DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
I. Dove Aurelio rispolvera nottetempo un vecchio cimelio di famiglia
Era notte fonda quando Aurelio, non riuscendo assolutamente a addormentarsi, uscì dalla sua stanza con la lucerna in mano, attraversò il peristilio piccolo riservato ai suoi riposi segreti e si immise in quello grande di rappresentanza, con le panche di granito violaceo, la statuetta di Eros, la vasca delle piante acquatiche e le favolose rose partiche a venti petali – uniche in tutta l’Urbe – create e selezionate nei secoli dei secoli dagli straordinari giardinieri del sovrano dei Parti, che odiava ferocemente Roma ma amava tanto le sue rose da giudicare degno di possederle un nemico leale con la sua stessa passione.
Ciò che stava cercando però non l’avrebbe trovato nel peristilio, bensì nell’atrio principale, in una delle arcae dagli splendidi decori addossate allo zoccolo di marmo calcidico che correva tutto attorno, sotto le pareti affrescate.
Le antiche arcae, che custodivano al loro interno i cimeli della famiglia, Aurelio le apriva di rado, perché in lui la curiosità per il futuro prevaleva nettamente sulla nostalgia per il passato. Quella notte però in mano teneva un mazzo di chiavi, che per tradizione soltanto il paterfamilias o la sua sposa avrebbero dovuto conservare, delle quali tuttavia il patrizio aveva fatto una copia anche per l’onesto Paride.
Se ben ricordava, doveva guardare nella terza cassapanca, quella con le placche in avorio scolpito, tanto imponente da sembrare quasi un sarcofago. Un giro di serratura e l’anta superiore si aprì con un lieve cigolio, mentre lui si chinava per frugare all’interno.
Fu il vacillare della fiammella a salvarlo, permettendogli di scorgere l’ombra della mano che si apprestava a fargli calare sulla testa il pesantissimo coperchio.
Aurelio si gettò subitaneamente indietro e rotolò sul pavimento, adoperandosi tuttavia per afferrare il piede dell’aggressore che lo sovrastava, nel chiaro intento di fargli mancare l’equilibrio.
Uno strappo, neanche tanto forte, e il mostro cadde, più facilmente e più rumorosamente di quanto il senatore si sarebbe mai aspettato: né Efesto scagliato dalla madre Hera dalla cima dell’Olimpo, né Fetonte precipitato dal cielo col carro del Sole, e nemmeno i Titani sprofondati da Giove nell’atro pozzo del Tartaro, avevano probabilmente impattato il suolo con simile fragore, tale da richiamare da ogni angolo della casa l’intera servitù, con il segretario e il procurator in testa.
Lungi dal tentare la fuga, tuttavia, l’assalitore atterrato parve accogliere con entusiasmo la miriade di schiavi, tanto che cominciò a gridare: «Allarme, allarme! A me, uomini della casa degli Aureli, a me: difendiamo il padrone!».
Fu allora che il patrizio ne riconobbe la voce.
«Imbecille, sono io il padrone, e tu stavi per ammazzarmi!» ringhiò furente all’indirizzo di Sansone, che stava goffamente tentando di rialzarsi.
«Tu, domine? Eh già, sei proprio tu» ammise di malavoglia il gigante nabateo, in un tono che non suonava affatto come una scusa contrita. «Dico io, ma se ai padroni prende il ghiribizzo di mettersi a camminare furtivamente di notte per le sale buie di casa nostra scassinando serrature, è normale che noi li si prenda per malintenzionati, non credi?»
«No, non lo credo affatto, Sansone! Perché si dà il caso che questa casa sia mia, e io abbia quindi il diritto di percorrerla in lungo e in largo a ogni ora del giorno o della notte senza subire alcun tentativo di omicidio!»
«Macché omicidio, volevo solo chiuderti nella cassa per poi portarti prigioniero al padrone!»
«Sono io il padrone, babbeo: perdiana, come te lo devo dire?» tuonò Aurelio.
«Sì, ma ammetti che se invece tu fossi stato un ladro...» insisteva l’altro.
«Basta!» lo gelò il patrizio esasperato. «Se vuoi salvare le spalle dalla sferza ritieniti consegnato, chiuditi nel tuo cubicolo e non mettere il naso fuori finché non mi sarà sbollita la rabbia!»
