1.
Lo stagno delle ninfee.
Monet
Ogni giorno alla stessa ora lei era lì.
Ogni giorno sedeva sulla panca di legno posizionata davanti a quel quadro e lo guardava.
Era uno sguardo strano. Intenso. Spaesato. Perso.
Ogni giorno alla stessa ora lei era lì. E lui aveva preso l'abitudine di osservarla.
Alla National Gallery passavano migliaia di persone. Artisti, gruppi di studenti, madri che accompagnavano i figli curiosi, coppiette felici, molti turisti. Johnathan sapeva esattamente a quale categoria apparteneva chi gli passava davanti. La donna elegante con il cappello a falda larga e la collana di perle, che si guardava intorno con aria annoiata? Era in realtà in attesa del suo giovane amante, artista squattrinato. Dal modo impetuoso con cui la abbracciava o la trascinava da una sala all'altra, si capiva che non voleva sfruttarla per le sue palesi ricchezze.
Il ragazzo seduto per terra, chino e assorto sull'album da disegno? Era in realtà un cuoco con la segreta passione per l'arte.
Era così che passava le giornate. In una calma quiete, osservava. Prendeva nota. Speculava. Distaccato dagli altri, seppur affascinato dalle loro vite. Aveva sempre avuto come dote naturale la capacità di osservare. Con gli anni e l'esperienza nel precedente lavoro, aveva affinato anche le sue capacità di deduzione. Non che come guardia al museo avesse avuto molte opportunità di utilizzare quelle competenze.
Centinaia di persone passavano nella sala degli Impressionisti. Eppure lui aveva notato lei.
Forse perché il primo giorno che l'aveva vista, era un giorno particolare. Il cinque dicembre. L'anniversario dell'incidente. Anche se erano passati già tre anni, non riusciva ancora a gestire se stesso, durante quell'unico giorno. I suoi sensi erano come sovraesposti. Ecco perché, solitamente, prendeva un giorno di ferie. Non era in grado di sostenere il caos del museo o delle persone. Quella volta però c'era stata una brutta epidemia di influenza. Molte guardie erano malate ed erano stati costretti a rifiutare la sua richiesta. Quindi era lì, il cinque dicembre. Una volta tanto non prestava attenzione alle persone, ma guardava i quadri. Guardava Lo stagno delle ninfee di Monet, desiderando di essere nel giardino giapponese di Giverny. Passeggiare in quel quadro impressionista gli avrebbe calmato i nervi.
Per una frazione di secondo aveva spostato lo sguardo sulla panca. Lei era lì, indossando la sua stessa espressione. Intensa, spaesata. Persa.
Aveva smesso di immaginare il giardino di Giverny, di pensare che era il cinque dicembre, di sperare che passasse in fretta. Aveva iniziato a guardare lei.
Il giorno dopo era di nuovo lì, alla stessa ora. Le dodici e trenta. Si chiedeva che lavoro facesse. Quella era forse la sua pausa pranzo? Perché rimaneva ferma a osservare sempre quel quadro? Perché aveva lo sguardo così perso?
Non riuscendo a leggere il suo comportamento, divenne ancora più curioso. Si ripeteva di smetterla, che non era educato fissare così qualcuno. Soprattutto una ragazza tanto bella. Anche se si rimproverava, non riusciva a smettere di prestarle attenzione. Si accorse quindi della differenza, quel giorno. Era nervosa e agitata. Si era appena seduta sulla panca, quando le era suonato il telefono. Aveva risposto trafelata, parlando in fitto francese. Strano, di solito non rispondeva. Si era alzata e se ne era andata di corsa.
Peccato. La sua visita era durata pochissimo, stavolta.
Vide che aveva dimenticato qualcosa. Il portafogli. Se lo rigirò cautamente tra le mani. Magari sarebbe tornata a prenderlo. Ma era ancora nell'edificio. Era sciocco aspettare che tornasse, quando poteva darglielo subito ed evitarle inutili ansie. Fece segno al collega di prendere il suo posto. Facendo una scorciatoia e si ritrovò all'ingresso. La individuò immediatamente tra la folla, i suoi lunghi capelli biondo oro erano come un faro.
La chiamò più volte: «Signorina! Signorina! Aspetti!»
