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«Davvero, Jen, non dovresti tenere le spalle così molli. Sinceramente, finirai per trattenere troppa tensione nella parte alta della schiena. Guarda, fai questo esercizio di stretching con me.»

Jen storse la bocca, mentre la sua migliore amica, Angel, contorceva abilmente il corpo, compiendo un movimento del braccio che lei non poteva neanche sperare di imitare. Angel non aveva problemi, pensò Jen, mentre valutava la possibilità di emularla, ma poi decise che non era il caso; l’amica praticava yoga da quando aveva più o meno due anni. Sua madre, che era indiana, le aveva insegnato la posizione del cane a testa in giù prima ancora che la figlia imparasse a camminare.

Jen bevve un sorso di caffè e allontanò i giornali della domenica che aveva davanti. «Sono nata con le spalle molli» disse con un sorriso sarcastico, senza essere sicurissima di cosa volesse dire Angel con “molli”, ma presupponendo che fosse il suo modo di dirle che avrebbe dovuto stare seduta dritta. «Fa parte della mia eredità anglosassone.»

Angel fece un gran sorriso. «Vuoi dire, tipo l’anello mancante?» domandò in tono scherzoso. «Voi inglesi avete imparato a stare eretti dopo tutti gli altri?»

Angel sedeva sempre dritta. Era una di quelle persone dotate di forza e grazia, di una bella pelle e occhi luminosi, ed era capace di rimanere seduta nella posizione del loto per ore. Era così che guardava la televisione, tesa e rilassata al tempo stesso.

«Allora, come va con la faccenda dello yoga?» le domandò. Angel aveva da poco cominciato a insegnarlo in una palestra del quartiere dietro l’angolo.

«Benissimo. Insomma, sai, okay. Ci vorrà un po’ perché arrivino gli allievi, no? Devo aspettare che si sparga la voce. Ma è meraviglioso. Dovresti farci un salto.»

«Lo farò, giuro» rispose Jen, bevendo un altro sorso di caffè e guardando con aria colpevole la tisana di Angel. «Solo che non so se sono la persona adatta per lo yoga.»

«Non c’è nessuno che non sia adatto allo yoga!» esclamò Angel, e una piccola ruga si formò sulla sua fronte altrimenti liscia. «Per te è perfetto, Jen. Allungherà tutti i tuoi muscoli, rafforzerà la zona del tronco e farà pompare il sangue più…»

«Lo so, lo so». Le rivolse un gran sorriso. Le persone come Angel non capivano, si rese conto Jen, che non per tutti era semplice attorcigliare la gamba sinistra intorno al corpo, sollevare in aria il braccio destro e stare in piedi sulla punta delle dita del piede. Non che non le piacesse lo yoga. Ma ogni volta che provava a seguire un corso, si sentiva così goffa e imbranata che non osava tornare. «Però dovrei prima allenarmi. Magari dovrei prendere delle lezioni di pre-yoga» disse con un mezzo sorriso.

Angel scosse la testa. «Butti sempre tutto sul ridere» commentò seria.

«Cosa c’è di male?»

«È un modo di nascondersi! La vita non è sempre una passeggiata, sai. A volte è dolorosa. Affronti la sofferenza, e vai avanti.»

Jen corrugò la fronte. «Non sto soffrendo, Angel, te lo assicuro.»

L’amica scrollò le spalle. «Lo so. Sono solo un po’ incavolata. Ieri c’erano solo due persone alla mia lezione.»

«Ah.» Jen allungò una mano e le strinse un braccio. «Mi dispiace. Verranno presto, lo so.»

«Magari hanno tutti bisogno di lezioni di pre-yoga» commentò Angel con un lieve sospiro. «E tu cosa mi racconti? Com’è andata la cena di venerdì? Mi sei mancata mentre ballavo tutta la notte circondata da un sacco di uomini bellissimi.»

«Beata te» commentò Jen con un pizzico di invidia. «Nessuno di loro ha avuto il tuo numero di telefono?»