«Senza neanche poter andare alla popina?» brontolò la guardia del corpo, sentendosi oggetto di un iniquo sopruso, e naturalmente incassò i mormorii solidali degli altri servi.
«Via, sparisci! No, un momento, prima di ritirarti in punizione, cerca in fondo all’arca un pesantissimo busto di marmo avvolto in un tessuto di lino grezzo, tiralo fuori e portalo nel mio studio. E vedi di non farti cadere il coperchio in testa» bofonchiò il patrizio, mentre i servi facevano ritorno ai loro alloggi sbadigliando sonoramente.
Tutti salvo il segretario.
«Che aspetti?» chiese Aurelio.
«Legittima curiosità, domine. Sono o non sono il tuo confidente? Qualcosa mi dice che se hai ritenuto indispensabile tirar fuori un tuo vecchio ritratto in piena notte, potresti aver bisogno di me. Sbaglio?»
A Castore non capitava spesso di sbagliare, infatti poco dopo era seduto nello studiolo accanto all’erma di Epicuro, sul triclinio elucubratorio su cui Aurelio si ritirava per meditare – a dire il vero del tutto inutilmente – circa la necessità del saggio di non farsi coinvolgere da passioni e trasporti eccessivi.
«Non eri poi male, tanti anni fa. Eh, il tempo passa per tutti» commentò il segretario contemplando le fattezze giovanili del padrone immortalate nella scultura, senza rinunciare alla solita stoccatina sull’età, che gli riusciva molto comoda dato che né Aurelio né nessun altro conosceva esattamente quando fosse nato lui, per restituirgli il favore.
«Ho un incarico per te.»
Castore si rannuvolò subito. Aveva immaginato una lunga nottata di confessioni, suggerimenti e consigli, tutti favori che intendeva erogare in cambio di un’ottima mancia stando comodamente sdraiato sul lettuccio. Mai e poi mai avrebbe supposto di dover lavorare, o si sarebbe morso la lingua piuttosto che pronunciare quella frase infelice...
«C’è un tizio a Roma che somiglia a questo ritratto. Trovalo!» gli ingiunse il senatore.
«Stai scherzando, domine?» chiese allibito l’alessandrino. «L’Urbe conta un milione e mezzo di abitanti, e anche levando le femmine, che sono soltanto un terzo della popolazione, ne restano comunque un bel po’. E io che dovrei fare? Andare in giro per strade e piazze a guardare in faccia uno per uno tutti i quiriti per scoprire se hai un sosia?»
«Mezzo aureo» propose il patrizio serissimo.
«Ma neanche per uno intero!» escluse il segretario con fermezza, e fu subito chiaro che né la minaccia del remo né quella delle miniere di sale l’avrebbero mai smosso.
Aurelio pensò dunque di cambiare registro, passando alla più smaccata adulazione.
«Castore, se qualcuno può mai riuscire in una simile impresa, quello sei tu» dichiarò, cercando di caricare il tono di smisurata fiducia.
«Be’, questo è certo» concesse l’altro lustrandosi le unghie. Poi fece correre più volte lo sguardo dal busto al padrone e dal padrone al busto per aprirsi infine in un largo sorriso.
«Adesso capisco!» esclamò, illuminandosi tutto. «Qualcuno che ti somiglia molto, proprio tanto, però ha l’età che avevi tu allora... a dire il vero non ti facevo tipo da seminare figli a destra e a manca, domine!»
«Infatti non lo sono» bofonchiò Aurelio fosco. «Esistono decine di altre spiegazioni possibili, ma per venirne a capo dovrei almeno rintracciare quel tizio.»
«Libero o schiavo, povero o ricco?»
«Non lo so, l’ho appena intravisto.»
«Hai idea di chi potrebbe essere la madre? Hai sempre spergiurato di avere amato tutte le donne della tua vita e di ricordarle benissimo dalla prima all’ultima, malgrado fossero miriadi!»
Aurelio tacque. Era vero, se ne era sempre fatto un vanto, ma rispondeva a verità? O si trattava soltanto di una delle ennesime giustificazioni con cui assolveva se stesso, per sentirsi migliore dei soliti libertini che le donne le collezionavano, le usavano, le sfruttavano come meri oggetti?
