Primo giorno

ROMA, PORTICI DI OTTAVIA

I. Dove una matrona curiosa scopre un macabro indizio

Stava albeggiando quando Pomponia, seguita da due ancelle fidate, si fece lasciare dalla lettiga ai portici di Ottavia. Era determinata ad arrivare prima che vi aprissero le numerose tabernae, che le miriadi di ragazzini delle scuole all’aperto sciamassero sotto il teatro di Marcello e che venissero spalancate le porte dei templi di Giunone Regina e di Giove Statore.

Un risveglio così precoce, per una matrona che amava indugiare tra le coltri ben oltre l’ora considerata decente nell’Urbe, doveva poggiare su una ragione sostanziosa. Tale era infatti quella che aveva indotto la brava signora a lasciare anzitempo il tepore del giaciglio, ingollare in fretta e furia uno ientaculum improvvisato a base di avanzi della cena precedente, indossare una veste purpurea ma piuttosto sobria – ovvero con un numero straordinariamente parco di Amorini e Ninfe ricamati sul bordo – e precipitarsi giù dal colle Quirinale come se avesse alle spalle Annibale con tutte le sue schiere puniche.

Adesso, se la sua brillante intuizione rispondeva al vero, non restava che recarsi presso la statua di Cornelia: l’indizio si sarebbe senza dubbio trovato ai suoi piedi. Poteva trattarsi di qualunque cosa: un minuscolo segno sul marmo, un oggetto trascurabile all’apparenza smarrito, un codicillus vergato con scritte misteriose che soltanto un acume straordinario avrebbe saputo decifrare. Era il momento più bello: quello della sorpresa, dell’appagamento, del trionfo.

La matrona raccolse quindi l’ampia veste per correre più veloce, congratulandosi tra sé per aver rinunciato alle solite calzature torreggianti in favore di un paio di sandali dalla suola piatta, che le consentivano di muoversi in tutta libertà.

Non si era sbagliata, gongolò mentre varcava il colonnato nello scorgere una incongrua macchia di colore tra l’omogenea fissità del bronzo: eccolo là l’indizio, e lei sarebbe stata la prima a trovarlo!

Pomponia osservò per un attimo la celebre iscrizione votiva con la quale per la prima volta Roma aveva reso a una donna l’omaggio di un monumento pubblico: Cornelia Africani F. Gracchorum: “Cornelia, figlia dell’Africano, madre dei Gracchi”.

Un attimo dopo la matrona girava dietro la statua, mentre tra le colonne due piccoli occhi vispi la spiavano con curiosità. Le ancelle la videro chinarsi verso qualcosa che giaceva a terra, e quindi scolorare, prima di accasciarsi esanime al suolo.

ROMA, BASILICA EMILIA

II. Dove Aurelio fa uno strano incontro

Chi, ignaro dei segreti dell’Urbe, avesse visto sbucare poco dopo dal vicus Tuscus un uomo alto e bruno dall’aria assai rilassata, con un modesto mantello fatto apposta per celarvi sotto la veste di lana fina, lo avrebbe supposto un pubblico funzionario, un contabile o forse il procurator di una famiglia abbiente ma non ricchissima. Osservando meglio, tuttavia, si sarebbe notato il taglio assai elegante dei capelli, acconciati più corti di quanto imponesse una moda ormai succube delle ondulazioni del calamistrum, poi le unghie curatissime e un paio di calzari di morbido vitello, fabbricati certamente su misura. Ma il particolare decisivo per svelarne l’identità di padre coscritto era l’anello che portava all’indice, col sigillo senatoriale di rubino ruotato verso il palmo per non dare troppo nell’occhio, dato che il vicario del princeps Senatus Lentulo, pur non trovandosi in città quel giorno, aveva disseminato la strada di spie pronte a rivelargli gli eventuali sgarri della giovane moglie, la stessa con cui il patrizio aveva testé avuto un piacevole incontro clandestino.

Fu quindi con accorta prudenza che il senatore Publio Aurelio Stazio si portò nel portico della Basilica Emilia, guardandosi attorno per accertarsi che non vi fossero in vista padri, mariti o fratelli gelosi, né clientes pronti a pietire mance e favori.

All’improvviso tuttavia provò quella specie di disagio diffuso che si avverte quando ci si sente osservati. Non si sbagliava, appurò notando un uomo che stava fissandolo, protetto dalla ressa di cittadini venuti a prendere posto in basilica per assistere a una causa succosissima a base di due diversi adulteri, un tentativo di strangolamento e una cospicua eredità da spartire tra cugini rivali: nessuno dei bravi quiriti voleva perdersi il dibattito, che si annunciava molto più interessante di qualunque spettacolo teatrale, e inoltre era a titolo gratuito.

Aurelio scrutò lo sconosciuto non senza sconcerto. Pur non avendolo mai visto prima, gli pareva di conoscerne in qualche modo i lineamenti. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto del motivo: guardarlo era come contemplarsi in un magico specchio di rame dotato della divina virtù di mostrare la sembianza non del presente, bensì del passato.

