9.
La persistenza della memoria.
Dalì
Un tocco di blu. Uno di verde. Il giallo per bilanciare. Un altro tocco di verde. Il nero per delineare il contorno. Finito.
Alzò lo sguardo dalla tavolozza. Fece un passo indietro, osservando con occhio critico il quinto quadro che aveva completato da quando era in clinica.
Quando dipingeva era in uno stato mentale particolare. Come se stesse sognando ad occhi aperti. Quando infine posava il pennello e osservava ciò che aveva fatto, rimaneva sempre sorpresa del risultato. Come se si fosse improvvisamente svegliata. La tela era qualcosa di estraneo nella sua completezza, qualcosa di distaccato da lei. Una sua creatura, verso cui aveva un attaccamento emotivo, certo. Eppure era anche altro. Un oggetto. Una cosa. Altro.
Era il processo del dipingere che lei conservava dentro sé come un tesoro prezioso, ma essendo un insieme di sensazioni ed emozioni, era un tesoro effimero. Ecco perché aveva sempre la necessità di prendere ancora il pennello in mano per fare un'opera nuova, che non fosse mai abbastanza il tempo che dedicava alla pittura. Che dentro di sé non avesse raccolto abbastanza cose preziose. Era un contenitore vuoto per l'arte.
O almeno lo era stata.
Adesso era ... Non lo sapeva più. Le era rimasta la stessa percezione incredibile. Joanna la definiva espansione di coscienza. Tuttavia permaneva una certa lucidità mentale, che prima non aveva. Era presente. Percepiva ogni movimento della mano e del polso, sapeva cosa fare dopo. L'assurdità era che non sceglieva il soggetto da dipingere. Si metteva semplicemente davanti alla tela e iniziava a disegnare, poi prendeva i colori, senza guardare davvero ciò che faceva finché non aveva finito.
«Alcuni psicologi amano far scrivere pagine e pagine ai propri pazienti. Si legge insieme, si commenta e così via. Ma tu hai un talento meraviglioso Claire. Ti permette di esprimere ciò che senti in immagini, come foto istantanee. E in base alla tua descrizione direi anche che affronti una certa catarsi durante il processo di pittura. Perciò dipingi.»
«Non sono sicura di essere in grado di condividere i miei quadri. Non ancora.»
Joanna aveva scacciato via immediatamente la sua reticenza. «Non mi importa. Mi basta sapere che stai tirando fuori i tuoi pensieri, anche se ti sembrano assurdi, caotici e confusi, in forma di immagini piuttosto che parole. Quando sarai pronta, ne parleremo.»
Era il quinto quadro. Uno al giorno da quando era in clinica. Lo osserva, confusa. Si chiedeva perché avesse disegnato una notte stellata, simile a quella di Van Gogh, seppur diversa. C'era una panchina e due sagome sedute che guardavano il cielo. Perché?
Intenta nello studiare quella immagine, non prestò attenzione ai passi che si avvicinavano.
«Mi ricorda qualcosa.»
Saltò quasi fuori dalla sua stessa pelle per lo spavento. Si girò.
L'espressione impenetrabile divenne per un attimo gentile e apologetica. «Non volevo spaventarti. Spaventarla. Mi scusi. Me ne vado subito.»
Una maschera di freddezza nascose immediatamente l'espressione gentile, mentre si voltava.
«Si fermi! Cioè, puoi fermarti un attimo, per favore?»
John non sapeva cosa aspettarsi, quando aveva varcato la soglia di quella clinica. L'odore non era forte quanto l'ospedale. C'era un giardino e del verde. Si respirava quasi aria pulita.