Provò con il francese: «Signorina! Aspetti! Ha dimenticato il portafogli!»
Lei si fermò così improvvisamente che lui la travolse nella corsa. La prese in tempo, prima che cadessero entrambi. La lasciò andare e lei si voltò, sorpresa. I loro occhi si incontrarono per la prima volta.
***
Claire odiava il cinque dicembre. Lo odiava intensamente, anche se non avrebbe saputo esprimere bene in parole il suo odio. Forse in un dipinto sarebbe riuscita a mettere quella violenta emozione. Ma non prendeva in mano un pennello da tre anni. E non lo avrebbe fatto mai più.
Quel cinque dicembre, però, aveva deciso che avrebbe cambiato registro. Niente più insonnia e nervosismo. Niente più ansia. Avrebbe fatto qualcosa di diverso.
Sarebbe andata alla National Gallery nella pausa pranzo e avrebbe passeggiato, guardando quei meravigliosi capolavori. Si era detta che era il momento di tornare in contatto con il suo lato artistico, per quanto brutalmente ferito questo potesse essere.
Non aveva importanza, si disse. Avrebbe sconfitto l'esserino spaventato che era diventata.
E lo avrebbe fatto iniziando ad andare alla National Gallery alla pausa pranzo. Era a dieci minuti dalla Lawrence Alkin Gallery, dove lavorava. E ospitava diverse opere tra le più famose del mondo.
Ci avrebbe provato. Avrebbe provato ad entrare nella sala degli Impressionisti. Si rassicurò dicendo che non importava se quel primo giorno non ce l'avesse fatta, ma doveva fare almeno un tentativo. Aveva sorpreso se stessa, quel cinque dicembre. Non solo era riuscita ad entrare nella National Gallery, ma i suoi piedi l'avevano portata quasi inconsciamente fino a quel quadro.
Lo stagno delle ninfee di Monet. Era bellissimo. Si era ritrovata seduta a guardarlo in trance per un'ora. Poi il suo telefono aveva squillato, riportandola bruscamente alla realtà.
Ogni giorno i suoi piedi la trascinavano lì davanti. Quell'armonia di verde la chiamava. Sentiva le mani che le tremavano, ma non poteva fare a meno di restare incantata ad osservare.
Aveva passato diversi mesi in quel modo.
Il suo principale era abbastanza permissivo, ma si avvicinava un periodo importante per la galleria. Ecco perché era stata costretta a rispondere al telefono, anche se aveva odiato quell'interferenza nella sua ora di contemplazione.
Quando guardava Lo stagno le sembrava come di recuperare minuscoli pezzettini perduti della sua anima. Le sembrava ancora di essere in un tornado, a caccia di granelli di sabbia. Ma per la prima volta dopo tanto tempo le sembrava di riuscire finalmente a vedere quei granelli.
La telefonata arrabbiata dello scultore capriccioso di turno l'aveva fatta innervosire ancora di più.
Corse verso l'uscita, tastando nella borsa in cerca della sua Oyster Card, imprecando sottovoce.
Sentì un uomo chiamare qualcuno, non vi badò. Non trovava il portafogli.
«Signorina! Aspetti! Ha perso il portafogli!»
L'uomo parlava con lei. Era rimasta così sorpresa dal suo francese da fermarsi di scatto.
Era stata urtata e afferrata appena in tempo. Quando si era voltata aveva incontrato i suoi occhi scuri.
«Mi scusi, non volevo investirla.» La guardia si scusò.
Claire scosse lievemente la testa: «Mi scusi lei, non aveva capito stava cercando me.» Abbassò lo sguardo sulla mano che le porgeva il portafoglio. Poi lesse il suo nome sul cartellino. Gli disse in inglese: «La ringrazio, signor Smith. È stato davvero gentile.»
Lui le sorrise, scrollando le spalle. Notò quel sorriso. Era strano. Non era pieno, anche se sincero. Sembrava sofferto. Come se le labbra non si piegassero verso l'alto da molto tempo. Rimase a fissarlo, sorpresa. Perché dopo tre anni, improvviso come un acquazzone estivo, le era tornato l'impulso di disegnare. Sentiva la mano che le tremava, come se avesse una volontà propria.
