Quinto giorno

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

I. Dove Aurelio rimane incastrato

«È fatta, padrone, ci sei dentro fino al collo!» deplorò Castore il giorno dopo, svegliando il padrone senza eccessiva delicatezza per porgergli l’acquamanile delle abluzioni mattutine, assieme alla nuova pasta dentifricia prodotta dal barbiere Azel con certi suoi ingredienti speciali, tra cui spiccavano la pietra pomice e la cenere di denti d’asina. Poi fece cenno di entrare a Gaia, Fillide e Iberina, incaricate della vestizione quotidiana, che portavano rispettivamente la tunica di lino, il subligaculum inguinale e la sopravveste di lana, in quanto l’eccentrico senatore pretendeva, contro ogni uso consolidato, di cambiarsi anche dopo il sonno.

Aurelio si assoggettò alla cerimonia in assoluto silenzio e quando le ancelle uscirono doveva ancora aprire bocca, immerso com’era nei suoi pensieri.

Il pomeriggio precedente era arrivata Pomponia ruscellando lacrime per chiedergli di impegnarsi nelle indagini di persona e con tutta la sua energia: quello che aveva avuto inizio come un banale gioco, ora si rivelava invece come una serie di omicidi tesi a colpire i deboli tra deboli, bambinetti senza famiglia, senza casa, senza nessuno a difenderli, poveri rifiuti umani abbandonati come bestie selvatiche in una città spietata. Non si sarebbe data pace finché il colpevole di un tale obbrobrio non fosse stato punito. E se Tito Servilio era lontano per affari, in mancanza del marito sapeva di poter contare sul più vecchio e caro amico, che in molte altre occasioni si era rivelato un ottimo investigatore.

«D’accordo, mi attiverò subito!» aveva promesso il patrizio, in preda a idee molto confuse che sperava si chiarissero durante la notte, cosa che purtroppo non era affatto accaduta.

«Vabbé, da dove cominciamo?» disse Castore con inusitata sollecitudine: essendo stato investito di un compito molto più personale e spinoso, dava per scontato che il suo ruolo nella caccia si sarebbe limitato ad alcuni stimoli avveduti, a qualche considerazione perspicace e soprattutto a un attento ascolto, che era poi ciò di cui aveva bisogno il senatore quando ragionava da solo sulle sue inchieste.

«Teniamo per ultima la tunica, che è l’indizio più importante, e vediamo il resto, innanzitutto i risultati dell’esame eseguito da Ipparco ieri sera sul cadavere. Criso è morto strangolato, forse con una cintura, per mano di qualcuno che probabilmente lo aveva seguito fin sul colle; nel suo stomaco c’erano ancora i resti del rinfresco offertogli da Pomponia, non digeriti del tutto; dunque quando ha smesso di respirare non doveva aver mangiato da molto. E considerato che l’edicola ai piedi della scalinata del tempio di Quirino non è lontana dalla residenza della nostra amica, possiamo dedurre che sia stato ucciso a breve distanza da lì: tieni presente che era giorno di ludi, quindi di gente in giro ce n’era poca. Inoltre dietro al santuario si trova un boschetto sacro che non viene mai sfoltito per rispetto al Nume e quindi potrebbe aver coperto le mosse dell’assassino.»

«Che altro hai saputo dal medico?» chiese Castore al solo scopo di intervallare il monologo, per renderlo meno noioso.

«Aveva sui tredici o quattordici anni, più o meno la stessa età della vittima dell’amputazione, e al dito indossava una fascetta di argento che verosimilmente è la stessa prelevata dalla mano mozza. Legato addosso con una cordicella, poi, portava un sacchetto con alcune monete: più della mancia di Pomponia e comunque troppo rispetto alla sua misera condizione.»

«Il ragazzino vendeva informazioni, o almeno così ha fatto con la nostra amica, quindi potrebbe averci provato anche con qualcuno di troppo» illazionò il segretario.

«Sappiamo anche che Criso era stato senza dubbio uno schiavo, perché sulla pelle della gola recava ancora le tracce del collare.»

«Pochi schiavi portano il collare nell’Urbe, in quanto la tipica frase che vi è incisa: “Sono scappato, riportami al mio padrone Tizio, Caio o Sempronio” lascerebbe intendere che il suddetto padrone è un tirchio insolvibile da cui è bene guardarsi, privo inoltre dell’autorità necessaria per imporre la sua disciplina ai servi» rilevò il segretario.

«In città, appunto, dove schiavi e padroni vivono fianco a fianco, nella stessa familia; ma in campagna i servi rurali vengono trattati più o meno come il bestiame o anche peggio, se l’animale è pregiato e il bracciante facilmente sostituibile. Dipendono totalmente dal villicus che amministra il fondo, li fa sorvegliare da un aguzzino di giorno, li incatena agli ergastula durante la notte, ma non sa riconoscerne né il viso né il nome e quindi per prevenire eventuali fughe ricorre al collare. È verosimile dunque che Criso venisse dalla campagna, ma questo ci dice ben poco. Trovare qualche dettaglio capace di collegarlo al primo ragazzino sarebbe un buon punto di partenza per scoprire in base a quali criteri vengono scelte le vittime.»

«In effetti un nesso c’è» annunciò Castore trionfalmente.

«Sputa!» lo esortò il patrizio, impaziente.

«Ho dovuto sciogliere parecchie lingue, domine» la prese alla lontana l’alessandrino, presentando al padrone un conto che comprendeva molti congi di vino, un numero di focacce al rosmarino sufficienti a sfamare una legione e più salsicce lucaniche di quante se ne vendessero fuori dall’Anfiteatro di Statilio Taurio nei giorni delle venationes, oltre alla tariffa per le prestazioni in esclusiva di una certa Eufrosine, libera meretrice professionista senza contratti con alcun bordello: i nubiani che si erano accollati al suo posto il disturbo di girare per obitori e lavanderie, offrendo pasti e bevute in cambio di preziose informazioni, avevano preteso infatti quell’ultima clausola in cambio dell’esosa percentuale che Castore si sarebbe trattenuto sulla mancia.