«E metti anche in conto, domine, che per quanto le leggi dei vari popoli si affannino ad assicurare al padre tutti i diritti e le prerogative, di fatto le nuove vite appartengono alle femmine: sono loro a stabilire se portarle in grembo, se farle nascere, se informare o meno l’altra parte in causa che lo stanno facendo. Quindi, anche nel caso tu avessi avuto un figlio, non è detto che tu lo sappia: la madre potrebbe aver deciso di nascondertelo.»
«Quel ragazzo mi guardava come se mi conoscesse» obiettò il patrizio.
«Quanti anni gli daresti?»
«Una ventina, più o meno.»
«Dunque la sua nascita è posteriore al tuo matrimonio con Flaminia e precedente alla nostra conoscenza. Dov’eri prima di incontrarmi ad Alessandria?» chiese Castore, sottacendo il fatto che non si era trattato di un banale incontro, ma che il senatore l’aveva praticamente tirato giù dal patibolo a cui era stato destinato dai sacerdoti di Ammon-Ra, furenti con lui per avere tentato di trafugare il tesoro del loro sacro tempio.
«Be’, appena ottenuto il divorzio andai subito al Nord come tribuno militare, poi fui a Lutetia e nella Belgica, sempre al servizio nelle legioni. In seguito viaggiai a lungo da privato cittadino in tutto l’Oriente...»
«Faresti più presto a dirmi dove non sei stato.»
«In Iberia e in Lusitania, almeno non in quegli anni. Ci andammo poco dopo insieme, ricordi? Fu a Saguntum che mi sottraesti per la prima volta il sigillo per presentarti come senatore al ricco arsetano a cui volevi vendere una inesistente miniera di argento» rievocò il padrone.
«E fu sempre lì che tu ti invaghisti della moglie del duumviro e ci toccò scappare in fretta e furia prima che la tresca fosse scoperta e scoppiasse lo scandalo!»
«Titulla, una donna adorabile!» rievocò il patrizio con un sorriso.
«Potrebbe essere lei? Insomma, dobbiamo considerarla tra le candidate genitrici?»
«No, dopo la seconda gravidanza subì un aborto che la lasciò sterile» escluse Aurelio. «E comunque non ci siamo con i tempi.»
Fuori una, pensò Castore, ma ne restavano centinaia e centinaia da prendere in considerazione...
«Potrebbe essere accaduto durante il tuo lungo soggiorno in Oriente? Ad Antiochia, magari?»
«Lì restai pochissimo: ci vivevano sia la mia ex-moglie Flaminia, sia la mia ex-madre, una Aurelia Axilla lontana cugina di mio padre, e io non avevo alcuna intenzione di incontrare nessuna delle due.»
«Cugini, eh? Molte cose si spiegano...» mormorò Castore perplesso. «Comunque non esistono ex-madri, domine.»
«Be’, non esisteranno, ma ti assicuro che io ne avevo una: mi piantò a pochi mesi per seguire il suo nuovo marito, lasciandomi nelle grinfie di quell’individuo meschino e abietto che era il mio illustre genitore.»
Tutto sommato non era poi tanto male il senatore per essere figlio di due individui tanto spiacevoli, pensò Castore, guardandosi bene dal dirlo forte per non dargli soddisfazione.
«In ogni caso, subito dopo andai a Efeso, a Mileto, ad Alicarnasso, Attalia, Seleucia, Ancyra, Nicomedia, Trapezunte, Sebaste, Nicopolis, Samosata, Edessa, poi ancora in Siria a Pergamo, Apamea, Laodicea e dopo ancora in Giudea.»
«Non per inibire i ricordi delle tue avventure di viaggio, domine, ma immagino che in ognuna di queste città ci fossero donne fascinose e che tu non te ne astenessi. Quindi compilarne l’elenco sarebbe ozioso, dobbiamo escogitare un sistema più proficuo.»
«Già» riconobbe il patrizio avvilito, mentre ammetteva finalmente con se stesso che sì, era anche possibile che avesse concepito un altro figlio oltre al piccolo Publio. E si rivide davanti il corpicino freddo, la fine di tutte le fervide speranze di vederlo crescere, insegnargli a cavalcare, leggere, combattere e dimostrarsi un padre diverso dallo sciagurato che era toccato a lui. Ma a ventidue anni si è troppo giovani per lasciarsi sopraffare da qualunque sventura, la sete di vivere prevale ancora: così il bimbo morto si era a poco a poco affievolito nel suo ricordo assieme alla sua vocazione paterna, per emergere soltanto, qualche volta, nei sogni più angosciosi. E ora dal passato affiorava qualcosa che non aveva messo in conto, che non aveva voluto, a cui non era preparato...
