4.
Notte stellata.
Van Gogh
Erano ricominciati gli incubi.
Claire guardava fuori dalla finestra, sorseggiando un bicchiere d'acqua come se fosse un buon whisky invecchiato. Magari.
Aveva però imparato che l'alcol peggiorava solo le cose, quindi aveva rinunciato ad affogare l'angoscia nel liquido ambrato che suo padre preferiva o in quello rosso scuro del vino, preferenza materna. Occhiaie scure le circondavano gli occhi. Rughe di stanchezza le increspavano la fronte e gli angoli della bocca.
Guardò nel bicchiere, come se l'acqua potesse tirare fuori una risposta. Non lo fece.
Era passata una settimana da quella domenica. Si era complimentata con se stessa per essere riuscita a gestire il suo episodio. Ma la soddisfazione era durata pochissimo.
Gli incubi erano tornata a perseguitarla. Una stanza buia. Uomini che urlavano. Colore rosso ovunque. Qualcuno che la picchiava. Mani che la toccavano, intrusive e violente. Urla. Le sue urla. Altre botte. Poi il risveglio tre le lacrime.
Lo sguardo le vagò per la stanza. Appoggiato sul tavolo c'era il piccolo quadro che le aveva regalato John. Lo aveva evitato per una settimana, anche se lui l'aveva chiamata tutti i giorni, preoccupato. Non voleva che la vedesse in quella condizione. Non voleva che vedesse il piccolo esserino spaventato che nascondeva dentro di lei.
Dopo mille passi avanti l'incontro con uno sconosciuto l'aveva bruscamente riportata al punto di partenza. La rabbia iniziò a montarle dentro, mentre guardava il quadro.
No. Stavolta no. Non lo avrebbe permesso.
La determinazione prese il posto della stanchezza, dispiegando un po' le rughe e accendendole lo sguardo spento. Posò il bicchiere e prese il telefono.
Compose il numero senza fermarsi a pensare, così che la paura non la paralizzasse. Dopo due squilli rispose una voce maschile leggermente roca. La conosceva da quando era poco più alta di un nano da giardino e invece di parlare faceva bollicine di bava. La voce le si spezzò leggermente, mentre lo salutava in francese.
«Armand. Ciao.»
«Mon cherie. Cosa succede?»
Anche a chilometri di distanza non riusciva a nascondergli la verità. Fece un profondo respiro. «Sono tornati gli incubi.»
La voce maschile imprecò diverse volte. Lei sorrise.
«Parto subito.»
«No, Armand. Devi restare con Elise. Il tuo nipotino nascerà a breve, ho bisogno che tu ti goda il momento e non pensi a me.»
«Sciocchezze, cherie!»
«Davvero, Armand. Non ti ho chiamato perché tu accorressi in mio soccorso come mamma chioccia.»
«I miei piedi mai hanno toccato il suolo lercio di un pollaio e mai lo faranno!» Il tono indignato con cui lo disse la fece ridere.
«Ah, quanto mi manchi.»
Il tono di Armand divenne immediatamente serio. «Torna, cherie. Lo sai che ti stiamo aspettando.»
«Lo so. E tu sai che devo fare quello che ritengo giusto per tornare me stessa.»
«Disegnare e dipingere, ecco cosa devi fare. Non vendere le schifezze di stupidi artisti di strada.»
L'amarezza serpeggiava da quelle parole, ma Claire sorrise.
«Se proprio vuoi saperlo, ho ricominciato.»
«Oh, ma è meraviglioso, cherie! Potevi dirlo subito!»
«Non voglio darvi illusioni, Armand. Non so se riuscirò mai…» Il silenzio seguì. Claire si fece forza. «Dopo avermi aggiornato su come stai tu e Marie, di come vanno le cose a Parigi e come sta Elise, avrei un favore enorme da chiederti.»
«Prima dimmi del favore e poi ti dirò l'ultima pazzia di Marie e tutto il resto.»
Era il momento della verità. Ora o mai più.
«Ecco… Potresti chiedere al Dottor Bertrand se conosce un collega inglese altrettanto bravo, di cui si fida?»
Di nuovo il silenzio. «Ma certo, mon cherie. Tutto quello che vuoi.»