Il senatore ovviamente si accorse subito di quanto i prezzi fossero gonfiati e in un altro momento li avrebbe discussi voce per voce, chiedendo al segretario se proprio lo scambiava per un grullo fatto e finito. Ma quando si è ricchi sfondati e si ha fretta, a volte ci si può permettere di farsi prendere in giro, così pagò sull’unghia senza fiatare.

«Criso e il bambinetto dalla mano mozza, da me identificato come un certo Oreste, avevano lavorato nella stessa fullonica» rivelò infine l’alessandrino dopo aver messo al sicuro la generosa ricompensa.

«Un colpo da maestro» riconobbe il padrone. «Abbiamo dunque una pista: ambedue giovanissimi, ambedue compagni di lavoro, ambedue uccisi proditoriamente...»

«No» lo deluse drastico Castore, tossicchiando con un certo imbarazzo.

«Come no?» strabiliò il senatore.

«C’è un inghippo, ed è grosso: Oreste non è stato ammazzato da nessuno. Romizio, il proprietario della lavanderia del clivus Suburanus presso cui lavorava e dormiva, nel consegnare la salma ai libitinarii ha asserito che era morto dopo due giorni di febbre altissima. E allo spoliarium il suo corpo se lo ricordavano, proprio perché quando era arrivato aveva ancora entrambi le mani, ma il mattino seguente, al momento di gettarlo nella fossa comune, una era sparita.»

«Dunque è stato mutilato dopo la morte, come sosteneva Ipparco, però dopo una morte del tutto naturale» considerò il senatore. «Perché allora lo scempio dell’amputazione?»

«Pare che di queste violazioni di cadaveri ne accadano spesso, a opera di depravati, stregoni, o anche di studiosi di medicina ansiosi di esaminare gli organi interni del corpo umano: ovviamente i libitinarii non effettuano alcun controllo notturno, quindi i profanatori possono agire indisturbati. Comunque il datore di lavoro di Oreste mi ha detto di aver assunto mesi or sono come secondo apprendista un campagnolo alquanto grezzo che era fuggito dopo poco, non senza essersi prima appropriato della tunica quasi nuova di un cliente. Si trattava senza dubbio di Criso.»

«E arriviamo finalmente alla tunica color ocra che gli è stata trovata addosso, senza dubbio la stessa sottratta alla lavanderia. Sulla schiena l’assassino ha vergato col gesso uno strano indovinello che riporta al gioco e ai suoi enigmi» disse Aurelio porgendogli lo schizzo a penna su cui aveva passato inutilmente parte della notte.

«Non mostrarlo a me, padrone: Paride e la matrona Pomponia, che si dilettano assai con questi trastulli, sono già pronti a dare il loro contributo, che non dubito sarà determinante. Per quanto mi riguarda proseguo con l’incarico a cui tieni di più, tanto delicato da assorbire tutto il mio tempo!»

«Aggiungici un favorino che vale altri dieci sesterzi e dovrebbe essere pane per i tuoi denti: nella cerchia di quella sedicente squadra Gallica che tiene sotto il suo tallone i Celti della Suburra c’è una donna. Si chiama Viridia, ed è di una bellezza inaudita e stravagante, con pelle e capelli color bronzo, occhi dal taglio orientale e tuttavia chiari: impossibile non notarla, comunque dicono che sia riservata al capo. Voglio ogni informazione possibile su di lei!»

Bene, pensò deliziato l’alessandrino: nella vita del padrone, infatti, delitti e intrighi si erano sempre accompagnati a numerose presenze femminili, e soltanto in quel caso la bilancia pareva pendere tutta quanta dalla parte degli arti recisi, dei cadaveri mozzi e delle noiose investigazioni, con penosa carenza di femmine conturbanti. Eccone dunque finalmente una, capace di ristabilire il giusto equilibrio...

«Ti accingi a corteggiarla, domine?» chiese speranzoso: spesso le femmine su cui il senatore metteva gli occhi erano servite da ancelle graziose, che volentieri imitavano le padrone, rivolgendo a lui le loro cortesi attenzioni.

«Veramente progetterei di rapirla, Castore. Con il tuo aiuto, naturalmente!» rise il padrone.

Castore, che stava uscendo a passo quasi di danza, si bloccò bruscamente. Come Odisseo, giunto quasi in salvo nell’isola dei Feaci, guardando approssimarsi la tempesta mandata da Poseidone comprese all’istante che le sue vicissitudini erano ben lungi dall’essere finite, così il segretario, che già si stava cullando con immagini di tenere fanciulle ben disposte nei suoi confronti, se le vide immediatamente sostituire da minacciose figure di energumeni nerboruti dai capelli gialli, armati fino ai denti e decisi a strappargli le unghie una per una. La squadra Gallica era nota per le sue maniere spicce: gli Epiroti che avevano tentato di invadere il loro territorio si erano ritrovati parecchie ossa rotte, e la banda degli Iberici era stata addirittura costretta a cambiare quartiere, figuriamoci dunque il trattamento che avrebbero riservato a chi avesse osato insidiare una delle loro donne, in particolare quella del capo... e ciò significava guai, guai, guai, a cui bisognava a ogni costo tentare di porre un argine.

