Sesto giorno

ROMA, VICUS PATRICIUS

I. Dove Aurelio è costretto a occuparsi dei clientes

Viene sempre il giorno in cui bisogna infine risolversi a fare le cose spiacevoli da troppo tempo rimandate. Aurelio aveva tentato almeno di prendere due cinghiali con una sola ghianda, invitando Surio Rufino la mattina in cui si era deciso a ricevere di persona i clientes, dopo aver appreso che il molesto Gneo Ambusto Verrucoso era costretto a letto da una brutta infreddatura.

Dato che il ragazzo pareva come al solito molto insicuro, lo aveva oltremodo onorato, facendolo sedere non molto lontano da lui mentre ascoltava le suppliche e prometteva a Caio Arnobio un posticino da scrivano per il nipote scansafatiche, garantiva ad Appio Tuscolo la dote della primogenita – per le altre tre figlie nubili si sarebbe visto poi – e assicurava a Gneo Melsonio che avrebbe letto con infinito piacere il suo poema sulla disfatta del fiume Trebbia. Quando era arrivato a chiedergli consiglio sull’entità della sportula da erogare quel giorno, Surio Rufino si era fatto rosso rosso, e per essersi agitato troppo sul fragile sgabello rodio l’aveva coinvolto in una catastrofica caduta mandandolo in mille pezzi, dopodiché non la finiva più di scusarsi, ripetendo fastidiosamente le accuse di inettitudine che sentiva in casa.

«Falla finita e accompagnami al Foro!»

«Tra i tuoi clientes?» aveva chiesto deliziato il ragazzo, accingendosi a prendere posto nella lunga fila di protetti che avrebbe scortato il patrizio per esternarne il rango e l’influenza: tanto più lunga era la fila, tanto più potente era reputato il personaggio.

«No, al mio fianco. Soltanto a patto che tu tenga dritte le spalle, però: non mi va di mostrarmi in giro con un attaccapanni ambulante!» gli impose Aurelio.

«Ma senatore, e se poi combino qualcosa? Sai bene che io...» si era schermito il giovane, assumendo immediatamente una postura che, se sarebbe stato difficile definire marziale, almeno pareva un po’ meno imbelle.

«Rufino, sono un uomo di poca pazienza, e non tollero chi si compatisce, quindi sappi che, se intendi continuare dicendo che sei stupido, ti risponderò che sì, è vero, e quindi ti manderò al Tartaro!»

«No, no, vengo, senatore, vengo!» fece l’altro, raggiante di gioia.

Poco dopo percorrevano il vicus Patricius alla testa del corteo, quasi incongruo il ragazzone nelle sue vesti ancora infantili, con la bulla al collo e una lacerna troppo corta, splendido il senatore con un mantello azzurro sopra alla toga di gala fatta stirare al torchio in lavanderia, perché di una Iberina innamorata non c’era più da fidarsi.

«Aulo Sergio Albuzio» suggeriva sottovoce uno schiavo nomenclatore dalla ferrea memoria visiva al padrone per evitargli brutte figure. «Ave, Aulo Sergio!» ripeteva quest’ultimo alzando la mano nel saluto di prammatica. «Gneo Cecilio Amplicato», «Ave, Gneo Cecilio!»; «Marco Fidenzio Volusiano, pretore», «Ave, Marco Fidenzio!»; «Il nobile senatore Crispino Balbo con Lentulo, vicario del princeps Senatus».

Numi, Lentulo! scolorò il patrizio. Con tutti gli enigmi da risolvere e le ombre minacciose che emergevano dal passato, si era completamente scordato di preparare un alibi per le ore deliziose trascorse con la moglie del vecchio collega nel santuario della Bona Dea!

«Dov’eri la mattina di cinque giorni fa, mentre noi in Curia si votava la dedica propiziatoria della nuova ara di Ercole Vincitore, eh Stazio? Il tuo seggio era vuoto. Dov’eri?» lo inquisì l’anziano padre coscritto in tono pesantemente accusatorio.

«Cinque giorni fa, dici? Vediamo un po’...» annaspò Aurelio alla disperata ricerca di una buona menzogna. «Non è la mattina in cui siamo andati assieme alla matrona Pomponia ai portici di Ottavia per esaminare la statua di Cornelia?» chiese a Surio Rufino.

«Io, ehm... ecco... veramente...» si impappinò il giovane, mentre il senatore Crispino lo apostrofava bruscamente: «Che ci fai tu qui, assieme a Stazio?».

