15.
Il giocoliere
Chagall
Il tremore interno che assale un trapezista prima di lanciarsi nel vuoto era qualcosa che Claire non pensava di sperimentare mai nella sua vita. Era in un furgone anonimo con i finestrini oscurati, circondata da gente in passamontagna nero e minacciose pistole nella cinta dei pantaloni. Non aveva la più pallida idea di come la sua tranquilla esistenza, costruita su un ordine ben preciso e rassicurante, fosse potuta giungere a quel punto. Non aveva avuto la minima notizia da parte di Judith e l'Interpol. Non sapeva cosa sarebbe successo. Il fatto che Lowell le avesse chiesto il vero quadro era di certo giunto alle loro orecchie, ma non aveva ricevuto nuove direttive. Cosa avrebbe dovuto fare? Si sarebbe dovuta attenere al piano che le aveva comunicato Judith l'ultima volta che l'aveva vista? E perché John non era più venuto? Forse però era stato meglio. Si era concentrata sul dipinto. Era stato difficile finirlo, ma ce l'aveva fatta. Ogni pennellata le portava alla mente momenti con John, chiacchierate con suo padre, che le aveva trasmesso il suo amore per gli Impressionisti, liti su quale fosse il Monet più bello fatte con Jackie. Joanna sarebbe stata orgogliosa di lei, per come era riuscita a metterci tutta la sua rabbia e tristezza. Si era sentita libera, come dopo una catarsi. Almeno finché Lowell non le aveva rovinato il momento. La voce di uno degli uomini la riportò bruscamente alla realtà.
Era in pericolo. Poteva essere scoperta e uccisa in qualunque momento. Non sarebbe dovuta essere lì con loro. Si erano dette con Judith che non avrebbero mai costretto il falsario a partecipare al furto vero e proprio, invece le avevano detto che sarebbe dovuta andare a prenderlo lei stessa.
Non era preparata a una simile situazione. I segnali di pericolo le arrivavano da ogni direzione. Eppure lei riusciva a mantenere la mente lucida. Che Joanna avesse avuto ragione sulla catarsi, sull'affrontare le sue paure e sul training della respirazione?
«È il momento.» Uno dei loschi individui la prese per un braccio, strattonandola.
Lo guardò in cagnesco. «Lasciami. Non sono il vostro galoppino.»
Lui la lasciò andare. Come con i cani rabbiosi, che non devono fiutare la tua paura. Il tizio alla guida del furgone le lanciò una lunga occhiata impenetrabile. Era l'unico senza passamontagna. Chissà perché. Ricacciò le domande in un angolo della sua testa. La tensione prese il sopravvento. Le sembrava che ogni passo la conducesse verso un baratro. Voleva solo voltarsi e correre via, il più lontano possibile. Si avviarono silenziosi verso il retro di un altro furgone, molto simile al loro. Era parcheggiato davanti a uno degli anonimi garage della National Gallery. Stavano facendo una ricognizione, per capire il momento esatto in cui scambiare i quadri. Si fermarono di colpo. C'erano troppe guardie. Non sarebbero passati inosservati. I Black Ghost non potevano permettersi simili eclatanti fallimenti nel mantenere il loro tipico stile.
Il capo gruppo fece un segno con la mano. Tornarono indietro, mentre nascosti nel furgone osservavano i movimenti delle guardie. Stavano caricando casse su casse. Il Monet non era l'unico che sarebbe stato sottoposto alla manutenzione, ma era l'unico che avrebbero rubato. Almeno secondo quello che le avevano detto. Poco dopo un paio di uomini in divisa entrarono dentro e si chiusero le portiere alle spalle. Altri due salirono davanti e il blindato partì. L'autista dei Ghost mise in moto e li seguì a una certa distanza. Non le piaceva affatto la situazione. Non era previsto che ci fossero guardie. Non era previsto che dovessero rubarlo dal furgone in movimento. Troppo variabili diverse. Gli uomini che la circondavano parlottavano in russo. Si stavano avvicinando a un incrocio. Il loro furgone si mise in coda dietro al blindato della National.
«Ora!»