«Signorina, si sente bene?»
«Sì, io … Mi scusi …» Prese il portafogli. «Grazie ancora. Arrivederci.»
«A domani.»
Lei lo guardò sorpresa, mentre lui si allontanava. Come faceva a sapere che sarebbe tornata anche il giorno dopo?
La curiosità, strana sensazione che non provava da un po' di tempo, la accompagnò per il resto della giornata. Come se uno strano formicolio le solleticasse la punta dei piedi e delle mani.
Il giorno dopo, alle dodici e trenta, era di nuovo nella sala degli Impressionisti, davanti a Lo stagno .
La curiosità la spinse a guardarsi intorno. Così lo vide, in piedi in un angolo. Controllava le persone, ma si soffermava in particolar modo su alcuni, intento. Come se stesse leggendo un libro. I loro occhi si incontrarono ancora. Gli sorrise. Le rispose con un cenno di saluto della testa. Il suo strano sorriso spiegazzato non si vedeva. Si scoprì a lanciargli occhiate in tralice. E vide che la guardava spesso. Come se cercasse di leggere anche lei, ma non ci riuscisse. Che strano. Non si riteneva particolarmente appariscente.
Cosa aveva scatenato il suo interesse?
C'erano voluti un altro paio di giorni perché trovasse il coraggio di salutarlo, passandogli accanto quando entrava e quando usciva. Si era accorta che lo stato mentale di assoluta contemplazione l'aveva abbandonata. Più volte si trovava a rubare con lo sguardo immagini del signor Smith.
Era molto più alto di lei. Aveva gli occhi neri e i capelli dello stesso colore. Osservava la sua postura, il modo in cui camminava per la sala, come si rivolgeva alle persone che gli chiedevano informazioni. Misurava mentalmente le proporzioni del suo corpo. Quando capì che la sua mente era in piena fase di studio del soggetto, rimase pietrificata. Ancora quel desiderio di disegnare. Cercò di impedirlo in tutti i modi.
Poi qualche settimana dopo si ritrovò ad aver in mano un blocco da disegno e una matita. Quasi senza pensare iniziò a schizzare dei bozzetti. Suonò nuovamente il telefono, a distoglierla dalla concentrazione simile alla trance tipica di quando disegnava.
Alzò lo sguardo sorpresa, nel vedere che era passata un'ora e mezza. Ed era in ritardo al lavoro.
Aveva disegnato per la prima volta in tre anni. Scappò via, salutando al volo l'oggetto delle sue speculazioni. Non aveva visto che un foglio le era scivolato dal blocco degli appunti.
***
Vedendola correre via, John sentiva la sua faccia tirare in un sorriso. Impedì ai muscoli di muoversi.  Non sorrideva così spesso da molto tempo. Sia lui che la sua faccia si erano ormai disabituati a quel movimento.
Da qualche giorno, anche stando seduta sulla stessa panca, aveva smesso di guardare il quadro. Disegnava. Come aveva fatto a non capirlo prima? Le sue dita sottili avrebbero potuto essere un indizio. Eppure non vi erano i tipici calli dei pittori o degli artisti. Che non si dedicasse a quell'attività da parecchio tempo?
La ragazza era una vera Cenerentola. Le era caduto nuovamente qualcosa. Un foglio dal suo quaderno. Si chinò a raccoglierlo e rimase spiazzato. Era lui. Uno schizzo del suo volto di profilo. Non sapeva cosa pensare. Anche lei aveva iniziato ad osservarlo, senza che se ne accorgesse.
Il giorno dopo lei era nuovamente sulla panca, le mani piegate a stringere il blocco di appunti e la matita. Sembrava combattuta. Le si avvicinò e le si sedette vicino. Lo guardò sorpresa.
«E' un quadro bellissimo.»
«Già. Un'armonia di verde. Le pennellate danno movimento al disegno. Sembra di essere nel giardino a passeggiare, sentendo il frusciare delle foglie e il quieto gorgoglio dell'acqua...» Lo guardò imbarazzata. «Mi scusi … Io...»
John le sorrise, stavolta trovando il movimento stranamente facile. «La prego, continui. È sempre interessante sentir parlare un'artista del lavoro dei maestri del passato.»