Castore, che ben lo conosceva, attese la fine dell’ondata di ricordi per buttare lì, quasi per caso: «È un’impresa titanica, ai limiti dell’impossibile, a tal punto che sarebbe persino incommensurabile quantificarne la ricompensa. Ma se proprio intendessimo discuterne...».
«Quanto?»
«Diciamo che, proprio per venirti incontro in questo delicatissimo frangente, mi accontenterei di cinque aurei.»
«Ma tu sei matto!» sbottò Aurelio. Un aureo valeva cento sesterzi e con una decina di sesterzi al giorno un popolano della Suburra provvedeva abbondantemente alla famiglia.
«Come credi, non se ne fa niente... certo la voce del sangue non grida troppo forte nelle tue vene, vero?»
«Un aureo» offrì il patrizio.
«Quattro!» rilanciò il segretario.
E, come da rito, tirarono in lungo per un bel pezzo nella contrattazione, anche se entrambi sapevano benissimo che si sarebbero accordati per due e mezzo.
II. Dove Pomponia si avventura in nuove indagini
«Ormai è certo che la caserma dei gladiatori fosse una falsa traccia. Mi sarei stupita di più se quel mezzo idiota di Surio Rufino avesse avuto un’intuizione geniale: tutti sanno quanto quel ragazzo sia corto di comprendonio» spiegava Pomponia all’intendente. «D’altra parte, non che il resto dei Suri sia molto meglio: il nonno è un vecchio tirchiaccio, e i tre nipoti, frutto di tre nozze diverse dell’unico figlio precocemente scomparso, sono infrequentabili: la primogenita, Surilla, è la donna più bisbetica che abbia mai conosciuto, pronta a sottolineare sempre pesantemente i difetti veri o presunti di tutti, e Rufino è di una goffaggine inaudita, al punto che non lo si può nemmeno invitare a cena senza vederlo sbrodolarsi di salse e sughi. Il minore poi, che va per i tredici anni, è un ragazzetto talmente odioso da far rimpiangere che non sia stato esposto alla nascita.»
«Mi dispiace, kyria, ci sono cascato come un allocco, ma pareva proprio una buona idea» si scusò Paride arrossendo fino alla punta dei capelli. «Adesso dovremo ricominciare da capo a vagliare tutti i disegni trovati nel circo e sarà un lavoraccio!»
In quella comparve il segretario, che dopo essersi ristorato con alcune ore di sonno, aspettava di riferire al padrone, uscito di buon’ora, quello che Memnone, il più giovane dei lettighieri nubiani, aveva scoperto in sua vece all’obitorio, dietro un modestissimo compenso. Smagliante fu il sorriso con cui gratificò la matrona, sempre generosa di vino e di mance, mentre a Paride venne riservato un frettoloso cenno del capo, di quelli che si dedicano solitamente agli scrocconi sempre pronti a chiedere denaro in prestito, quando si ha la sfortuna di incontrarli per caso in strada.
«Non che io c’entri qualcosa con la vostra caccia, ma chi vi dice che l’errore non sia a monte, ovvero che l’anello non rimandasse affatto al circo?» interloquì infine con aria critica. «Tutto sommato il buontempone che si diverte nel prendere in giro mezza Roma con i suoi scherzi di dubbio gusto ha sempre seminato indizi abbastanza accessibili: che vantaggio avrebbe avuto nel collocarne uno praticamente introvabile tra i 150.000 posti del Circo Massimo, ben sapendo che pochissimi sarebbero stati in grado di attuare una perquisizione vera e propria e di fatto nessuno avrebbe avuto la reale possibilità di scovarlo? Il massimo diletto di quello sciagurato è vedervi correre come polli dietro al becchime, quindi secondo me ha reso le cose molto meno complicate: una quadriga non indica necessariamente la pista dove si gareggia!»
«Hai ragione! Potrebbe essere semplicemente un monumento, un affresco o qualcosa di simile» si illuminò Paride. «Vediamo, dove ci sono statue con quadrighe a Roma?»
«C’è quella della Vittoria, eretta da Munazio Planco sul Campidoglio, e un’altra davanti al Tempio di Marte Ultore, proprio in mezzo al Foro di Augusto, che rappresenta il princeps sul carro trionfale!» esclamò Pomponia.