Il comando secco fece scattare tutti come una molla in un ingranaggio ben oliato. Tutti tranne Claire, che non aveva mai fatto nulla del genere. Venne strattonata da uno di loro, mentre con una velocità e precisione notevoli vide tre di loro far saltare con dell'esplosivo le maniglie della portiera.
Attimi di confusione, tutto nella quiete più inquietante che Claire avesse mai visto. Osservò con orrore che le due guardie venivano tramortite.
«Vai! Sbrigati!»
Ma lei non riusciva a muoversi. Era paralizzata dall'orrore. Un uomo le tolse dalle mani la tela da lei dipinta ed entrò nel blindato.
«No. Deve farlo lei. Sergej è stato chiaro.»
«Sergej può baciarmi le chiappe. Non ho intenzione di marcire in prigione perché la ragazzina si è spaventata.»
«Posala.» Il capogruppo puntò la pistola alla fronte dell'uomo. Avevano pochi secondi ancora prima che il semaforo fosse tornato verde e loro sarebbero stati visti. Claire voleva disperatamente muoversi, ma il panico l'aveva congelata sul posto. Non avrebbe dovuto essere lì. Non avrebbe dovuto. L'uomo con in mano la sua tela fece un cenno con la testa verso il guidatore del loro furgone, che faceva cenni.
«Siamo in ritardo. E Sergej ha detto che se le cose si mettevano male, non importava come, dovevamo portare a termine l'incarico.»
Il capo lanciò un'occhiata al loro autista che indicava l'orologio e alzò la mano per segnalare un quattro.
«Quaranta secondi. Merda, non abbiamo più tempo. Sbrigatevi.» Il capo abbassò l'arma e se ne andò. Due di loro avevano già iniziato a spogliare le guardie e a prendere il loro posto. Altri li stavano trasportando nel loro furgone, con la massima velocità consentita. Vedendo che erano ancora vivi, Claire riuscì finalmente a muoversi. Ma era sempre troppo lenta per fare ciò che avrebbe dovuto. L'uomo che le aveva tolto dalle mani la tela, aveva già cercato tra i numeri di serie delle casse quello corrispondente e stava tirando fuori il vero dipinto. Infilò nello stesso posto la tela di Claire, le afferrò una mano e la trascinò via. Balzarono giù il momento stesso in cui diventava verde. Corse di lato, dove la portiera era aperta e la spinse senza troppa gentilezza, saltando dentro anche lui. Già i primi clacson suonavano impazienti, mentre loro ripartivano quasi sgommando. Nessuno si era accorto di nulla. Avevano scelto apposta quel semaforo perché durava di più, oltre che faceva angolo con un antico palazzo vittoriano, permettendo loro di rimanere nascosti. Claire ricominciò lentamente a respirare. Faceva profondi sospiri, per incamerare l'aria che aveva perso. I russi parlottavano tra loro in maniera concitata. Quando smisero, alzò lo sguardo. Si accorse che la stavano guardando tutti, perché teneva ancora la mano all'uomo che l'aveva salvata da morte sicura. La lasciò andare di colpo.
«Hai un'ammiratrice.»
«Puoi sempre chiedere a Sergej di lasciartela tenere dopo il lavoro.»
Gli altri lo deridevano, ma l'uomo non rispose alle loro provocazioni, né la guardò o commentò sullo strano accaduto. Claire si spostò quanto bastava per non stargli così vicino, sebbene l'angustio spazio limitava i movimenti. Aveva notato che era particolarmente rigido, ancora in tensione e allerta, pronto a scattare alla minima avvisaglia di pericolo.
Evidentemente se ne era accorto anche il capo. «Vedi di calmarti.»
Il furgone si fermò. Una nuova ansia assalì Claire. Sapeva cosa sarebbe successo adesso. Aspettarono a lungo, fino a che il telefono del capo gruppo squillò. Anche con l'impostazione su silenzioso e la modalità vibrazione, il cellulare fece un baccano assordante. Almeno secondo Claire, che viveva quella telefonata come i condannati al patibolo.
«Sì. D'accordo.»