La sua espressione luminosa si affievolì un poco.
«Mi scusi. Ho detto qualcosa di sbagliato?»
«No. Io non sono un'artista.»
Fu il suo turno di restare allibito. Sfilò un foglio dalla tasca.
«Strano. Avrei giurato, da come disegna, che lei lo sia. Anche di successo, aggiungerei.»
Vedendo il foglio, le sue guance divennero rosso fuoco. Iniziò a balbettare. Si coprì la faccia con entrambe le mani, colma di imbarazzo. «Io … Io... mi scusi … Non mi ero quasi accorta … Scusi, avrei dovuto chiederle il permesso.»
La sua risata gentile la spinse a sbirciare da oltre le dita.
«Non si scusi, per favore. Mi sento onorato che abbia scelto me come soggetto.»
Lei gli porse la mano, per farsi restituire la fonte del suo estremo imbarazzo. Lui studiò la sua mano, poi il suo volto. Un mezzo sorriso malizioso gli curvò nuovamente le labbra.
«Penso che questo lo terrò, se non le dispiace.»
«Come? Cosa... No… Io…»
«Non vuole che lo tenga io? Dopotutto riguarda me.»
«Ma io…»
«Facciamo così. Se proprio lo rivuole indietro, dovrà darmi qualcosa di pari valore.»
«Ma ... Ma...»
«Mi sembra equo, no?»
Claire lo fissava a bocca aperta. La suoneria della sveglia impostata sul cellulare suonò, quasi come il gong in un match di pugilato. KO per Claire Severan.
«Lei non sa neppure il mio nome.»
«Claire Severan. Lo ha scritto sul disegno.»
«Io non so neppure il suo nome.»
«John Smith.»
Alzò le sopracciglia scettica. Lui sospirò, perdendo un po' di allegria. Lei se ne dispiacque.
«Lo so, è un nome molto comune. Forse può insospettirla. Il mio nome per intero è molto più lungo, se vuole saperlo.»
Claire annuì, affascinata.
«Non adesso, però. Lei deve tornare a lavoro. E anche io.» Le restituì il disegno e si alzò.
«Ma non aveva detto…»
Incontrò il suo sguardo. «Non posso mica costringerla a venire a bere un tè con me, no?»
«Voleva chiedermi questo?» Lui annuì, grattandosi il mento, impensierito.
Claire prese la matita dalla borsa e scribacchiò qualcosa sul retro del foglio, poi glielo porse. Gli sorrise. «Mi chiami quando vuole, così possiamo metterci d'accordo.»
La piacevole sorpresa gli illuminò nuovamente lo sguardo. «Sicura?»
Lei annuì e se ne andò.
***
Non sapeva perché aveva avuto l'impulso di accettare. Era strano. Addirittura ridicolo. Non sapeva cosa gli avrebbe detto. Di cosa avrebbero mai potuto parlare? Non aveva un appuntamento da così tanto tempo che non si ricordava cosa fosse. Come ci si comporta? Cosa avrebbe dovuto mettersi? Perché accidenti gli aveva detto sì?
Poteva sempre ritrarsi. Gli aveva lasciato il numero di cellulare, non del suo conto in banca.
Nel panico totale decise che se l'avesse chiamata, gli avrebbe detto che era impegnata. Si era sbagliata. Non avrebbe dovuto lasciargli il disegno. Continuò a rimuginare per ore. Fino alla sera, quando squillò il telefono. Sentiva le palpitazioni del cuore sulla superficie della pelle.
Coraggio. Smettila di essere codarda.
«Pronto?»
«Buona sera, Claire. La disturbo?»
«No, affatto.»
«Ci ha ripensato, vero?»
Staccò il telefono dall'orecchio e lo guardò allibita. Come faceva a saperlo?
Quasi in modo telepatico sentì John risponderle: «Se fossi una ragazza anche io avrei dei dubbi su uno sconosciuto. Di questi tempi essere cauti è la cosa più saggia. Vorrei però rassicurarla. Se è ancora disposta a prendere un tè con me, ci vedremmo un pomeriggio che lei è libera. In un caffè. Che ne dice?»
Si ritrovò a sorridere alla finestra. «Dico che è sciocco continuare ad essere così formali, no?»