II. Dove Pomponia ripercorre le prime fasi del gioco

Si diceva che il gigante Briareo, che prestò man forte a Zeus contro i Titani, avesse cinquanta teste e cento braccia. Sebbene di numero inferiore, l’abbondanza di arti superiori e inferiori avvinghiati assieme davanti alla porta che Aurelio stava per varcare per recarsi dalla parte privata della domus a quella pubblica, era tale che per un istante il patrizio pensò di trovarsi davanti all’antico mostro mitologico. A poco a poco si avvide che, nel groviglio, le braccia e le gambe erano parecchie, e che metà di esse appartenevano all’ancella Iberina, mentre le altre al giovane pocillatore di cui si era incapricciata, l’ultimo della lunga serie di giovanotti prestanti a cui l’ancella dedicava tutto il suo tempo libero e anche gran parte di quello che avrebbe dovuto riservare al lavoro.

«Iberina, la mia toga è già stata stirata a dovere o hai pensato che fosse elegante lasciarvi il solito reticolo di pieghine, in modo da farmi assomigliare al volto di una megera rugosa? E tu non dovresti essere in cucina? Intendete forse servirmi anche stasera pollo riscaldato, verdure lesse e croste di formaggio?» brontolò Aurelio con voce severa, ben sapendo che il cuoco Ortensio era assente da due giorni, avendo costui giudicato che, data la trascuratezza dell’intendente, fosse il momento giusto per portare ai suoi fratelli alcune ghiottonerie rubate nella dispensa. La defezione di Paride, in effetti, aveva inferto un ulteriore colpo alla disciplina della servitù, mai stata ferrea, e ora il lassismo la faceva da padrone. Era ormai diventato inevitabile infliggere a quei servi riottosi un duro castigo, si ripromise il patrizio, e l’avrebbe fatto di sicuro, non appena avesse trovato un po’ di tempo. Ma non ora: ora c’era da occuparsi della caccia.

Quando il senatore fece il suo ingresso nel tablino, Paride e Pomponia erano già seduti al lungo tavolo di marmo, mentre Carnifex, in piedi presso la porta, vegliava alle loro spalle.

«L’indizio fornitoci da chi dirige il gioco, l’anello con la quadriga, ci ha portato fuori strada perché ci siamo impuntati sui grandi monumenti, trascurando l’affresco dell’edicola, che pochissimi conoscevano» esordì Aurelio. «I giocatori erano convinti di dover cercare una quadriga vera o almeno una statua, e su questo contava l’assassino: voleva che si trascinassero per giorni e giorni in luoghi come stalle, circhi, parcheggi o rimesse per carrozze, senza mai venire a capo dell’enigma!»

«Ci siamo cascati in pieno, perquisendo il circo e poi persino la caserma dei gladiatori, su suggerimento di quel giovane babbeo...» fece Paride. «A proposito, ieri è stato di nuovo qui a cercarti mentre eri fuori.»

«Dove vuoi arrivare, Aurelio?» chiese la matrona, aggrottando le sopracciglia.

«Pare quasi che il giocoliere abbia alzato il tiro. Perciò vorrei capire se le mosse precedenti del gioco avevano o meno una logica precisa e a questo devi provvedere tu, amica mia, che te ne occupi da tempo.»

«A dire il vero non ho idea di come la faccenda sia iniziata, ma a un certo punto un arcarius, che avevo assoldato perché mi riportasse tutto ciò che accadeva in casa di Domitilla, mi riferì di una cena con i suoi cugini, durante la quale il giovane Decimo Surillo parlava di una specie di gara, a cui partecipavano alcuni amici della sua età.»

«Si tratta del fratellastro di Rufino, quel ragazzetto che trovi detestabile?» chiese il senatore.

«Proprio quello! La famiglia discende da quell’Aulo Surio Caro che fece i soldi a palate durante le proscrizioni di Silla, denunciando amici e parenti come partigiani di Mario – che lo fossero o meno – per incamerarne i beni. A oltre un secolo di distanza resta il nonno, chiamato Aulo anche lui, ormai immobile in un letto, e tre nipoti, dati alla luce dalle tre spose del suo unico figlio maschio, precocemente defunto. C’è Surilla, la primogenita, donna oltremodo difficile, poi il povero Surio Rufino, che tutti danno per mezzo scemo, infine Decimo, un adolescente viziato e presuntuoso la cui faccia attira gli schiaffi a due a due finché non diventano dispari. Si crede chissà chi perché è nato da stirpe senatoriale, mentre i fratelli provengono dal ceto dei cavalieri: ha la stessa spocchia della madre, una Crispina tanto altezzosa da risultare intollerabile persino al suocero.»

«Vabbé, ma il gioco?» la riportò in carreggiata Aurelio.

«Quella sera, poiché si trattava di una cena informale, Decimo era stato ammesso a tavola malgrado l’età acerba e fu proprio lui a portare l’attenzione sul gioco, spiegando che l’ultimo enigma proposto consisteva in un indovinello: “ILLUSTRI DEA”, che nessuno riusciva a decifrare. Ovviamente il servo si precipitò a riferirmelo e io fui la prima a svelarne il significato!»

«Illustri Dea significa “All’illustre dea”, quindi poteva alludere a qualunque tempio, sacello o ara dedicata a un Nume di sesso femminile...» considerò Paride.

«Così hanno ragionato gli altri, infatti, recandosi a ispezionare inutilmente un gran numero di luoghi sacri!» traboccò di legittimo orgoglio la matrona e, giudicando che la sua impresa fosse degna di un premio, prima di svelare il mistero fece cenno ai servi di avvicinare il vassoio con le meline caramellate, nonché la ciotola colma di mandorle, pistacchi e gherigli di noce, che innaffiò con un vino dolce e speziato.

Aveva la bocca ancora piena quando proseguì: «Pensateci un po’: che significa letteralmente “illustre”, se non “luminoso”, “splendente di luce”, “illuminato”? E qual è l’unico tempio del Palatino illuminato di notte?».

«Il santuario di Luna Noctiluca!» esclamò Aurelio, ammirato dalla sagacia della sua amica, che si guardò bene dal riferire come l’idea gli fosse stata suggerita da un’umile ancella che aveva lavorato là vicino.