«Andiamo!» disse l’intendente apprestandosi a raggiungere la matrona che stava precipitandosi verso la porta di ingresso.
«Dove vai, Paride?» lo frenò Castore in tono subdolo e ammiccante. Prima o poi per tutti viene l’ora di regolare i conti, pensava l’alessandrino con palese compiacimento: quante volte l’incorruttibile intendente lo aveva fermato mentre tentava di allontanarsi in sordina dalla domus per sfuggire a un incarico sgradito? Quante volte si era lamentato delle sue piccole, innocue intemperanze, quali il ritagliarsi un minuscolo risarcimento sulle spese, invitare un’ancella belloccia a fare il bagno nella vasca padronale o prendere in prestito per breve tempo l’anello col sigillo di rubino che equivaleva alla firma del senatore su qualunque documento o contratto? E lui sempre lì a patire e a sopportare stoicamente le vessazioni senza modo di reagire, giacché Paride, con la sua nauseante e tetragona onestà, non offriva sponda ad alcuna ritorsione. Soltanto fino a quel momento, però. «Ho intravisto nell’atrio lo scultore in attesa e mi sembra di ricordare che il senatore ti abbia ordinato di prendere il suo posto nelle sedute di posa, quando non è reperibile» disse quindi con voce falsamente suadente.
«Numi, il busto, me ne ero completamente scordato!» fece Paride impallidendo, mentre l’alessandrino lo guatava con la maligna soddisfazione di un barbagianni che osserva un grosso topo uscire dalla sua tana sicura, pregustando il momento in cui, dopo averlo catturato e inghiottito per intero, avrebbe rigettato ossa e pelo per trattenere nello stomaco soltanto le succulente parti digeribili.
«Vieni, vieni, caro Aristodemo, il tuo modello è pronto!» invitò Castore con un largo gesto di accoglienza. «Forza, Paride, peccato che io non sia adatto a posare per via della barba!»
Vedendo di nuovo il procurator, lo scultore emise un lungo lamento.
«Non posso andare avanti così, costui non somiglia nemmeno un po’ al senatore!» disse, lanciandosi poi in una analisi spietata dei dettagli senza alcun riguardo per il povero intendente. «La struttura ossea è fragile, la piega delle labbra del tutto irresoluta, gli occhi vacui, la fronte sfuggente, la mascella cascante, le orecchie a sventola... e soprattutto il naso è banale, senza alcuna nobiltà intrinseca, senza carattere, senza linea!»
«Proprio vero...» gli fece eco il segretario, mentre nella sua mente fervida prendeva forma una soluzione astuta, che avrebbe salvato capra e cavoli, laddove per capra si intendeva l’opera dell’artista destinata a tramandare ai posteri i tratti dell’ultimo degli Aureli – ammesso che fosse poi veramente l’ultimo, cosa che dopo le rivelazioni della sera precedente non era più certissima – e per cavoli gli sforzi immani che si sarebbero resi necessari per ottemperare l’arduo compito affidatogli dal senatore.
La soluzione esisteva ed era elegantissima, ma non c’era fretta di applicarla, si disse, almeno non senza prima godersi il piacere di vedere l’intendente soffrire immobile per ore e ore, oppresso da un feroce male alla schiena per la posizione tremenda, mentre i servi di casa si davano al buon tempo approfittando della mancata sorveglianza e la matrona Pomponia percorreva da sola la città in cerca di indizi.
Poco dopo chiamava da parte Aristodemo. «Ho bisogno di un lavoretto. Immagino che tu, oltre che nella scultura, sia ferrato anche nel disegno» disse.
«Certamente: è necessario fare parecchi schizzi prima di dedicarsi a modellare la creta. Soltanto alla fine si passa al marmo.»
«Bene, ne farai alcuni per me.»
«È escluso: ho molte ordinazioni e poco tempo» si schermì l’artista.
«Quanto ti pagano di solito un disegno?» chiese.
Aristodemo fece un rapido calcolo: gli arredi di quella elegante domus, la distrazione del padrone e la ricchezza che trasudava da ogni angolo gli lasciavano supporre di poter raddoppiare la sua solita tariffa. Pronunciò quindi una cifra esagerata, che Castore fu lesto a raddoppiare a sua volta.
