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Jen si guardò sconcertata allo specchio. Era venerdì sera e sarebbe dovuta andare a ballare. Ma, invece di uscire a fare baldoria, era costretta a mettersi un abito ridicolo per partecipare a una cena insieme a sua madre, Paul Song e un mucchio di colleghi della Green Futures. Si lamentò. Quando aveva lasciato Gavin e si era trasferita di nuovo a Londra, non aveva proprio immaginato che la sua vita sarebbe stata quella.

Si girò per guardare come le stava dietro. Indossava un vestito che aveva da quasi otto anni – di solito non aveva molte occasioni per sfoggiare abiti da cocktail, e neanche per sogno avrebbe speso il denaro guadagnato col sudore della fronte per un capo che probabilmente non avrebbe più portato – e che, se un tempo esaltava le sue curve, adesso sembrava le rimanesse attaccato in tutti i punti sbagliati. Era ingrassata, si domandò, o si era ristretto in lavanderia?

Non volendo accettare la risposta più probabile, Jen tirò immediatamente fuori una vecchia pashmina, se la strinse intorno e infilò le scarpe con i tacchi più alti che riuscì a trovare. Non era il massimo, ma poteva andare. Non si trattava di una vera e propria uscita in fondo, era una cena di lavoro. Non era molto importante l’aspetto.

Afferrò la borsa, scese in strada e, agitando un braccio, fermò un taxi.

«Che bel vestito!» Harriet sorrise con aria beata a Jen e si girò subito verso Paul. «Non è un bel vestito?»

«Sei incantevole!» concordò Paul, e Jen si costrinse a sorridere. Era un abito orribile, ma non gliene importava niente o quasi. La cena si svolgeva al Lanesborough Hotel, in Hyde Park Corner, e sembrava ci fosse metà delle persone della Londra bene, almeno quelle con i capelli grigi, notò Jen. Ovunque avvertiva odore di cipria e di profumi dolciastri.

Nel tentativo di dimenticare che proprio in quel momento avrebbe dovuto trovarsi in un locale come si deve con gente giovane, si guardò intorno. Era per una buona causa, si disse, anche se sapeva che Gavin si sarebbe sbellicato dalle risate se l’avesse vista adesso. «Sì, esatto, mettersi un tubino nero aiuterà davvero il pianeta» le avrebbe detto in tono sarcastico. «Un mucchio di vecchi idioti che mangiano a go-go? Ma ti pvego…»

E avrebbe avuto ragione lui, pensò Jen, sospirando. Eppure, dato che ormai c’era, tanto valeva che ne traesse il meglio.

Vide un cameriere che camminava con un vassoio di bicchieri di champagne e ne prese uno ringraziando.

«Jen!»

Fece un gran sorriso. Era Tim, il direttore finanziario della Green Futures. «Ciao, Tim, come va?»

Lui sorrise imbarazzato. Evidentemente, anche i suoi pantaloni avevano qualche anno: la pancia era strizzata dalla cintura, mentre il collo gli traboccava dallo sparato. Alla sua vista, Jen si preoccupò di quanto fosse aderente il suo vestito e si strinse addosso la pashmina.

«Oh, sai, non posso lamentarmi» rispose lui in tono affabile. «Non sapevo che saresti venuta stasera. D’altro canto, non ti ho visto molto in giro negli ultimi tempi. Hai preso un permesso per malattia?»

Jen scrollò le spalle imbarazzata. Evidentemente Harriet non aveva detto a nessuno dove era finita sua figlia, il che era positivo, ma significava anche dover inventare una scusa per la sua sparizione. «No, sai, varie faccende da sbrigare» rispose con aria vaga. «E solo lunedì ho saputo che sarei venuta qui, ma sai com’è fatta mia madre.»

Tim fece un gran sorriso. «Altroché! È due settimane che cerco di inchiodarla per parlare dei nostri conti, ma lei è sempre super impegnata e non riesce a trovare un attimo per me. Se però parli di una cena di beneficenza, all’improvviso ha un sacco di tempo a disposizione…»

Si girarono entrambi verso Harriet, che teneva banco e incantava con le sue storie un gruppo di persone. Incrociò lo sguardo di Jen e le fece cenno di raggiungerla, ma la figlia scosse la testa, limitandosi a salutare da lontano.