Di certo non si aspettava di trovare Claire nella veranda vuota, con in mano pennello e colori, intenta a osservare un dipinto. Era la prima volta che la vedeva dipingere. Era una pietra miliare della sua storia personale. Era un evento davvero importante. E non aveva potuto condividerlo con lei. Soprattutto non aveva covato speranze nel fatto che gli volesse parlare. Si girò, guardandola storcersi le mani in cerca di parole. Avrebbe voluto toglierla dall'imbarazzo, ma non sapeva come, troppo intento nel trattenere la voglia di prenderla tra le braccia e scuoterla, fino a costringerla a ricordarsi di lui. Finalmente capiva la frustrazione della sua famiglia e dei suoi amici. Dopo diversi momenti di esitazione, parlò con titubanza, sorprendendolo ancora di più.
«Mi dispiace.»
«Per cosa?»
«Mi dispiace non ricordarmi di te.»
Una bomba avrebbe fatto meno devastazione. Ispirò bruscamente. Una valanga di parole seguì quelle scuse.
«Ho trovato un album da disegno nell'appartamento. Era pieno zeppo di tuoi ritratti. Quindi siamo amici, credo. O magari altro. Magari sei la mia guardia del corpo, anche se Armand dice di no. Magari sei semplicemente un tizio che volevo conoscere. O qualcuno per cui provavo questa ossessione morbosa. Non lo so. Non so più che pensare. Avrei voluto dirti... Avrei voluto chiamarti per chiederti... Ma non sapevo come. E poi ci sono questi quadri. Non capisco.»
John prestò più attenzione alla tela ancora umida. Una notte stellata, in un profilo di città familiare. Due sagome su una panchina.
«Ecco perché.»
Claire seguì il suo sguardo. «Cosa?»
«Il dipinto. Mi ricordava qualcosa. Ho capito perché.»
«Veramente?»
John annuì, ma non disse altro, intento a guardarlo.
«Puoi... Potresti dirmi cosa? Te ne prego.»
La guardò di nuovo. I suoi occhi non erano più freddi e chiusi, ma c'era della vulnerabilità. Come aveva fatto a pensare che fosse freddo?
«Una sera, dopo due settimane in cui mi hai ignorato, sei venuta a cercarmi. Eravamo vicino al planetario. E abbiamo parlato per ore. Mi hai raccontato di te.»
Lo shock la paralizzò per un momento. C'era dell'altro. Lo sentiva. Ma non riusciva a chiedere.
«Signor Silver-Smith?»
Un'infermiera lo chiamò e con estrema fatica distolse gli occhi dai suoi. Come una calamita che cerca di staccarsi con violenza da un altro magnete.
«Eccomi. Arrivederci, Claire.»
***
Non aveva aspettative, o almeno credeva di non averne. Si era fatto un bel discorso preparatorio. Nessuna pressione a Claire. Non le avrebbe neppure parlato, se avesse visto anche il minimo indizio di angoscia. Invece lei stava dipingendo. La notte in cui si erano baciati. La notte in cui il bastardo l'aveva rapita. Gli avevo chiesto scusa. Voleva ricordarsi di lui.
Erano bastati dieci minuti per distruggere il precario equilibrio che aveva raggiunto dopo una settimana in compagnia dei suoi vecchi amici. Aveva anche cercato di non farsi influenzare dai pregiudizi sui cosiddetti strizzacervelli. Il dottor Jensen si era dimostrato subito disponibile al telefono per un appuntamento quello stesso pomeriggio. E prima che tutto andasse a puttane Claire gli aveva parlato bene di lui. Tuttavia la diffidenza gli rimase incollata addosso come un vecchio francobollo, fino a che non entrò nel suo ufficio.
Il dottore gli strinse la mano. «Signor Silver-Smith, si accomodi, la prego.»
I dettagli che gli aveva detto Claire gli saltarono subito agli occhi. Non si mise seduto dietro al tavolino, né prese carta e penna o lo guardò in modo morboso.
«Lei ha un'espressione scettica.»
«E lei invece è molto perspicace.»
«Al telefono mi ha detto che riguarda la perdita di memoria. Vuole elaborare di più?»
«Prima vorrei chiederle coma sta Claire. La signorina Severan.»
