11.
Viandante sul mare di nebbia.
Friedrich
Il rumore del motore dell'aereo sotto sforzo mentre virava per prepararsi all'atterraggio era per molti motivo di ansia e preoccupazione. Era un volo di routine per i piloti della tratta internazionale New York – Londra, ma non per tutti. Turisti, famiglie che tornavano a casa, studenti che facevano il loro primo viaggio così lontani dal Vecchio Continente. Atterraggio e decollo erano sempre i momenti più carichi di tensione, quelli in cui poteva andare storto qualcosa.
C'era però su quel volo qualcuno che era rimasto in tensione per tutte le sei ore e mezza della durata. Qualcuno che tornava a casa, ma che non aveva gli stessi sentimenti di anticipazione dei padri di famiglia che lavoravano all'estero. Qualcuno che si era lasciato il Vecchio Continente alle spalle, senza la minima certezza che davvero fosse l'ultima volta che attraversava l'Atlantico. Non che volesse quella certezza. Voleva solo un istante di pace, che gli sembrava venire negata continuamente. Qualcuno che al suono del motore sotto sforzo si prese per l'ennesima volta la testa tra le mani, come se il dolore fosse troppo per essere sopportato.
«John, vuoi un altro antidolorifico?»
«No. Ce la faccio.»
Jayden non ne era affatto convinto, ma non aggiunse altro. L'amico aveva sofferto quel volo come mai prima d’allora, non solo per le cefalee che continuavano a perturbare il suo sonno, svegliandolo con un gemito soffocato. Ogni miglio che metteva fra lui e l'Inghilterra sembrava trasformarsi in una zavorra che gli pesava sempre più sulla testa. Il viaggio avrebbe dovuto farlo stare meglio, non peggio. Jay iniziava a provare la sottile disperazione dell'impotenza. Ogni mossa che aveva fatto sembrava peggiorare la situazione di John, quando il suo intento era proprio l'opposto.
«Smettila di torturarti, Jay. Starò bene. Mi serve solo tempo.»
Come sempre John aveva capito i pensieri che lo turbavano.
«Tempo. Se è questo di cui hai bisogno, ne avrai in abbondanza.»
Non sapeva di cosa aveva bisogno. Non lo sapeva mentre saliva su quell'aereo, non lo sapeva neppure adesso che era in fila per ritirare il suo bagaglio. Jay non gli aveva detto nulla. Eppure attraversando l'area della dogana, alzò lo sguardo dove centinaia di persone aspettavano i passeggeri in arrivo e non fu sorpreso di vederli. Suo padre Jackson e sua madre Cecily. Suo fratello e sua sorella. Erano in fila alla transenna, premuti sulla sbarra dalla folla, ma incuranti di tutto ciò che li circondava. Avevano gli occhi puntanti sulle porte a doppia vetrata, per questo videro il momento esatto in cui John mise piede sul suolo americano. La madre si era premuta le mani sulla bocca, per cercare di non piangere. Il fratello e il padre si stavano sforzando di darsi un contegno, ma la maschera impassibile che indossavano era crepata in più punti. Piccoli movimenti degli occhi e degli angoli della bocca li tradivano spudoratamente. Non che a loro importasse. E Alice piangeva silenziosamente. John si fermò davanti a loro. Ci fu silenzio, nonostante il caos dell'aeroporto. Un lento sorriso si apriva sulle labbra di Alice, mentre John lasciava cadere il borsone con un tonfo sordo. Con un gesto semplice spalancò le braccia. Cecily e Alice si fiondarono su di lui, facendolo barcollare per la forza del loro abbraccio.
Ridacchiò piano. «Non mi aspettavo un’accoglienza così calorosa.»
«Cosa ti aspettavi, deficiente?»
Era il fratello. Cecily e Alice si spostarono, lasciando spazio a Jacob, il cipiglio che sembrava quasi indicare rabbia. Si avvicinò e gli tirò un cazzotto dritto allo stomaco. John bofonchiò, ma afferrò il fratello per le spalle e gli diede una sonora pacca.
«Questo.»
«Ti meriti ben più di cazzotto, figliolo. Ma ormai sei più alto di me, non so come potrei vincere una rissa contro di te adesso.»