Molte domande, e tutte imbarazzanti: il ragazzo appariva confuso. Un pronto calcio di Aurelio diretto ai suoi stinchi parve finalmente riscuoterlo.

«Già, già, fu proprio quando trovammo la mano. Un’esperienza terribile, come potrei dimenticarmene?» confermò infine farfugliando penosamente.

«Può darsi!» bofonchiò Lentulo poco convinto «Ma tu, Stazio, sei mancato anche quando il qui presente Crispino Balbo ha invocato più rigore contro le masnade straniere che infestano indisturbate i quartieri popolari con le loro risse continue!»

«Suppongo che l’ordine pubblico al senatore Stazio interessi poco, ha le sue guardie del corpo, lui, e comunque sappiamo bene quanto si diletti a frequentare ogni genere di barbari e di forestieri!» commentò acido Crispino.

«Il nostro esimio collega ha svolto un’indagine personale sulla criminalità della Suburra e domani chiederà in Curia di mobilitare non soltanto i vigiles, ma persino i pretoriani per fare piazza pulita di questa piaga» spiegò Lentulo accigliato. «Subito dopo si deciderà sulla diatriba sorta tra i custodi dei sacri polli, divisi sul nuovo mangime da ammannire ai volatili per trarne preziosi responsi. Bada di esserci, Stazio, o ti sanzionerò di brutto!»

«Certo, certo, Lentulo, per nulla al mondo vorrei mancare a un dibattito di tale spessore» assicurò Aurelio, solito a bertucciare i colleghi superstiziosi sull’antico oracolo dei polli sacri, dalla cui voracità o inappetenza si desumevano auspici atti a decidere i destini dell’Urbe.

Il vecchio ragliò qualcosa di incomprensibile, che difficilmente si sarebbe potuto scambiare per un saluto cordiale, e scomparve tra la folla assieme all’altro padre coscritto, ambedue con maschere facciali improntate al massimo disappunto.

Aurelio e Rufino stavano ormai per sorpassare l’Argiletum quando la calca si fendette all’improvviso e, accompagnato da grida querule, Gneo Ambusto Verrucoso comparve col moccio al naso e il passo incerto di chi si è appena faticosamente alzato dal giaciglio malgrado una malattia debilitante.

«Senatore Stazio!» invocò con voce roca ma tuttavia risoluta.

«Dammi la tua lacerna, presto!» ordinò il patrizio mentre si voltava fingendosi interessatissimo a un antico papiro in vendita su una bancarella, per poi ricoprire rapidamente le magre spalle di Surio Rufino con il suo manto azzurro.

«Meno male che finalmente ti si vede, devo invitarti alle nozze imminenti di mia figlia» scandì il Verrucoso brancando con mano rapace il mantello color del cielo, e nel suo tono trionfante parvero echeggiare le grida di vittoria dei legionari dopo una battaglia particolarmente cruenta ai confini di una oscura foresta barbarica dell’estremo Settentrione.

Non è opportuno riportare ciò che il protetto esclamò nell’accorgersi di aver catturato non l’agognato patrono, bensì il povero Surio Rufino, ma pare che una pudibonda giovinetta stramazzasse al suolo, e la di lei madre prendesse a picchiare con forza inusitata un sandalo di sughero sul didietro del blasfemo, accusandolo di aver profanato la verecondia della figlia con un linguaggio osceno e scurrile.

Fuori ormai dal contatto visivo di avidi clientes e colleghi importuni, il patrizio si avviò tranquillamente per la strada di casa, dove il segretario era ad attenderlo.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

II. Dove si apre una finestra sul passato

«Fuori gli aurei, so tutto!» esclamò Castore non appena il padrone fu rientrato. «Quel tizio che appare e scompare alla tua vista nei posti più impensati non te lo sei sognato, esiste davvero. Devo ammettere che, prima di scoprirlo, ho sospettato che avessi perduto il lume della ragione: accade, ai figli di parenti stretti!»

«I miei genitori erano soltanto terzi cugini, Castore, quindi piantala con queste allusioni e mettimi al corrente» disse Aurelio cercando di mantenere un’espressione imperturbabile, mentre dentro di sé sentiva il cuore battergli come un tamburo sacro il giorno della festa di Rea Cibele.

«Innanzitutto il conticino, domine... non che non mi fidi, so che generazioni di avi rapaci hanno fatto confluire su di te sostanze immense, ma le monete toccate con mano rendono molto più loquaci delle semplici promesse. Devi anche considerare le difficoltà inenarrabili a cui la tua bizzarra richiesta mi ha messo davanti, che hanno fatto levitare sensibilmente i costi. Ma proprio perché sei tu e la questione ti preme da vicino, facciamo tre aurei e non se ne parla più!»