Tramandano le antiche storie che al bellissimo Narciso venne predetto dal veggente Tiresia una morte in tarda età, a patto che “non avesse mai conosciuto se stesso”. Il giovane, tuttavia, punito dagli Dei per non aver mai reputato nessuno degno della sua attenzione erotica, si trovò un giorno a invaghirsi perdutamente della propria immagine riflessa nell’acqua al punto da morirne, chi dice annegando nel tentativo di abbracciarla, chi trafiggendosi con una lama per l’impossibilità di possederla.

Tale e quale allo stupore attonito del giovinetto mentre si riconosceva nell’acqua limpida, furono la sorpresa e l’incredulità del patrizio. Rapido a reagire, spintonò la folla, gettandosi in avanti verso lo sconosciuto, il braccio proteso per afferrarlo.

Non sempre però le cose vanno come si spererebbe. Nella calca, la mano del senatore brancò infatti qualcosa di troppo morbido per essere una spalla maschile e nel medesimo istante il suo alluce destro, avvolto nell’esclusiva calzatura di pelle finissima, venne stritolato in una morsa crudele, frantumato come un guscio di noce, pigiato come un grappolo nel torchio, schiacciato come un’oliva nel frantoio.

«Brutto asino schifoso, ti insegno io a palpeggiare le donne indifese!» gridò una matrona colossale, facendo scudo all’enorme seno oltraggiato con un avambraccio grosso come le colonne del tempio di Saturno. E intanto pestava, pestava, pestava, risoluta a ridurre in briciole il piede del senatore.

Sebbene avesse affrontato i barbari Germani nelle cupe foreste del Nord, i Celti feroci nell’Armorica e persino gli infidi Parti ai confini dell’impero, ad Aurelio occorse un bel po’ per liberarsi del donnone. Quando ci riuscì, dell’uomo che gli somigliava troppo non vi era più traccia alcuna.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

III. Dove Pomponia cerca di spiegarsi

Ancora piuttosto pallida, Pomponia si fiondò nelle fauces della residenza degli Aureli sul Viminale, sorpassando di corsa il vestibolo con le panche in pietra dove i clientes attendevano di solito fin dall’alba il privilegio di porgere l’omaggio mattutino al patrono in cambio di una sportula di cibo e altre regalie. I sedili erano già quasi vuoti, segno questo o di una improbabile levata antelucana del patrizio o della consueta delega del noiosissimo compito all’intendente Paride.

Come tutti i grandi di Roma, il senatore Stazio infatti aveva legioni di clientes pronti a onorarlo, a rivolgergli la salutatio quotidiana, ad accompagnarlo ovunque dimostrando così pubblicamente la sua influenza e il suo potere. A differenza di molti altri, però, avrebbe volentieri fatto a meno del loro ossequio: le suppliche ipocrite, le adulazioni smodate, le richieste pressanti lo annoiavano a morte, tanto più che l’uso prescriveva le ascoltasse in piena tenuta curiale – toga e tunica col laticlavio e calcei con la lunula compresi – appollaiato rigidamente su un seggio di eccezionale scomodità.

La matrona non si aspettava quindi di trovarlo al suo posto quando entrò nell’atrio con tale irruenza da svegliare il portiere Fabello, addormentato come al solito nella sua guardiola. Tanta era la sua agitazione che fu lì lì per inciampare nell’impluvium dell’atrio, e sebbene avesse ritrovato in extremis un precario equilibrio, non poté evitare che una falda della palla scarlatta finisse nell’acqua della grande vasca, tingendo il Cupido del mosaico di una scia rossa spiacevolmente simile al sangue.

«Cattivo presagio» gemette affrettandosi a sorreggerla il liberto Paride, intendente fedelissimo e onestissimo, ma piuttosto superstizioso.

«No, tintura scadente, ottenuta senza dubbio da molluschi di qualità mediocre» lo corresse il segretario Castore. Era questo un greco agile e snello, con occhi astuti e lineamenti ben cesellati, culminanti in una curatissima barbetta a punta che lo rendeva per qualche verso simile agli eroi antichi raffigurati sui vasi attici, anche se di eroico il segretario aveva ben poco, e si sarebbe senza dubbio risentito se gli fosse stato attribuito tale connotato, che giudicava inutile e deleterio.

Paride lo guardò storto: soltanto l’enorme rispetto per il padrone gli permetteva di tollerare la presenza sotto il suo stesso tetto di quell’impudente – blasfemo, arrogante, libertino e per di più ladro matricolato – che Publio Aurelio insisteva nel tenersi vicino come collaboratore e confidente, dopo averlo salvato tanti anni prima ad Alessandria dal capestro a cui i sacerdoti di Ammon-Ra lo avevano a buona ragione destinato.

«Il senatore non c’è, è stato chiamato in Curia da un importante affare di Stato» disse compunto alla matrona, abbassando gli occhi.

«Quando pensi che la signora di turno lo lascerà libero?» replicò Pomponia, che ben conosceva le debolezze dell’amico.

Mentre Paride taceva scandalizzato, il segretario fece un rapido calcolo: il padrone usava la villa suburbana del Gianicolo per i suoi abboccamenti galanti e aveva l’abitudine di far ritorno sul Viminale a piedi, disertando portantina e lettighieri per mimetizzarsi meglio.

«Dovrebbe essere qui tra poco» annunciò quindi, porgendo a Pomponia un calice di vino speziato, atto a calmarne la visibile ansia.