Claire capì. Dal tono di voce di Armand filtrava la speranza.
***
La prima cosa che colpì Claire fu il suo studio. Lo studio del Dottor Jeremy Jensen era accogliente. Non avrebbe mai creduto di poter pensare una cosa simile di una stanza in una clinica psichiatrica. Si accomodò nervosa sulle ampie poltrone di pelle marrone, l'istinto di fuga che le urlava di uscire da lì immediatamente. La seconda cosa che colpì Claire fu che non si sedette alla scrivania, ma si accomodò alla poltrona accanto alla sua. Il suo atteggiamento rilassato fu la terza cosa che la colpì. E non fu l'ultima.
Il dottor Jensen ascoltava pazientemente, pesando ogni sua parola con attenzione e guardandola negli occhi, senza tuttavia metterla in soggezione. Quando Claire finì, si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania. Si massaggiò gli occhi e guardò fuori dalla finestra, riflettendo su quanto gli aveva detto.
Claire non era spaventata. Era terrorizzata. Non osava quasi guardarlo per paura del giudizio che avrebbe visto espresso nel suo volto. Era stata un'artista, sapeva osservare. Il più piccolo, impercettibile movimento delle labbra o delle palpebre poteva valere mille parole non dette.
La quarta cosa che sorprese Claire fu non solo la mancanza di un giudizio arrogante nei suoi occhi, ma anche ciò che disse.
«Signorina Severan, io credo che lei non abbia bisogno di me.»
Claire spalancò la bocca. Lui le sorrise, rassicurante e un po' divertito. «È mia ferma convinzione che non le serva affatto uno psichiatra. Di certo non ha bisogno di nessun tipo di farmaco e se qualche collega francese le ha detto il contrario, lasci che le dica che è un ciarlatano che ha preso la laurea con i punti di Trivial Pursuit. Sono contento che ha incrociato la strada di Emile... intendevo del Dottor Bertrand. Condividiamo le stesse opinioni sull'argomento psicofarmaci.»
La bocca di Claire continuava a rimanere spalancata. Il dottor Jensen proseguì.
«Se vuole le spiego da un punto di vista tecnico il mio parere.» Claire annuì. «Oltre alla palese stabilità dell'umore che dimostra, presenta anche una notevole componente volitiva che le ha fornito la giusta resilienza.»
«Ehm…»
«Ovvero, signorina Severan, il fatto che lei sia in grado di identificare gli incubi per ciò che sono, una proiezione del suo trauma, che lei sia riuscita a impugnare una matita con la sua sola forza di volontà e che sia riuscita ad avvicinarsi alla fonte primaria della sua ansia, i quadri, sono tutti elementi della sua capacità di reagire a situazione traumatiche, detta anche resilienza. Lei ha fatto da sola diversi passi nel processo di cura.»
«Ma … Io...»
«Quello che secondo me la potrebbe davvero aiutare è un trattamento psicologico, se desidera intraprendere questo percorso.»
Claire annuì, ancora senza parole. Il dottor Jensen prese un biglietto da visita e glielo porse. «Conosco la dottoressa Miles da molto tempo. La contatti quando si sentirà pronta. E se avesse ancora bisogno di me, non esiti a chiamarmi.»
Un nodo all'altezza dello stomaco, che non si era accorta neppure di avere, si sciolse lentamente mentre si stringevano la mano e si salutavano cordialmente.
***
Nell'arco di due settimane il suo pregiudizio su psichiatri e psicologi era stato nettamente smontato. La dottoressa Joanna Miles era alta poco più di un piccolo elfo dei boschi. Capelli castani corti, occhi dello stesso colore caldo, pronti al sorriso e attenti ad ogni dettaglio.
Joanna, come insistette a farsi chiamare per non mettere tra loro barriere di formalità, lasciò parlare Claire ininterrottamente per un'ora. Quando Claire rallentò improvvisamente il fiume di parole che l'atteggiamento rilassato ed empatico della dottoressa le aveva tirato fuori, Joanna intervenne.