Angel inarcò le sopracciglia e scosse la testa. «Non erano poi così belli» rispose con un mezzo sorriso. Adorava l’idea di uscire e conoscere uomini, soprattutto non indiani, e l’idea di andare a ballare nel tipo di locale che avrebbe fatto strillare per l’indignazione sua madre: negli ultimi cinque anni Angel aveva combattuto strenuamente la prospettiva di un matrimonio combinato. Ma era il massimo a cui si fosse mai spinta: a quanto ne sapeva Jen, non era neanche mai uscita con uno degli uomini che la seguiva nei bar e nei locali che frequentavano insieme.

«Allora, raccontami della cena» riprese Angel, cambiando abilmente discorso. Aveva gli occhi lucidi e Jen scosse la testa.

«Meglio di no» rispose, con aria cupa. «Non dovevo andarci, e lo sapevo.»

«Nessun bel ragazzo, quindi?» Sentendosi ancora responsabile dell’incontro tra Jen e Gavin e poi della loro rottura un paio di anni dopo, voleva a ogni costo che l’amica incontrasse qualcuno, e anche alla svelta. Jen spalancò gli occhi.

«No, ma non è il motivo per cui ci sono andata. Come una scema, ho pensato che avrei potuto scoprire qualcosa sulla Axiom. Che avrei avuto qualche opportunità.»

«Ah, già, la guerra contro tuo padre. Me ne ero scordata.»

Jen corrugò la fronte. «Non è la guerra contro mio padre. Sto cercando di scoprire l’origine di un giro di corruzione. È una cosa seria.»

«Un giro di corruzione in cui potrebbe essere coinvolto tuo padre.»

«E?» Jen si rese conto che si stava mettendo sulla difensiva.

«E pensi che, se scoprirai la verità, magari lui si accorgerà di te.»

Angel guardò Jen dritta negli occhi. E Jen si sentì in imbarazzo. “Per quale cavolo di motivo Angel non gira mai intorno alle cose?” si domandò Jen. Quasi sempre la gente era educata ed evasiva, e ti dava ragione, pur sapendo che raccontavi fesserie. Lei invece aveva l’abitudine di bypassare sempre qualsiasi cosa tu avessi detto per individuare l’unico punto che avevi intenzione di ignorare con tutta te stessa. Soltanto Jen poteva trovare l’unica amica al mondo che non te ne faceva mai passare una, anche a livello inconscio.

«No» disse, tentando di convincere più che altro se stessa. «Non c’entra niente.»

Angel diede una leggera scrollata di spalle. «Spero solo che tu sappia cosa stai facendo. Non voglio vederti soffrire, okay?»

Jen finì il suo caffè. «Certo che so quello che faccio. E non soffrirò» rispose con aria di sfida.

«Nel caso, potrai sempre scherzarci sopra, immagino» commentò Angel pensierosa. «Dài, passami il supplemento di moda. Voglio cambiare un po’ i capelli, ma non so bene come.»

La mattina dopo, una galvanizzata Jen si ritrovò in una stanzetta a fissare un uomo di poco più di quarant’anni che indossava i calzini sotto i sandali. Doveva sopravvivere a questo incontro con il suo tutor personale e a una lezione su qualche argomento noioso, dopo di che avrebbe dato inizio al suo spionaggio aziendale per davvero.

In un modo o nell’altro, il giorno prima Angel era riuscita a irritarla con quei commenti su suo padre. Jen non le aveva dato ragione, ovviamente. Angel aveva una teoria in base alla quale se una cosa ti turba, di solito c’è un nocciolo di verità che non vuoi ammettere o affrontare, ma Jen non le avrebbe mai e poi mai lasciato pensare che aveva colto nel segno. Invece era vero, e più ci pensava, più si intestardiva a voler dimostrare che tutta questa faccenda non aveva niente a che fare con suo padre. E nemmeno con Gavin.

Così, appena tornata dalla pausa pranzo, aveva compilato un elenco di tutte le cose da fare: scoprire dove si ritrovavano le persone a parlare, dove lavoravano le figure chiave, chi si occupava del rapporto Axiom. Adesso doveva solo darsi una mossa. Avrebbe dimostrato a tutti che faceva sul serio.