«Purtroppo il nuovo indizio era disegnato sul muro del sacello, quindi anche tutti gli altri concorrenti potevano vederlo: si trattava di un triangolo con in mezzo una rana. Qui ammetto di essermi confusa, perché non ho afferrato al volo che alludeva al gioco del trigono, il cui campione è appunto Batraco, che in greco significa rana. Pensare che, se mio marito fosse stato a Roma, l’avrebbe capito immediatamente!»

«Io no di certo» sorrise Aurelio, che a differenza del cavaliere Servilio nutriva un totale disinteresse per quella che era una delle attività più praticate e seguite di Roma, una semplice sfida con la palla da gareggiarsi all’interno di un campo triangolare, attorno alla quale prosperavano fior di scommesse.

«Sebbene alla fine ci sia arrivata, il giovane Decimo Surillo è riuscito a precedermi e, giunto per primo nella dimora del campione sul Celio, ha avuto accesso alla casa grazie al segnapunti Ascanio, che conosceva da tempo, trovando in cortile l’indizio successivo. Intanto però la voce si era sparsa e altra gente aveva cominciato a partecipare alla ricerca, non soltanto ragazzetti, ma donne fatte, mogli annoiate, cortigiane in vena di emozioni, servi scansafatiche, giovinastri della Suburra e persino un vecchio pretore in riposo da anni!»

«È da Batraco che sono stati trovati i bracciali che rimandavano alla statua di Cornelia?» chiese Aurelio.

«No, c’è un altro passaggio intermedio: a un ramo del prugnolo al confine dell’orto di Batraco era appeso un brandello di stoffa color porpora, su cui era stata tracciata una grande lettera R.»

«Non dirmi che ne hai afferrato subito il senso!» si stupì Paride, che, informato dell’indizio – come del resto mezza Roma –, era stato inutilmente sveglio tutta la notte per venirne a capo.

«Una stoffa purpurea si chiama di solito ostrum, e se ci metti davanti la R...» gongolò la matrona, fiera del suo acume.

«Diventa rostrum, rostro, ovvero il becco dei rapaci» ragionò l’intendente.

«Ma anche i Rostri del Foro!» spiegò euforica Pomponia. «Ovvero le tribune dalle quali i magistrati declamano le orazioni, così chiamate perché si usava appendervi le prue delle navi nemiche catturate in battaglia, che portano appunto questo nome.»

«Soltanto tu potevi capirlo, domina!» esclamò Paride colmo di vibrante ammirazione.

«Sotto un rostro infatti c’erano due bracciali quasi identici, di nessun valore, che Carnifex si è subito preoccupato di recuperare: il riferimento alla madre dei Gracchi era palese. Il mattino dopo... be’, sapete già quello che è accaduto al portico di Ottavia» concluse Pomponia.

Aurelio annuì pensoso. Chi dunque aveva inventato la gara? Ed era ancora il creatore originario a tirare le fila di quel bizzarro passatempo, o il gioco era ormai passato di mano? La prima cosa da fare era senza dubbio interrogare Decimo Surillo con le buone o con le cattive, per scoprire come la notizia di quella singolare competizione era giunta fino alle sue orecchie: avrebbe dunque contattato subito il fratellastro Surio Rufino, che pareva tanto ansioso di rendersi utile.

SUBURRA, INSULA DELLA GRU

III. Dove a una nonna ansiosa sorge un brutto sospetto

Mentre nella domus di Aurelio si discettava di enigmi, nella soffitta piena di spifferi dell’insula della Gru, Prassilla impagliava uno sgabello con una energia che confinava quasi con il furore, torcendo le fibre come se stesse tirando il collo a un pollo. Era un modo per guadagnare qualche asse, ma anche per dar sfogo alla rabbia e all’ansia che le ribollivano dentro da quando aveva ascoltato le confidenze della nipote.

Milla, la sua Milla, per cui aveva sperato in un avvenire brillante, ci era cascata anche lei. Invaghita, ammaliata, infatuata come sua madre tanti anni prima, e anche stavolta di un celta della malora, maledetta tutta quella sciaguratissima razza, barbari dannati, selvaggi rozzi e incivili! Povero anche questo, naturalmente, e di sicuro non troppo onesto: bastava vedere quel ninnolo da pochi assi che le aveva regalato, una strana croce con i bracci ripiegati, frutto probabilmente di qualche furtarello, che lei si era subito appesa al collo... Sventurate ragazze, mai che si trovassero un protettore agiato, disposto in cambio di una visita settimanale a mantenerle decorosamente in una piccola casa discreta, con un paio di ancelle, buon cibo tutti i giorni, abiti decenti, qualche bel gioiello e magari anche un cubicolo al pian terreno per una vecchia nonna indulgente. Oppure, se proprio ci tenevano, scegliessero almeno un brav’uomo che lavorava sodo per metter su famiglia, in modo da assicurarsi la soddisfazione di allevare dei figli con meno stenti di quelli patiti da lei e da Febe. No, niente affatto! Perdevano la testa per dei disgraziati senz’arte né parte, che dalla loro avevano soltanto la parlantina facile di chi è avvezzo a mentire e imbrogliare, l’avvenenza di una gioventù spesa tutta a delinquere nella speranza di non finire al remo o nelle miniere di sale, e la noncuranza di chi le donne è abituato a prenderle e lasciarle, dimenticandosene subito. Senza contare che il tizio di cui si era incapricciata Milla non era nemmeno un giovanottello di primo pelo, bensì un uomo fatto che si comportava come se i suoi vent’anni non dovessero finire mai.

Un uomo fatto, si ripeté Prassilla e scolorò, mentre le mani veloci si arrestavano improvvisamente sui cordami. Fascinoso. Irresistibile. Celta.