«Li voglio per stasera: aggiungine pure il costo sul conto del senatore!»
«Quanti? Due o tre?»
«Diciamo una trentina e molto accurati: ecco qui i papiri, comincia non appena hai finito la seduta di oggi» disse, mentre Paride prendeva posto con una specie di singhiozzo sullo scranno del padrone.
«Mi raccomando stai fermo, fermissimo!» gli ingiunse il segretario abbandonandolo con perfida soddisfazione nelle mani dello scultore.
ALTA SEMITA SUL QUIRINALE
III. Dove una fanciulla viene colpita dalla freccia di Cupido
Milla era quasi arrivata all’incrocio del vicolo Ad Malum Punicum con l’Alta Semita, nell’intento stavolta di raggiungere la residenza della matrona che aveva visto partecipare alla caccia nel Circo Massimo. La nonna la faceva facile nel raccomandarle di agganciare i giocatori fingendo di interessarsi ai loro enigmi per procurarsi un protettore, ma non era semplice. Almeno non con quella veste di lanaccia verdognola, che aveva dovuto accorciare per procedere nei vicoli senza inzaccherarsi o anche peggio, visto che c’era chi aveva l’abitudine di svuotare il pitale dalla finestra direttamente in strada.
Nei giorni precedenti aveva provato ad attirare l’attenzione del procurator della domus sul Viminale, però lui si era fatto paonazzo e aveva tagliato corto spiegando che era sposato e la moglie lo stava aspettando. Nulla da fare con quel bacchettone: o si trattava davvero di un marito fedele – ce n’erano così pochi, proprio a lei doveva capitare? – o non era riuscita a far colpo. In compenso aveva visto aggirarsi nei pressi della casa un ragazzone biondo, tanto bello da mozzare il fiato. Be’, forse ragazzone non era la parola giusta, qualche annetto doveva averlo di certo, ma sprizzava vitalità da tutti i pori e quando le aveva sorriso lei si era sentita sciogliere. Tuttavia gli aveva voltato le spalle, perché di uno così ci si poteva anche innamorare, allora addio patrono, addio sistemazione, addio tutto, c’era da finire come sua madre.
Fu proprio in quel momento che si sentì salutare: «Ave, stupenda creatura!».
Il biondone fascinoso era lì, accanto a lei. Lo guardò e le parve di conoscerlo da sempre. C’era un limite al resistere alle tentazioni: se i Numi gliel’avevano mandato una seconda volta significava indubbiamente che il loro incontro era stabilito dal destino, si disse, e all’improvviso la stanzuccia sotto i tetti, i consigli della nonna, le nostalgie di sua madre, l’umile abito verde, tutto scomparve come d’incanto.
Erano già avvinti in un abbraccio che prometteva voluttà infinite quando l’interesse del bellissimo venne distolto dall’apparire al crocevia della matrona che aveva visto partecipare al sopralluogo nel Circo Massimo.
«Zitta!» le ingiunse, trascinandola con sé in un anfratto per spiare la signora e il suo inquietante accompagnatore. Lungo l’Alta Semita poteva scorgere Nonno e Comago, che, incaricati da Meticanio di seguire la matrona, esitavano a proseguire, certi ormai di essere stati individuati: bastò un cenno perché Dannico si facesse passare la consegna. Ma alle spalle dei due c’era qualcun altro che conosceva...
Milla intanto rimirava la maschia avvenenza dello sconosciuto e, avvertendo la testa girarle piacevolmente in attesa del momento in cui l’avrebbe presa di nuovo tra le braccia, per la prima volta capì come doveva essersi sentita sua madre, tanti anni prima: erano cose che succedevano, tutto lì, anche Afrodite si era invaghita di Adone in un solo istante, e Didone di Enea la prima volta che le aveva parlato. Non conosceva nulla di quell’uomo, ma sapeva che, se lui glielo avesse domandato, l’avrebbe seguito anche in capo al mondo.
La fantasia di Dannico tuttavia non volava così alto, né il suo orizzonte era tanto vasto, quindi la sua proposta si rivelò molto più prosaica: «Senti, cara, adesso ho da fare, ci si vede domani al tramonto, davanti all’arco nel muro della Suburra, va bene?» disse, spingendola via mentre teneva d’occhio i due che stavano ormai per giungere al Tempio di Quirino. E a Milla, instupidita dalla repentina infatuazione, parve l’offerta più appassionata del mondo.
