Ottavo giorno

CASA DI IULLO BATRACO SUL CELIO

I. Dove un allenatore indulge a disdicevoli fantasie

Gli anni passavano e il suo fisico, un tempo asciutto e scattante, risentiva ormai di una certa pinguedine: i muscoli avevano perduto in tonicità, il torace gli si era arrotondato e le delicatezze della mensa stavano ormai per averla vinta sugli addominali, si disse il segnapunti. Però poteva ancora piacere.

Contro ogni prudenza e assennatezza, infatti, Ascanio sperava che il ragazzino si facesse vivo di nuovo. Sapeva bene che, a differenza dell’altro, questo era fuori dalla sua portata, tuttavia ne era rimasto ammaliato. Un libero, un ingenuus, un cittadino romano, roba scottante anche per gente ben più tutelata di lui, cercò di ripetersi. Ma il viso sfrontato, il sorriso seducente, il corpo ancora infantile che stava sbocciando nella pubertà gli erano sempre davanti agli occhi, lo tentavano a tal punto da non riuscire a opporre la minima resistenza alle sue fantasie. Forse gli sarebbe stato sufficiente vederlo, accontentarsi di sfiorargli una mano o fargli una lieve carezza: nessuno avrebbe potuto accusarlo di nulla per così poco, si giustificava. Ma già sapeva che non gli sarebbe bastato e che quello non era un bambinetto di strada, ma il figlio minore di una famiglia importante. Come avrebbe potuto trattenersi, se gli avesse chiesto di nuovo di entrare in casa per vedere il cortile in cui il campione si allenava, la palla di cuoio per le competizioni e quella di vetro, mitica, che gli serviva per esercitarsi?

Quest’ultima a dire il vero non era mai esistita, si trattava di una sua personale invenzione, ma l’idea aveva riscosso tanto successo da permettergli di mettere da parte un gruzzoletto vendendo ai sostenitori di Batraco parecchi globi vitrei acquistati per poco e per niente sulle bancarelle antiquarie della spianata dei Saepta Iulia. Piccoli inganni, tessuti sulla fama del campione, gli stessi che gli avevano consentito ogni tanto di approfittare di qualche giovinetto di pochi scrupoli, tra i tanti che, accortisi delle sue propensioni, non esitavano a lusingarlo per impadronirsi di una mancia o di qualche cimelio. Non questo però, questo era diverso, non si comprava con un dolcetto o un ricordino e non si blandiva con qualche aneddoto creato appositamente per stupire e compiacere. Questo, lo sentiva, portava guai, l’aveva capito subito scoprendolo nel cortile sul retro, dove non avrebbe assolutamente dovuto trovarsi. E i guai a Roma, per chi fosse stato accusato di stuprum su un giovinetto nato libero, anche se consenziente, erano molto grossi.

Tentò allora di rivolgere il pensiero a tutti gli adolescenti che erano passati dalle sue stanze, attigue alla casa di Batraco, attratti dalla passione del gioco del trigono prima di tutto, ma anche dall’altro gioco, quello per cui tutta Roma stava impazzendo e che per lui si era rivelato una grande risorsa. Certo, qualcuno di quei bambinetti era scappato via alla prima mossa azzardata, ma Ascanio era certo che non avrebbe avuto il coraggio di raccontarlo ai genitori o agli amici: esattamente come accadeva alle donne, anche i giovanissimi maschi sarebbero stati irrisi o peggio ancora ritenuti complici degli approcci, quasi la vergogna fosse tutta loro per essersi mostrati troppo provocanti, e non invece di chi li aveva fatti oggetto di ambigue attenzioni. Altri invece, come il servetto della fullonica, che genitori e amici non ne avevano ed erano abituati a vendersi per poco o per niente, si erano trattenuti a lungo, ricompensati con qualche spicciolo. Altri ancora – pochi, per fortuna – si erano ribellati vivacemente, costringendolo a buttare tutto sullo scherzo, come se si trattasse di un lazzo comune tra gli atleti. Uno solo gli aveva mollato un pugno sul naso, giustificato poi davanti a Iullo come una maldestra caduta: era stato il più attraente di tutti, il più vispo, il più eccitante, tranne quello che ora occupava per intero i suoi pensieri e le sue voglie.