Jacob si spostò, mentre John si faceva esaminare dagli occhi attenti del padre.
«Sai bene che ti ho superato in altezza quando avevo diciannove anni, ma che in strategia sono ancora anni luce lontano da te, papà.»
Quella frase li colse così alla sprovvista da farli ammutolire. Imbarazzato John abbracciò il padre e raccolse il borse da terra.
«Sei... tornato?» La madre tremava come una foglia. Le prese la mano, cercando di rassicurarla.
«Non proprio, mamma. Non del tutto, almeno. Certo, se mi preparassi una di quelle tue famose torte alle mele, di cui proprio non ricordo il sapore…» Le fece l'occhiolino e lei si mise a ridere tra le lacrime. Il padre allungò uno scappellotto al figlio, mentre il fratello gli strappava di mano il borsone, pur di fare qualcosa che lo distraesse. Jay sorrise alla scena, mettendo a tacere e relegando in un angolo remoto le sue preoccupazioni.
John era tornato.
***
Erano passati tre mesi. C'erano voluti tre lunghi mesi perché non si sentisse come un uomo che osservava le nuvole da un aereo, talmente lontano dalla terra da non vederne neanche i contorni. Novanta giorni a recuperare frammento per frammento la sua identità, dissipando sempre più nuvole e nebbia dal paesaggio. Novanta giorni.
Ora vedeva i contorni, vedeva il panorama d'insieme. Vedeva se stesso, sia quello di prima che quello attuale. Non aveva ancora capito bene chi era diventato, ma c'era un'immagine che rappresentava bene il suo stato d'animo. Gliela aveva mostrata una vita prima al college lei, la ragazza con la quale non aveva ancora avuto il coraggio di parlare. Miriam.
Si sentiva come quell'uomo di quel quadro che gli aveva mostrato. Un viandante che osserva un mare di nebbia. Aveva bisogno di fare qualcosa, qualunque cosa, pur di dissipare quella nebbia. Ma quella gli restava aggrappata sulla pelle come un lenzuolo bagnato.
«Voglio essere reintegrato nell'FBI.»
«Cosa vuoi fare, tu?»
«Hai bisogno che ti prenoti una visita dall'otorino, Jay?»
«No, sei tu ad aver bisogno di una visita da uno psichiatra, John!»
«L'ultima è andata abbastanza bene. Dice che posso riprendere a lavorare.»
«Allora hai bisogno di un altro parere.»
«Jay.»
«No, John, ascolta. Non se ne parla proprio.»
John sorrise beffardo. «Ho già inoltrato la domanda all'ufficio del personale. E sai che non puoi davvero fermarmi.»
«Oh, non mettermi alla prova, idiota!»
«La tua preoccupazione è fuori luogo.»
«Dici?» Jay sbuffò irritato e innervosito.
Negli ultimi tre mesi aveva osservato John rimettere insieme pezzo dopo pezzo la sua vita. Ma nel suo sguardo mancava sempre qualcosa. Il pezzo più importante. Un tempo avrebbe saputo dare una risposta, su quale pezzo fosse, ma adesso non ne era più sicuro. La decisione di John era di certo sbagliata. Di questo ne era convinto.
«Sei stato fuori per quattro anni. E sei in riabilitazione da tre mesi. Pensi davvero di essere in grado?»
«Sì.»
«John.»
«Se non faccio qualcosa, impazzisco, Jay.» Lo aveva detto a bassa voce, ma il messaggio era lampante, quasi come lo avesse urlato.
Jay si passò una mano sulla faccia, ma sapeva che non bastava quello per cancellare le preoccupazioni.
«D'accordo. Non mi opporrò oltre. Anzi ti aiuterò pure con l'allenamento per superare le prove fisiche e i tutti gli altri test.»
John conosceva quel tono. «Quale è la tua condizione?»
«Devi prima parlare con Miriam.»
Silenzio accolse quelle parole. Del resto Jay non si aspettava una risposta. «Hai fatto il codardo abbastanza a lungo. E non credo che Rachel possa tenerla a distanza ancora per molto.»