IIII. Dove a un ex-gladiatore quasi sfugge una lacrima
Pomponia e Carnifex stavano tornando verso casa senza nulla di fatto: l’ex-gladiatore era salito sul Campidoglio a ispezionare a fondo l’effigie della Vittoria spronante i cavalli, poi aveva raggiunto Pomponia nel foro di Augusto, dove la matrona, pur avendo esaminato il monumento trionfale del princeps in lungo e in largo fin nei suoi più segreti recessi, non era riuscita a scoprire la minima traccia che portasse all’enigma successivo. In compenso la guardia del corpo aveva avuto il suo daffare nel tenere a distanza i concorrenti: due ceffi biondastri dall’aria poco raccomandabile – uno che procedeva a gambe larghe come se fosse afflitto da qualche disturbo nelle parti basse e l’altro con un grosso bernoccolo sulla fronte – transitati accanto alla padrona con troppa curiosità per tutto il tempo del suo sopralluogo. Dovevano appartenere a qualche squadra avversaria e di certo avevano seguito la kyria fin dalla sua uscita precipitosa dalla domus di Aurelio.
«Li conosci?» chiese Carnifex alla padrona.
Pomponia scosse la testa sbuffando, pentita di non aver preso la lettiga o almeno un palanchino pubblico, nell’intento di praticare un po’ di esercizio fisico per perdere peso. Certo, era sempre meglio avere forme abbondanti che assomigliare a una lisca di pesce come Domitilla, ma diversi e iniqui erano i rimedi per contrastare le due opposte corporature, in quanto la magrezza estrema non comportava altro sforzo che l’abboffarsi di cose buone, mentre il contrario implicava duri sacrifici. Per questo, esausta, la signora si era concessa una breve sosta all’incrocio su cui si affacciava il tempio di Quirino nell’intento di riprendersi dall’improba fatica e Carnifex ebbe modo di notare che i due giovinastri si fermavano, ostentando di interessarsi alle merci esposte in una piccola bottega, per poi tornare rapidamente sui loro passi.
Fu in quel momento che l’ex-gladiatore, dopo aver fissato con il suo unico occhio il sacello prospiciente la scalinata, fermò la matrona con un gesto, per proseguire da solo e con aria circospetta. Pur orbo, gli anni di esperienza nell’arena – quando scorgere prontamente un dettaglio del nemico poteva salvargli la vita – ne avevano fatto un ottimo osservatore: sulla polvere e il terriccio depositato dal vento di quel mattino, che nessuno aveva ancora provveduto a pulire, spiccavano alcune orme di scarpe con una grossa cucitura, nette nel contorno, ma sfumate verso la punta. Inoltre... no, non si era sbagliato, dall’interno dell’edicola, celate quasi del tutto dalla cortina votiva, spuntavano due calzature di fattura diversa. E lui un paio di scarpe spaiate esattamente come quelle le aveva viste il giorno prima, ai piedi del piccolo intruso penetrato in casa...
«Non guardare, kyria, non guardare!» gridò a Pomponia che l’aveva ormai raggiunto. Ma la brava signora schizzò in avanti, per poi immobilizzarsi attonita davanti alla macabra scena del corpicino raggomitolato sullo sfondo di un affresco piuttosto stinto, che raffigurava una quadriga alata.
Quirino era un Dio antichissimo, che qualcuno voleva di origine sabina. Ma i Romani, sempre pronti ad appropriarsi dei Numi altrui per non perdere alcuna utile protezione, l’avevano presto identificato con Romolo, il mitico fondatore della città che, lungi dal defungere come un comune mortale, sarebbe asceso al cielo su un carro alato: ed ecco spiegata la presenza della quadriga nell’edicola sacra che Pomponia stava fissando attonita.
La matrona emise un singulto e cominciò a tremare forte. Allora il vecchio gladiatore, uso un tempo a scannare gli avversari con la stessa disinvoltura con cui si macellano gli agnelli, fece un gesto inusitato: girò delicatamente la padrona verso di lui e le fece appoggiare il capo sulla spalla perché potesse piangere. E chi avesse guardato veramente bene, avrebbe potuto vedere anche nel suo unico occhio un umidore sospetto, come di una lacrima mal trattenuta.