Toglitelo dalla testa, Ascanio, o finirai male, si disse, ben sapendo di non esserne assolutamente in grado.

SUBURRA, COVO DELLA BANDA GALLICA

II. Dove una schiava sceglie di correre un grosso rischio

Viridia sapeva che la sua decisione le sarebbe costata cara, ma poco gliene importava.

Il filo a cui era legato il suo futuro era un nuovo brandello di papiro, su cui intendeva scrivere il messaggio che l’altra volta era stata costretta a interrompere dopo la prima lettera, a causa dell’intervento di Dannico: era capace di scrivere, anche se naturalmente nessuno ne era al corrente. Come avrebbero potuto immaginarlo? Agli occhi altrui lei era parte dell’arredamento, non una donna con pensieri e trasporti, soltanto un corpo nato apposta per servire un padrone o molti, fin dall’istante in cui era stato concepito, come quello di un qualunque animale di allevamento, con l’intento di crearlo speciale e bizzarro.

Era sempre stata considerata così, fin dal primo proprietario che l’aveva comprata bambina sperando di titillare con nuovi stimoli la sua virilità morente e se ne era liberato non appena scoperto che la cura non funzionava. E il secondo, quello che le aveva insegnato a scrivere sperando di metterla al posto dell’adorata figlia morta e la puniva per non essere come lei: non abbastanza pronta, non abbastanza innocente, non abbastanza bianca. E il terzo, che la prostituiva dodicenne a disgustosi vecchi lubrici. E il quarto, che aveva intuito l’affare e ne aveva fatto una merce rara, ceduta in cambio di favori, affittata e noleggiata con la raccomandazione che non la si strapazzasse troppo, perché si trattava di un prodotto costoso, dunque evitassero di lasciarle segni tali da farne calare il valore. E il quinto, un uomo famoso che pareva aver perso la testa per lei ma tuttavia l’aveva ceduta alla squadra Gallica senza nemmeno toccarla, consegnandola a chi la voleva non per lussuria, ma per ostentare potere e influenza.

Lì, nella tana, si era scioccamente persuasa di aver trovato il suo posto, di essersi guadagnata un minimo spazio di familiarità e confidenza, un briciolo di considerazione, non fosse altro che dovuta all’abitudine e alla supina obbedienza. Ma si era sbagliata: era brava a origliare – chi si sarebbe guardato dal parlare liberamente davanti a un semplice oggetto? – quindi sapeva che il suo tempo era finito, sarebbe stata gettata via come un vecchio straccio inutile, costretta a far da serva alla donna che Meticanio aveva amato un tempo e che ora intendeva riprendersi.

Viridia era troppo esausta per andare avanti. Il Fato ora le aveva aperto uno spiraglio: conosceva l’uomo delle terme, sapeva che sarebbe stato lesto a sfruttare ciò che lei aveva visto e sentito in quei due anni. Ma dal momento in cui fosse stata scoperta, non avrebbe più avuto tregua: i demoni e gli spiriti nefasti l’avrebbero martirizzata, in questa vita e persino nell’Oltretomba, giacché un simulacro con le sue fattezze, impastato con farina e miele, era stato infilato a testa in giù in un cilindro di piombo, e infine sepolto in un cimitero in una notte senza luna. Ma era troppo stanca perché le importasse, era disposta a soffrire anche in eterno, pur di portare con sé nel dolore quelli che le avevano fatto del male.