Chiuse la conversazione, bussò al finestrino del guidatore e gli diede un indirizzo che Claire nemmeno ascoltò, per quanto era sommersa dal sollievo. La chiamata era il via libera dei sostituiti delle guardie che avevano consegnato il dipinto e si erano fatti mettere il timbro sulla bolla di consegna. Ora ci sarebbero voluti giorni prima che si accorgessero dello scambio, quando un tecnico avesse visto da vicino il quadro. Solo il capo gruppo conosceva l'ubicazione della villa dove si sarebbe tenuto il gran gala con l'asta segreta. Sarebbero potuti intervenire già in quel momento, ma Claire si era rifiutata. Voleva vedere il volto di chi l'aveva tradita, permettendo a Lowell di uccidere Jackie. Voleva vederlo in faccia e dirgli tutto il suo odio, mentre veniva portato via. Lo voleva con tutto il cuore. Quindi mise da parte l'angoscia e le paure. Mise da parte le domande. E visse in un limbo fatto di ansia e aspettativa nervosa per tutti i quaranta minuti che impiegarono ad arrivare alla grande villa fuori Londra.
***
Lo stagno delle ninfe finalmente sarebbe stato suo. Lo desiderava con ardore da anni. Lo aveva anelato a tal punto da entrare nei Black Ghost, sperando di convincerli a rubarlo.
Ci aveva messo quasi cinque anni, ma alla fine ce l'avrebbe fatta. Il Monet era suo di diritto. Era passato in talmente tante mani nel corso del tempo, ma era suo. Almeno stando ai diari della sua pro pro prozia francese. Li aveva trovati quando era un giovane adolescente più interessato all'arte che alle stupidaggine dei suoi coetanei e da allora ne era rimasto ossessionato. Camminava nervoso nello studiolo dove avrebbe incontrato la ragazza. Era un comportamento così atipico per lui, che gli altri gli avevano chiesto cosa avesse che non andava. Claude gli aveva detto di andare a darsi una calmata, perché con i suoi passi costanti e i suoi manierismi nervosi stava mettendo in agitazione gli ospiti. Claude era quello che lo preoccupava di più. Neppure il russo, Antoiny Sobolev, gli metteva addosso la stessa fretta di concludere la sua missione personale, una crociata che durava da almeno un decennio, se non di più. La porta si aprì, facendolo fermare al centro della stanza. Entrò Dragonfly, seguita da uno degli uomini di Sergej. Anzi, a guardarlo meglio, era il suo uomo.
«Me l'hai portata, ottimo. Puoi anche andare via adesso.»
Notò subito un particolare disturbante. O meglio, l'assenza di qualcosa che avrebbe dovuto esserci, ma non c'era.
«Dove è il mio quadro? E tu, cosa diavolo vuoi? Ti ho già detto che il compenso sarà addebitato dopo che avrò controllato.»
«Non ho con me il quadro.»
La furia omicida quasi lo accecò. Si avvicinò minaccioso a lei: «Cosa? Ero stato chiaro, razza di sgualdrina!»
Con un braccio tentò di afferrarla per il collo. Una mano afferrò il suo polso, fulminea. L'uomo al suo fianco lo bloccò a pochi centimetri dal viso della ragazza.
«Guai a te se la tocchi, stronzo.»
Lowell non capiva cosa stesse succedendo. Aveva perso la calma e con essa anche la razionalità.
«Chi cazzo sei?»
«Quello che ti darà ciò che meriti, bastardo.»
Veloce come solo chi è addestrato sa essere, spostò la ragazza dietro di lui e gli tirò un cazzotto allo stomaco. Lowell imprecò e ricambiò. La colluttazione fu veloce e brutale e Claire non riusciva a capire cosa stesse succedendo, fino a che l'inglese non finì disteso a terra, malconcio e indiscutibilmente svenuto.
L'uomo si girò verso di lei. Era lo stesso che l'aveva salvata dal panico nel blindato, ma lei era immersa nel terrore e fece un passo indietro. Fino a che non si tolse il passamontagna.
«Te lo avevo promesso che sarei stato al tuo fianco in ogni istante.»