Ma no, era un sospetto assurdo, che mai le veniva in mente? C’erano un milione di maschi nell’Urbe e chissà dov’era finito l’immemore amante di Febe dopo diciotto anni, probabilmente al capestro, strangolato al palo, nelle viscere della terra a picconare macigni ferrosi, o a scavare piombo, o a triturare rocce aurifere in uno dei paesi lontani in cui si veniva spediti dopo una condanna ai lavori forzati. Che sciocchezza andava pensando? Non poteva essere lui!

Si era del tutto rassicurata a riguardo, quando la figlia spalancò la porta della povera stanza e si precipitò dentro, con il viso splendente che la gioia rendeva bello come era stato soltanto allora, diciotto anni prima: «Mamma, lui è qui! È tornato a Roma, mi ama ancora e vuole sposarmi!».

CASA DI IULLO BATRACO SUL CELIO

IIII. Dove un campione si allena

Ascanio rinunciò con un sospiro a tirare di nuovo la palla.

«Devi allenarti più seriamente, Iullo: ti trovo piuttosto giù di tono» disse. «Ho contrattato un incontro per le prossime nundinae, sul quale un mucchio di quiriti punterà fior di sesterzi. Non deve andar male, per nessunissima ragione!»

«Quando mai ho perduto?» alzò le spalle Batraco, fingendo un’indifferenza che era ben lungo dal provare.

«C’è sempre una prima volta. Sei fiacco, ultimamente, pare quasi che tu non metta tutto te stesso nel lanciare e prendere la palla, come se qualcosa ti rodesse dentro.»

«Che dici? Prima dell’allenamento avevo mangiato troppo, tutto lì.»

«Hai già passato un brutto momento, te ne ricordi? Ma ne sei venuto fuori egregiamente.»

Pagando un prezzo molto alto, strinse le labbra Batraco. Ma il pubblico è esigente e volubile, quindi, quando si è il campionissimo e si sa di non essere in grado di vincere un incontro, tutto diventa sopportabile purché gli ammiratori continuino a esaltarti, gli appassionati a cantare le tue lodi, i patiti ad applaudirti. Una donna non valeva di certo la perdita del loro sostegno, cercò di convincersi, nemmeno quella donna così singolare, così unica, per la quale aveva provato una violenta attrazione fin dal primo momento che l’aveva vista mentre danzava a una festa molto esclusiva. Ma non appena era riuscito a comprarla, dopo lunghe e difficili trattative, era stato costretto a rinunciarvi, non diversamente dal Piè Veloce Achille con la schiava Briseide, sottrattagli dal bieco Agamennone. Per lui però non c’era stata alcuna ira funesta, nessun infinito lutto addotto agli Achei, ma soltanto un remissivo chinare umilmente il capo. Così il giorno della partita l’avversario si era presentato con il pollice fratturato in uno strano incidente, che aveva tutta l’apparenza di esser stato provocato appositamente. Dunque aveva vinto e gli scommettitori avevano incassato la posta, mentre lei raccoglieva le sue poche cose per trasferirsi dal nuovo padrone. Avrebbe voluto dimenticare il suo sguardo, ma se lo sentiva ancora addosso, altero e deluso davanti alla sua pochezza.

«Dico sul serio, Iullo: devi scuoterti dal torpore, ritrovare le tue migliori energie!» gli raccomandò Ascanio, fingendo ipocritamente di non conoscere l’accordo che lui stesso aveva provveduto a propiziare e che gli avrebbe finalmente riempito le tasche: denaro per comprare le grazie degli schiavetti in vendita, denaro per vincere la verecondia dei fanciulli virtuosi, denaro per far chiudere gli occhi ai padri compiacenti.

Inutile, pensava intanto Batraco, in preda allo sconforto. Perché aveva speso tanto e tanto male il patrimonio guadagnato con la sua magica palla? Perché si era lasciato inguaiare dagli usurai? Perché si era recato di nuovo in quel bugigattolo maleodorante della Suburra? Gli era stato sventolato sotto il naso un sacchetto di monete, abbastanza per pagare i debiti e anche qualcosina in più, ma un favore si ripaga con un altro favore, aveva spiegato quell’orribile uomo che da un ufficietto striminzito con i suoi maneggi teneva in pugno fior di potenti. Le scommesse sarebbero fioccate come al solito, e tutte in suo favore, perché aveva già messo all’opera i suoi uomini a diffondere la notizia della forma eccezionale del campionissimo.

Stavolta invece avrebbe dovuto perdere l’incontro. Probabilmente ne sarebbe uscito sconfitto comunque, tentò di consolarsi Batraco: gli anni passavano, la sua mira non era più delle migliori e lo sforzo del lancio cominciava a estenuarlo. Allora tanto valeva mettere a posto i conti con un piccolo compromesso e chiudere in bellezza, si disse amaro: aveva un’altra prospettiva davanti, quella apertagli dalla relazione con una donna che forse alla lunga poteva trasformarsi in un porto sicuro...

«Su, andiamo a esercitarci un po’!» lo esortò il segnapunti e Batraco finse di assecondarlo.

Ma Ascanio non ci cascò: il campionissimo non era più lui, era ora di mettersi a tirare altri dadi.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

V. Dove si fanno varie illazioni su un quadrato magico

Nel tablino della casa sul Viminale, Aurelio estrasse infine la tavoletta di cera su cui aveva ricopiato il nuovo enigma per mostrarla a Paride e Pomponia.

«Ecco il disegno vergato a gesso sulle spalle della tunica di Criso.»

«È un quadrato magico, con le parole leggibili in entrambi i sensi» commentò l’intendente. «Il significato di Amor e Roma è chiaro, ma che c’entra il resto? Olim può voler dire un sacco di cose, a seconda del contesto: “una volta”, “un tempo”, ma anche “talvolta”, “talora” o, riferito al futuro, persino “un giorno” o “in avvenire”. Per non parlare poi di Milo...»