«Okay, quindi tu sei Jennifer Bellman. Giusto?»

Jen guardò l’uomo con impazienza. Non era affatto quello che si era immaginata. Era il primo incontro con il suo tutor personale e si era aspettata di trovare qualcuno in giacca e cravatta, qualcuno che avesse l’aria di un consulente della Bell, che l’avrebbe interrogata sulla strategia e l’analisi interna e le avrebbe posto domande sui risultati dei suoi compiti.

Invece, l’uomo davanti a lei aveva una lungha chioma arruffata, bisognosa di un bel taglio, e se ne stava seduto a gambe incrociate sulla sedia. “Chissà se fa yoga” pensò Jen oziosamente. “Forse gli potrebbero interessare le lezioni di Angel.”

«Fantastico. Bene, io sono Bill. Il titolo ufficiale è dottor Williams, ma puoi chiamarmi Bill, se per te va bene. Mi piace mantenere un’atmosfera informale, se capisci cosa voglio dire.»

Jen si rese conto che voleva una risposta, per cui annuì e per essere sicura aggiunse: «Sì, nessun problema». Stava diventando piuttosto brava a fingere di essere una studentessa dell’MBA, pensò fiduciosa. Magari l’anno successivo avrebbe potuto fingere di seguire un dottorato…

«Fantastico. Semplicemente fantastico. Allora, Jennifer. Cosa posso fare per te?»

Lo osservò di sghembo. Perché mai avrebbe dovuto essere in grado di fare qualcosa per lei? Quell’incontro non l’aveva mica chiesto lei. Era obbligatorio, tutto qui.

Forse avrebbe dovuto domandargli dell’avidità delle imprese, pensò con un mezzo sorriso. Avrebbe potuto chiedergli se sapeva che la sua preziosa azienda era implicata nello scandalo della corruzione in Indonesia.

Ma forse no.

«Niente. Voglio dire, sa, non ho idea di cosa debba fare un tutor, davvero» si azzardò a rispondere Jen dopo un attimo di silenzio. Bill sorrise.

«Di tutto un po’. Tranne fornirti droga!» le rispose scherzando. Lei abbozzò un sorriso.

«Vedi quella libreria?» domandò il tutor, indicando una fila di scaffali a muro. «Quei libri sono preziosissimi quando frequenti un MBA. E li puoi prendere in prestito da me senza dover andare in biblioteca. Ti farà risparmiare un sacco di tempo, credimi.»

Jen scrutò i libri. C’erano titoli tipo Dieci modi per migliorare te stesso e il tuo mondo oppure Come essere più efficiente e salvare il pianeta, ma si trovavano anche libri spaventosi tipo: Crescita economica: uno studio epistemologico e L’organizzazione strategica: come allineare i tuoi obiettivi per pilotare gli utili.

«Non credevo che la Bell Consulting fosse particolarmente interessata a migliorare il mondo» commentò in tono caustico Jen, scrutando i titoli.

Bill corrugò la fronte. «Oh, non ne sarei così sicuro. La responsabilità sociale d’impresa è importante di questi tempi.»

«Fa bene al marketing, no?» domandò Jen con aria dolce.

Bill inarcò le sopracciglia. «Immagino di sì, anche se si dà il caso che lo ritenga un po’ più importante». Fece di nuovo un gran sorriso. «Allora, ecco il tuo carico di lavoro» disse, spostandosi verso la scrivania e sedendosi sul bordo. «Sono un personal life coach da più di dieci anni» riprese «e ho una laurea in psicologia, sono un coach certificato e anche cintura nera di karate. Se cominci a sentirti sopraffatta, vieni da me. Se ti serve una proroga per una consegna, mi fai sapere e vedo se posso trovare una soluzione per te. Afferrato il busillis?»

Jen sorrise suo malgrado. Il busillis? Chi parlava più in quel modo?