Claire non riusciva a credere ai suoi occhi. Passò in secondo piano la situazione e la tensione. Gli si gettò tra le braccia, prima che razionalmente se lo impedisse.
«Oh, ma che scena commovente.»
La schiena di John si irrigidì. Claire riusciva a vedere solo i muscoli delineati dalla sua mimetica nera. Non sapeva se John la stava proteggendo dalla verità o da una minaccia reale, come un'arma puntata contro di loro.
«E quindi siamo stati incastrati, eh?»
L'accento francese e il suo tono di voce. Claire era sicura di conoscerli. Fece un passo di lato, per uscire dall'ombra del suo scudo. Doveva conoscere la verità. Era diventato un bisogno primario, quasi più dell'aria. Aria che le scomparve del tutto dai polmoni, quando vide chi aveva di fronte. John la stava proteggendo sia da una minaccia reale, che dalla verità.
Jean Jacques Morel, il genero di Armand, stava puntando contro di loro una pistola. La teneva ferma nella mano, senza il minimo segno di esitazione. La studiò, senza riconoscerla.
«Tu saresti Dragonfly? Dal vivo sei più sexy, lo ammetto. Anche se non sei il mio tipo.»
Claire ritrovò la voce, sebbene un flebile sussurro: «Conosco bene il tuo tipo. Si chiama Elise Morel. Hai preso il suo nome per poter ereditare un giorno la sua fortuna fatta con la vigna dei Severan?»
Jean Jacques perse per un attimo l'espressione di scherno, sostituita dall'ira. Recuperò subito il controllo, ma sia John che Claire lo avevano visto. La calma apparente del suo tono era un'ulteriore prova che la situazione poteva precipitare da un momento all'altro.
«Come sai queste cose?»
«Come lo so? Ottima domanda.»
Claire fece un passo verso di lui, ma John le afferrò una spalla. Si fermò senza guardarlo, ma iniziò a parlare in francese.
«Abbiamo vissuto lontani per così tanto tempo che non riesci neppure a riconoscere la faccia di tua cognata, Jean Jacques?»
Stavolta non riuscì a contenere la sorpresa, dando a John l'opportunità che aspettava. Con un balzo in avanti e una mossa di disarmo, gli fece cadere dalle mani la pistola. La calciò lontano e lo atterrò l'istante successivo. Claire osservava la scena, cercando di digerire il colpo che aveva ricevuto.
Jean Jacques era sempre stato un tipo schivo, non avevano mai davvero legato. E allora perché si era premunito di non farla uccidere? Si avvicinò e inginocchiò, mentre John gli legava le mani con un fettuccia di plastica bianca, per poterlo guardare negli occhi.
«Perché?»
Ma lui non rispondeva. Lo prese per il bavero della giacca. «Dimmi perché, maledetto bastardo!»
Lo iniziò a scuotere con violenza, le lacrime che iniziavano a scendere senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Perché Jackie era morta? Perché? Non riusciva ad accettare che la semplice avidità le avesse tolto la sua migliore amica. E che ora avrebbe rovinato la vita anche alla famiglia di Armand, la sua famiglia.
«Dimmi perché! Perché non hai ucciso anche me!»
Sentì il brusco respiro di John a quelle parole, ma non le importava. In quel momento voleva solo delle risposte. Voleva la verità. Jean Jacques finalmente alzò lo sguardo su di lei. I suoi occhi erano pozzi neri di egoismo. Sorrise lentamente con una punta di malvagità che diede i brividi a Claire. Un lungo brivido gelido che le attraversò tutta la spina dorsale, fino alla punta dei capelli. Lo lasciò andare di scatto, come se il contatto con lui le bruciasse le mani.
«Potrei dirtelo. Ormai non ho nulla da perdere, giusto?» Tuttavia tacque di nuovo, come se la stesse torturando con la tecnica della goccia cinese.
«Dimmelo. Dimmelo …» Le si spezzò la voce.
Riuscì in qualche modo a raddrizzarsi, mentre una porta si apriva e John imprecava, tirando fuori la pistola e puntandola sul nuovo arrivato. Lei gli dava le spalle.