«Si tratta di un nome proprio, Milo o Milone, come il capopopolo che venne accusato di aver ucciso il tribuno Clodio, fratello della Lesbia di Catullo, quello per cui Cicerone scrisse l’arringa della difesa, che è tuttora reputata uno dei capolavori dell’arte oratoria» gli ricordò Pomponia.

«Dimentichi forse che la Pro Milone non venne mai pronunciata, e che comunque non impedì all’imputato di essere condannato all’esilio?» commentò Aurelio. «Marco Tullio scriveva divinamente, ma come uomo politico era un pallone gonfiato. Mai e poi mai avrebbe rinunciato a pubblicare qualcosa a cui aveva lavorato di fino, anche se ormai non serviva più a niente: suppongo lo facesse per passare alla storia, nella speranza che la memoria delle sue arringhe venisse tramandata nei secoli, o magari nei millenni.»

«In ogni caso non occorre evocare i processi discussi da Cicerone per giustificare quel vocabolo: il nome di Milone è abbastanza comune tra i greci e anche uno dei più grandi lottatori dell’antichità si chiamava così» interloquì Paride, a cui la partecipazione al gioco aveva conferito un’inusitata sfrontatezza. «La frase tuttavia resta priva di senso.»

«Olim forse denota qualcosa che riguarda il passato, mentre Roma e Amor sembrano alludere a un intrigo galante: quel tal Milo, o Milone che dir si voglia, potrebbe esserne il protagonista...» osservò il patrizio.

«E se si trattasse del tenutario di un bordello, che magari esisteva una volta, ma ora non c’è più?» chiese la matrona.

«In questo caso, credo di sapere da chi informarmi» sorrise Aurelio convocando i nubiani, certo che la balda Eufrosine, di cui aveva notato i maneggi nella rimessa della sua lettiga, non fosse molto lontana.

VI. Dove viene consultata un’amica dei lettighieri nubiani

I lettighieri nubiani erano otto, neri come la pece e tutti fratelli, o almeno così sostenevano. Durante uno dei soggiorni di Aurelio ad Alessandria si erano recati da lui da supplici, pregandolo caldamente di comprarli tutti quanti, in modo da non finire separati presso padroni diversi. Il patrizio aveva accondisceso volentieri, certo che i loro fisici possenti avrebbero dato un tocco di originalità alla sua portantina suscitando l’ammirazione femminile, soprattutto in estate, quando li avrebbe rivestiti soltanto di un sommario perizoma di bisso rosso. Così, gli otto schiavi africani avevano preso la via di Roma, dove per inciso si trovavano benissimo, salvo per il clima e per quello che giudicavano un pallore insano e poco attraente nella pelle delle donne, che avrebbero preferito più abbronzate. Eufrosine tuttavia, pur essendo bianca come il latte, aveva saputo conquistarli appieno con i modi franchi e giocosi e un atteggiamento protettivo che qualcuno non avrebbe esitato a definire materno, dato che la lupa non era più nella sua età acerba. Il felice connubio aveva dato luogo a tale soddisfazione da entrambe le parti da persuadere Eufrosine a stipulare una specie di contratto condominiale con i nuovi clienti, che avevano diritto di godersela ognuno nel giorno prestabilito secondo il patto, prevedendo anche una sosta di riposo per le nundinae e ogni tanto qualche eccezionale ammucchiata in cui si decideva di festeggiare tutti assieme.

«Ehi, questo sì che è un tablino!» fischiò la prostituta entrando a larghi passi e senza alcuna soggezione nell’ala padronale della domus, a suo agio come se avesse vissuto l’intera esistenza tra tende ricamate, sgabelli rodii e tavoli di marmo. «Ragazzi miei, ma non me l’avevate detto che abitavate in un posto che sembra il palazzo dei Cesari, su al Palatino! Non che io l’abbia visto, eh, ma le voci corrono!» esclamò, e l’unica ragione per cui i nubiani non furono visti arrossire fu il colore delle loro gote, troppo scure perché si notasse il sangue che affluisce al viso nei momenti di impaccio.

«Dunque volete sapere dei vecchi lupanari. Io posso risalire a una trentina di anni fa, non che esercitassi già, ma sono per così dire figlia d’arte, quindi ho conosciuto un gran numero di puttane e lenoni anche da piccola, ci sono praticamente cresciuta in mezzo, tanto che potrei raccontarvene delle belle! Oh, perdonate il linguaggio, non avevo visto che fosse presente anche una signora!»

Lungi dallo scandalizzarsi, Pomponia le porse il vassoio di meline rosolate col cinnamomo che le ancelle le avevano messo davanti per favorirle il flusso dei pensieri. E siccome Paride pareva troppo imbarazzato per intervenire e di servi in giro non se ne vedevano, Aurelio provvide di persona a riempirle il nappo con un vino caldo e speziatissimo, che la meretrice ingollò di gusto schioccando più volte le labbra in segno di apprezzamento.

Se l’avesse raccontato in giro, nessuno l’avrebbe creduta, pensò deliziata: lei, l’Eufrosine da due assi – tariffe più alte non se ne spuntavano più alla sua età – seduta assieme a una gran dama nella casa di un senatore, a brindare con un calice di vino che costava cento volte il suo corpo in vendita...

«Milone, dite? C’era un Libone, tenutario di un bordello dietro il foro Boario, e un Varone che esercitava vicino agli Orti di Mecenate e morì dissanguato quando un cliente, sostenendo che frequentando il suo serraglio si era preso un brutto morbo, lo colpì con un coltellaccio nelle parti sensibili, staccandogli con un colpo solo la mentula... oh, scusami, kyria! Mi ricordo anche di un tal Filone, un farabutto che batteva a sangue le ragazze quando non guadagnavano abbastanza: lo aspettammo in quattro, una notte, e gliele demmo di santa ragione per fargli passare una volta per tutte la voglia di picchiare. Non che si sia violente, noi donne di strada, ma quando ci vuole, ci vuole!»