«Non ti unisci a sua signoria?» domandò Tim, inarcando un sopracciglio.

Jen bevve un sorso di champagne. «A volte sembra che mia madre sia convinta che io abbia dodici anni» rispose con un mezzo sorriso. «Se vado lì, ho paura che cominci a raccontare come sono stata brava alla maturità o qualcosa del genere…»

Tim chiamò un cameriere che stava servendo piccoli würstel e bliny, ne prese un paio di ciascuno e li divorò in due secondi.

«Avresti preferito non essere venuta a lavorare per lei, allora?» chiese proseguendo la conversazione.

Jen ci pensò su un attimo. «Non lo so, in effetti. Sapevo che non sarebbe stato l’ideale, ma era bello avere un posto in cui andare.»

Tim annuì. «Be’, se riesci a parlare un attimo con lei, falle sapere che ci sono problemi con i flussi di cassa, okay? Ho provato a mandarle delle mail, ma sospetto che le cancelli non appena vede il mio nome.»

Jen fece un gran sorriso. «Sono sicura che la situazione non sia così tragica, vero?»

Tim inarcò le sopracciglia. «Tua madre» disse, interrompendosi per bere un sorso di champagne, «è la migliore PR al mondo, la miglior venditrice del pianeta e una fantastica affabulatrice. Ma quando si tratta di cifre… Be’, in ogni caso, dille che deve mettersi a sedere a un tavolo con me, così le spiego, okay?»

Jen annuì corrugando lievemente la fronte, mentre Tim partiva alla ricerca di altro cibo. Quando suonò il gong e i presenti furono invitati ad accomodarsi al proprio posto, Jen trasalì. Fece un salto davanti al tabellone e si sentì sprofondare il cuore quando vide che era seduta fra Paul Song e Geoffrey, uno dei consulenti della Green Futures, noto fra i colleghi dell’ufficio come “l’ineffabile Barbafolta”.

«Che splendido vestito!» si complimentò Geoffrey in tono allegro, mentre lei si sedeva. «Mia madre ne ha uno identico.»

Jen abbozzò un sorriso. Bene o male, si disse, sarebbe stata una serata lunghissima.

«Quindi poi gli ho chiesto se stavano pensando di assumere in zona. E sai cosa mi hanno risposto?»

Jen notò che Geoffrey aveva smesso di parlare e si rese conto che doveva averle posto una domanda. Sorrise, nella speranza che lui continuasse a parlare. La cena era stata un’idea assolutamente ridicola e lei era arrabbiata con se stessa per essersi fatta convincere a partecipare. Non avrebbe scoperto niente sulla Bell, né sulla Axiom, né su nient’altro di interessante. E per di più le sembrava di essere una befana con quel vestito indosso; e inoltre si sentiva a disagio con se stessa perché aveva lasciato che la vanità diventasse una questione per lei fondamentale. Il suo aspetto non avrebbe dovuto essere tanto importante, lo sapeva. Invece, in un modo o nell’altro, ormai lo era.

«Allora, lo sai?»

“Cazzo! Qual era la domanda?” si chiese disperata. Si scervellò, tentando di ricordarsi di cosa diavolo avesse blaterato Geoffrey nelle ultime due ore, o comunque per tutto il tempo che avevano impiegato per mangiare tre portate.

«Scommetto che me lo dirai tu» se ne tirò fuori infine, e fu sollevata quando vide comparire un sorriso compiaciuto sul viso del suo interlocutore.

«Hanno risposto di no!» disse Geoffrey con aria trionfante. «E proprio così, si sono accorti dove stavano sbagliando. Non smettevano di ringraziarmi dopo, naturalmente, ma io gli ho detto di non ringraziare me, ma se stessi per aver avuto la lungimiranza di…»

«Sai cosa? Vado a… prendermi un drink» lo interruppe Jen con un sorrisetto. «Ti… ti porto qualcosa?»