Il nuovo arrivato imprecò in francese. «Merde
Jean Jeacques puntò il mento verso chiunque fosse arrivato. La soddisfazione malvagia gli illuminava lo sguardo. Claire aveva timore di voltarsi.
«Non è dipeso da me, ma da lui. Nonostante mi avrebbe risolto un'infinità di problemi, compresa la questione dell'eredità dei Morel, lui ha preteso che non ti fosse torto un solo capello da quella tua bella testolina vuota.»
Claire si voltò lentamente. John osservava ogni dettaglio come un falco, mentre dall'auricolare dell'orecchio sinistro gli arrivavano le informazioni dagli altri membri della squadra tattica, che erano appena entrati nella villa e con una massiccia azione congiunta di FBI ed Interpol stavano arrestando un centinaio di persone.
Claire guardava l'uomo, ma non lo guardava davvero. Lui non poteva essere lì. Non poteva essere lì. No. Perché lui era morto anni prima. Era morto in un incidente d'auto con la madre. Non poteva essere lì.
«No...»
Se prima le si era fermato il respiro, ora sentì il cuore fermarsi e spezzarsi in mille piccolissimi pezzettini. Mille pezzi che non avrebbe mai più potuto ricomporre. Perché l'uomo che la guardava con orrore crescente, era lo stesso che un tempo le leggeva le favole della buonanotte. Era lo stesso uomo che le aveva insegnato a disegnare, per poi scherzare sul fatto che l'allieva aveva sorpassato il maestro. L'uomo che era di fronte a lei era suo padre.
«Claire...»
«No... No... No...»
«Claire.»
«Non puoi essere tu. Non puoi. Non puoi...»
Si accasciò a terra, piangendo. Il trucco agli occhi venne via con le lacrime.
Claude Severan fece un passo verso di lei, ma si fermò, quando l'uomo in nero gli puntò contro la pistola.
«Non un centimetro di più. Se ti avvicini a lei, non rispondo di me.»
La rabbia che emanava si riversava fuori ad ondate di odio.
Jean Jacques rise, malevolo. «Non te lo aspettavi, eh? Piccola sciocca viziata, ti meriti tutto quello che ti è successo.»
Claude avrebbe voluto colpirlo, ma John era più vicino. Con il calcio della pistola lo tramortì. Ma le sue parole aleggiavano nell'aria.
John voleva correre da Claire, ma temeva che i due criminali svenuti potessero risvegliarsi presto e tentare qualche gesto disperato per poter sfuggire. Osservò con attenzione l'uomo che aveva davanti agli occhi. Era ben vestito, con i capelli sale e pepe sistemati e il taglio dell'abito sicuramente costosissimo. Ma non erano quelli i dettagli su cui si soffermò. I suoi occhi erano identici a quelli di Claire. La linea del naso, il portamento. Indicavano tutti un'unica verità che non riusciva a credere possibile. Era il padre di Claire.
L'uomo alzò le mani in segno di resa. Sembrò invecchiare di colpo, mentre spostava lo sguardo sulla figlia accovacciata per terra che tremava e piangeva in silenzio.
«Perché?» John non poté fare a meno di chiedere. Voleva la verità tanto quando Claire. La voleva per lei prima ancora che per se stesso.
Non credeva neppure che lui rispondesse, invece lo fece.
«Perché? Da dove vuoi che cominci? Dalla mia carriera artistica fallita? Dalla morte di mia moglie? Dal semplice desiderio di avere ciò che non poteva essere mio? Cosa vuoi sentirti dire, esattamente?»
Claire alzò lo sguardo, sentendo la sua voce. Il sincero dolore che passò sul volto di suo padre non fu di conforto. Distrusse se mai ancora di più la fiducia verso gli altri che Claire aveva faticosamente rimesso insieme, brandello dopo brandello. Si alzò in piedi traballante e gli si avvicinò. Si portò la mano al viso, togliendo le protesi che le modificavano i lineamenti. Ad ogni passo, un pezzo di Dragonfly scompariva. Lanciò via la parrucca scura. Le lenti a contatto che erano scivolate via con le lacrime. Il trucco era colato e le rendeva il volto una maschera del kabuki, il teatro giapponese che l'aveva portata a vedere quando aveva sette anni. Quando fu vicino a lui, tirò via il tatuaggio con un unico gesto, lasciando cadere la gomma ultraleggera per terra.