In quel momento il patrizio apparve nell’atrio, inalberando un’aria po’ provata, cosa di cui Castore non ebbe a meravigliarsi, dato che le pretese erotiche della sposa di Lentulo levitavano in maniera direttamente proporzionale all’età dell’anziano marito. Ma sembrava anche un po’ stordito, come se avesse bevuto troppo o forse inalato una di quelle erbe narcotiche che si usavano nei santuari per far credere agli ingenui di aver goduto di qualche visione sovrannaturale. E per di più zoppicava leggermente.

«Tutto bene, domine?» chiese il segretario sollecito.

«Benissimo!» rispose il padrone, convinto ormai di avere immaginato quella imbarazzante somiglianza. E non appena cambiate le scarpe con un paio di soffici soleae da casa, la sua espressione tornò balda e serena come al solito.

Subito Pomponia venne fatta accomodare su un lettuccio del triclinio invernale, mentre i servi portavano pasticcini al miele, pane del Piceno, datteri farciti, mandorle tostate, fichi in sciroppo e grandi alzate di frutta fresca.

«A che devo la tua visita a quest’ora insolita?» chiese poco dopo Aurelio.

Agitatissima, la matrona si lanciò in una ridda di affermazioni confuse.

«Io avevo trovato i gioielli, quindi mi sono diretta là, per ispezionare la statua, capisci?» disse, mentre si premurava di sedare l’affanno mettendosi in bocca una grossa manciata di datteri innaffiati nel vino dolce.

«No» rispose sincero il patrizio. Con la sua cara amica Pomponia – moglie del ricchissimo cavalier Servilio, donna dal cuore d’oro e dalle larghissime competenze genealogiche e mondane, nonché pettegola più famosa di Roma – era necessario portare pazienza, virtù che disgraziatamente ad Aurelio faceva difetto. Di che cosa poteva trattarsi stavolta? si chiedeva. Di una subitanea conversione a qualche bizzarro culto esotico, per i quali l’esuberante dama nutriva insane propensioni? Di una raccolta di fondi a favore dei bambini abbandonati, di una iniziativa volta alla redenzione delle lupae da bordello o di una colletta in vista di un rifugio per cuccioli randagi? Oppure qualche matrona irriverente si era permessa di divulgare prima di lei nei salotti l’ultima diceria sugli scandalosi amori dell’imperatrice Messalina, ferendone mortalmente l’orgoglio?

Ingoiato l’ultimo frutto, la brava signora cercò di nuovo di spiegarsi. A modo suo, naturalmente: «Ho arguito immediatamente come i due bracciali da me rinvenuti sui Rostri alludessero alla madre dei Gracchi, che, quando le era stato chiesto di mostrare i suoi gioielli, aveva additato i suoi figli. Dunque sono corsa al portico di Ottavia, dove si erige il monumento alla sua memoria» continuò imperterrita, complicando ulteriormente le cose.

Dato che Aurelio la fissava perplesso, il segretario pensò bene di intervenire.

«La signora ha dimenticato di specificare che sta partecipando a una specie di caccia al tesoro. È un nuovo gioco molto in voga nell’Urbe, nel quale si devono trovare indizi misteriosi, che è necessario interpretare correttamente per recarsi poi in determinati posti della città, dove vengono lasciate altre tracce, atte a loro volta a dirigere i concorrenti in un luogo ancora diverso. E tutto ricomincia da capo» chiarì, mentre si abbeverava abbondantemente all’anfora del padrone.

«Un gioco, dunque. Chi l’ha iniziato?» domandò il patrizio.

«Questo si ignora. Ma vi partecipano fior di quiriti, convinti che prima o poi, tappa dopo tappa, incapperanno in qualcosa di molto prezioso» precisò il segretario.

«Ah ecco, adesso almeno è un po’ più chiaro.»

«E io che cosa avevo detto?» si inalberò la signora.

«Insomma, dai Rostri del Foro, seguendo le indicazioni del rompicapo che consisteva in un paio di gioielli, tu ti sei diretta al monumento di Cornelia...»

«Appunto! Ed è proprio lì che ho scoperto la mano mozzata!» annuì Pomponia.

«Quale mano?» allibì Aurelio.

«La mano, la mano, no? E perché altrimenti mi sarei precipitata qui?» sbottò la matrona impazientita. «Come, non l’avevo ancora detto?»

All’unisono Aurelio e due liberti scossero la testa.

«Dietro alla statua di Cornelia c’era una mano mozza, vedendo la quale io sono subito mancata. Be’, non proprio subito. Vedi, il gioco è tanto appassionante che all’inizio non mi ero accorta di essere alla presenza di un autentico arto umano, credevo che si trattasse di un semplice modello di cera. Le dita erano chiuse a pugno, salvo quello a cui era infilato l’anello: io l’ho osservato attentamente per dedurne la prossima tappa, notando che puntava verso il Circo Massimo. E siccome, a conferma della mia deduzione, l’anello stesso portava incisa sulla gemma una quadriga, stavo per recarmi laggiù di gran carriera quando mi è accaduto di sfiorare quella cosa, ho sentito che era fatta di carne fredda e sono venuta meno!»

«Dunque, stando a ciò che dici, nel circo dovrebbe esserci un nuovo segnale» ricapitolò Aurelio.

