Settimo giorno

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

I. Dove si riflette sul ludus, in fabula e altrove

Sdraiato sul triclinio elucubratorio nel suo studiolo, Aurelio contemplava ancora perplesso il quadrato magico tracciato sulla tunica di Criso, riflettendo sulla mentalità contorta dell’assassino, che anche quella volta si era divertito a fornire un indizio giusto e tuttavia indecifrabile.

Di quadrati magici ne conosceva altri, uno in particolare piuttosto famoso e molto più raffinato di quello che gli stava davanti, dato che conteneva vocaboli di cinque lettere leggibili in entrambi i sensi: era riportato da parecchi testi e l’aveva persino visto inciso sulla colonna di una palestra della città vesuviana di Pompei.

Ma se l’inventore del rompicapo avesse invece inteso far scervellare inutilmente i risolutori, portandoli fuori pista, come nel caso della quadriga? O se addirittura il testo non avesse alcun significato e la soluzione fosse stata nascosta altrove?

Il senatore rifletté sulle prime prove proposte ai giocatori: si era trattato di quesiti abbastanza elementari, alla portata di tutti coloro che possedevano un po’ di ingegno e di fantasia. Così infatti dovevano essere per attrarre più concorrenti possibile, pronti a cimentarsi e a competere, non tanto per appropriarsi dell’improbabile tesoro, ma soprattutto per il gusto di raccogliere la sfida.

Perché un gioco, un qualunque gioco, non traeva la sua ragione d’essere soltanto dal premio in palio, bensì dall’atto stesso del giocare. Ludus significava ebbrezza, passione, competizione, eccitamento, gara, agon, disputa, duello, lotta, contesa: il gioco come motore della vita e della civiltà, alla base di tutti i comportamenti umani, e persino di quelli animali. Il gattino che apprende le tecniche della caccia trastullandosi a lungo col topo ferito senza mangiarlo subito, sta giocando. L’attore che recita una parte immedesimandosi nel personaggio e facendo propri i suoi sentimenti, sta giocando. L’artista capace di creare una finzione che copia la realtà trasfigurandola, sta giocando. L’uomo e la donna che si affrontano in schermaglie amorose fatte di parole, silenzi, atteggiamenti, posture, gesti, contegni, sguardi dai mille sottintesi nascosti, stanno giocando. Il tiratore di dadi che punta tutto ciò che possiede su un solo colpo fortunato, sta giocando. I gladiatori che nell’arena si battono secondo consuetudini rigide e inviolabili in scontri dove la posta spesso è la vita, stanno giocando. I soldati impegnati in una guerra sanguinosa, con i suoi riti, i suoi dettami, le sue regole e le sue cerimonie, non stanno anch’essi in qualche modo giocando una partita che alla fine vedrà vincitori e vinti? E gli ambiziosi disposti a passare attraverso complotti, congiure, assassini, venefici, tradimenti per conquistare il potere assoluto, che altro fanno se non giocare al gioco dei troni, dove si vince o si muore?

Ma anche la mente perversa che dirigeva quella caccia mortale era quella di un giocatore, quindi la soluzione doveva necessariamente esserci, o non ci sarebbe stata alcuna sfida, alcun ludus, alcun gioco...

Tuttavia, per quanto guardasse e riguardasse, il patrizio non notava altro che quattro parole e la griglia che le racchiudeva. Quella che aveva in mano però era una copia, frettolosamente riprodotta dall’originale impresso sulla tunica, che ancora indossava la vittima quando il suo corpo era stato affidato a Ipparco di Cesarea perché lo esaminasse. Se gli fosse sfuggito qualcosa? si chiese schizzando dal lettuccio per ordinare la portantina e dirigersi verso il valetudinarium dell’Esquilino sorto grazie alla sua generosità, non senza portare con sé la teca d’avorio come dono propiziatorio per tamponare efficacemente le rimostranze del medico.

AMBULATORIO DI IPPARCO DI CESAREA SULL’ESQUILINO

II. Dove ci si accapiglia per un pezzo di stoffa

I pazienti del medico protestarono a viva voce quando il senatore si diresse alla porta dell’ambulatorio senza preoccuparsi degli ammalati già in coda, che erano tantissimi, perché quello era il giorno in cui, secondo i patti stretti con Ipparco, venivano visitati a titolo gratuito i poveri della città.

«Ma come, non bastava la donna, adesso anche questo ci passa davanti?» gridò un bellimbusto, che invero sembrava sanissimo e nemmeno molto povero, mentre cercava di trattenerlo in malo modo. «Si può sapere a che titolo salti la fila, bel tomo?»