Aurelio non protestò per il palese ladrocinio, prendendosi alcuni istanti prima di affrontare una rivelazione che avrebbe potuto cambiargli la vita. «Come hai fatto a identificarlo?»

«I miei metodi sono segreti, domine, l’importante è il risultato» disse Castore, che si era mosso seguendo una semplice supposizione, ovvero che gli incontri non fossero stati affatto casuali e lo sconosciuto stesse invece tenendo d’occhio il padrone, per cui sarebbe bastato tallonare il pedinato per arrivare al pedinatore. E poiché tra il nobile senatore Stazio e il giovane ignoto correva una indubbia somiglianza, aveva provveduto a distribuire una trentina di copie del ritratto eseguito da Aristodemo sulla base del vecchio busto a un gruppo di monelli della Suburra – un manipolo di “irregolari” dal costo irrisorio da cui spesso si era fatto aiutare anche in passato – ordinando di individuare l’inseguitore e seguirlo a loro volta fino a una identificazione certa.

Gli aurei passarono di mano e il segretario continuò: «Appartiene in qualità di quarto segretario aggiunto al seguito di Macario, grosso finanziere di Antiochia in visita nell’Urbe».

Antiochia? raggelò il patrizio e mille congetture fantastiche gli passarono per la mente. Si rivide davanti la splendida Flaminia col velo rosso al Campidoglio, ventinove anni lei, al suo terzo matrimonio, nemmeno ventidue lui, ma deciso a non farsi sopraffare da una donna bellissima, potente e priva di qualunque scrupolo. Era stato il cozzo di due vasi di ferro, uno scontro di volontà formidabili, una mischia continua senza esclusione di colpi, intervallata da momenti di passione irrefrenabile, la stessa che era rinata all’istante quando si erano visti di nuovo, una sola volta, il volto perfetto di lei ormai devastato da un’orribile malattia. Ma se Flaminia fosse stata gravida al momento del divorzio e glielo avesse accuratamente nascosto, in modo che non potesse rivendicare il bambino opponendosi alla sua partenza? Se, giunta in Oriente, fosse riuscita a partorirlo in segreto? Tutte ipotesi assai improbabili, ma comunque non del tutto impossibili, che lo turbavano profondamente.

«Macario, eh? A Roma, dove alloggia in una lussuosa residenza sull’Oppio, si è fatto notare per il lusso inaudito e l’atteggiamento da satrapo orientale: si mormora anche che miri a ottenere l’appalto delle imposte in tutta la Siria... Annunciagli la mia visita, Castore. Senza chiedergli il permesso, annuncia e basta!» decise immediatamente.

«Fammi finire, domine. Quel ragazzo ha un nome, non desideri saperlo?»

Il patrizio non rispose.

«Tienti forte, padrone. Si chiama Aurelio. Aurelio Timandro!»

RESIDENZA DI MACARIO SULL’OPPIO

III. Dove si fronteggiano l’Oriente e Roma

Fu in pompa magna – lettiga, nubiani, servi nomenclatori, toga col laticlavio, calcei curiali ai piedi e anello senatoriale col sigillo di rubino all’indice – che il patrizio si presentò a Macario, per onorarlo, certo, ma soprattutto per intimidirlo. Sapeva quanto potessero essere insopportabilmente altezzosi i greci e intendeva mettere subito in chiaro che, sebbene al momento della costruzione del Partenone Roma fosse ancora poco più di un villaggio impegnato a fare a botte con i Latini sul lago Regillo, adesso l’Urbe era la padrona del mondo, Grecia compresa e compresa anche la prospera capitale dei Seleucidi che Pompeo aveva conquistato più di un secolo prima, quando l’intera Siria era divenuta provincia romana.

«Ave, senatore!» lo salutò con voce sostenuta il padrone di casa.

Se fino a un istante prima il patrizio temeva di avere esagerato con lo sfarzo, la vista e l’atteggiamento di Macario lo persuasero del contrario. Il ricchissimo antiocheno sosteneva di discendere dalla migliore aristocrazia, facendo risalire le sue origini a un compagno d’arme macedone di Seleuco, il generale di Alessandro Magno fondatore della città e della dinastia; e perché nessuno osasse dimenticarsene, si preoccupava di ribadirlo di continuo con il tono, la gestualità e l’espressione spocchiosa del viso. A ogni buon conto, ben sapendo che apparenza e sostanza non sempre coincidono, Aurelio aveva spedito un messaggio con un piccione viaggiatore al suo agente in Antiochia, per chiedere lumi sulla reale solvibilità dell’affarista, che ostentava un po’ troppo pesantemente la possibilità di attingere a fondi illimitati. Ma sarebbe occorso qualche giorno prima di avere una risposta, in quanto un unico colombo non poteva farcela a coprire l’intera distanza in un colpo solo, ne servivano almeno tre, con tappe in Grecia e in Anatolia.