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

III. Dove un uomo di mare riconosce uno strano simbolo

«Ho il tuo indiano, domine! Il navarca però non voleva mollarlo, così ho dovuto ungerlo un po’...» disse presentando al padrone un conto astronomico sul quale si era riservato ovviamente una congrua provvigione. «L’ho promosso bagnino, in modo da indurlo favorevolmente nei nostri confronti. Spero non ti dispiacerà accoglierlo tra i tuoi balneatores

Il marinaio era magro come uno stecco, eppure abbastanza muscoloso da dare l’idea di un grande vigore. I capelli lunghi e folti erano attorcigliati in un fitto groviglio che da tempo non aveva conosciuto forbice, e a sottolineare le pupille nerissime all’interno della palpebra c’era un rigo di crema morbida e scura, come Aurelio ne aveva visti a volte negli occhi delle donne egizie. Non soltanto parlava greco in maniera comprensibile, ma masticava persino un po’ di latino; sosteneva di chiamarsi Chandragupta, il che era alquanto improbabile, dato che questo era il nome del potente e nobilissimo sovrano conosciuto da Megastene in India. Ma un uomo di mare, uso a trascorrere mesi e mesi su un guscio di noce che solcava le onde affrontando le tempeste, sottoposto a un lavoro durissimo e pericoloso, costretto a volte a difendersi da feroci pirati, obbligato a mettersi al remo quando i venti calavano e tiranneggiato da un severo capo della ciurma, aveva diritto a qualche sogno.

Senza replicare, Aurelio confermò la promozione: l’avrebbe fatto rapare a dovere da Azel, e quel tocco esotico tra i suoi balneatores sarebbe certamente piaciuto alle signore.

Alla vista del gammadion Chandra si aprì in un largo sorriso.

«Swastika!» riconobbe eccitato.

«Che significa esattamente?»

«Swasti è lingua sacra dei bramani, però questo lo sanno tutti, vuol dire “è buono, è bene, sta bene”, come quando in latino dite vale cercò di spiegare il marinaio. «E ka è una cosa piccola, come le vostre parole che finiscono con illa»

Una piccola cosa che porta bene. Un segno augurale, un portafortuna, un talismano, nulla di diverso da quanto sapeva già, rifletté deluso Aurelio, che si era aspettato ben di più da quel costoso testimone.

«Ma dimmi, esistono situazioni in cui questo simbolo diventa malvagio, portatore di pena o di mala sorte? Forse una qualche maniera di disegnarlo, o il verso indicato dai bracci?»

«No, no, swastika sempre buona! Di qua o di là, buona sempre!» assicurò deciso l’indiano, e Aurelio assentì: non c’erano simboli buoni o cattivi, tutto dipendeva soltanto da come venivano adoperati e da chi...

«E adesso?» chiese il segretario, quando il marinaio fu uscito per consegnarsi alle forbici del barbiere Azel. «Intendi sguinzagliare di nuovo i servi di casa? Certo, potrebbero percorrere l’intera città a testa in su osservando le cornici dei timpani di ogni tempio alla ricerca di qualche greca che riporti l’emblema, ma come la metterai con i mosaici pavimentali? Il gammadion è rappresentato anche nei riquadri musivi, come il fallo propiziatorio che tiene lontana la cattiva sorte. Non puoi certo entrare in tutte le case private per ispezionarne a una a una i pavimenti!»

«Per di più credo che sarebbe inutile. Il nostro giocoliere ormai ha smesso di fornire indizi veramente percorribili, ci fa girare a vuoto per poi scegliere un luogo che non potevamo assolutamente prevedere.»

«Intendi dire che ci sta prendendo in giro?»

«O peggio ancora. Il primo rompicapo di cui siamo a conoscenza era un indovinello, a cui ha fatto seguito un disegno da interpretare, e dopo la ricostruzione di una parola mediante un oggetto e una lettera: si trattava di sfide non troppo difficili tra l’ideatore dell’enigma e coloro che tentavano di venirne a capo. Poi qualcosa è cambiato: nella mano mozza prelevata dal cadavere di un povero ragazzino morto di febbre è stata sostituita la fascetta d’argento con un anello, che indicava una quadriga, ma quello non era più un mistero destinato a essere risolto, bensì un modo per portarci fuori pista. Il direttore della caccia non giocava più: stava già uccidendo e tutto desiderava eccetto che qualcuno giungesse prima di lui al luogo in cui intendeva deporre il corpo.»