«Perché sono il proprietario di questo ospedale, e se qualcun altro ha qualcosa da ridire farò chiudere tutta la baracca!» rispose esasperato il patrizio, che quando andava di fretta di pazienza ne aveva poca e anche di garbo.

Non appena le proteste si furono spente in borbottii rancorosi e lunghi sguardi risentiti, il senatore, incurante dell’eventuale verecondia del malato di turno, spalancò la porta che tardava troppo ad aprirsi.

Nell’ambulatorio, accanto a un Ipparco del tutto rapito, c’era Surilla, che lo stava spudoratamente lusingando, dolce come il miele e sciropposa come la frutta macerata nel vino cotto. Il tono accondiscendente con cui blandiva il medico, notoriamente sensibile al fascino femminile a dispetto dell’età, cambiò all’istante non appena si rivolse al senatore: «Ecco qui il grand’uomo, che pensa di aver il monopolio dell’acume! Ah, vedo che ti sei fatto prestare un vestito, stavolta... Avrei detto che voi manzi da palestra andaste nudi anche per strada!».

Aurelio non la degnò di una risposta. «Fuori la tunica del ragazzino!» ordinò.

«Era proprio quello che stava chiedendomi questa bella signora. Ma a chi dei due devo consegnarla?» fece Ipparco dubbioso.

«Fai i tuoi conti, Ipparco» lo rimbeccò il patrizio, mentre Surilla sbatteva gli occhi con aria contrita, mettendo il povero medico davanti alla scelta tra l’attività professionale e le promesse che balenavano dai suoi sguardi ammiccanti.

E così, Surilla stava seguendo la sua stessa traccia, si diceva intanto il senatore, osservando meglio la sua interlocutrice. Sebbene non fosse perfetta nel senso classico del termine, con un’oncia di rabbia in meno la cugina di Domitilla non sarebbe stata affatto male: i lineamenti erano decisi ma regolari, gli occhi infuocati, i capelli foltissimi e anche il corpo aveva una sua indubbia sontuosità, che esplodeva in un fondoschiena spettacolare. E se il tono brusco, l’espressione sfrontata, il perenne atteggiamento di scherno istigavano grandemente l’aggressività, bisognava anche mettere in conto che tra gli istinti aggressivi, volti alla sopravvivenza, e altri istinti, volti invece alla riproduzione, il confine era assai labile.

«Ecco, a dire il vero, io...» balbettò Ipparco indeciso.

Vistasi in svantaggio, Surilla giocò il tutto e per tutto, fingendo un mancamento per lasciarsi cadere languidamente tra le braccia dell’anziano cerusico, che quasi ci rimase secco per l’emozione.

«La recita è perfetta, Ipparco, ma provvedi ad appoggiare la signora da qualche parte. Il lettino su cui visiti andrà benissimo: Surilla non ha nessun bisogno di cuscini, è dotata di pregevoli morbidezze sue proprie.»

«Lurido mentecatto!» si levò immediatamente lei, indignata e offesa.

«A proposito...» diede spessore al concetto Aurelio porgendo al medico la magnifica teca d’avorio. «Ti ho portato un piccolo dono, per ringraziarti dei favori passati.» E di quelli futuri, aggiunse tra sé e sé il senatore, nella speranza che non dovessero essercene altri, almeno non legati a nuovi cadaveri.

«Non è giusto, c’ero prima io. E tu, nella tua intollerabile insolenza maschile, vieni qui a dare ordini come se fossi il padrone!»

«A dire il vero lo sono» ammise Aurelio divertito, mentre il medico andava a prendere la veste di Criso e incautamente la distendeva davanti a entrambi.

Un istante dopo il patrizio se ne impadroniva, nascondendola tra le falde del mantello. Tuttavia il brillio di trionfo che si accese negli occhi di Surilla gli fece comprendere che quella donna detestabile, ma senza dubbio molto acuta, aveva già intravisto qualcosa.

«Ehi, aspettami!» gridò infatti lei quando lo vide uscire dal valetudinarium. La voce aveva perduto i toni bruschi, per volgere, se non proprio alla cordialità, almeno a un riguardoso rispetto. «Visto che sei in lettiga, potresti almeno offrirmi un passaggio!»