«Se hai delle questioni personali di cui vuoi discutere, la porta è aperta» disse Bill, trovando il ritmo giusto. Aveva gli occhi scintillanti e sembrava che non si sarebbe fermato finché non avesse trovato qualcosa per accontentare Jen. «Se hai difficoltà con una lezione o una materia, vieni a parlarne con me. E quando avrai concluso il tuo MBA e troverai un posto di lavoro fantastico, mi porterai a bere qualche birra. Che te ne pare?»

Jen si rilassò e contraccambiò il sorriso. «Se invece trovo un lavoro orrendo, la birra me la offre lei?»

«Non succederà» rispose serio Bill. «Concentrati sui tuoi obiettivi e allinea la tua vita in base a loro, così arriverai dove vuoi arrivare.»

«Okay» si affrettò a rispondere Jen. Bill aveva ragione: doveva concentrarsi sui suoi obiettivi. Obiettivo numero uno: trovare le informazioni che le servivano per poter mollare quel cavolo di posto. Obiettivo numero due: capire cosa avrebbe fatto dopo. Fece una smorfia. Un obiettivo, per il momento, poteva bastare.

«E se non mi serve una proroga e non ho questioni personali in sospeso?» chiese con curiosità. «E se non ho alcun problema?»

Bill rimase perplesso. «Tutti hanno problemi» rispose, corrugando la fronte. «Se superi il master senza alcun problema, io perdo il lavoro. Ricordatelo.»

Jen lo guardò, e lui sbatté il pugno sulla scrivania.

«Scherzo! Ti prendo in giro! Niente problemi sarebbe fantastico. Semplicemente favoloso, sai?»

«Okay. Bene, grazie. Insomma, è bello sapere che lei c’è» rispose Jen nel modo più sincero possibile, e Bill scrollò le spalle in modo goffo.

«Faccio solo il mio lavoro» commentò con un gran sorriso. «Sentiti libera di passare in qualsiasi momento. Affare fatto?»

«Affare fatto» rispose Jen e si alzò. “Se solo sapesse” pensò, lasciando la stanza e rendendosi conto che era in ritardo per la lezione.

Jen vide la porta dell’ascensore che si apriva e si precipitò per entrare, allungando una mano per evitare che si chiudesse. Scrutò rapidamente le altre persone al suo interno ed entrò con un sorriso di sollievo stampato in faccia. Quando era arrivata alla Bell la settimana prima, era terrorizzata a prendere l’ascensore per paura di incontrare suo padre, ma da quando aveva scoperto che George Bell lasciava di rado l’ottavo piano in quell’unica mezza giornata alla settimana in cui veniva in ufficio era diventata più spavalda. Perfino blasé.

«Ringrazio Iddio.» Sospirò, ignorando le sopracciglia inarcate delle altre persone nell’ascensore, tre consulenti dall’aria seria. «Temevo di dover salire a piedi tre rampe di scale!»

La guardarono incuriositi prima di distogliere rapidamente lo sguardo. Jen si rese conto che aveva già visto uno di loro da qualche parte. Era uno dei tizi della cena di beneficenza.

«A ogni buon conto» stava dicendo a uno degli altri, un uomo più anziano «ci risiamo, con quei maledetti ambientalisti. La Milton Supermarkets si è vista respingere due licenze edilizie per colpa loro: hanno organizzato delle proteste e dei picchetti sugli alberi. È un incubo.»

Jen li osservò in silenzio, mentre il signore più anziano annuiva.

«Okay, Jack. Grazie per gli aggiornamenti. Tu cosa consigli?»

«Un ritardo di un paio di mesi. Non appena ricomincerà il freddo, la maggioranza di loro perderà l’entusiasmo. Gli studenti torneranno all’università. Sanno che stanno combattendo una battaglia persa in ogni caso. Se non ci entrerà la Milton, lo farà un’altra catena di supermercati.»

«E alla Milton sono contenti di aspettare?»

«Non proprio, no» disse il più giovane. «Ma non hanno alternativa.» Fece un sorrisetto compiaciuto, e Jen strinse le mani a pugno, sentendo arrivare il suo solito attacco di rabbia. Gli amici suoi e di Gavin stavano protestando contro la Milton. L’azienda continuava a costruire supermercati, e francamente il mondo non ne aveva più bisogno, a suo parere. Quello però non era il momento adatto per esprimere la sua opinione. “Non dire niente” si ripeteva con forza. “Fai finta di nulla.”