«Dove vuoi arrivare?»

«Se non si trattasse sempre della stessa persona? Se l’inventore del gioco e l’assassino fossero diversi? Ovvero: qualcuno inventa un passatempo da bambini e qualcun altro lo trasforma in gioco di morte.»

«Ma ciò significherebbe...» iniziò il segretario.

«Che nel luogo a cui riporta il gammadion potremmo trovare un altro cadavere» concluse il patrizio.

«Come intendi procedere, allora?»

«Finora abbiamo trattato l’omicidio di Criso come se fosse soltanto la mossa di una sequenza già cominciata. Adesso è arrivata l’ora di chiederci invece chi aveva interesse a ucciderlo e perché. Ne ricostruiremo dunque i movimenti, a partire da ciò che lui stesso ha confidato a Pomponia, ovvero di aver tentato di vendere le sue informazioni alla banda Gallica. A proposito: hai saputo qualcosa di quella Viridia?»

«È una schiava, venduta e comprata molte volte. E ti interesserà sapere che il suo ultimo proprietario, prima che lei si aggregasse alla squadra, è qualcuno già comparso in tutta questa deplorevole faccenda.»

«Avanti, fuori il nome, ti pagherò bene!»

«Si tratta di Iullo Batraco, ma niente denaro, stavolta» lo stupì l’alessandrino, nei cui costumi non c’era mai stato il disprezzo per una buona mancia. «Voglio l’assoluta certezza che non mi implicherai in nessuna tua folle avventura riguardante la banda Gallica: c’è chi dice che non siano semplici ladruncoli della Suburra, ma molto peggio...»

«D’accordo, ci andrò da solo!» gli assicurò il padrone.

«Nella tana del lupo?» scolorò il segretario.

«Noi Romani siamo i lupi, Castore, non qualche barbaraccio del Nord appena arrivato nell’Urbe!» rise il patrizio.

«Maledetto cocciuto presuntuoso!» scoppiò l’altro. «Quando ti troveranno evirato in un vicolo con i tuoi stessi genitali in bocca, poi non venirmi a dire che non ti avevo avvertito!»

Ma già il padrone non l’ascoltava più. Che cosa aveva visto veramente Criso? si domandava. A chi si era rivolto, nella sua vocazione di piccolo spione? Conosceva il suo assassino? Era stato scelto casualmente come vittima, per alzare la posta di una gara pazzesca, o eliminato perché costituiva un pericolo per chi ne era all’origine?

«Mulo!» bofonchiava Castore prendendo la porta. «Ha a sua disposizione ricchezze infinite, nonché le donne più belle di Roma, e si diletta nel cercare assassini!» Era proprio vero che Temi, la Dea della giustizia, non riceveva udienza né sull’Olimpo né tra i mortali, o nei panni del padrone ci avrebbe messo lui, che tutto quel bene dei Numi avrebbe saputo come impiegarlo proficuamente senza bisogno di correre stupidi pericoli, di sfidare la sorte, di farsi bello con gesti sconsiderati rimestando tra i cadaveri.

«Mulo» borbottava ancora quando lo scultore Aristodemo, che quel giorno non aveva trovato proprio nessunissimo modello da ritrarre, lo fermò per accettare la sua proposta di copiare vergognosamente dal vecchio busto, lasciando al segretario la metà del ricavato. «Mi raccomando, invecchialo a dovere, che non sembri ancora un giovanotto, eh!» si raccomandò con malcelata soddisfazione Castore siglando l’accordo.

IIII. Dove si lavano i panni sporchi di una famiglia

Poco dopo Aurelio riceveva di nuovo Rufino, che si era fatto anche troppo assiduo nella domus del Viminale, dato che il senatore gli sembrava l’unico a tenerlo in considerazione.