«Perché?»
«Ho già risposto a questa domanda. Forse dovresti chiedermi altro.»
«Voglio sapere perché Jackie è morta. E perché non hai ucciso anche me.»
«Lei non sarebbe dovuta morire. Non sapevo neppure che quello stronzo di Lamaire era venuto in contatto con voi ed era riuscito a raggirarvi. Lo avrei dovuto capire dal minuscolo dettaglio mancante che tralasciavi apposta ogni volta per far capire che era una copia. Avrei dovuto riconoscere il tuo tratto, il tuo stile. Ma era già troppo tardi. Lowell si era intromesso. Aveva risolto le cose a modo suo. È stato un miracolo che riuscissi a richiamarlo alla base prima che uccidesse anche te.»
«Perché?»
Sembrava una campana rotta. Un orologio a cucù che suonava sempre la stessa orribile nota stonata.
Claude la guardò, inizialmente senza capire. «Perché non ti ho fatto uccidere. Mi stai davvero chiedendo questo?» La freddezza con cui Claire lo guardò lo fece arretrare. «Me lo stai chiedendo davvero.»
Il silenzio della ragazza era una risposta lampante. Se possibile Claude impallidì ancora di più, ed era diventato già cinereo quando l'aveva riconosciuta.
«Beh … Direi che il tuo è un dubbio lecito. Del resto non sono più tuo padre, no? Quale padre farebbe mai ciò che ho fatto io?» Si passò una mano sul volto, senza riuscire a continuare. Arrivavano da fuori la stanza suoni attutiti di gente che correva, oltre al vociare persistente misto a intimazioni a fermarsi ed ordini impartiti in modo secco. Ormai erano circondati. Lo sapeva bene. Aprì la bocca per dire quello che Claire voleva sentirsi dire, ma capì che non poteva. Ovvio che non potesse. Con che diritto le avrebbe detto che lei era la sola cosa bella che avesse mai fatto nella vita? Con che diritto avrebbe detto che voleva solo la sua felicità e che non pensava affatto che avrebbe potuto causare tutto quel dolore alla figlia tanto amata?
Nessuno. Non aveva nessun diritto. Non poteva risponderle.
John osservava con attenzione la scena tra Claire e suo padre. All'auricolare gli arrivò finalmente il via libera che stava aspettando.
«Qui squadra Charlie. Abbiamo messo in sicurezza l'edificio.»
«Qui squadra Bravo. Abbiamo catturato quattro sospetti che tentavano la fuga. Identità ancora non confermate.»
«Qui squadra Delta. In arrivo i rinforzi.»
«Qui Marlowe. Avete notizie di Smith?»
«Negativo signore.»
Avrebbe voluto rispondere a Jayden, ma non riusciva a turbare il momento di Claire.
«L'ho visto andare al piano superiore con Dragonfly.»
Era stato McCarthy a parlare. Era con lui quando si era finto lo scagnozzo di Lowell. Del resto era stato il loro autista per tutto il tempo.
«Qui squadra Alfa. Confermiamo la cattura di Sergej e dei suoi.»
«D'accordo, squadra Delta. Raggiungete Smith al piano superiore.»
«Sissignore.»
Jay e la sua preoccupazione. Si trattenne dallo scuotere la testa. Tuttavia si rilassò impercettibilmente, abbassando di qualche grado l'angolazione della pistola.