«Significa che accetti?»
«Sì, John, accetto.»
«Quando?»
«Che ne dici di sabato alle sedici a Covent Garden? Lavori al museo?»
«Sabato è perfetto. Grazie per aver accettato, Claire. Ci vediamo domani.»
«Grazie per aver chiesto. A domani.»
***
Forse era una follia. Uscire con qualcuno implicava parlare. Di cosa avrebbero potuto parlare?
Qualcosa dentro di lui, però, lo aveva spinto a cercarla. Non riusciva ad ignorarla. Sarebbe stata una lunga settimana. Si sarebbero guardati a distanza. Si sarebbero studiati. Sarebbero usciti. E probabilmente lei non avrebbe voluto più saperne niente di lui.
Dopotutto non aveva nulla da dire. Non intavolava una vera conversazione con qualcuno da tre anni. Quasi non si ricordava neppure come ci si comportava, ad un appuntamento.
Il suo capo lo chiamò nell'ufficio della direzione. Aaron Williams si definiva suo amico di vecchia data. Forse avrebbe dovuto chiedere a lui.
«Ehi John. Come stai?»
«Bene, grazie. Tu?»
L'espressione di Aaron piena di aspettativa si smorzava un po' ogni volta che gli rispondeva in quel modo. John non sapeva che fare.
Aaron si riprese a sufficienza: «Allora, che mi dici?»
John rifletté. Forse Aaron non era la persona più indicata. Ma non sapeva a chi altro rivolgersi.
«Ho bisogno di un consiglio.»
Se avesse fatto cadere una bomba, avrebbe creato probabilmente meno devastazione. Aaron lo guardava come se gli fosse spuntato un terzo occhio sulla fronte.
«Certo … Certo. Dimmi. Come posso aiutarti?»
John sospirò. Era difficile per lui parlare, ma era costretto: «Ti ho mai parlato di alcuni appuntamenti che ho avuto?»
La mascella di Aaron rischiò di dislocarsi. «Non molto, in realtà.»
«Quindi nessuna smargiassata e commenti infelici? Mai fatti?»
«No, John. Ti sei sempre preso cura di … Delle ragazze con cui uscivi. Fiori. Cinema. Teatro. Cene. Sei sempre stato molto attento ai loro interessi.»
«Ottimo.»
«Devo chiedertelo. Esci con qualcuno?»
«Sì. La cosa ha sorpreso anche me. Se continui a tenere la bocca aperta, ci entrerà qualche mosca. Dicono che non sia molto piacevole.»
Aaron sorrise, ancora perplesso: «Non per sputare nel piatto che mi si offre, ma perché volevi saperlo?»
John si grattò il mento, imbarazzato: «Non so. Penso per essere rassicurato di non essere un totale stronzo. Non mi ricordo più cosa vuol dire uscire con una ragazza. Credo di essere entrato nel panico, per un attimo. Ma pensa!»
L'espressione abbattuta di Aaron lo fece tornare di nuovo serio. «Forse non avrei dovuto chiedertelo.»
«No, anzi. Sono contento che tu l'abbia fatto. Penso solo che non dovresti basarti su informazioni di seconda mano. Fai semplicemente quello che pensi sia giusto.»
John lo guardò attentamente. «Mi spiace, Aaron. Ancora nulla.»
Aaron fece un gesto con la mano. «Tranquillo. Vai. Ci vediamo domani.»
Gli dispiaceva deludere le aspettative di Aaron. Non poteva farci nulla. Aveva provato e riprovato. Ma la sua mente ancora lo tradiva. Restava silente, muta e buia. Come una stanza di una casa abbandonata. Spettrale e vuota. 
Di cosa si parla ad un primo appuntamento? Di se stessi. Si cerca di conoscere meglio l'altro. Capire se la prima impressione sia o meno corretta. Di cosa si parla ad un primo appuntamento, se non ricordi assolutamente nulla della tua vita passata? Se non sai più chi sei, come puoi permettere ad un'altra persona di conoscerti?
Il suo io era un'enorme casa vuota e abbandonata. Una struttura scheletrica e spettrale, con qualche vecchia e logora tenda appesa alla finestra. Ed era questo che avrebbe portato al suo appuntamento con Claire.