«Una crux tetragammata» rifletteva il giovane, messo al corrente dal patrizio dell’esame della tunica, dettaglio di cui la sorella non si era degnata di informarlo. «Surilla è dotata di un vivo ingegno, anche se a dire il vero non è sempre la prima caratteristica che si nota in lei, quindi l’avrà certamente riconosciuta alla prima occhiata: anni or sono nostro nonno, avaro com’è sempre stato, comprò per poco e per niente una pezza di stoffa d’occasione con tale decoro e vi fece confezionare abiti per tutta la famiglia.»

«A proposito, tua sorella ti ha detto dei nostri incontri?»

«Sì. Devo avvertirti che non ti ha troppo in simpatia.»

«Come mai è tanto scostante con tutti?»

«Be’, allora naturalmente non se ne parlò con me, ma pare che tutto risalga a un promesso sposo che, dopo averla sedotta, la lasciò su due piedi denunciando il contratto matrimoniale già sottoscritto con la scusa che non era più virgo intacta, ma in realtà perché aveva trovato una moglie con una dote migliore.»

«Che ignobile individuo» commentò il senatore.

«Sulla questione nessuna delle due parti preferì andare a fondo, poi lui sposò una donna ricca e lei un uomo non più giovane e piuttosto manesco, almeno stante le cicatrici che le ha lasciato. Rimasta vedova senza figli, tornò sotto il tetto paterno, ma nel frattempo era diventata piuttosto acida: io e mio fratello siamo gli oggetti preferiti delle sue recriminazioni, non si dà pace, pur essendo lei la primogenita, di non essere l’erede in quanto femmina.»

«Tuo nonno ha già deciso le sue ultime volontà?»

«Non saprei, nessuno mi dice nulla. Però il nonno, che ormai non si alza più dal letto, gradisce molto la compagnia di Decimo, e lui non gliela fa mancare, salvo poi lagnarsi in privata sede con mia sorella che il vecchio sbava e puzza di urina.»

Una splendida famiglia, pensò il patrizio, con la primogenita querula e bisbetica, il fratello maggiore goffo e impedito e il minore pronto a fargli le scarpe per prendere il suo posto nell’asse ereditario, compiacendo subdolamente un anziano invalido che a termini della legge romana poteva lasciare il suo patrimonio a chi preferiva.

«Decimo trascorre ogni giorno un’oretta nella sua stanza, a raccontargli delle partite di trigono di Iullo Batraco, di cui è un grande sostenitore, quindi non mi stupirei se il vecchio... Mio fratello è brillante e ha notevoli doti per il comando, almeno a giudicare da come pretende di essere obbedito, innanzitutto dagli schiavi, ma persino da me.»

«Andiamo, Surio, tu hai diciotto anni e lui soltanto tredici. Non puoi farti mettere i piedi in testa da un bambinetto: stai per indossare la toga virile!»

Rufino storse la bocca, amareggiato. «Quando, senatore? Si rimanda sempre, al punto che mi chiedo se quel giorno verrà mai: la mia famiglia non ripone grande fiducia in me.»

«E tu provvedi a farla crescere! Tanto per cominciare dammi una mano in questa inchiesta: a tuo giudizio dove si potrebbe trovare il gammadion

«Non è detto che ci si riesca: gli ultimi indovinelli sembrano studiati apposta per depistare, come se l’intento di chi dirige la caccia fosse mutato all’improvviso. A meno che...» accennò senza osare finire la frase.

«A meno che non ci siano due diversi giocolieri, è questo che intendi dire?» concluse Aurelio. «Ci ho pensato anch’io: proprio per questo è importantissimo che parli personalmente con il tuo fratellastro, dato che è stato il primo a far cenno all’intrigo.»

«Oh, non è semplice, senatore, ma ci proverò» promise il giovane, tanto titubante da far supporre che dovesse confrontarsi con l’Idra dalle mille teste, il leone Nemeo, o magari la Sfinge di Edipo, anziché con un ragazzino che, per quanto superbo e protervo, difficilmente poteva far paura a qualcuno.

Aurelio sospirò, congedandolo con una scusa. C’è chi nasce perdente e nelle proprie scalogne finisce per crogiolarsi, pensava, dubitando in cuor suo che Surio Rufino riuscisse mai a trovare le energie per rialzare la testa.