L'attenzione di John era divisa tra Claire e la consapevolezza che ormai i Ghost erano in mano loro. Ce l'avevano fatta. Ce l'avevano fatta davvero. Eppure... Claire era distante da lui mille miglia, perché la sua non era stata una vittoria. La sua era stata una sconfitta devastante. La freddezza con cui guardava il padre era terribile. Non sembrava neppure più la sua Claire, con lo sguardo carico di odio, i vestiti succinti e i lineamenti nascosti dal trucco colato. Teneva i pugni stretti e le braccia lungo i fianchi, rigida come una statua di gesso. Era così preoccupato per la sua piccola artista coraggiosa, chiedendosi dove fosse finita in quel mare di rabbia e tristezza che sembrava riversarsi fuori da lei. Si chiese, mentre l'angoscia si impadroniva di lui, se sarebbe mai riemersa o se era affogata.
Preso da quei pensieri, non si accorse che Lowell si era svegliato. Lo colse di sorpresa, sferrandogli un calcio al polso e facendogli volare via l'arma. Con orrore vide che si era incredibilmente liberato della fettuccia, usando una piccola lama nascosta nella manica che John non aveva visto, preso dalla concitazione del momento.
«Merda!»
Lo vide correre verso l'angolo in cui era finita la pistola. Fu più veloce di lui. La raggiunse e sparò alla cieca. John si abbassò d'istinto. L'istante successivo si voltò, per vedere se Claire stesse bene. Con orrore vide che Lowell le si era avvicinato, il dito premuto sul grilletto e un'espressione maniacale che lo fece raggelare nell'anima.
«È colpa tua. È tutta colpa tua. Ero ad un passo dall'ottenere la mia eredità. Non meriti di vivere, maledetta puttana.»
John era ancora a terra, non sarebbe mai arrivato in tempo. Si lanciò comunque verso di loro, nel disperato tentativo di impedire ciò che stava per accadere. Gli sembrò di vivere gli istanti successivi a rallentatore.
Vide Lowell sparare verso Claire. Vide Claude mettersi lungo la traiettoria, mentre spintonava con forza la ragazza. Vide la porta spalancarsi e due uomini placcare e disarmare Lowell.
Corse verso Claire. Sembrava stare bene. Era sotto shock, ma il proiettile l'aveva presa solo di striscio. Non riusciva a stare in piedi, quindi a carponi si avvicinò al corpo riverso di suo padre. Una pozza di sangue si allargava sul tappeto damascato.
John iniziò a sbraitare ordini. «Chiamate i paramedici! Sgomberate la stanza. Quei due fanno parte dei Ghost, portateli con gli altri.»
Claire non sentì nulla di tutto questo. Guardava dietro un velo di incomprensione e incredulità la scena davanti a lei, cercando di capire cosa fosse appena successo.
Perché il cattivo l'aveva salvata? Perché l'aveva protetta?
«Non osare...» Le parole erano solo un bisbiglio, in tutto il vociare caotico che la circondava. «Non osare morire...»
«Claire.» Il padre aprì gli occhi. Lo sguardo era lucido e vacuo.
«Non osare. Non osare andartene. Non osare. Devi pagare per ciò che hai fatto.»
«Claire. Io…» Sputò del sangue. Un paramedico iniziò a tamponargli la ferita. Stava arrivando una barella, ma lei guardava solo suo padre.
Occhi negli occhi, con la mano indicò il suo cuore. «Non osare morire. Non ti perdonerò.»
John l'afferrò per le spalle, sussurrandole all'orecchio: «Claire. Devi farli andare via.»
Claire scosse la testa. Non lo avrebbe perdonato. Anche se le aveva inspiegabilmente salvato la vita. Perché, dopo tutto ciò che aveva fatto?
Non si accorse di averlo chiesto ad alta voce. Un paramedico stava per mettergli la maschera di ossigeno, ma lui voltò la faccia per poterle rispondere. Tra un sibilo e l'altro riuscì a balbettare.
«Perché sei l'unica cosa bella della mia vita.»
Claire non capiva. Non riusciva a capire.
«Claire... ti prego, perdonami…» Gli si mozzò il respiro. Gli occhi divennero vitrei. I paramedici si affrettarono a metterlo sulla barella. Mentre lo portavano via, Claire bisbigliò al vuoto che sentiva dentro di sé.
«Non lo farò. Non lo farò mai. Papà.»
Claude non era cosciente quando lei disse quelle parole. Ma John le udì. E sperò che forse un giorno Claire le cambiasse.