«Come ha detto Jeremy, hai un impressionante insight su te stessa e sulla tua situazione, Claire. Credo sia un aspetto dell'artista che c'è in te. Sì, che c'è in te tuttora, anche se è stata profondamente ferita. Hai fatto da sola diversi passi che avrebbero richiesto mesi di duro lavoro e comprensione di se stessi, dei propri limiti e dei propri punti di forza, che non tutti hanno il coraggio di cercare.»
Claire pensò che se non si fosse convinta, quel cinque dicembre, ad entrare alla National Gallery, non sarebbe dove era ora. E non avrebbe neppure incontrato John.
«Quindi non pensi che io debba sottopormi a ipnosi o psicanalisi, come mi è stato caldamente consigliato anni fa?»
Joanna rispose seria: «Io non credo nella ricetta perfetta, Claire. Non esiste un unico metodo, perché le persone sono talmente diverse che è impossibile categorizzarle tutte nella stessa identica tecnica. Certo, ci sono dei manuali di classificazione. Ma sono statistiche. Non dicono niente della storia personale, delle capacità di ripresa di ognuno, delle mille piccole circonvoluzioni e scorciatoie che ogni strada può inaspettatamente prendere. Per non parlare delle considerazioni sulle relazioni sociali, su cui si basa lo sviluppo della personalità e di un'infinità di altri processi psichici. L'inconscio è un universo inesplorato in espansione. Ognuno ha il suo universo personale interiore. Se provassi ad applicare le leggi fisiche del mio inconscio e della mia personalità al tuo, sarei come un marziano abituato a respirare ammoniaca sul suo pianeta natale che cercasse improvvisamente di respirare l'ossigeno terrestre, senza l'adeguata attrezzatura. Magari arriverei addirittura a distruggere l'ecosistema terrestre per adattarlo alla mia marzianità.»
Claire sorrise, divertita da quella spiegazione buffa. A John sarebbe di certo piaciuta.
Joanna continuò: «Ipnosi? Psicofarmaci? Gestaltheorie? Non mi importa niente di tutto questo. Quello che davvero vorrei capire insieme a te è il motivo per cui sei qui.»
Claire la guardò allibita. «Gli incubi…»
Joanna annuì. «Gli incubi sono una proiezione del malessere interno, che ti ha disturbato a tal punto da capire la necessità di un aiuto esterno per risolverlo. Se il tuo obiettivo è semplicemente di farli smettere, potrei dirti che sì, l'ipnosi poteva essere un tentativo interessante. Se invece il tuo obiettivo è diverso, allora vorrei che cercassimo di scoprirlo insieme.»
Claire guardava nel vuoto, persa nei suoi pensieri. Joanna la lasciò riflettere, finché non la vide cercare qualcosa nella tasca della giacca. Il cellulare in modalità silenziosa aveva appena vibrato, distraendola. Il sorriso luminoso che rivolse allo schermo rese Joanna curiosa, ma non le chiese nulla. Sarebbe stata Claire a decidere quando e come parlare di chiunque le provocasse un sorriso simile. Si alzò e Joanna la accompagnò alla porta.
«Ammetto che non immaginavo sarei uscita da qui chiedendomi la vera ragione per cui ho finalmente trovato il coraggio di rivolgermi a un famigerato strizzacervelli.»
L'espressione birichina che le lanciò Joanna le fece venire voglia di disegnarla in una foresta magica insieme ad altre fate.
«Vorresti che dicessi che mi dispiace, ma è il mio lavoro?»
Claire rise. «No. Posso già prendere appuntamento per la prossima settimana?»
«Certo. Però prenditi il tempo che ti serve, Claire.»
Claire annuì. Si strinsero la mano e si avviò fuori. Si guardò attorno, inspirando a fondo. Prese il telefono e lesse l'ultimo messaggio di John, una velata minaccia dietro la supplica di richiamarlo. Era ora che affrontasse un'altra paura, quella di esporsi con un'altra persona. Si diresse con passo deciso verso la National Gallery.
***
John era sull'orlo dell'esasperazione. Sarebbe esploso se anche stavolta gli avesse risposto di no. Due lunghissime settimane. Era davvero troppo. Aveva capito abbastanza di se stesso da sapere che avrebbe combinato qualcosa di drastico. Come presentarsi sotto casa sua e non andarsene finché lei non avesse accettato di vederlo.
Claire rispose al terzo squillo. «John.»