«Non ho nessuna intenzione di andarci» escluse la matrona. «Non da sola, almeno...» aggiunse subito dopo sperando in una entusiastica offerta di aiuto da parte dell’amico, che tuttavia non venne.

Paride invece arrossì visibilmente, cercando di raccogliere abbastanza coraggio per compiere un grosso azzardo. In teoria avrebbe dovuto disapprovare quel nuovo, ozioso passatempo in voga nell’Urbe, ma se vi si dedicavano non soltanto adolescenti imberbi e pargoli viziati, bensì anche matrone dabbene e, a dar retta ad alcuni voci, persino un paio di magistrati in carica, non poteva poi essere tanto riprovevole. Così qualche volta aveva ceduto anche lui alla tentazione di andare in cerca di indizi, invero con risultati non troppo soddisfacenti. Ma se stavolta si trattava di aiutare la cara signora, le sue competenze avrebbero potuto risultare utili, certamente più di quelle di quel fannullone di Castore.

«Ecco, pensavo... potrei andarci io!» si offrì quindi di getto, tirando fuori un lato temerario che nessuno gli avrebbe mai attribuito.

«Tu?» La risata omerica di Castore echeggiò per tutto il triclinio, riverberando fin nei recessi più lontani della grande domus. Piegato in due il segretario continuava a sghignazzare e, parendogli l’assurdità incredibilmente grossa, si mise ad attendere con fiducia che anche il padrone si unisse allo spasso.

«Saresti davvero disposto a farlo, Paride?» domandò invece il patrizio, mentre il riso sguaiato di Castore andò spegnendosi in un rauco borboglio, lasciando il posto a un fastidioso formicolio nei lobi delle orecchie e a un prurito insistente all’alluce destro, sintomi questi che il greco riconobbe subito come inquietanti segnali di allarme.

Non si sbagliava. Narra una antica leggenda che Carpo e Calamo fossero due giovani legati da vicendevole amore, usi a gareggiare nel nuoto; quando il primo fortunosamente annegò, anche il secondo si lasciò morire nei flutti dello stesso fiume e venne trasformato nella canna acquatica, che alita il suo perpetuo dolore frusciando a ogni soffio di vento. Paragonabile a quello di Calamo per intensità e mestizia fu il sospiro emesso dal segretario mentre il padrone si congratulava con l’intendente per il pronto spirito di iniziativa. Naturalmente quello sprovveduto di Paride avrebbe combinato solo pasticci, si disse il segretario, quindi nulla poteva escludere un futuro coinvolgimento del padrone, con tutte le sue spiacevoli implicazioni: la maledetta mano, infatti, era di certo parte di un cadavere e Aurelio non resisteva al richiamo di un morto ammazzato più di quanto resistesse alle lusinghe di una bella donna, pretendendo inoltre di infettare con quella inconsulta mania anche i suoi più diretti collaboratori.

«Un momento, domine» fece quindi in tono suadente, intenzionato a gettare tutti i suoi dadi per far desistere lo stolto Paride dal suo folle progetto. «Il circo è il monumento più grande di Roma e il maggiore del mondo intero tra quelli riservati agli spettacoli. Ha una capacità di oltre 150.000 posti a sedere – o 200.000 se ci si stringe – tra le tribune in pietra destinate a senatori o cavalieri e quelle in legno in cui si accomoda il resto del pubblico...»

«Sono sicuro che tu sappia tutto sul Circo Massimo, Castore, visto che hai tentato di venderlo a un principe orientale in visita, fingendotene il proprietario. Ma dove intendi arrivare?» chiese Aurelio spicciativo.

«Anche senza tener conto delle gabbie di partenza delle quadrighe, e dell’obelisco collocato sulla spina da Augusto dopo la conquista dell’Egitto, l’indizio che cerchi potrebbe trovarsi in uno qualunque dei 150.000 posti, nascosto sotto il sedile se si tratta di un oggetto, o magari inciso nella pietra o nel legno, se consiste invece in qualche indovinello. Al nostro valoroso intendente servirebbero giorni e giorni per ispezionare una struttura simile.»

«Hai ragione, Paride e Pomponia da soli non ce la farebbero!» esclamò il patrizio.

«È un vero peccato che stamane tu debba posare per il busto destinato a immortalare le tue fattezze nei secoli, domine. E che subito dopo sia atteso alla festa della cortigiana Cinzia, durante la quale si esibiranno le celebri danzatrici di Gades, avvenimento al quale io, da servo fedele, sono assolutamente tenuto ad accompagnarti» accennò quindi con voce amabile l’alessandrino, tanto per togliere al padrone ogni velleità di partecipazione alla sciagurata impresa.

«Eh, già...» ricordò Aurelio.

«Ti ho già fatto preparare la synthesis da banchetto, quella verde decorata a serpi intrecciate che reca sul bordo inferiore un mirabile ricamo del duello di Apollo contro il Pitone a Delfi e sullo sfondo la Pizia dell’oracolo assisa sul tripode mentre pronuncia parole oscure tra i vapori inebrianti usciti dal sottosuolo della grotta» andò sotto Castore, citando la veste di cui Pomponia aveva fatto dono per il suo ultimo genetliaco al senatore, imbarazzatissimo di dover rinunciare alla sua sobria eleganza per indossarla qualche volta in pubblico.