Sebbene il dottore fosse sorpreso, non si lasciò depistare. «Non posso divulgare notizie riguardanti altri pazienti.»
«Lei è l'unico motivo per cui sono qui.»
Il dottore attese e alla fine John cedette a quello sguardo cristallino. «Noi stavamo iniziando una relazione. Mi ha detto di lei e mi ha detto che forse poteva aiutarmi.»
«Capisco.»
Il silenzio si allungò. Il ticchettio dell'orologio scandì il tempo. Si decise infine a raccontargli ogni cosa, partendo dall'inizio. Prima con fatica, poi lasciò che la confusione che percepiva si riversasse fuori a ondate. Il dottor Jensen ascoltò con attenzione. Quando John smise di parlare, descrivendo le emicranie che aveva da una settimana, rimase in silenzio qualche minuto, prima di spiegargli la sua opinione.
«I sintomi che lei mi descrive sono comprensibili rispetto a quello che le sta succedendo, signor Silver-Smith. È quasi assurdo che le stia per dire la stessa frase che ho detto alla signorina Severan. Non ha bisogno di me. Ha bisogno di pazienza e di un ambiente familiare intorno a lei, per permettere alla sua mente di recuperare con calma tutte le informazioni che ha nascosto.»
«Mi sta dicendo che è normale sentire la mia testa spaccarsi ad ogni ricordo che recupero?»
«Non le è mai capitato di lavorare per ore al computer, mentre magari c'era la tv accesa e i vicini avessero la musica ad altissimo volume nella stanza a fianco?»
«Onestamente non me lo ricordo.»
«Si immagini la scena. Sarebbe circondato da una quantità di stimoli notevoli, no? Come crede che il suo cervello reagirebbe?»
«Si vendicherebbe, ovviamente. Con una maledetta cefalea assassina.»
«Esatto.»
Neppure l'avesse evocata, come un demone dell'inferno, un senso di nausea lo costrinse a piegarsi sulla poltrona, un attimo prima che un'immagine gli si affacciasse davanti a gli occhi. Era buttato su un divano, un braccio sugli occhi, mentre bestemmiava contro il suo capo. 
«Maledetto Franklin! Lui e le sue manie di multitasking! Ho bisogno di silenzio quando lavoro per collezionare prove, non di musica folk! Che poi chi cavolo ama la musica folk!»
Una mano fresca e gentile gli spostò il braccio, mettendogli davanti un bicchiere d'acqua in cui una pasticca effervescente si stava sciogliendo. Miriam.
«Signor Silver-Smith, ha bisogno di sdraiarsi.»
«No. No. Sta passando.»
Era di nuovo nello studio del dottore che lo guardava rammaricato. «Le posso prescrivere digli antidolorifici, ma non terranno a lungo lontano le emicranie. Mi spiace.»
John aspettò che la tensione alle tempie si allentasse un poco, prima di chiedergli: «Ha detto un ambiente familiare. Si riferisce a New York? Dovrei tornare lì?»
«Sebbene sia vero che i luoghi familiari, come la casa dell'infanzia o la città di origine, sono i posti in cui è consigliato rimanere durante la convalescenza di questo tipo di disturbo neuropsicologico, ritengo che lei debba andare dove si sente meglio, signor Silver-Smith. Dopotutto questa città le ha permesso di distaccarsi da una situazione frustrante, permettendo così alla sua mente di recuperare poco per volta lo stato che le era necessario a recuperare la sua identità.»
Le sue parole sedimentarono come un sasso in un fiume. Gli diedero una consapevolezza di ciò che stava succedendo, ma nessuna immediata risposta per la decisione da prendere.
Si alzò. «La ringrazio per il tempo che mi ha dedicato.»
Il dottore scrisse un appunto su un foglio, timbrandolo e firmandolo. Glielo porse: «Questi la possono aiutare, ma non ne abusi. Se avesse ancora bisogno di me o volesse parlare con la dottoressa Mills, non esiti a chiamare.»