Invece, prima di riuscire a fermarsi, Jen aprì bocca.

«Scommetto che i contestatori non se ne andranno» si ritrovò a dire. All’interno dell’ascensore calò il silenzio e tutti si girarono a guardarla.

Il giovane la fissò perplesso. «Ehm, invece sì» ribatté in tono condiscendente. «Scusi, ci conosciamo?»

Jen abbassò gli occhi, imponendosi di stare zitta, poi sospirò e sollevò di nuovo lo sguardo. Era inutile, le era praticamente impossibile riuscire a mordersi la lingua se vedeva qualcosa di sbagliato o sentiva dire una cosa su cui non era d’accordo. Per questo motivo aveva fatto a botte a scuola, aveva chiuso due storie promettenti all’università e si era procurata la nomea di ragazza “difficile” al liceo. E adesso, se non stava attenta, l’avrebbero buttata fuori dalla Bell.

«No» rispose secca. «Ma se crede che un po’ di freddo scoraggi i manifestanti, secondo me si illude.» Il giovane la guardò con aria incredula.

“Okay, così non va bene” pensò, stizzita con se stessa, ma al tempo stesso piuttosto soddisfatta della reazione che aveva suscitato. “Quale parte di ‘tieni un profilo basso’ non ha afferrato bene il mio cervello?”

Il signore più anziano abbozzò un sorriso e guardò il giovane, come per dire “Non preoccuparti, non ne vale la pena”, e questo gesto fece arrabbiare Jen ancora di più. Ma l’uomo non aveva parlato per cui Jen doveva tenere la bocca chiusa, e così tutti e quattro rimasero nel più assoluto silenzio, finché al settimo piano la porta si aprì con un suono acuto, che segnalava a lei di scendere.

Fece un passo per uscire ma, mentre la porta dell’ascensore si stava chiudendo, sollevò le mani per bloccarla.

«Tanto perché lo sappiate» si affrettò a dire «potrebbe essere un’idea parlare con i manifestanti. Sono esseri umani, e se li trattaste con un briciolo di rispetto, dimostrando che non siete troppo arroganti o paranoici per discutere le vostre idee, be’, non si sa mai, potreste trovare una soluzione. Se loro chiedono uno spazio all’aperto, la Milton potrebbe offrirsi di comprare più terra del necessario e trasformare quella che resta in un parco giochi o un giardino. Magari potrebbero tentare di capire che insieme al latte e al pane a basso costo, alla gente piace anche avere uno spazio in cui correre.»

I quattro uomini la guardarono a bocca aperta, e Jen sorrise dolcemente. «Ma sono sicura che ci avete già pensato, vero?» aggiunse con una vena di sarcasmo non troppo velato. «Ma anche rinviare le cose e sperare semplicemente che i manifestanti si stanchino di protestare mi sembra un’ottima idea.»

E con queste parole arretrò e rimase a osservare la porta dell’ascensore che si chiudeva. Guardò l’orologio e mugugnò. “Non so proprio tenere la lingua a posto, maledizione” si rimbrottò. Ma non poté fare a meno di sorridere per l’espressione sulla faccia del giovane, che era rimasto a bocca aperta mentre la porta si chiudeva.

«Chi diavolo era?»

George alzò gli occhi sorpreso e guardò i due uomini che uscivano dall’ascensore. «Qualche problema, Jack?» domandò incuriosito.

«Una pazza che parlava dei manifestanti come se dovessimo invitarli a prendere un tè o qualcosa del genere» rispose Jack, gli occhi scintillanti di rabbia.

George rise. «Mi ricorda mia moglie. Anzi, la mia ex moglie. Dunque, hai gli appunti della riunione con la Axiom?»

Jack annuì e il consulente più anziano si fece avanti per salutare George.

«La situazione è un po’ più complicata di quello che pensavamo» disse pacato. «Ti aggiorno dopo, okay?»