Geoffrey scosse la testa. «Non voglio bere troppo durante la settimana!» disse con aria complice.

«È venerdì» sottolineò Jen.

«Fa lo stesso…»

Jen scrollò le spalle e si diresse verso il bar, sollevata di sottrarsi alle incessanti chiacchiere di Geoffrey. Non era una cattiva persona, lo sapeva. E, in effetti, le stava simpatico in fondo in fondo. Bastava però che non rimanesse nella stessa stanza con lei troppo a lungo.

«Un vodka tonic, per favore» chiese Jen, quando un barman si voltò verso di lei. Poi, con il bicchiere in mano, si appollaiò su uno sgabello e si girò a osservare gli altri commensali. Erano una ventina di tavoli, ciascuno con dodici persone, ovverosia… Jen corrugò la fronte mentre faceva un rapido calcolo… duecentoquaranta persone. E almeno un tavolo era occupato dai consulenti della Bell. Ma quale?

Si mise a fissare davanti a sé, domandandosi per la milionesima volta quella sera cosa avrebbe fatto se fosse uscita con Angel. O con chiunque altro avesse scelto di trascorrere il proprio tempo.

«Allora lei gli dice che non lo vuole più vedere perché da un anno lei lo tradisce con il suo migliore amico.»

«No!»

Due uomini si erano avvicinati al bancone e stavano parlando in tono animato. Jen lanciò una rapida occhiata prima di tornare al suo drink.

«Sì. E lui è lì in mutande e la guarda, e… scusami.»

Jen sentì squillare un cellulare. Il tizio che parlava prese il telefono e lo avvicinò all’orecchio.

«Signor Bell. Sì, sono qui adesso. No, non proprio. Stiamo… sa, facendo pubbliche relazioni… Perfetto. Sì, sì. Okay, allora. Arrivederci.»

Jen si irrigidì e strinse il bicchiere. Dovevano essere i consulenti della Bell. Ed erano proprio lì accanto a lei! Cercò di nascondere il viso lasciando cadere qualche ciocca e tentò di avvicinarsi un po’, continuando a fissare decisa davanti a sé.

«Okay, e così lui va a trovare quella persona» riprese l’uomo, rimettendo il cellulare in tasca.

«Va a trovare il suo amico? Sul serio?»

«Sul serio. Decide di chiarire la faccenda con lui.»

«E c’è anche sua moglie?»

«Sì. Ma non con l’amico. Lei è con la moglie dell’amico. La sua ragazza.»

«No!»

Jen stralunò gli occhi. E così, niente più speranze di scoprire qualcosa di utile, pensò, dato che non nutriva il minimo interesse per il tipo in mutande.

«Non scherzo. Così arriva all’improvviso con la sua Mercedes. Chiude a chiave la macchina. Il portone di casa del suo amico si apre, e lui sobbalza. Insomma, poveretto, è un fascio di nervi. Gli cadono le chiavi; si piega per raccoglierle, ma sono finite nel tombino.»

«Nel tombino?»

«Lo giuro.»

«Ed è sempre in mutande?»

«Esatto. Senti, devo andare in bagno. Tu prendi i bicchieri, e io torno fra un attimo.»

«Vengo con te. Volevo chiederti di quella faccenda della Axiom, fra parentesi.»

Gli occhi di Jen sfrecciarono verso i due uomini, e poi di nuovo sul suo bicchiere. La Axiom? Questa doveva sentirla.

«Oh, già. Sì, un maledetto incubo. Dov’è la toilette?»

Aveva rivolto la domanda al barman, che gli indicò l’altro lato della sala. Mentre i due uomini si allontanavano, Jen si guardò intorno con aria furtiva, scese dallo sgabello e li seguì fuori dalla grande sala lungo un corridoio. Li osservò mentre entravano nella toilette e poi schiuse appena la porta, per ascoltare cosa stessero dicendo.

«E quindi, lui ha perso le chiavi della macchina…»

Jen stralunò gli occhi. “E la Axiom?” avrebbe voluto chiedere. “Chi se ne frega del tizio in mutande.”

«…e alza gli occhi e lì davanti a lui c’è…»

«Salve!»