«La visita di un padre coscritto mi riempie di gioia» disse l’ospite con una inflessione annoiata che smentiva in pieno le sue parole, mentre avanzava di un solo brevissimo passo verso Stazio, facendo ballonzolare libbre e libbre di adipe molliccio.

«È la prima volta che vieni nella nostra capitale?» chiese Aurelio mellifluo, ponendo l’accento su quel “nostra” che sottolineava pesantemente la dipendenza dall’Urbe Eterna di una città pur prospera e splendida, ma tuttavia soltanto provinciale come Antiochia.

«Sì. È terribilmente stancante, tutte quelle curve, tutti quegli anfratti, tutte quelle alture...»

«Colli» lo corresse il senatore. «Noi qui a Roma li chiamiamo i sette colli: Campidoglio, Quirinale, Viminale, Celio, Aventino, Esquilino, Palatino. E ce ne sono altri: a nord il Pincio e il Gianicolo al di là del Tevere.»

«Certo, anche noi abbiamo il Silpio» si affrettò a rettificare Macario. «Tuttavia siamo abituati a una città dove la strada principale è drittissima e affiancata da tremila colonne» si vantò Macario.

«Eh, già: il lungo portico che Tiberio dovette rimettere a nuovo quando stava per crollare... Noi Romani si è costruito veramente parecchio dalle vostre parti: un porto a tre bacini, muraglie imponenti e cento torri che sembrano giganti in guardia sui bastioni!» esclamò Aurelio con la stessa intonazione strascicata di cui aveva fatto uso Macario.

«Lascia qualcosa anche a noi, senatore, o finirai per affermare che Antiochia è sempre stata romana» fece Macario piccato.

«Figuriamoci! È comunque una grande città, la terza dell’impero, dopo l’Urbe ad Alessandria d’Egitto» concesse magnanimo il senatore.

«A che devo la tua visita, un po’ imperiosa, a dire il vero, e tanto pressante da non poterne nemmeno concordare il giorno?»

«Questioni che riguardano la Curia» tagliò corto il patrizio. «Per motivi che non sono autorizzato a illustrarti, ho bisogno urgente di parlare con un tuo segretario, tal Timandro.»

Un lieve incresparsi del sopracciglio, l’aumento della tensione nei nervi del collo e le braccia precedentemente rilassate che si incollarono rigidamente al busto mostrarono ad Aurelio ciò che voleva sapere: qualunque cosa stesse per dichiarare, Macario conosceva benissimo quel nome.

«Come pensi che possa ricordarmi di tutti i miei dipendenti?» negò l’antiocheno, ostentando somma indifferenza. «Tu forse li conosci per nome uno per uno?»

«Sì, certo» rispose asciutto il patrizio.

«In ogni caso chiederò al mio capo della servitù, poi ti farò sapere.»

«Subito, se non ti dispiace.»

Macario sbuffò stizzito e si prese tempo per fingere di aver bisogno di consultare i suoi. «Arrivi tardi, senatore: se n’è andato alcuni giorni fa, portando con sé alcuni preziosi di non poco valore, tra cui un’antica placca d’oro e crisolito con l’immagine della dragonessa Campe. Quindi se lo trovi ti prego di consegnarmelo immediatamente, perché restituisca il maltolto e subisca la pena che merita. E adesso, se permetti...» disse facendo mostra di voler congedare il senatore.

Non appena Aurelio ebbe preso la porta con un rapido «Vale», Macario aprì una teca, ne trasse un gioiello molto vistoso e si fece portare un mantello scuro, modesto e poco appariscente, adatto all’umiliante commedia che si accingeva a rappresentare. Inviperito, ingollò un largo sorso di vino schietto, per sopportare meglio l’affronto: se intendeva essere ascoltato, doveva recarsi di nuovo personalmente e da solo nel bugigattolo della Suburra a rendere omaggio a quel tracotante pidocchioso. Ma stavolta si sarebbe accertato che nessun ficcanaso di segretario lo vedesse e cominciasse a cacciare il naso nei fatti suoi.