«Non dirmi no, Claire. Per favore.»
Lei lo interruppe. «Girati.»
Si voltò. Eccola lì, proprio davanti a lui.
«Come...?»
Ispezionò ogni dettaglio, prendendo nota delle occhiaie, dell'ansia espressa nelle rughe e del timido sorriso.
«Ho chiesto un po' in giro alla National. Nessuno sapeva dirmi dove trovarti. Dicono tutti che sei un tipo schivo. Non va bene, sai? Le relazioni sociali sono importanti.» Lo rimproverò alzando un dito, in posa da maestrina. Poi continuò. «Alla fine il direttore mi ha fatto portare nel suo ufficio. Pensavo mi avrebbe segnalato come persona sospetta, invece il signor Williams è stato gentilissimo. Dopo aver ascoltato la mia richiesta, mi ha detto dove avrei potuto trovarti.»
Era allibito. «Aaron ti ha dato il mio indirizzo?»
«No. Mi ha detto che probabilmente ti avrei trovato a passeggiare vicino all'Osservatorio di Greenwich. Ho avuto fortuna.»
John non disse nulla, in attesa che lei continuasse. Claire si sedette vicino a lui.
«Ti chiedo scusa per come mi sono comportata questi giorni.» Poi prese fiato e gli disse ogni cosa. Gli raccontò che era figlia unica. I suoi genitori erano benestanti, una famiglia con retaggio nobile, scherzò. Erano morti in un incidente stradale. Si erano presi cura di lei Armand Morel e sua moglie Marie. Armand non era solo il maggiordomo, ma l'amico di famiglia più caro di suo padre. «Non esiste più la nobiltà. Non secondo i miei, almeno. Erano soci d'affari. Quando mi hai detto che tuo padre ha aperto una ditta vinicola, mi hai stupito. I miei erano proprietari di una delle più grandi ditte di produzioni di Champagne e vini pregiati. Ora la gestiscono Armand e il genero.»
Amarnd era l'amico che le aveva detto: «Lascia che la tua anima guarisca.»
Glielo aveva detto mentre era ancora nella Clinica Psichiatrica di Saint Exupery. C'era stata per mesi, in cura presso il Dottor Bertrand.
«C'erano tutte queste sigle inquietanti sulla mia cartella clinica. Disturbo Post Traumatico da Stress. Amnesia. Cecità per i colori. Vedendo solo in bianco e nero. La mia vita era un film degli anni venti. Grazie al Dottor Bertrand ho recuperato in parte la mia sanità mentale. Ho ricominciato a vedere i colori, ma il rosso mi causava ancora degli episodi. Non so ancora perché.»
Claire si era laureata all'Accademia delle Belle Arti di Parigi. La sua migliore amica e compagna di stanza la frequentava con lei. E all'ultimo anno, due mesi prima della consegna del diploma, era stata brutalmente assassinata. Nella loro stanza. E lei non ricordava un dannato dettaglio di quella maledetta notte.
***
Claire aveva finito di parlare da un po'. Osservavano il pomeriggio che diventava sera. John si alzò e le porse la mano, senza dire nulla. Lei la prese e iniziarono a camminare verso l'Osservatorio. Claire pensò nuovamente che era giunto il momento. Nervosa, inciampò un po' sulle parole.
«Il Dottor Bertrand mi ha dato il nome di un collega inglese con cui ha studiato, il Dottor Jensen. Sono andata a parlare con lui, ma mi ha sorpresa dicendomi che non avevo bisogno di farmaci, ricoveri o psichiatri, ma di un trattamento psicologico, se decidevo di volerlo fare. La Dottoressa Miles è qualcosa di incredibile. Sembra appena uscita da un dipinto fantasy, pieno di fate e unicorni. Oggi l'ho vista per la prima volta. Mi ha dato molto su cui riflettere. Ho paura che … Ecco … La prossima settimana … Mi chiedevo se ...»
Era riuscita a raccontargli le sue debolezze e paure più grandi, ma non riusciva a fare quella richiesta. Assurdo. Frustrata, si spostò una ciocca che le era scivolata sul viso.
John la zittì. «Verrò con te.»
Claire si fermò e lo osservò con gli occhi lucidi. «Grazie.»