La psicologa elfo di Claire. Pensare a lei fu un'altra stilettata. Si strinsero la mano e se ne andò, incerto su cosa fare così come quando era arrivato.
***
Johnathan. Aveva detto di chiamarsi così. Lo aveva rincorso all'uscita, una strana stretta allo stomaco mentre gli chiedeva se poteva tornare. Se non fosse stato di troppo disturbo. Se non era troppo impegnato. Lui aveva solo annuito, l'espressione in una smorfia rigida e chiusa.
Era una settimana che sedevano nella veranda, ogni giorno alla stessa ora. Non aveva chiesto perché venisse sempre a pranzo, anche se non mangiava niente. Sedevano lì, senza parlare. C'era voluta un'imbarazzante ora di greve silenzio, perché lui si spazientisse e se ne andasse. Solo allora aveva trovato il coraggio di mostrargli gli altri quadri. Lui non le aveva detto nulla inizialmente. Finché un paio di sere prima lei era esplosa per la frustrazione.
«Voglio solo sapere che cosa rappresentano questi quadri! Ma tu ti ostini a murarti nel tuo dannato silenzio scontroso! Ho sbagliato a chiederti di venire. Ho sbagliato a farteli vedere.»
Angoscia, rabbia verso l'universo e quella situazione assurda, incertezza e un'altra cefalea incombente non erano un buon mix. Anche John alzò la voce.
«Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire per me...»
«Certo che no! Non ho la minima idea di un accidente! Merde ! Non ricordo un maledetto niente! Merde
Si era girata per andarsene, ma lui l'aveva afferrata per un polso, costringendola a guardarlo. Era la prima volta che la toccava e un brivido strano le percorse la schiena.
«Oh, credimi, non è affatto ciò che stavo per dire. Non hai idea di che meraviglia sia per me poterti osservare dipingere. Non hai idea di che voglia dire per me esserti seduto a fianco senza poterti toccare. Non lo sai e io non posso parlartene, perché ti spaventeresti. Vedi? Anche adesso sei terrorizzata.»
«No. Non è vero.»
Lui la lasciò andare, facendo un passo indietro.
Claire aveva finalmente la sua risposta, ma la lasciava molto confusa.
«Perché? Perché non mi hai detto niente?»
La risata amara di John le tagliò l'anima come un coltello nel burro. «Appunto. Non hai idea. Non posso. Non posso dirti tutto questo. Non ne ho il diritto.»
Si voltò per andarsene. La sua postura, il suo sguardo, tutto in lui urlavano che era sull'orlo di perdere il controllo. Ma lei non ascoltò la voce che le diceva di lasciarlo stare. Ignorò i segnali e arrabbiata gli girò attorno, mettendosi davanti a lui.
«Non andrai via finché non mi avrai detto tutto. Non lo permetterò. Non ...»
Come la classica corda che se tirata troppo si spezzava, così la pazienza di John si esaurì in un solo istante. La afferrò per le spalle e la tirò a sé. Prima che Claire capisse cosa stesse succedendo, lui aveva già premuto le labbra sulle sue.
Claire rimase paralizzata. Non capiva. Non sapeva cosa fare.
John interruppe il contatto con un'imprecazione. La scansò bruscamente. L'espressione chiusa e fredda era scomparsa. C'era di nuovo confusione, rabbia e tristezza nei suoi occhi. Si scompigliò i capelli. Quel gesto riportò a galla la sensazione di stretta allo stomaco.
«Scusami. Scusa.»
Se ne era andato senza che lei potesse aggiungere altro.
Non si aspetta che il giorno dopo tornasse e invece lui era lì, nella veranda. Alla stessa ora di ogni altro giorno. Dava le spalle al corridoio, guardando il parco della clinica, ma stranamente parlò prima che lei gli fosse vicina. Non pensava di aver fatto rumore, ma lui l'aveva percepita lo stesso.
