui parlare.

Si sedette e bevve un sorso di caffè, che era squisitamente cremoso.

Poi si accigliò. Non sempre c’era qualcuno con cui parlare, a dire il vero, se ci pensava. Al lavoro, sì – le persone le chiedevano di continuo di concedere loro un po’ del suo tempo, volevano conoscere la sua opinione, il suo voto di fiducia. Ma sempre più spesso aveva notato che fuori da lì non aveva molte persone con cui parlare. Jen era così difficile in quel periodo, così permalosa, e Paul continuava a sparire per parlare con altri clienti o per fare qualsiasi altra cosa facesse quando non era con lei.

Era tutta colpa di George, pensò amareggiata. Non avrebbe mai dovuto sposarlo; non avrebbe mai dovuto permettergli di convincerla a innamorarsi di lui.

Chiuse gli occhi e ricordò con un brivido cosa aveva significato essere stata sposata con George. Non sapere mai quando sarebbe partito in aereo per uno dei suoi viaggi d’affari. Non essere mai presa sul serio. E Jen, era così innamorata di lui. Così convinta che fosse meraviglioso. Era troppo da sopportare.

Qualcuno poteva rimproverarla per aver avuto un amante, per aver ceduto alla prima persona che le aveva dato un po’ di attenzioni?

Harriet sospirò. Certo che potevano. Si rimproverava da sola. Da sempre. Quel bastardo di Malcolm l’aveva usata. E quando lei aveva scoperto cosa aveva combinato, George non le aveva dato retta. “Ha preferito Malcolm a me” pensò piena di amarezza. “Ha preferito gli affari e il profitto all’amore e all’etica.” E continuava a farlo tuttora.

Be’, stavolta non glielo avrebbe permesso, decise Harriet. George avrebbe avuto quello che si meritava, fosse stata anche l’ultima cosa nella sua vita. E mentre gli affari di George e di Malcolm con la loro ossessione per i profitti sarebbero crollati, la Green Futures avrebbe riconquistato una posizione di prestigio. Harriet avrebbe contrattaccato. In un modo o nell’altro avrebbe salvato la sua società. Ci dovevano essere dei soldi da qualche parte, qualcuno che le avrebbe dato un prestito che l’avrebbe aiutata a superare un periodo di difficoltà.

Finì il caffè e guardò l’orologio. Era l’ora di tornare in ufficio.

Ma, mentre stava per alzarsi, qualcuno si sedette accanto a lei. Harriet si girò e sgranò gli occhi.

«Malcolm. Che… che cosa ci fai qui?»

Malcolm Bray sorrise. «Che piacere vederti, Harriet. Mi chiedevo, hai qualche minuto libero?»

«Posso aiutarla in qualche modo?»

Jen guardò la commessa con aria vaga e scosse la testa. Aveva approfittato di un’ora libera nella sua tabella di marcia per andare a dare un’occhiata da Books Etc, in parte perché sembrava fosse arrivato il momento di finire il suo elaborato, in parte perché voleva fare qualcosa per irritare Daniel, anche se lui non ne avrebbe saputo niente. Francamente, non voleva più rimettere piede in un altro negozio della Wyman’s. E una volta concluso l’elaborato, lo avrebbe inviato a un’altra catena di librerie, solo per fargli dispetto. Qualcuno doveva pur realizzare le idee di cui loro avevano parlato e, se non lo faceva lui, si meritava che i suoi concorrenti lo battessero.

Jen vagò per un po’ senza meta, tentando di trovare dei buoni motivi per cui i libri di auto-aiuto avrebbero dovuto stare sul lato sinistro del negozio e quelli di cucina sul destro, ma dopo un po’ smise. Forse era stato un po’ ambizioso, riconobbe, pensare che sarebbe riuscita a concentrarsi sul suo stupido elaborato quando c’erano così tante altre cose in ballo. Aveva pianificato e scartato un milione di volte ciò che avrebbe detto a suo padre. E, ogni volta che ci pensava, il cuore cominciava a batterle all’impazzata. Guardò l’orologio. Erano le undici, il che significava che mancavano tre ore al loro appuntamento. Alle undici e mezzo aveva una lezione, che si augurava le tenesse la mente occupata fino a mezzogiorno e mezzo, e poi avrebbe dovuto aspettare un’ora e mezzo, con lo stomaco in gola.

Jen notò che la commessa la teneva d’occhio e decise che era probabilmente arrivato il momento di andare via. Avrebbe preso un caffè al volo per strada e sarebbe tornata pian piano verso le Bell Towers. Ma, mentre si girava per andarsene, un libro catturò la sua attenzione. O meglio, la copertina di un libro. C’era la foto di un uomo che riconosceva, un uomo che, si rese conto dopo essersi spremuta le meningi, aveva visto insieme a Paul Song alla cena di beneficenza tanti mesi prima.

Raggiunse velocemente il settore delle biografie, e prese il libro in mano con interesse. E a quel punto trasalì. Il libro fra le sue mani era la storia di un imprenditore di successo. E si chiamava Malcolm Bray.