John non disse nulla. Non poteva, perché Jay aveva ragione. Aveva fatto il codardo troppo a lungo. Non poteva rimanere a guardare la nebbia dall'alto della montagna. Era ora che muovesse il culo e scendesse ad esplorare ciò che si era lasciato a valle.
«D'accordo. Dammi il telefono.»
Jay glielo porse senza fiatare, sorpreso nonostante fosse stato lui a porre quella condizione. John cercò in elenco il numero di Miriam. Contò i battiti del suo cuore, cercando le parole. Ma quando lei rispose al quinto squillo, non ne ricordò neppure una.
«Jay? Che succede?»
«Miriam.»
La sentì inspirare di colpo. «J..John. Cosa... Come... Come stai?» Balbettava. Lei che era così sicura di sé, stava balbettando, mentre cercava di trattenere le lacrime. Si odiò ancora di più di quanto già non facesse da mesi.
«Meglio.»
«Vorrei... Posso accertarmene di persona?»
«Sì. Scusa se ci ho messo tanto a chiamarti.»
«No, figurati. Spero solo... sono solo felice che lo hai fatto. Anche se dal cellulare di Jay.»
«Gli ho fregato il telefono perché il mio è inservibile.»
Non disse che lo aveva lanciato contro la parete della sua stanza, preso da un eccesso di frustrazione e rabbia. Non lo disse, perché avrebbe dovuto spiegare che aspettava la chiamata di qualcun altro. Qualcuno che gli aveva mandato solo messaggi. E che improvvisamente aveva smesso di fare anche quello. Cercò di non pensarci.
«La tecnologia è tua amica, John. Te l'ho sempre...» Si interruppe bruscamente.
«Me lo hai sempre detto, lo so.»
Dall'altro capo del telefono la sentì trattenere il respiro.
«Quando sei libera?»
«Domani va bene per te?»
«Certo. Quando vuoi.»
«Alle nove, al Caffè Scrooge.»
John non si chiese perché proprio lì. Dopotutto era dove si erano conosciuti. Dove avevano festeggiato innumerevoli occasioni, come compleanni, laurea, anniversari. Era il loro posto.
«D'accordo. A domani.»
Jay e John si guardarono. Presero i loro tè ghiacciati e bevvero un sorso, senza dire una sola parola.
***
Miriam osservò l'immagine riflessa allo specchio.
La studiava da almeno mezz'ora, cercando di carpirne i dettagli. La studiava come avrebbe fatto con qualunque opera le capitava, per valutarne l'autenticità o meno. E in quel caso era decisamente un meno. L'immagine allo specchio era finta. Una costruzione della se stessa di un tempo. Erano bastati pochi secondi perché l'immagine che aveva di sé mutasse immancabilmente. Pochi istanti. Una macchina che sbandava sulla strada ghiacciata. Un urlo. Fango misto a sangue. Il fuoco che divampava e scioglieva la lamiera distrutta.
Si diede dei pizzicotti sulle guance. Non che migliorasse il suo pallore, ma almeno la distraeva dall'immagine non autentica della vera Miriam. Dopotutto l'aveva perduta, la vera se stessa. Lanciò un'occhiata all'orologio. Erano le otto e trenta. Probabilmente John era già lì, ad ordinare croissant con la marmellata di albicocche per lei e uova e bacon per lui. O almeno il John di prima lo avrebbe fatto. Forse poteva considerarlo un primo appuntamento con uno sconosciuto. Sì. Avrebbe fatto così. Prese la borsa e si chiuse la porta alla spalle, curando di girare la chiave. C'era un tempo in cui John la prendeva in giro per essere troppo distratta. Lasciava sempre la porta aperta e doveva ricordarglielo lui che era meglio chiudere. Era una vita fa, quando ancora non credeva che il mondo fosse così pieno di crudele malvagità e gente priva di scrupoli. Ora camminava con lo spray anti aggressore nella borsa e aveva preso lezioni di autodifesa. Se John fosse stato bene, forse gliele avrebbe impartite lui quelle lezioni. Ma era ancora in ospedale. E non ricordava neppure chi fosse.
Scosse la testa, scacciando quei pensieri lugubri. Era arrivata davanti al caffè. Era uno dei suoi luoghi preferiti in tutta la città. Era famoso per il decoro degli interni a tema Christmas Carol e le serate speciali del mercoledì, in cui se non donavi qualcosa a qualcuno del tavolo vicino venivi sbattuto fuori.