«Il primo quadro che mi hai mostrato è un parco. Hyde Park, per essere precisi. È dove ti ho regalato la piccola tela di Seurat.»
Lei si sedette vicino a lui. Attese che continuasse con trepidazione. Ma per John era tremendamente difficile.
«Il secondo e il terzo quadro ci ho messo un po' a capire a cosa si riferissero. Sono dei grandi schermi. Sono serate al cinema. Probabilmente la prima a cui siamo andati e poi c'è l'ultimo film che abbiamo visto insieme, anche se non nel grande schermo. Quello è stato importante.»
Non sempre riusciva a finire un pensiero o una frase. Inizialmente Claire capì e non insistette, troppo sconvolta nel conoscere la persona misteriosa che era stata in quegli oscuri quattro anni. Con il passare dei giorni la frustrazione tornò. Voleva ricordare quei giorni, non voleva solo che qualcuno glieli raccontasse. La frustrazione divenne nervosismo. Ne parlava con Joanna, ma non serviva. Il nervosismo esplose un giorno in cui stranamente John era in ritardo per quello che ormai considerava il loro appuntamento delle dodici e trenta.
Arrivò venti minuti dopo, il passo lento come se si trascinasse. Era pallido come un cencio e aveva le occhiaie. Subito si sentì una pessima persona per aver pensato male di lui. In fondo non era tenuto ad assecondare la sua richiesta. Non le aveva mai confermato se davvero stavano insieme o altro. Quel pensiero soffocò l'empatia per lui, riportando a galla la frustrazione e la rabbia. Perché non le diceva mai niente? Le raccontava piccole scene, ma mai nel dettaglio, mancava sempre qualcosa, che lei non riusciva a figurarsi. Perché non le diceva chiaramente come stavano le cosa tra loro? E perché, maledizione, lei era così arrabbiata? Cercò di calmarsi. Non era colpa di Johnathan. Non era colpa sua.
Aspettò che gli spiegasse il motivo del suo ritardo. Aspettò che parlasse, ma lui si sedette e la osservò. Rimase semplicemente lì a guardarla. Perché non le diceva niente?
«Cosa ti succede?»
Lui scosse la testa. Lei provò ancora. «Johnathan. Cosa ti è successo?
Lui strinse la mascella, irrigidendosi. «Niente.»
La rabbia esplose, subitanea e improvvisa. «Cazzate! Perché non mi dici cosa ti succede?»
L'espressione sorpresa di John al suo linguaggio venne immediatamente sostituita da uno sguardo cupo, come le nuvole cariche di pioggia prima di una violenta tempesta.
«Non vedo la necessità di condividere il mio stato di salute con te, Claire.»
È universale la legge degli animali aggrediti. Contrattaccare e subito, prima di essere feriti nuovamente. E il colpo di quelle parole era stato inspiegabilmente forte. Così rispose con altrettanta rabbia.
«Ah già, dopotutto noi siamo due estranei, no?»
John si alzò, ma non accennò ad andarsene. «Non so cosa vuoi sentirti dire Claire. Che non lo siamo? Che siamo amanti? Che siamo fidanzati? Cosa vuoi sapere?»
«Niente. Non voglio sapere niente da te. Vattene.»
Aveva i pugni chiusi lungo i fianchi. Quando disse quelle parole, fu come se gli avesse dato un cazzotto. Un nodo in gola la faceva respirare male. John si allontanò senza aggiungere altro. Non si fermò, né si voltò. Non esitò neppure un istante.
Si accasciò sulla poltrona di vimini e per la prima volta da quando si era svegliata pianse per se stessa e non per Jackie. Pianse, senza neppure sapere perché si sentiva così.
Il giorno dopo John non venne. Né quello successivo o quello dopo ancora.
***
Jayden era seriamente preoccupato, così come Aaron.