Ma il segretario aveva cantato vittoria troppo presto.

«Alla festa di Cinzia posso recarmi benissimo da solo, mentre Paride si avvarrà del tuo prezioso aiuto» stabilì il patrizio, facendo scendere sul momentaneo sollievo di Castore una doccia più fredda di quella che sgorgava dalla statua di Orfeo nella fontana di porta Esquilina. «Abbiamo più di cento domestici in casa: ne lascerai una decina a far la guardia e dividerai gli altri in squadre conducendoli al circo, in modo da perquisire tribuna per tribuna, cominciando dall’alto.»

Dall’alto, si ripeté gemendo l’alessandrino, immaginandosi già inerpicare su ripide scalinate, mettere un piede in fallo e precipitare rovinosamente nel baratro: soffrendo di vertigini, infatti, alle corse dei carri aveva sempre assistito dalle postazioni più esclusive accanto alla pista, dopo aver rubato una tessera altrui...

«Forza, spicciati!» lo esortò Aurelio, sempre che esortazione fosse il termine adatto per definire un comando secco, fin troppo somigliante all’ordine del comandante di una legione che si appresta ad attaccare con scarse speranze un folto manipolo di barbari armati fino ai denti.

«Ehi, dove credete di andare senza di me? Aspettatemi!» esclamò Pomponia. Mani putrescenti o meno, non era il caso di venire tagliata fuori da una gara alla quale partecipava anche Domitilla, sua acerrima rivale nei pettegolezzi mondani e nel lancio di nuove fogge di vestiario: non poteva mollare proprio adesso che, con un centinaio di segugi ai suoi ordini, aveva praticamente la vittoria in saccoccia...

Il segretario strinse i denti. Essere un ricco patrizio romano dava molti vantaggi, non ultima la possibilità di soddisfare i propri capricci, per quanto eccentrici potessero sembrare. Purtroppo il Fato aveva stabilito che non toccasse a lui ricoprire quel ruolo che gli sarebbe andato a pennello, ma al padrone, che se dalla sua aveva qualche caratteristica positiva – quale la passione per le femmine avvenenti e una signorile distrazione nel controllare i conti della spesa – soggiaceva anche dissennatamente al fascino morboso dei delitti irrisolti. E a farne le spese era purtroppo chi languiva in catene sotto la dura oppressione servile, meditò l’alessandrino mentre si levava stancamente dal lettuccio imbottito finendo di scolare l’anfora di buon Falerno invecchiato e si cacciava in bocca una manciata di squisiti pasticcini al pepe, prima di accingersi a obbedire a quell’ordine sconsiderato.

ROMA, CIRCO MASSIMO

IIII. Dove si soppesano i frutti di una accurata ispezione

Erano trascorse quasi quattro ore dall’ingresso quando i servi scesero finalmente dalle tribune sorreggendo i pugillares sui quali avevano ricopiato le scritte, i disegni e gli intagli che potevano rivelarsi interessanti.

Mentre la carovana prendeva l’uscita, Paride si fermò a ricompensare con un asse per ciascun segugio il custode abusivo, approssimativamente camuffato da auriga per favorire le mance.

«Venticinque sesterzi, è un bel bottino! Mica come quegli altri pidocchiosi che hanno tirato sul prezzo!» gongolò questi, passandosi la lingua sulle labbra, mentre la mano destra correva all’elmo di cuoio, decisamente troppo largo, che gli scivolava in continuazione dalla testa.

«Quali altri?» aguzzò le orecchie la matrona: molti passanti si trovavano accanto a lei quando si era accasciata al suolo nei portici di Ottavia e avevano dunque visto a loro volta la mano mozza. Tra quelli, poteva esserci dunque qualche giocatore avversario che ne aveva intuito il significato e si era diretto anche lui al circo, anche se pareva del tutto impossibile che l’avesse ispezionato minuziosamente come i domestici sguinzagliati dal senatore.

«Un gigante biondo e un bambinetto male in arnese che ha tentato di intrufolarsi dentro gratis.»

«Nessun altro?»

«Una matrona di mezza età, accompagnata da una tizia procace dalla faccia scostante.»

I padiglioni auricolari di Pomponia si rizzarono come fiori inariditi al tocco della rugiada.

«Com’era quella signora, potresti descriverla?» chiese, presagendo la catastrofe.

Il guardiano nicchiò, a intendere che sì, avrebbe potuto, ma non gli garbava di farlo a titolo gratuito: «Alla mia età, chi mi prende più a lavorare, con tutti gli schiavi che arrivano qui da mezzo mondo, giovani, forti e felici di accontentarsi di poco, visto che nei loro paesi avevano ancora meno? Per pagare l’affitto sono stato costretto a trasformarmi in guida per i visitatori e declamare le bellezze del circo abbigliato come un istrione, ma ciò non vuol dire che faccia la spia».

Non senza un equo corrispettivo, pensò la signora, e fece baluginare un denario d’argento, alla cui vista l’altro divenne subito più loquace. «Si trattava di una dama imponente, secca come un bacchetto, con i sandali alti una spanna. Era vestita in modo vistoso e aveva capelli molti strani, che dovevano essere finti, perché erano raccolti in una specie di tutulus dove si alternavano trecce bionde e castane.»