Jen si guardò intorno, spaventata. Proprio dietro di lei c’era qualcuno che evidentemente voleva entrare nella toilette degli uomini, mentre lei gli bloccava l’accesso. L’uomo la guardava incuriosito e Jen si domandò da quanto tempo si trovasse lì.

«Salve!» rispose Jen, esitante. Sapeva che avrebbe dovuto spostarsi, ma con lui così vicino non era molto facile: non poteva entrare nella toilette degli uomini, ma non poteva neanche più indietreggiare.

«È… ehm, è il comitato di accoglienza?» domandò l’uomo, con un mezzo sorriso. Lei arrossì. Non stava facendo una bellissima figura, si rese conto. Era proprio sulla soglia della toilette degli uomini e, come se non bastasse, aveva la testa incollata alla porta.

Si girò per guardarlo e si fece piccola. Ovviamente, era un uomo splendido. Se non fosse stata in un atteggiamento imbarazzante e avesse indossato un abito che le stava bene, probabilmente a beccarla lì sarebbe stato uno dei vecchi strambi che erano di là.

«Scusi. Stavo solo… ehm… cercando una persona» tagliò corto. Si strinse la pashmina e per poco non gli versò addosso il drink.

«Posso aiutarla?»

«No!» rispose Jen troppo alla svelta. «Volevo dire, grazie, ma non importa.»

Lui continuava a osservarla incuriosito e Jen pensò che avrebbe fatto meglio a spostarsi per farlo passare. Altrimenti, l’avrebbe davvero giudicata strana.

«Scusi» ripeté Jen, muovendosi troppo velocemente e finendo con la faccia infilata sotto la sua ascella. Arretrò di nuovo e nel farlo quasi strofinò la faccia contro la sua, sempre più paonazza.

L’uomo incrociò il suo sguardo e gli scintillarono gli occhi. E proprio quando Jen pensava che la situazione non potesse peggiorare ulteriormente, vide Geoffrey camminare lungo il corridoio, le sue scarpe marroni sformate così stonate con lo smoking da risultare quasi comiche.

«Ciao, Jennifer» la salutò Geoffrey, evidentemente senza fare assolutamente caso a quanto fosse strano trovarla sulla soglia della toilette degli uomini aggrovigliata con un estraneo. «Ti stavo cercando al bar, guarda caso.» Jen sentì il cuore sprofondare, mentre l’estraneo subito si spostava, consentendole di liberarsi.

«Bene, a quanto pare ha trovato la persona che cercava» disse l’uomo e, con un mezzo sorriso, scomparve nella toilette, accompagnato dallo sguardo di Jen. Lei poi si girò verso Geoffrey, che rideva come un pazzo.

«Mi cercavi?» le domandò allegro. «Be’, c’è un po’ di confusione! Sta a sentire, torniamo al tavolo, okay? A meno che ovviamente tu non voglia stare nei paraggi della toilette degli uomini.»

Rise della battuta e di rimando Jen sorrise a malincuore. «Certo che no» rispose poco entusiasta. «E perché mai dovrei?»

Jen tornò al tavolo, accompagnata da Geoffrey, e si accasciò sulla sedia. Sarebbe passata alla storia come la peggior serata di sempre, pensò sconfortata, fissando il suo vodka tonic e bevendone un sorso. Aveva rovinato tutto: si era lasciata sfuggire la conversazione sulla Axiom, si era messa in una situazione imbarazzante davanti all’unico uomo bello tra tutti i maschi presenti e adesso era tornata al punto di partenza, accanto a Geoffrey.

«Tutto a posto?»

Jen sollevò gli occhi e vide che Paul la fissava preoccupato. “Ci mancava solo questa” commentò sospirando. Qualcuno che mi dice che spostando in un certo modo uno specchio nel mio appartamento, all’improvviso tutto comincerà ad andare per il verso giusto.”

«Sto bene» gli rispose in tono educato. «È solo che, sai, sono un po’ stanca.»

«Magari hai bisogno di qualcuno con cui parlare» disse lui.

Lo guardò sospettosa. «Grazie, ma sto bene, davvero. Dovevo uscire con i miei amici stasera, si dà il caso.»