Non immaginava che recuperare la memoria perduta potesse essere così doloroso per l'amico. Aveva sperato e pregato per quattro anni che accadesse. E ora che lo vedeva accasciato sul muro esterno della clinica psichiatrica a vomitare l'anima, si chiese per un attimo se davvero ne valesse la pena.
«John. Ti portiamo dentro a parlare col dottor Jensen.»
«No. Lasciami … Lasciami un attimo. Bisogna... ripulire.»
Intervenne Aaron: «Ho già parlato con un inserviente, non devi preoccupartene.»
«Ti riportiamo a casa.»
Il gemito di John non passò inosservato a nessuno dei due. «Casa… Non so più neanche se vale la pena restare qui. Ma non so se sono in grado … Non so se riesco ad affrontare i miei in queste ...Condizioni pietose.»
«Lo sai che loro sarebbero felici di averti nuovamente lì. Noi tutti lo saremmo.»
John inspirò a fondo, cercando di recuperare l'equilibrio. Quella notte era stata particolarmente drammatica per tutti gli incubi avuti. Sogni di cose successe, mischiati con eventi irreali mai accaduti. L'emicrania gli era rimasta incollata alla testa come una fottuta sanguisuga. Neanche due pillole di antidolorifico l'avevano calmata, la maledetta.
Jayden aveva ricevuto una chiamata che l'avevano fatto tardare. Forse erano alle costole dello stronzo che aveva rapito Claire. Vederla era importante, ma assicurarsi che il bastardo fosse in prigione lo era ancor di più.
Aveva cercato di non sommergerla di aspettative e richieste, così come avevano fatto con lui all'inizio. Lei non poteva sapere lo sforzo mastodontico che aveva fatto. Continuava a dipingere paesaggi o scene che avevano vissuto insieme. E c'era sempre la sua sagoma in quei disegni. Non se n'era ancora accorta e lui non glielo aveva fatto notare. Non poteva.
«Vattene.»
Glielo aveva detto davvero. Un altro conato lo costrinse a piegarsi per terra.
Il dottor Jensen lo aveva avvertito che sarebbe stato ulteriormente doloroso, che le emicranie sarebbero peggiorate, se non avesse affrontato il problema nell'ambiente adeguato. Con la dovuta calma.
«John, lascia che ti riportiamo a casa. C'è Armand con Claire e Flinch è vicina ad incastrare il bastardo di Lamaire.»
John non sapeva che fare. Si era già sentito così impotente e si era ripromesso che non lo sarebbe stato mai più. Che valore aveva adesso quella promessa? Non era utile a nessuno, distrutto e difettoso come era. Soprattutto a lei.
«Vattene.» Glielo aveva detto.
Alzò lo sguardo verso Jay e Aaron. Annuì impercettibilmente, mentre gli amici lo aiutavano a salire su un taxi.
***
Finalmente se ne erano andati. Mosche fastidiose intorno alla merda, ecco cosa erano. Dalle condizioni del tipo che doveva essere il ragazzo della puttanella, forse sarebbero rimasti lontani abbastanza a lungo per permettergli di agire.
Nell'ultima settimana la sua vita era andata ufficialmente a puttane. Sergej lo aveva minacciato che lo avrebbe fatto mutilare nelle parti che contavano per avere figli se si fosse avvicinato ancora. E aveva aggiunto sbraitando che gli stava facendo una cortesia a buttarlo fuori dai Ghost, considerando che gli altri volevano eliminare il problema alla radice. Ammazzarlo, insomma. Pierre aveva bisogno di un'assicurazione per rientrare nelle loro grazie. O quantomeno per non farsi ammazzare, appunto. E la puttanella era tutto ciò che gli era venuto in mente come leva di scambio. Dopotutto avevano insistito perché non le venisse torto un capello. Doveva pur avere un qualche valore ai piani alti, no?
Sapeva che la polizia gli stava attaccata al culo, pertanto aveva una finestra davvero piccola per agire. Il giorno dopo il tizio e i suoi due amici non si erano presentati. Decise che avrebbe agito la sera successiva.