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Jen si diresse verso il suo solito posto nell’auditorium, accanto a Lara e Alan, che parlavano insieme a bassa voce.

«Come va?» domandò Lara contenta; Jen le sorrise, sollevata al pensiero di avercela fatta a non chiamarla nel momento in cui aveva deciso di mollare il master. Stava lentamente imparando a trattenersi e a non tuffarsi nelle cose, e adesso non avrebbe dovuto spiegarle perché era tornata a lezione, pensò, molto soddisfatta di se stessa.

In quel momento entrò Jay e tutti pian piano si acquietarono.

«Allora,» disse in tono drammatico «mi dispiace dirvi che oggi vi beccate me. Questa parte del corso si intitola “Conclusioni”, ed è l’ultima serie di lezioni sull’analisi strategica. Il prossimo semestre vi concentrerete sulle materie opzionali e scriverete la tesi. Ma adesso voglio che vi domandiate: quali conclusioni possiamo trarre da un’analisi strategica? Quali conclusioni ho tratto dal corso? E quali conclusioni ho tratto su me stesso?» Jay si guardò intorno e nell’aula calò il silenzio.

«Ragazzi, forza, non gridate tutti insieme» disse in tono scherzoso. «Okay, quindi nessuno vuole condividere le proprie conclusioni. Allora, pensiamoci su un attimo, va bene? Il fatto è che le conclusioni sono difficili da formulare e sono anche molto mutevoli. Lasciate che mi spieghi. Avete fatto delle analisi su una compagnia… qualcuno mi dia il nome di un’azienda.»

«Durex» gridò qualcuno. «Akuel» gli fece eco qualcun altro. Jay scrollò le spalle.

«Bene, mi ci sono già imbattuto, no? Okay, allora prenderemo la vostra preziosa azienda di preservativi. Allora, avete fatto la vostra analisi, credete di avere capito i punti di forza e di debolezza, avete individuato le opportunità e le minacce. Sviluppate alcune opzioni strategiche e poi giungete alle vostre conclusioni – o forse potreste chiamarle raccomandazioni. In entrambi i casi, a questo punto vi state fondamentalmente mettendo in gioco. State dicendo: “vai in questa direzione”, oppure “vai in quella direzione”, oppure “rimani immobile”, o “mettiti a testa in giù”… Qualunque cosa sia, è la cosa giusta da fare in base all’opinione a cui siete giunti con la vostra analisi. E magari avete ragione. Magari avete la risposta perfetta. Ma poi ecco cosa succede: il giorno dopo che avete ultimato la vostra presentazione, l’avete resa carina, l’avete consegnata all’amministratore delegato con una bella copertina di plastica, qualcuno trova una cura per l’AIDS. Oppure qualcuno inventa un nuovo dispositivo di protezione che minaccia di distruggere il mercato dei preservativi. Un’azienda concorrente cessa l’attività. Il direttore generale viene licenziato per un comportamento scorretto e il nuovo capo vuole seguire un approccio completamente diverso. Le cose accadono. Sempre. Nel momento in cui approntate le vostre conclusioni, saranno superate.

«Allora, cosa significa? Che non ha senso giungere a una conclusione? Che non ha senso fare niente, perché tutto cambia comunque? No. Niente affatto. I direttori generali non vengono quasi mai licenziati. Non si trovano quasi mai cure per malattie gravissime. In genere, scegliete la vostra rotta, scegliete la vostra strada, e fate semplicemente il meglio che potete. Ma quello che non potete permettervi è pensare che le vostre conclusioni saranno valide la prossima settimana, il prossimo mese o il prossimo anno. Le persone cambiano, le società cambiano, gli ambienti cambiano, i clienti cambiano. Dovete continuare a riprendere in mano la vostra analisi ed esaminarla attentamente di nuovo: vi è sfuggito qualcosa? Risulta ancora tutto vero? In caso contrario, dovete modificare la vostra strategia?

«Okay, una volta compreso questo punto critico, cosa stiamo cercando nelle nostre conclusioni?»

Jay si guardò intorno e Alan alzò la mano. «Un piano di azione?» suggerì.

«Fantastico» disse Jay. «Ma non sempre. Il piano d’azione potrebbe arrivare in un secondo momento. Cosa altro?»

«Raccomandazioni» gridò un ragazzo dal fondo.