Aveva evitato accuratamente con lo sguardo il tavolino all'angolo. Era il loro tavolino. Lo era stato per anni, da quando aveva scoperto quel caffè. Non pensava di certo che lui fosse lì. Per questo saltò quando la sua voce la costrinse a girarsi.
«Miriam.»
Si voltò lentamente, ancora incredula. Lui era lì. John era finalmente lì. In piedi, vicino al loro tavolino. Croissant con marmellata di albicocche e un caffè caldo la aspettavano.
Non riuscì a trattenere un singhiozzo. Si fiondò su di lui, abbracciandolo stretto. Non lo avrebbe lasciato andare via mai più. John però non ricambiò l'abbraccio altrettanto a lungo. Le accarezzò la schiena per calmarla e si scansò, porgendole un fazzoletto. Lei si asciugò gli occhi, cercando di contenere le lacrime.
«Scu...Scusami. Ti prego... Non volevo.»
«Miriam, non devi scusarti. Non devi mai e poi mai scusarti.»
Era il suo John. Quello con cui era andata a convivere dopo l'università. Quello che l'aveva consolata un miliardo di volte per gli insuccessi al lavoro e le tristezze. Quello che l'aveva incoraggiata a fare il concorso per entrare come direttore del Guggenheim.
«John. Io... Non so cosa dire.»
«Perché sono io a dovermi scusare. Ma so che non basterà. Qualunque cosa dirò, non basterà mai a farmi perdonare, Miriam.»
La sua espressione era angosciata. John sapeva nascondere davvero bene le sue emozioni, ma lei aveva imparato i piccoli segnali che rivelavano i suoi stati d'animo. Eppure stavolta non nascondeva l'angoscia e la rabbia verso se stesso. Perché? Non era forse tornato per restare? Perché non aveva voluto vederla fino ad allora?
La domanda l'aveva perseguitata per giorni. Per mesi. Finalmente avrebbe avuto la sua risposta. Ma l'espressione di John non era affatto rassicurante.
«Prima però vorrei mi raccontassi cosa hai combinato negli ultimi tempi. Come stai, Mini Mi?»
Il soprannome che le aveva dato al primo anno di college. Ricordava. Ma allora perché non era corso a baciarla? Perché si era seduto all'altro lato del tavolino, come a voler mettere una barriera tra di loro? Diede un morso al croissant, senza davvero sentirne il sapore.
«Sto bene. Sì. Tutto considerato, direi che sì, ora sto bene. Ho fatto un corso di autodifesa e parlato per un anno con uno psicologo molto bravo. Sto bene. Niente più incubi, niente più ansie. A parte per cosa ci rifileranno alla mensa del museo con gli ultimi tagli. Credo che stiano cercando di avvelenarci, per ridurre il personale.»
«Mi sembra estrema come misura.»
Averlo così vicino e non poterlo toccare era una tortura. Miriam non aveva intenzione di farsi sottoporre a quel supplizio ulteriormente.
«John. Smettila.»
«Smettere cosa?»
«Di guadagnare tempo per indorare la pillola.»
«Non lo sto facendo.»
«Stronzate. Lo stai facendo eccome.»
John si passò nervoso una mano tra i capelli. Lei continuò: «Forse per te i ricordi sono ancora confusi o troppo freschi, ma io ho passato anni ad osservare le tue tecniche di indagine. Non mi freghi.»
La Miriam del college era sparita. La donna adulta davanti a lui era familiare eppure sconosciuta. E aveva ovviamente ragione.
«Ok. Da dove vuoi che cominci?»
«Dal perché non mi hai voluto vedere fino adesso.»
John la guardò a lungo prima di iniziare a parlare. «Sono bastati pochi istanti perché la nostra vita cambiasse. Sono bastati due secondi e una maledetta macchina. Ma non è quello di cui mi incolpo, perché era fuori dal mio controllo. No. La mia colpa è averti tenuto a distanza dopo. È vero, non ricordavo nulla di me stesso. Non ricordavo la faccia di mio padre e di mia madre, di Jacob e Alice. Non ricordavo Jay, Rachel e te. Ero incazzato con il mondo e con me stesso. Ero furioso. E quando questa furia è diventata insostenibile, si è riversa fuori, colpendo le persone a me più care. E per questo non farò mai ammenda.»