Aurelio non mancò di rallegrarsi di quella proposta piuttosto sfrontata per una donna dabbene, visto che le esigue dimensioni della portantina rischiavano di esporre a indecorosi contatti. Ma Surilla non aveva proprio nulla della matrona timorata e di certo non temeva di essere messa al bando dai cittadini più costumati per la sua reputazione, già pessima a causa di un carattere spinoso, intollerabile in una femmina.

I baldi nubiani partirono dunque con un carico doppio che, per via dello spazio limitato, finiva spesso per accavallarsi. Fu durante una di queste inevitabili sovrapposizioni che la mano ardita della matrona si insinuò sotto la veste di Aurelio in una audace carezza, mentre a occhi chiusi le labbra ne cercavano avidamente la bocca. Aurelio sentì un improvviso calore al basso ventre, e un sensibile accelerarsi dei battiti del cuore: Castore aveva ragione, malgrado tutto quella donna gli piaceva molto!

Deliziato, il patrizio rispose quindi entusiasticamente a quel bacio appassionato, cingendo Surilla col braccio sinistro, mentre con la mano destra continuava per prudenza a tenere stretta la tunica consegnatagli da Ipparco.

E fu un bene, perché quando lei, afferratone un lembo, lo tirò con forza saltando contemporaneamente dalla lettiga, il senatore si trovò pronto a mantenere la presa e si fiondò anche lui fuori dalla portantina, per strappare il prezioso indizio alle mani avide della rapinatrice.

«Provarci è legittimo, Surilla. Riuscirci non è da tutte» le sorrise serafico.

«Asinaccio! Imbecillone! Pezzo di merda!» gridò lei e, rifiutando con rabbia la mano tesa che il patrizio cortesemente le porgeva, si rialzò da sola dall’intrico di nere gambe nubiane, mentre sul lastricato rotolavano le decine e decine di cavoli trasportati sul carretto di ortaggi investito nel capitombolo. «Lurido, odioso, schifosissimo asinaccio!»

La sequela di irripetibili insulti che seguì e il gesto sconcio che gli rivolse prima di sparire in mezzo alla calca, fecero arguire ad Aurelio che non vi era alcuna possibilità di reiterare il piacevole intermezzo galante, non subito almeno. Quindi risarcì l’ortolano e ripartì fischiettando verso casa.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

III. Dove una tunica svela i suoi segreti

Era quasi sera quando Aurelio si chiuse finalmente nello studiolo con la tunica che era appartenuta al piccolo Criso.

Ritenendo che molte menti pensassero meglio di una sola, aveva sempre condiviso le informazioni con la sua squadra, si trattasse dello scaltro Castore, del precisissimo Paride o della loquace Pomponia, che ne sapeva più di chiunque altro sugli affari leciti e illeciti – soprattutto illeciti – di tutti gli abitanti dell’Urbe.

In quel momento tuttavia voleva rimanere solo per esaminare di nuovo il quadrato magico, dopo aver sgombrato i suoi pensieri da ogni precedente giudizio, ben sapendo che è difficilissimo estirpare convinzioni ormai radicate per guardare le cose da un altro punto di vista. La mente umana ha orrore delle lacune, delle incoerenze e delle contraddizioni, così riempie i vuoti di memoria, colma le assenze, aggiusta i difetti, ripara i fili spezzati della trama con abili rattoppi, in modo da sanarne lo strappo. Ma vede soltanto ciò che vuole vedere, quindi non sempre il rammendo rispecchia la verità.

Surilla aveva notato qualcosa che gli stava sfuggendo. E vabbé che quella donna era indubbiamente perspicace – qualche dote positiva doveva pure averla per bilanciare il carattere esecrabile – ma possibile che non potesse arrivarci anche lui?

Eppure il quadrato era lì, tale e quale a quello che aveva ricopiato: i vocaboli erano gli stessi, totalmente privi di senso.

Sì, le parole erano le medesime, sistemate in modo da essere leggibili in due versi differenti, rifletté il patrizio. Del quadrato però non facevano parte soltanto le parole, ma anche la griglia che le conteneva...

Fulminato da un’idea improvvisa, portò la veste sotto la finestra, alla luce che ormai andava declinando. Alcune righe della griglia erano di spessore diverso, notò. E finalmente la vide.

«La crux tetragammata!» esclamò.