«Esatto!» commentò Jay in tono trionfante. «Vi ho dato una specie di indizio prima, no? Allora, le raccomandazioni. Quello che state dicendo è: “le cose stanno in questo modo, e io vi raccomando che per costruire il brand, aumentare i profitti, tirare su di morale gli azionisti, comprate l’azienda x o entrate nel mercato y”. Nessuno vuole una relazione che dice: “sì, le cose vanno abbastanza bene, e avete diverse opzioni che a me sembrano tutte abbastanza buone”. Nessuno vi pagherà per questo. Vogliono i vostri consigli. Certo, dovrete inserire tutti i punti critici possibili: sareste dei pazzi a dire “comprate l’azienda x” senza elencare tutte le ipotesi che avete formulato e i requisiti necessari per tale mossa. Ma non tentennate. Troppi consulenti tentennano, a discapito di tutta la categoria. Alla Bell vogliamo persone che dicono quello che pensano, che non hanno paura di schierarsi. Okay?»

Jen si mise comoda e aggrottò la fronte. Lei non aveva certo paura di schierarsi. Peccato che sceglieva regolarmente la parte sbagliata.

«E non sarà sempre tutto definito» stava dicendo Jay. «Magari ci saranno due opzioni molto diverse sul tavolo, ed entrambe avranno forti vantaggi e una serie di svantaggi. Quindi, come fate a scegliere fra le due? Be’, le soppesate. Valutate i rischi. Pensate alle persone coinvolte e considerate quale opzione gestiranno meglio – a volte potrete scegliere l’opzione più rischiosa, perché pensate che sia più adatta al top team del momento. E di tanto in tanto, quando non avrete niente che vi aiuti a prendere una decisione, vi dovrete guardare dentro per capire cosa vi suggerisce l’istinto. Non è un sistema particolarmente scientifico, ma l’istinto è potente, non va ignorato.»

Jen trasse un profondo respiro. Il suo istinto non poteva essere più chiaro. Adesso doveva semplicemente fare quello che le suggeriva.

Alle due in punto, Jen arrivò nell’ufficio di suo padre.

«Jen» l’accolse George mentre lei varcava la soglia, e si scambiarono un’occhiata guardinga.

«Vuoi accomodarti?» le chiese. Jen ci pensò un attimo, tentando di capire se si sarebbe sentita più a suo agio in piedi o seduta, e alla fine accettò l’invito di suo padre.

«Grazie per il portatile e il cellulare. E scusa se non ho potuto esserci di persona… avevo… be’ avevo alcune faccende da sbrigare. Immagino che tu sia qui per l’articolo uscito sul giornale» continuò George in tono spiccio. «E devo ammettere che sono rimasto deluso.»

Jen lo guardò con aria arcigna. «Basta cazzate» disse, ma se ne pentì subito, appena si rese conto di non essere Bruce Willis e di essere piuttosto ridicola a tentare di impersonare la dura.

George inarcò un sopracciglio.

«La soffiata al giornale non è opera mia, anche se mi sarebbe piaciuto. Sono qui perché ho visto il foglio di calcolo» si affrettò a precisare. «Quello con i bonifici verso l’Indonesia. Mi avevi giurato che non avevi niente a che fare con quella storia…»

Nel suo tono di voce cominciava a trapelare un po’ di stress ed emozione.

«Hai guardato i miei file personali?» domandò George, con voce fredda.

«Sì. Non di proposito, ma li ho visti comunque. Stavo facendo ricerche sul web e ho usato il tuo computer, e c’era questo file che pensavo di aver scaricato io da internet…» Jen si fermò. Perché si difendeva? Non era lei a essere implicata in un giro di corruzione. «Non importa come l’ho trovato» riprese decisa. «Quello che importa è che tu sei un bugiardo, un traditore e… come hai potuto? Come hai potuto aiutare quel bastardo di Malcolm Bray a vincere quegli appalti?»

George la fissò un attimo, poi distolse lo sguardo. «Jen, ti ricordi quello che ti ho detto sulla fiducia? Su quanto sia importante fidarsi delle persone?»

Jen annuì in silenzio.

«Be’, credo che dovresti fidarti di me in questa circostanza, no?»

Jen corrugò la fronte. «Perché dovrei? Cosa hai fatto per conquistare la mia fiducia? So quello che ho visto…»

«Hai visto un foglio di calcolo, Jen, e non hai idea di quello che significhi. Credo che sarebbe meglio per tutti se tu lasciassi perdere.»