Miriam fece per interromperlo, ma lui alzò un dito, chiedendole di aspettare. «Non ti sto dicendo questo adesso per farmi perdonare, perché Miriam, io non voglio che tu lo faccia. È vero, i ricordi sono tornati. Quasi tutti. Ho ancora alcuni vuoti, per le cose più stupide. Anche se sono tornati, anche se ricordo cosa ti ho detto, ogni singola parola, il giorno prima dell'incidente... Non mi è più permesso restarti accanto. Non posso.»
«Perché?» Glielo chiese a denti stretti. Rabbia e disperazione trapelavano dalla sua voce e dai suoi occhi scuri. Si odiò ancora di più per ciò che stava per dire, ma erano la verità e lei meritava di saperla.
«Perché ti ho amato così intensamente da non desiderare nessun'altra. Eppure è bastato dimenticarmi di te e di me stesso per dimenticare quei sentimenti. Ho cercato di conciliare il me stesso del passato, il me stesso dell'incidente e il rottame che poi sono diventato. Ho cercato di conciliarli, ma senza successo. Ho cercato di conciliare la persona che ero con quella che sono diventata. Perché la verità è che recuperare i ricordi non ha significato ritornare me stesso.  Ho solo riempito il vuoto. Ma in questi quattro anni sono diventato un'altra persona. E questa qui non è la stessa di cui eri innamorata.»
«Non osare... Non osare dirmi cosa provo o cosa ho provato!» Cercò di non alzare la voce, ma il suo tono furioso fecero girare diversi clienti del caffè. «Non osare, Johnathan Silver-Smith. Non presumere di sapere, perché come hai bellamente sottolineato in così tante parole, non ne hai più il diritto. Quello che mi stai dicendo è che non sei più innamorato di me, giusto?»
«Sì. Se vuoi metterla su questo piano, è così.»
«Su quale cazzo di piano vuoi metterla allora?»
John non poteva risponderle.
«Tu mi hai dato un anello di fidanzamento, John. Mi hai chiesto di sposarti. Non appena avresti chiuso il maledetto caso dei Black Ghost.» Lei gli mostrò la mano sinistra, dove un piccolo diamante rifletteva la luce del sole. Una coltellata allo stomaco gli avrebbe fatto meno male.
«Mi hai chiesto di sposarti proprio a questo maledetto tavolino, Johnathan. Hai messo l'anello nel croissant, come se fossimo in un fottuto film romantico ambientato a Parigi.» Le lacrime scendevano ormai copiose dai suoi occhi, sciogliendo il trucco. Non che le importasse. Non le importava più di nulla. Ma non aveva finito. «Ti ho aspettato, sai? Ma certo che lo sai. Non me lo hai chiesto, anzi. Mi hai detto di rifarmi una vita. Eppure non ti ho ascoltato. Ti ho aspettato lo stesso, per tutto questo tempo. Ti ho aspettato perché ho creduto che fossimo più forti del destino crudele che ci aveva giocato questo tiro schifoso. Dio, quanto mi sbagliavo!» Si era alzata e si era sfilata l'anello. Lo lasciò cadere con un tonfo sordo sul tavolino, dove rotolò fino a terra, senza che né lui né lei né fermassero la caduta.
«Del resto tu sapevi già di non amarmi più, vero? Ecco perché mi hai detto quelle parole, in ospedale. Ecco perché te ne sei andato. Dimmi solo una cosa.»
John era paralizzato dalla valanga di rabbia che Miriam gli stava riversando addosso, ma annuì impercettibilmente.
«Perché adesso? Perché proprio ora? Perché parlarmi? Perché non dirmelo subito al tuo rientro?»
Come avrebbe potuto spiegarglielo? Come poteva dirle che il nuovo se stesso, la persona che era diventato, si era innamorato di un'altra?