La crux tetragammata, chiamata anche semplicemente gammadion, era un emblema antichissimo, che prendeva il nome dalla lettera greca Γ, gamma, riportata quattro volte e fatta ruotare attorno a un perno centrale. Si diceva che rappresentasse il sole, ed era nota anche a Roma, ma soprattutto in Oriente: il patrizio l’aveva vista in Grecia, in Anatolia, in Siria, in Giudea, persino in Gallia, ma soprattutto nel regno dei Parti, dove era penetrato una volta in gran segreto per prendere contatto con i grandi saggi di quel paese. I Romani la usavano come decorazione, sia nei frontoni dei templi, sia nei mosaici pavimentali, in quanto aveva un significato augurale ed era ritenuto di buon auspicio. Si sapeva inoltre che nelle terre oltre l’Indo quella croce con i bracci piegati ad angolo retto – talvolta verso destra, ma più spesso ancora verso sinistra – era un simbolo religioso sacro, che affondava le sue radici nella notte dei tempi e veniva impresso su ogni tempio, ogni sacello, ogni altare.

Che significato le aveva attribuito l’assassino del povero Criso? A chi poteva rivolgersi per capirlo? Chissà se a Roma c’era qualcuno di originario di quelle remote contrade a cui domandare lumi? Doveva esserci sicuramente, si disse, ricordando l’umile serva conosciuta a Pompei che gli aveva fatto dono della statuetta di una Dea chiamata Lakshmi. Ma dove andare a cercare un indiano, in mezzo al milione e mezzo di abitanti della capitale?

«Castore!» invocò, certo che il segretario avrebbe suggerito come al solito una brillante soluzione.

«Eccomi, padrone. Chi devo trovarti oggi? Un monopode che si appoggia su un solo enorme piede, come si dice ne esistano sugli altipiani dell’Etiopia, un centauro mezzo uomo mezzo cavallo, uno dei cinocefali dalla testa di cane di cui parlano Ctesia ed Esiodo, oppure un iperboreo dell’Ultima Thule, dove si dice che il sole non tramonti per sei mesi all’anno?»

«Molto più facile, Castore: ho bisogno di consultare qualcuno che provenga dai paesi al di là dell’Indo. Hai idea di come reperirlo, qui nell’Urbe?»

«Nessuna, domine. Ma, opportunamente stimolato, potrei pensarci sopra» disse tendendo la mano nella quale il patrizio fece cadere alcune monete.

«Ecco, adesso che ragiono meglio, mi viene in mente che alcune navi romane salpano per le isole dell’Oriente quando si alzano certi venti e fanno ritorno quando spirano in direzione contraria.»

«Per Ercole, come ho potuto scordarmene? Le uniche navi romane a commerciare con Taprobane sono le mie!» ricordò Aurelio battendosi la mano sulla fronte.

«E in questo momento si trovano attraccate al molo, domine, in attesa dei venti favorevoli. Inoltre, poiché difficilmente tutto l’equipaggio sopravvive a un viaggio tanto azzardato, spesso c’è bisogno di assumere nuovo personale di bordo tra le popolazioni locali, quindi è possibile che tra i marinai della tua flotta di stanza a Ostia ci sia qualche abitante di quegli esotici paesi» concluse il segretario lustrandosi le unghie.

È un ladro e un imbroglione, ma vale tanto oro quanto pesa, si diceva Aurelio soddisfatto. «Bene, prendi la prima codicaria diretta al porto, vammelo a cercare e portamelo qui!»

«Soffro di mal di mare, padrone» si schermì l’altro, già pentito di aver fornito al padrone un’informazione che poteva tradursi in un nuovo grave ostacolo alla sua pacifica e oziosa consuetudine quotidiana.

«Il Tevere è un fiume, Castore, e piuttosto tranquillo per di più: non vi sono onde di sorta e le chiatte vi scivolano sopra senza alcuna scossa. Partirai domattina e per la sera sarai di ritorno. In compagnia!» comandò il senatore, riservandosi di rileggere intanto gli ultimi due libri dell’Indikà, il saggio in cui Megastene aveva descritto trecento anni prima i costumi di quella terra lontana, conservato nella sua biblioteca assieme ai trattati dei maggiori geografi conosciuti: Artemidoro di Efeso, Menippo di Pergamo, Eratostene, Pausania, Strabone, il suo diletto Pomponio Mela e naturalmente Scilace, il primo greco a esplorare le foci dell’Indo.

«E se non dovessi trovarlo?» obiettò il segretario. «Se non ci fosse nessun marinaio di Taprobane a Ostia?»

«In tal caso ti chiederei di restituirmi la synthesis da banchetto che mi hai rubato le scorse nundinae, Castore. Quindi spera che ci sia!»

«Questo è un ricatto» sibilò il segretario tra i denti, mentre il padrone lo congedava con un largo sorriso. Fin troppo largo, per i suoi gusti.