«Tutto qui?» ribatté indignata. «Non intendi dirmi cosa sta succedendo? Non intendi scusarti? Ti aspetti semplicemente che me ne vada e tenga la bocca chiusa?»

«È esattamente quello che mi aspetto. Ora, c’è qualcos’altro?» Nel suo tono traspariva una specie di avvertimento e Jen si rese conto che la rabbia le era montata dentro.

Fissò suo padre, scrutò i suoi impenetrabili occhi azzurri alla ricerca di una traccia di qualcosa – senso di colpa, forse – ma non trovò niente.

«No» rispose dopo un po’. «Credo che sia tutto.»

Jen se ne andò dall’ufficio di suo padre non sapendo se cancellare o meno il punto numero due dal suo elenco. Si era aspettata tante cose – un litigio, minacce, suppliche – ma non una frase banale ed evasiva come «dovresti fidarti di me». E fra l’altro, detta in un tono condiscendente, per tenerla alla larga dai suoi affari.

Be’, che cazzo! Non aveva intenzione di starsene buona e zitta più di quanto suo padre avesse intenzione di convincerla che i soldi verso l’Indonesia non erano tangenti. Jen ci avrebbe dato sotto con il suo piano d’azione. George si sarebbe pentito di averla liquidata in quel modo, pensò amareggiata. George Bell avrebbe scoperto con chi aveva a che fare.

Tirò fuori il cellulare e chiamò sua madre. Harriet avrebbe dovuto stare a sentirla stavolta, doveva sapere la verità. Non solo su George, ma anche su Paul e il suo incontro segreto con Malcolm Bray.

«Pronto? Sono la segretaria di Harriet.»

Era Hannah. «Ciao, Hannah, sono Jen. Ho bisogno di parlare con mamma.»

«È impossibile, temo. È in riunione, e nessuno può disturbarla.»

«Che tipo di riunione? Con chi?»

Ci fu un momento di silenzio. «A dire il vero, è un po’ strano, Jen. Questo tizio è apparso con lei un’ora fa e da allora sono chiusi nel suo ufficio. E Geoffrey dice che lo conosce. Dice che si chiama Malcolm Braid o qualcosa di simile. Il povero Geoffrey continua a gironzolare intorno alla porta nella speranza che tua madre lo inviti a entrare, ma lei lo ignora…»

Jen trasse un respiro affannato. «Sei sicura? È con Malcolm Bray?»

«Senti, non ne ho idea. Ma è quello che ha detto Geoffrey. Vuoi parlare con lui?»

«No» rispose Jen in tono vago, la mente che le frullava all’impazzata. Quale ragione plausibile aveva sua madre per incontrare Malcolm Bray? Cosa stava succedendo? «No. Ma Paul Song è lì con lei?»

«Paul Song? No, non l’ho visto tutto il giorno.»

«Bene» disse Jen decisa. «Arrivo.»

«Come credi. Ciao, Jen.»

Riattaccò il telefono e sentì che qualcuno alle sue spalle le puntava gli occhi addosso. Si girò e vide suo padre, che era uscito dall’ufficio e la guardava accigliato.

«Cosa c’è adesso?» domandò Jen, stizzita.

«Jen, mi dispiace. Volevo… mi sbaglio, o ti ho appena sentito nominare Malcolm Bray?»

Jen guardò suo padre nauseata. «Sì, esatto. È in riunione con la mamma per qualche strana ragione. Stai a sentire, se viene coinvolta in qualcosa per colpa tua, non ti perdonerò mai.»

«Dobbiamo andare là» disse George con un tono pressante.

«Cosa significa “dobbiamo”?» domandò Jen. «Credo che tu abbia già fatto abbastanza.»

«Jen, è importante. Prendiamo la mia macchina, se per te va bene.»

Jen corrugò la fronte. Non avevo mai visto suo padre così agitato… ma cosa c’era che lo preoccupava? Era preoccupato per Harriet o, più probabilmente, era preoccupato che Malcolm potesse dirle più di quanto George avrebbe voluto? In entrambi i casi, c’era un solo modo per scoprirlo.

«Bene» disse Jen in tono arrogante. «Ma credo che sia meglio darci una mossa, no?»