«Shh. Non devi neppure dirlo.»
Se non le avesse permesso di ringraziarlo a voce, lo avrebbe fatto in un altro modo. Lo abbracciò con slancio. John la tenne stretta a sé, inspirando il suo profumo. Si staccò qualche minuto dopo, con estrema lentezza. Lo sguardo di fuoco che le lanciò valeva più di mille parole.
Non era ancora il momento. John continuava a ripeterselo. Cercava di imprimerlo a fuoco nella sua testa dura. Non sempre il resto del suo corpo sembrava recepire il messaggio. Non era ancora il momento. Troppo confusione in entrambi. Lasciarsi trasportare adesso sarebbe stato un errore.
Era necessaria una distrazione. Qualcosa che gli permettesse di riflettere su ciò che gli aveva raccontato, dove potesse anche tenerla vicina ancora un po'. L'Osservatorio era perfetto. Si sedettero, osservando le immagini della notte stellata senza l'inquinamento luminoso tipico delle grandi città.
Claire sussurrò: «Le stelle mi fanno sempre pensare a Van Gogh.»
«A me fanno pensare al Doctor Who
Claire ridacchiò. Le era capitato di vedere qualche episodio sul canale della BBC1 e sapeva che John era un vero appassionato. Si era giustificato dicendo che era necessario vederlo per entrare veramente nello spirito inglese. Era in momenti come quelli che il suo accento americano si affacciava.
Le chiese: «Per via della Notte stellata, vero?»
Lei annuì. «Non tutti i suoi quadri mi mettono angoscia, solo quei maledetti girasoli. Riesco a capire il suo modo di vivere, sai? La mia visione della realtà è distorta, confusa. Almeno per gli altri, che non riescono a vedere quello che vedo io. È esasperante. A volte fa impazzire.»
«Non troverò mica il tuo orecchio in frigo, la prossima volta che mi inviti da te, spero!»
Claire ridacchiò, dandogli uno scappellotto.
Si stava facendo tardi, ma non era quella la preoccupazione di John. Casa sua era molto vicina. Troppo vicina. Se l'avesse portata lì, sapeva che non sarebbe riuscito a controllarsi. Così la riaccompagnò a casa. Sulla porta si guardarono a lungo, in silenzio. Poi John spezzò la tensione.
«Ero un agente FBI. L'incidente stradale che mi ha rubato l'identità e incasinato l'esistenza è stato causato dai criminali che stavo inseguendo.»
Claire lo guardava sconvolta. Le sorrise, nel modo spiegazzato che conosceva così bene. Non si accorse neppure che aveva allungato le dita per delinearne i contorni.
Lui la fermò, afferrandole la mano a mezz'aria, un'espressione seria sul viso. «Volevo che tu lo sapessi, Claire. Forse il me attuale non può proteggerti, ma quello passato ha qualche contatto utile.»
Poi si chinò su di lei e la baciò. Lentamente. Si spostò, prima di cedere all'impulso di rimanere con lei tutta la notte. Le sorrise e se ne andò, senza dire altro.
***
Era stato uno sforzo notevole lasciarla sulla soglia del suo appartamento. John continuava a ripeterselo, quasi dandosi delle consolatorie pacche sulle spalle. Forse avrebbe dovuto dare retta ai suoi istinti. Se lo avesse fatto, Claire sarebbe stata con lui, nel suo letto. Non nell'appartamento a Covent Garden, a quasi un'ora di distanza. Sarebbe stata con lui fino al mattino dopo, dove imbarazzati, o forse no, avrebbero fatto colazione insieme con croissant e caffè. Avrebbero riso, si sarebbero baciati e poi chissà. Magari avrebbero entrambi fatto il loro primo ritardo a lavoro.
Invece lei era nel suo appartamento a Covent Garden, in uno stato di meraviglia e confusione. Forse per questo non sentì subito il rumore.
Quando dei passi la raggiunsero di soppiatto e qualcuno la colpì alla testa, John era già sulla Central Line.
La vista di Claire si offuscò. Una voce vicino all'orecchio le bisbigliò in tono viscido, mentre perdeva velocemente i sensi: «Ora io e te andremo a farci due passi. E poi mi dirai dove hai messo quella maledetta consegna.»