Miriam era stata tutto ciò che aveva sempre voluto. Un tempo aveva le idee così chiare, così cristalline, che se guardava lo specchio e vedeva il suo riflesso, leggeva stampato sulla sua faccia idiota esattamente tutto il suo futuro. Ora? Che fine avevano fatto quelle aspettative? Non ne aveva idea. Non era più un lago dall'acqua trasparente. Non era più il riflesso di se stesso. Non aveva la più pallida, maledetta, idea di chi diamine fosse. Sapeva però una cosa. Ovvero che Claire, nonostante le sue fragilità, nonostante non volesse più parlare con lui chissà per quale oscuro motivo, nonostante si fosse dimenticata di lui, non riusciva ad eliminare ciò che provava. Si era dato del pazzo migliaia di volte, dicendosi che non aveva senso sperare in qualcosa di così aleatorio, di così effimero e così incerto come le sue percezioni. Eppure lei aveva continuato a disegnare il suo profilo. Invece lui al suo risveglio non aveva provato che quel profondo, orribile vuoto. Si era chiesto perché così tante volte da perderne il conto. Perché non aveva provato neppure attrazione per lei? Perché la sua testa gli aveva permesso di vedere Claire? Perché?
«Dimmelo! Almeno questo. Me lo devi.»
Aveva ragione. Inspirò a fondo, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri caotici e confusi.
«Mentre ero a Londra ho tenuto le persone a distanza. Compreso Aaron. Eppure qualcuno è riuscito ad abbattere il muro che avevo costruito. Ed è grazie a lei se oggi sono qui.»
Miriam si portò le mani alla bocca. Le tremavano violentemente, ma lo sguardo di John la mantenne inchiodata sul posto.
«Non è come credi. Non c'è stato nulla tra noi, se non qualche bacio. Ma quando sono... Rinsavito, ed ho ricordato noi due... Ogni singolo dettaglio, Miriam... Quando ho ricordato, pensavo di impazzire. Mi hai chiesto di ammettere che non ti amo più. Vuoi che ti rinneghi le mie parole di quel giorno e la mia richiesta di sposarti. Lo sto facendo, per lasciarti libera. Perché meriti di essere felice, e un essere a metà come me non può renderti felice. Ma non dubitare, neppure per un istante, che quelle parole fossero vere. Non dubitare che per me siano vere tutt'ora.»
«Allora perché mi stai lasciando? Io non voglio la libertà. Io voglio te.»
«Perché anche se il tuo Johnathan è ancora qui.» Si picchiettò la testa con l'indice, poi indicò il cuore: «Qui è un uomo a metà. E non so ancora cosa farmene di me stesso. Non voglio darti illusioni e false speranze, Miriam.» Si alzò in piedi e girò intorno al tavolino. Raccolse l'anello e lo posò sopra. «Ti ho amata dal primo momento in cui sei rotolata dalle scale della Columbia e ti ho afferrata al volo. Ti ho amata in ogni istante che siamo stati insieme. Ti ho amata anche mentre non ricordavo di averlo mai fatto. Ma adesso... adesso lei è tutto ciò a cui riesco a pensare. E tu non hai bisogno di un me così a pezzi. Hai bisogno di una persona completa, qualcuno che ti ami come ho fatto io quando ero ancora il tuo Johnathan Silver-Smith.» Le sfiorò la guancia e le si ritrasse impercettibilmente, come se si fosse bruciata.
Anche adesso, nonostante le sue parole devastanti, sentiva il desiderio di prenderla tra le braccia e stringerla a sé per consolarla. Sentiva il bisogno di rimangiarsi ogni parola, di ricominciare da capo quell'appuntamento, magari con il bacio che lei si aspettava. Sentiva quel bisogno nelle ossa. Eppure si chinò sulla sua fronte, la sfiorò con le labbra e le disse ancora: «Non ti chiedo di perdonarmi. Non farlo. Ma ti chiedo una cosa e questa me la devi.» Miriam singhiozzava e lui le alzò il viso. «Devi promettermi di essere felice, Miriam.»
Lei si mosse così veloce da non permettergli di spostarsi, piantandogli un sonoro ceffone sulla guancia. Non che lo avrebbe schivato, anzi.
«Vaffanculo, John.»
«Questo mi sembra un ottimo inizio.»