«Brave» approvò Pomponia e uno sguardo di intesa, quasi di complicità corse tra le due ospiti tanto diverse – l’una regina della moda, del pettegolezzo e degli eventi mondani, l’altra umile prostituta, scarto della società, onta del suo sesso – accomunate però dal buon senso, da un grande cuore e da un vivace apprezzamento per la frutta caramellata.

«Un Milone però proprio non me lo ricordo» scosse la testa Eufrosine, spiacente di non poter aiutare quella gente così cortese. «Un momento, aspettate... un tempo c’era una specie di lupanare nel clivus Pullius: in realtà si trattava di tre camere di una domus al pianterreno dove viveva anche il proprietario dell’insula, tal Mamerco Atratino, un vecchio maligno e catarroso con cui nessuno voleva avere a che fare.»

«Credo di averlo conosciuto; era stato edile addetto alla iurisdictio inter peregrinos, con competenza sulle cause tra stranieri e tra cittadini romani: era molto conservatore, al punto che nessun forestiero riuscì mai a vincere una causa contro un romano durante il suo mandato» ricordò Aurelio.

«Tra i suoi difetti doveva esserci anche l’avarizia, se aveva sacrificato tre ampie stanze della sua casa per aprirle verso la pubblica via, affidarle alla liberta che si diceva fosse la sua amante e popolarle con una mezza dozzina di asinellae da affittare!» precisò la prostituta.

«Vabbé, ma che c’entra?»

«La liberta aveva un fratellastro che la aiutava ad amministrare il bordello e, non potrei giurarlo, ma mi pare che si chiamasse proprio Milone. Adesso in quei locali ci hanno arrangiato la bottega di un intagliatore di avorio e una bettola...»

«Presto, tutti i servi confluiscano nel clivus Pullius, potremmo fare in tempo a sventare un nuovo omicidio! Vi raggiungo subito là!» ordinò il patrizio affidando a Paride il comando dell’operazione.

Stava per muoversi a sua volta quando incrociò Aristodemo, che entrava in quel momento per la seduta di posa.

«Ah, eccoti qua, senatore, meno male!»

«Adesso ho un altro impegno, poserà Paride» escluse drastico il patrizio.

«Ehi, ma mi hai appena ordinato di effettuare una perquisizione!» protestò veemente quest’ultimo, che si vedeva già relegato sull’atroce seggio, mentre gli altri si dedicavano a un’appassionante caccia di indizi.

«Già, è vero! Allora trova qualcun altro che prenda il tuo posto!» tagliò corto il padrone.

Paride fu combattuto: poteva adeguarsi, come sempre aveva fatto in vita sua, oppure... Fu così che, con una mossa subdola e iniqua mai osata prima, tentò di incastrare l’innocente pocillatore di Iberina.

Ma il giovane, che essendo molto sveglio aveva intuito il pericolo per tempo, ebbe l’accortezza di presentarsi con la guancia destra bene imbottita con fiocchi di lana da filare, ostentando un ascesso a un dente, mentre con lo sguardo cercava pressantemente un nuovo sostituto. Gli occhi di tutti caddero infine su Memnone, il più giovane dei nubiani, che si guardò attorno a sua volta per scaricare il barile, scoprendo tuttavia come i suoi sette fratelli si fossero già prudentemente eclissati e in giro non ci fosse più nessun altro.

Sospirando il lettighiere accettò l’inevitabile iattura, preparandosi alla posa, mentre lo scultore ne fissava incredulo il naso e le labbra dai tratti tipicamente africani.

«Ma, ma, ma... senatore, questo è troppo, non puoi chiedermi un miracolo!» gemette il poveretto, affranto.

«Vabbé, non perdere tempo, vedi di cominciare, penseremo più tardi a come aggiustare il ritratto» ordinò Aurelio e Aristodemo fu lì lì per piangere. Tutto era perduto, a meno di non addivenire alla proposta fattagli dal liberto astuto che gli aveva commissionato i disegni. L’aveva scartata immediatamente con non poca indignazione: era un artista che copiava dal vivo lui, non un bieco imitatore! Ma a mali estremi, estremi rimedi, e forse tutto sommato si poteva arrivare a un accordo.

Il patrizio era già sulla porta dell’atrio quando Carnifex lo trattenne: «Domine, c’è un dettaglio che non ti ho ancora riferito e forse potrebbe interessarti. Accanto all’edicola in cui abbiamo trovato il piccolo Criso erano visibili parecchie orme, alcune delle quali si sovrapponevano alle altre, quindi dovevano essere più recenti. Purtroppo poco dopo è arrivato un mucchio di gente a pestare il lastricato».

«Cancellando qualunque indizio utile» sospirò Aurelio, che ben sapeva come la folla dei curiosi, e anche gli inquirenti stessi, inquinassero spesso la scena del delitto fino a rendere irriconoscibili le eventuali tracce lasciate dall’assassino.

«Tuttavia ho notato un particolare strano nell’impronta di quelle scarpe, domine: a un certo punto sfumavano in modo confuso, come se alla suola mancasse la punta.»

A lasciare un’orma di quel tipo poteva essere soltanto una calzatura arrotondata all’insù, dedusse Aurelio. Ne esistevano parecchie, certo, ma non a Roma: era un modello tipico dell’Oriente, ancora in uso nei quartieri popolari di Antiochia...

Sciocchezze. Che c’entrava il sanguinoso gioco di Roma con Antiochia? si disse subito accantonando il pensiero, mentre si affrettava a raggiungere la squadra nel clivus Pullius.