«Domitilla!» esclamò Pomponia vacillando con un grido strozzato. La nuova parrucca della sua eterna antagonista le aveva causato grossi crucci: per la prima volta infatti non era stata lei a lanciare nell’Urbe l’acconciatura coi capelli bicolori, quindi dopo la bruciante sconfitta mondana non le era restato che denigrare la nuova moda come volgarissima, mentre la maligna rivale se la rideva alle sue spalle.

Paride si affrettò a soccorrerla, poi, guardandosi attorno per verificare che l’odioso segretario non fosse nei pressi pronto a sminuirlo o bertucciarlo, osò interloquire: «In verità potrebbe anche essere qualunque altra donna che ha adottato la sua foggia».

«Descrivi la ragazza» chiese Pomponia stringendo gli occhi, e si avvolse nella larga veste scarlatta a mo’ di suprema difesa, mentre foraggiava di nuovo l’occhiuto guardiano.

«Capelli neri, lisci e lucidi come ali di corvo, e occhi malevoli, da strega. Ma il davanzale... insomma quello c’era tutto, proprio tutto, mi spiego?» rispose pronto il guardiano accompagnando le parole con un ampio e inequivocabile gesto.

«Si tratta senza dubbio di Surilla, la cugina di quella serpe infida di Domitilla! Ah, la subdola, sapevo che mentiva, quando mi faceva parlare del gioco, ostentando di non parteciparvi!»

«Non prevarrà, kyria: noi ne avremo ragione!» la confortò l’intendente scortandola oltre l’uscita.

Soltanto allora Castore, che aveva trovato rifugio sotto la prima fila di panche già perquisite per schiacciare un sonnellino durante l’improbo lavoro, uscì allo scoperto.

«Ci sono nuovi ordini: devi raggiungere il senatore» lo bloccò il procurator mentre tentava di svignarsela.

«A casa di Cinzia?» chiese l’altro accendendosi di speranza.

«No, all’ambulatorio di Ipparco di Cesarea! Presto, ti sta aspettando» lo raggelò Paride, facendo scendere una nube di foschi presagi sull’umore del segretario.

AMBULATORIO DI IPPARCO DI CESAREA SULL’ESQUILINO

V. Dove si traggono parecchie informazioni da una mano mozza

Il senatore tambureggiava impaziente col piede, aspettando qualche risposta.

Ipparco di Cesarea apparve un po’ sulle spine.

«Senti, senatore, sono un medico, un bravissimo medico, e lo dico senza alcuna umiltà, ma tu stai scambiandomi per un mago! Passi una testa... potrei dirti parecchio della vittima, ma che cosa vuoi che riesca a fare con una sola mano?»

«Ho finanziato il tuo valetudinarium fornendoti anche una sala apposita riservata alle autopsie e all’esame dei resti umani, dotata dei migliori strumenti oggi disponibili» gli ricordò Aurelio.

«Dammi le ossa del bacino e ne dedurrò il sesso; nel caso sia femmina, con un po’ di fortuna potrei capire se ha già partorito... un arto però è troppo poco» scosse la testa Ipparco.

«Forse per un grande esperto quale tu sei, alcune informazioni sarebbero ricavabili anche da una sola mano. L’età, per esempio, e magari la condizione sociale» tentò di addolcirlo il patrizio.

«Be’, prima di tutto si tratta di qualcuno a cui è accaduto di rompersi l’ultima falange del mignolo: non essendo stato adeguatamente tenuto fermo con le stecche, l’osso si è riaggiustato storto, e questo è un dettaglio che alla lunga potrebbe condurti all’identificazione. La mano inoltre doveva appartenere a un giovane, tuttavia è troppo grande perché si trattasse di un bambino. Ed era già callosa, quindi si suppone che il suo possessore svolgesse un lavoro manuale» si risolse a rivelare il medico.

«Maschio o femmina?»

«Per risponderti dovresti consultare un astrologo esperto in cabale assire, non uno scienziato che si attiene soltanto a quanto può vedere, misurare e provare!» sbuffò Ipparco.

«Andiamo, un altro piccolo sforzo... se ti può aiutare gli abbiamo trovato un anello all’anulare, piuttosto largo a dire il vero.»

«Ecco, questo è molto strano» rifletté Ipparco con riluttanza, ma già afferrava una delle gemme ingranditrici messe a sua disposizione da Aurelio per guardare meglio. «La pelle dell’anulare è integra, mentre ad apparire usurata è invece quella del medio.»

«Come se fosse uso a portare l’anello su un altro dito, intendi dire?»

«Sì: c’è un alone grigio molto sottile sulla falange, che suggerisce la fascetta di un metallo capace di sporcare reagendo a qualche sostanza.»

«Non si trattava di oro, quindi. Ma l’argento diventa scuro se immerso nelle acque solforose, del tipo quelle che sgorgano da certe terme in Etruria!» corse avanti il senatore.

«Zolfo. Sì, però si tratta di una semplice illazione» ammise il medico.

«Le fullonicae ne fanno uso per fumigare le stoffe al fine di imbiancarle» commentò il patrizio. «E sotto le unghie vedo tracce di una sostanza untuosa, che potrebbe essere lutus fullonicus, il grasso con cui si detergono i tessuti più sporchi.»