Le sorrise mesto e la lasciò andare. Uscì senza voltarsi, per paura di rimangiarsi ogni cosa. Questa era stata la principale ragione della sua codardia nel non chiamarla prima. La paura di trascinarla in una finzione, quella del se stesso completo. Quella del se stesso che non aveva incontrato Claire. Temeva che Miriam, con la sua dolcezza e la sua perseveranza, lo avrebbe convinto a lasciarsi cullare tra le braccia della consuetudine. La rassicurante quotidianità della loro storia. Non poteva permetterlo.
Vagò per Central Park senza prestare attenzione a dove andava. Infine chiamò un taxi e gli diede l'indirizzo di Jayden. Quando bussò alla porta era ancora in stato semi catatonico, a riflettere sull'irreparabile torto che le aveva fatto. Si lambiccava il cervello da ore, cercando di capire se avesse fatto o meno la cosa giusta. Se avesse scelto le parole giuste. Se avesse davvero pensato a tutte le alternative. Era così intento su quei pensieri da non essersi accorto che la porta era aperta, finché una furia dai capelli rossi non si abbatté su di lui, tempestandolo di pugni.
«Tu! Maledetto stronzo! Bastardo! Sei un figlio di puttana! Come hai potuto farle questo! Come?»
«Rachel.»
«Non chiamarmi con quel tono da cane bastonato. Non te lo permetto, Smith!» Era in lacrime di frustrazione e rabbia, ma quando vide l'espressione dell'uomo, si mise a singhiozzare ancora di più. Quando aveva incontrato Miriam quel pomeriggio era rimasta angosciata nel vederla così devastata. Eppure c'era accettazione nel suo sguardo. Vedere John con l'espressione di Miriam dipinta sul volto, senza però la stessa luce di speranza negli occhi, la rese impotente. Aveva deciso di picchiarlo a sangue, ma tutto ciò che riuscì a fare fu abbracciarlo fugacemente e poi fiondarsi fuori, lasciandolo solo con Jayden. L'amico gli indicò con un cenno della testa il divano. Conosceva quel divano. C'era stato seduto per talmente tanto di quel tempo, che si era formata una conca con la forma del suo culo. Jay gli passò un bicchiere di acqua ghiacciata. John scosse la testa. «Ho fatto quello che dovevo.»
«Lo so.»
«Ora mi aiuterai.»
«A partire da domani.»
Scese il silenzio. Un bisbiglio lieve sfuggì a John. «Non sono sicuro di essere ancora degno di essere chiamato essere umano, Jay.»
«Non fare la prima donna melodrammatica, Smith.»
«Già.»
«Hai fatto quello che dovevi.»
«Ho fatto una cazzata. La cazzata più grossa della mia vita. La rimpiangerò ogni singolo giorno.»
«Vuoi ritornare sui tuoi passi?»
John scosse la testa. «No. Solo perché è la cazzata più grossa della mia vita, non vuol dire che non fosse la giusta cazzata da fare. E so che la pensi come me.»
Jay non si espresse oltre. Rimasero in silenzio ancora per un po', prima che John parlasse di nuovo.
«Se riesco a farmi reintegrare con il punteggio massimo, dovrai mettermi nella task force.»
«Cosa? No. Non se ne parla proprio!»
«Jayden.»
«No, John. Non dipende da me. E comunque non lo permetterei mai.»
«Perché?»
Jay lo guardò incredulo. «Dici sul serio? Oh cazzo. Dici sul serio. Non ci posso credere.»
Stavolta lo sguardo di John era intransigente. Jay alzò le mani, rassegnato. «Tanto per iniziare, sei troppo coinvolto per poter essere inserito nella task force. Hai perso troppo per mano dei Black Ghost. Non permetterò ti rubino altro tempo ed energie.»
«Oh, ma sentitelo. Chi è adesso la prima donna melodrammatica, Marlowe?»
«Fottiti.»
«Anche tu, amico. Sai che posso aiutarvi. Posso ricordare ancora altri dettagli di quella sera.»
«Mi stai ricattando?»
«Sì.»
Jayden sospirò. Conosceva quello sguardo. «Tanto non passerai mai a pieni voti, gradasso.»
Un lento sorriso sarcastico spianò le rughe di tensione dalla faccia di John. «Staremo a vedere.»