Paul annuì con aria solidale. «Ma è bello che tu sostenga tua madre, no?»

«Mi sa di sì.» Scrollò le spalle, sconsolata.

Paul aggrottò la fronte e per un attimo Jen pensò che volesse litigare con lei, dirle che non era abbastanza di sostegno, ma poi notò che aveva infilato una mano in tasca per tirarne fuori un cercapersone. Paul sorrise dispiaciuto, chinò la testa e si alzò.

«Ti prego di scusarmi» disse, e Jen contraccambiò il sorriso.

«Certo» rispose in tono vago. «Figurati…»

Geoffrey tentò di incrociare lo sguardo di Jen, ma lei distolse rapidamente gli occhi e scrutò la sala per vedere se riusciva a scorgere i consulenti della Bell. O il tizio della toilette. Se fosse stata del tutto onesta con se stessa, probabilmente si sarebbe detta che le interessava più lui che i consulenti della Bell, ma non lo avrebbe mai ammesso.

In ogni caso, non era importante perché non c’era nessuno di loro. Posò gli occhi su ogni singolo tavolo, ma sembravano scomparsi.

Mentre tornava di nuovo indietro con lo sguardo, però, all’improvviso lo vide. Mister Bello si dirigeva verso l’uscita e lei si ritrovò a combattere contro il desiderio irresistibile di seguirlo.

“Non è l’idea migliore” si disse molto seriamente, senza riuscire a staccargli gli occhi dalla schiena. “Penserà che sia una tipa strana che bazzica le toilette degli uomini.”

Si costrinse a riportare l’attenzione al tavolo. Geoffrey le sorrise. «Jen, stavo raccontando a Hannah di un nuovo tipo di carta riciclata che un’azienda con cui collaboriamo ha realizzato. Lo sapevi che ci sono quindici diversi modi di manipolare il colore per…»

«Faccio un salto in bagno, scusate» si affrettò a dire, alzandosi prima di cambiare idea. Sfrecciando nella sala, si destreggiò fra i tavoli, sgattaiolando fra una sedia e l’altra per guadagnare l’uscita, ma, una volta fuori, l’uomo era sparito.

«Tipico» borbottò fra sé, e si appoggiò al corrimano delle scale in pietra che conducevano alla strada, guardando a destra e a sinistra per vedere se riusciva a scorgerlo. Non che fosse importante. Probabilmente era meglio che non ci fosse. Cosa avrebbe mai potuto dirgli, nel caso? Ma per lo meno era uscita da quell’orribile festa.

L’aria era fresca e Jen si strinse intorno la pashmina, ascoltando il traffico di Hyde Park Corner e domandandosi se fosse davvero necessario tornare dentro. Avrebbe potuto simulare un mal di testa. Scusarsi il giorno dopo per non aver salutato…

Notò che il portiere la osservava incuriosito e si girò per appoggiare i gomiti sul corrimano, mentre cercava di decidere se l’avrebbe fatta franca andandosene in quel momento. Era piuttosto tardi, in fondo. E, dato che non era riuscita a sentire una sola parola della conversazione dei consulenti della Bell sulla Axiom, non aveva molto senso rimanere.

Fece un profondo respiro, godendo di quell’inerzia. E poi notò qualcosa. O piuttosto, qualcuno. Un uomo, giù in basso, che parlava in tono animato. Era un litigio fra innamorati? O una lite fra amici?

Si concentrò per distinguere le sagome e a quel punto sgranò gli occhi. L’uomo che aveva individuato era Paul Song. Ma ce n’era anche un altro. “Magari non è contento dei cristalli scelti da Paul” si disse Jen. “Anche se non sembra il tipo appassionato di cristalli.”

Vide che Paul passava una lettera, o così pareva, all’uomo più anziano, dopo di che i due si separarono. Questo significava che Paul sarebbe tornato dentro, si rese conto Jen, e che sarebbe stata costretta a seguirlo.

Sorridendo al portiere, Jen si precipitò per le scale, girò l’angolo e scomparve nella stazione della metro di Hyde Park Corner.