«Inoltre la mano, di questo sono certo, è stata troncata di netto dopo la morte, non prima. E il decesso deve risalire a qualche giorno fa» si lanciò Ipparco, che, ormai più coinvolto di quanto desiderasse, non voleva farsi surclassare dal senatore proprio nel suo campo.

«Abbiamo dunque un giovanissimo, o una giovanissima, che in vita forse lavorava in una lavanderia, e portava al medio un anellino d’argento.»

«Nulla è certo» mise le mani avanti il medico.

«Però è probabile, e questo mi basta per partire con qualche indagine» sorrise Aurelio soddisfatto.

Molto meno soddisfatto era il segretario, che aveva assistito a tutto il consulto con un’espressione più cupa delle nubi di Borea. Già era spiacevole che il senatore soggiacesse al richiamo dei cadaveri freschi, appena sfornati da qualche assassino sprovveduto pronto a farsi catturare rapidamente nelle vicinanze del luogo del delitto. Ben più increscioso era che si dedicasse anche a piste fredde, per le quali erano necessarie faticose scarpinate, lunghe indagini e penosi interrogatori. Ma che adesso, in mancanza di corpi interi, fosse disposto ad accontentarsi addirittura di un arto mezzo putrefatto, gli pareva del tutto intollerabile...

Il fulmine infatti cadde immediatamente, preciso e devastante.

«Castore!» ordinò il padrone giulivo. «Ti farò avere l’elenco di tutte le fullonicae in cui lavorano degli schiavi. Battile a una a una, per appurare se manca all’appello un lavorante appena adolescente con un dito storto.»

«Posso ricordarti la conformazione architettonica dell’Urbe Invitta, dove abbiamo il privilegio di abitare, domine?» la prese alla larga il segretario, maledicendo in cuor suo la cortigiana Cinzia, che aveva rimandato la festa a causa di una brutta infreddatura. «Si tratta di una città immensa, nella quale pochissimi privilegiati hanno modo di lavarsi i panni in casa. I più poveri li sciacquano nel fiume o negli appositi lavatoi, ma la stragrande maggioranza della popolazione ricorre alle lavanderie, che sono centinaia e centinaia. Un anno non basterà per visitarle tutte!»

«Benissimo, ti concedo i tre giorni che mancano alle prossime nundinae: prendi gli aiutanti che ti servono e comincia subito!»

Castore fu lì lì per obiettare, mettendo in campo i ragguagli suppletivi che aveva estorto al falso auriga del Circo Massimo dopo la partenza del gruppone. Ma si trattenne: prima di tutto il bambinetto di cui aveva chiesto non poteva essere quello, già defunto, a cui era stata amputata la mano, in quanto era ben vivo ancora quel pomeriggio. In secondo luogo sapeva che l’avidità immediata raramente dà buoni frutti, mentre le buone informazioni possono sempre essere lucrosamente monetizzate col passare del tempo. Fu quindi con un tacito assenso un po’ ipocrita che incassò il nuovo incarico, meditando già su come indurre un paio di servi tonti a sgambare al posto suo.

SUBURRA, INSULA DELLA GRU

VI. Dove una vecchia si preoccupa per la sua progenie

In un cenacolo all’ultimo piano di un’insula della Suburra, tre donne confabulavano sedute sugli sgabelli attorno al tavolo, intingendo in una salsa fitta e piccante la forma di pane che sarebbe stata la loro unica cena.

In una nicchia scavata nel muro c’erano una lucerna a olio, alcuni pettini sdentati, una conchiglia piena di fuliggine per bistrare gli occhi e qualche monile di rame e oricalco, miseri sforzi per non cedere alla sciatteria che spesso è compagna fedele dell’indigenza. Ai ganci sul muro stavano appese le tuniche di ricambio e un paio di semplici sopravvesti di lana, mentre in terra un rotolo ingombrante denunciava il pagliericcio che le avrebbe ospitate tutte e tre nelle ore notturne.

«Perché non siete entrate? Vedere la mano da dietro le spalle della matrona era un colpo di fortuna, dovevate sfruttarlo!» esclamò la più anziana in tono di rimprovero. «Capisco Febe, che non è mai stata molto sveglia, ma tu Milla sei una ragazza avveduta.»

«Due donne sole avrebbero dato troppo nell’occhio, senza contare che non ci sarebbe stato possibile esplorare l’intero circo da sole» si giustificò quest’ultima, cercando un tacito appoggio nell’altra, che le somigliava assai: erano madre e figlia, ma molti le prendevano per sorelle, per via dei soli quindici anni che le separavano.

«Care mie, qui dovete muovervi, o non vi resterà altra alternativa del bordello!» sbuffò Prassilla stizzita. «Per te, Milla, questo gioco tanto popolare è una grande opportunità di attirare l’attenzione di qualcuno in grado di mantenerti, e chissà che con un po’ di fortuna non si trovi anche un brav’uomo disposto a prendersi tua madre, che, astuzia a parte, non è affatto da buttar via!»

«Dici bene, nonna, ma entrare nella vita galante con qualche buona prospettiva non è facile per ragazze come noi: niente vestiti decenti, niente acconciature elaborate, niente soldi per i biglietti del teatro, dove si trovano di solito le migliori occasioni... la concorrenza è spietata, perché le donne a Roma sono tante, belle e spesso disponibili, quindi la maggior parte delle poveracce finisce per fare la lupa nelle strade!»