V. Dove un forestiero si arrovella nei dubbi
Il giovane che spiava di lontano dette un sospiro di sollievo: avevano trovato il corpo. Adesso sarebbero stati la corpulenta signora amica del senatore e il suo guardiano orbo a denunciarne la presenza alle autorità, senza che lui ne venisse coinvolto. Non che per questo fosse al sicuro: aveva commesso una grossa sciocchezza impicciandosi di quello che non doveva, curiosando attorno a cose che sarebbe stato meglio non sapere e soprattutto impadronendosi con un colpo di testa di ciò che non era suo. Per l’ennesima volta si chiese come avesse fatto a cacciarsi in tanti pasticci in soli pochi giorni. L’errore fatale era a monte: non avrebbe dovuto lasciare Antiochia per seguire Macario a Roma, ma quella straordinaria occasione presentatasi al momento giusto, quello del suo massimo interesse e del suo massimo tormento, gli era sembrata irrinunciabile.
Eppure per molto tempo era stato perfettamente felice nel quartiere di Epifania arrampicato sulle pendici del Silpio, e ancora rimpiangeva la spensieratezza con cui era uso percorrere verso il tramonto il grande portico per occhieggiare le ragazze che si affrettavano a casa per la cena, e il sereno appagamento provato durante le passeggiate solitarie alle cascate di Dafne, verso il santuario di Apollo che ne rendeva le acque sacre e benedette. Al Nume splendente e a tutti gli altri Dei aveva reso grazia ogni giorno, per il sostegno e la sollecitudine della kyria, che l’aveva benedetto con la sua alta protezione da quando aveva memoria. Una vita bellissima, fino a due anni prima, quando lei l’aveva chiamato al suo capezzale di morente, per dirgli ciò che forse avrebbe fatto meglio a tacere. Da allora, nulla era stato come prima, né il lascito consistente di cui la generosa padrona lo aveva dotato per consentirgli di vivere senza problemi gli era sembrato più tanto giusto né tanto appetibile. Così, il tarlo della curiosità aveva lentamente lasciato il posto a un vago risentimento, che si era consolidato giorno dopo giorno, mutandosi lentamente in cruccio e acredine, fino a diventare rancore. Allora aveva deciso di partire.
L’Urbe era stata la tomba della sua innocenza: immaturo, sprovveduto, troppo ardito per un verso e troppo incauto per l’altro, aveva giocato forte, facendosi coinvolgere in vicende al di fuori della sua portata, e adesso rischiava di pagare un prezzo carissimo. Che avrebbe fatto l’altro al suo posto? Come avrebbe usato ciò di cui era entrato in possesso? si chiese prima di scuotere la testa, scorato: non era possibile alcun paragone con chi si era strappato la bulla infantile dal collo a soli sedici anni per diventare padrone assoluto della propria vita. Come poteva competere con chi alla sua età aveva già servito nelle legioni, gareggiare con un potente di Roma, confrontarsi con un favorito della Fortuna? Era stato per imitarlo, per mostrarsi in qualche modo alla sua altezza che si era esposto tanto dissennatamente? E in ogni caso, che senso aveva misurarsi con un uomo che ignorava persino la sua esistenza?
Al pari del suddito povero a cui un re maligno fa dono di novantanove denari perché non abbia più pace finché non ottiene il centesimo, anche lui era diventato incontentabile, facendosi invischiare in una rete di invidie, rivalità e gelosie da cui non sarebbe più uscito, pensò afflitto.
Ma no, cercò di convincersi, forse la situazione non era poi tanto brutta, forse se la sarebbe cavata: nessuno lo conosceva a Roma e nessuno lo aveva visto ai piedi della scalinata del Quirinale, accanto all’edicola del tempio. E probabilmente, in quella metropoli sterminata, avrebbe avuto anche modo di sfuggire a Macario, soprattutto se si fosse rivolto all’uomo che non lo conosceva. Ma riluttava a farlo: lui stava lassù, nell’Olimpo dei grandi, non lo avrebbe ascoltato, non gli avrebbe creduto.
Mentre svoltava dall’Alta Semita per discendere i gradoni del clivus Salutis, il giovane si chiese dove avrebbe dormito quella notte e rimpianse una volta di più il tempo in cui si credeva figlio di due semplici liberti, gente onesta e perbene, aliena da ogni intrigo e cospirazione. Ma quel tempo, lo sapeva, non sarebbe tornato mai più.