SUBURRA, COVO DELLA BANDA GALLICA

VII. Dove su un foglio di papiro cade una macchia di inchiostro

Al suo rientro nella tana della squadra Gallica, Dannico scorse Viridia nella stanzetta riservatissima che Meticanio chiamava pomposamente il suo ufficio. Lì era dove venivano convocati, per sapere dal capo quali cenacoli svaligiare o a quali esercenti della Suburra c’era da chiedere il giusto contributo per essere protetti dalle altre bande del quartiere, quella degli Epiroti, dei Traci o degli Iberi, che avrebbero potuto far dei danni alla loro bottega, fracassando nottetempo la persiana o appiccandovi il fuoco. E quando qualcuno, tra quei bravi negozianti o artigiani, insisteva che di protezione non aveva nessun bisogno perché viveva in pace con tutti, bisognava dimostrargli il contrario, facendogli trovare il serramento di legno mezzo bruciato, o spaccato in due con l’ascia. Le somme da sborsare comunque non erano troppo alte: la squadra chiedeva poco, soltanto quello che i popolani potevano permettersi, e teneva davvero gli occhi aperti contro altri eventuali taglieggiatori, che avrebbero preteso ben di più. La legge romana non poteva arrivare dappertutto in una città di un milione e mezzo di abitanti, così se ne faceva le veci. Per questo quando Meticanio Meticone mandava via tutti per ricevere qualche vecchio amico, ingiungendo di girare alla larga, lui obbediva tranquillo, fidandosi ciecamente di chi gli aveva consentito una vita nella capitale abbastanza facile e, se non proprio del tutto onesta, almeno quasi.

«Che fai lì, Viridia?» chiese Dannico stupito, vedendo la donna con il calamaio in mano, accanto al tavolinetto in cui Meticanio teneva i documenti.

«Niente, spolveravo» rispose lei in un tono che avrebbe voluto suonare indifferente.

L’uomo si avvicinò sospettoso, osservando il pezzetto di papiro che Viridia stava per gettare via.

«È soltanto un foglio macchiato, vedi?» disse lei consegnandoglielo.

«Va bene, ma non azzardarti più a buttare via niente, chiedi sempre prima il permesso!» la redarguì l’altro con voce severa, mentre la sospingeva fuori dalla stanza che era preclusa a tutti.

Lei annuì composta, col cuore in tumulto e il fiato sospeso, temendo che Dannico riconoscesse la “V” iniziale del suo nome, appena vergata. Soltanto quando lui se ne fu andato riprese a respirare e benedisse la sua mano incerta e la sua scarsa dimestichezza con la penna e l’inchiostro.

Viridia non conosceva le antiche storie dei greci, o avrebbe saputo di Sisifo, condannato nel Tartaro a sospingere su un erto monte un masso enorme, che giunto alla cima rotolava nuovamente giù, obbligandolo a ricominciare tutto daccapo. Ma se avesse conosciuto la leggenda, si sarebbe sentita come il figlio di Eolo capace di sfidare i Numi a tal punto da avvincere in catene Thanatos, Dio della Morte, rendendo così gli uomini immortali. Anche lei infatti era pronta a ricominciare tutto daccapo finché non fosse riuscita nel suo intento: ma doveva essere più prudente, più scaltra, perché mille occhi la sorvegliavano da mane a sera.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

VIII. Dove si contano gli elefanti di Annibale

Non sappiamo esattamente quanti elefanti da battaglia avesse Pirro la prima volta che li scatenò come macchine da guerra contro Roma. Si tramanda invece che Annibale valicasse le Alpi con ben trentasette pachidermi, la metà dei quali perse la vita sugli impervi passi montani, mentre tutti gli altri, salvo un solo sopravvissuto, dovettero soccombere al rigido clima invernale della pianura padana.

Vedendo il senatore rientrare dal clivus Pullius nella domus del Viminale assieme ai suoi fidi, si sarebbe sospettato che facesse ritorno da una lunga spedizione tesa a recuperare i resti dei poveri animali caduti dalle forre cisalpine fino alla valle del Trebbia, là dove l’Urbe aveva ceduto all’astuta strategia del condottiero punico.

«Caccia grossa?» chiese Castore vedendo entrare i bravi segugi carichi come muli.

«Spero che alle belle signore della città l’avorio scolpito piaccia assai, perché dovremo distribuirne un bel po’» sbuffò il senatore posando sul tavolo una pesantissima zanna istoriata, a cui si aggiunsero presto corni, scettri, bastoni di comando, statuette di satiri, ninfe, menadi e Numi vari, nonché cofanetti, pendenti, armille, collane, orecchini, pettini, medaglioni, pettorali, scacchiere, dadi, astragali, pedine di latrunculi e di terni lapilli.

«Un buco nell’acqua, insomma!»

«L’ennesimo! L’intagliatore non ne voleva sapere di farsi perquisire il magazzino: ho dovuto comprargli tutto» spiegò il patrizio mentre Carnifex, gonfio di vino, gli deponeva ai piedi l’ultimo – e il più caro – dei manufatti eburnei, una ricchissima teca atta a contenere strumenti medici, finemente decorata a rilievo con la scena omerica del chirurgo Macaone intento a curare la ferita inflitta a Menelao dal troiano Pandaro. «Sono stato anche costretto a offrire da bere tre volte di seguito a tutti gli avventori della caupona attigua per riuscire a ispezionarla. Risultato: niente cadaveri, niente mani mozze, niente delitti, niente di niente! Per di più l’oste ha obbligato a bere anche l’intendente, che come sai è completamente astemio, e adesso si sente malissimo!»

«Non è colpa sua: il gestore è soltanto un prestanome, aveva avuto ordini precisi dal vero padrone della bettola, domine

«Come fai a saperlo?»

«Sono io il proprietario, domine!» abbassò gli occhi il segretario, compunto.