«No, no, è proprio questo che intendo evitarvi: voi meritate di meglio» escluse la vecchia.

«Tu però non ci sei riuscita» obiettò Febe, rompendo il suo silenzio scontroso.

«Io ero una schiava, tenuta a concedersi a chiunque le venisse ordinato» spiegò Prassilla, lasciando vagare lo sguardo oltre la stretta feritoia della stanzetta, come se potesse guardare lontano nel passato: manomessa poco prima dei quarant’anni, come stabilito dal testamento da un padrone esigente e spesso irascibile che lei tuttavia era riuscita pazientemente a sopportare, aveva fatto appena in tempo a tradurre in realtà il sogno che da serva le era precluso, quello di dare alla luce un figlio. E poiché si trattava di una femmina, per lei aveva sperato in una brillante carriera di cortigiana, senza mettere in conto di vederla perdere la testa appena uscita dall’infanzia per un disgraziato di celta che l’aveva messa incinta prima di sparire nel nulla, sepolto senza dubbio in una tetra prigione o ai lavori forzati in qualche miniera, giacché non era certo uno specchio di onestà. No, Febe non aveva la stoffa per sfondare come etera, l’aspetto piacevole non bastava, ci voleva pelo sullo stomaco e una estrema capacità di dissimulare, per emergere in un mestiere in cui abbondavano le femmine sofisticate e senza scrupoli. «E tu non fare come tua madre, Milla, mi raccomando: non innamorarti!»

«Non mi hai mai capita, mamma: chissà che cosa darei per rivederlo almeno una volta!» protestò la figlia, abbassando gli occhi.

«Amore, amore, che sarà mai! Un uomo vale l’altro, e con l’amore non si pagano né il pranzo né l’affitto! In quanto al tuo drudo, per fortuna non lo incontrerai mai più: sarà di sicuro al remo di qualche galera, a scontare i suoi delitti e i suoi imbrogli!» sbottò Prassilla irritata: non l’aveva mai conosciuto, il bieco seduttore, ma doveva possedere un fascino irresistibile perché ancora venisse rimpianto dopo tanti anni. «Mi stavi dicendo di un tizio dall’aria prospera che ha pagato sull’unghia ben cento ingressi al custode per aver modo di perquisire il circo, Milla. Hai provveduto a farti notare da lui?»

«In che modo, nonna? Presentandomi con le forme nascoste da questo abituccio verde di lanaccia, le labbra prive di fucus, i capelli piatti sulla testa e le soleae da casa ai piedi?» esclamò scorata la ragazza.

«Sì, hai ragione, non sarebbe stato il caso. Ma dobbiamo almeno scoprire che cosa ha trovato, per non restare tagliate fuori dai prossimi sviluppi.»

«Bisognerebbe anche sapere chi è!» disse Febe con aria perplessa.

«Vuoi dire che non ti sei informata?» scolorò la vecchia, incredula. Tanto graziosa, la sua unica figlia, ma in quanto a intelligenza doveva aver preso dal padre, chiunque fosse: tale era stato il suo desiderio di procreare, dopo anni che le era stato negato in quanto schiava, che non aveva guardato troppo per il sottile nella scelta dei compagni di letto...

«L’ho chiesto io!» fece subito Milla, in cui vivissima pareva invece l’eredità paterna: senza dubbio uno sciagurato, quel gallo della malora, ma di pronto comprendonio, almeno a giudicare dalle truffe che era stato capace di mettere in piedi prima di essere arrestato. «Si tratta dell’intendente di un pezzo grosso che vive in una grande domus sul Viminale!»

«Uh uh... domani dunque andrai a passeggiare sul colle!»

«Nonna, se quello è il procurator di un riccone, può pagarsi fior di donne e di me non sa che farsene!» protestò Milla scorata.

«Mai sottovalutarsi, cara! Comunque ti sarà facile estorcere qualche notizia da uno dei servi che hanno partecipato alla perquisizione. Su, andate a dormire adesso, che domani vi voglio in forma!» disse Prassilla spingendo figlia e nipote verso il giaciglio.

Lei tuttavia attese a coricarsi: dove avrebbe trovato i soldi per comprare qualche capo decente a Milla? si chiedeva sedendo al buio in modo da non consumare l’olio prezioso della lucerna. Come sarebbe riuscita a riparare il buco nel tetto da cui pioveva dentro? Per quanto sarebbero andate avanti con i pochi spiccioli che guadagnavano nell’intrecciare ceste e stuoie di giunchi? Quando avrebbe dovuto decidersi a cedere con la morte del cuore la sua piccola, adorata Milla al lupanare? Restava soltanto l’ultima risorsa: il gioco. Unicamente mettendosi in luce tra i partecipanti, molti dei quali avevano il borsellino gonfio, le ragazze avrebbero potuto trovare un protettore. Perché era questo di cui avevano bisogno tre donne sole in una città immensa e ostile: di qualcuno che le difendesse, si prendesse cura di loro, se ne facesse carico. Così lei avrebbe potuto invecchiare in pace, aspettando la morte felice di avere vissuto...