DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
I. Dove Aurelio riceve un messaggio sgrammaticato
Addolcito dalla teca d’avorio e soprattutto dalla soddisfazione di curare finalmente un paziente vivo, Ipparco aveva ricucito pazientemente il sopracciglio leso di Aurelio, provvedendo anche a rinnovargli la fasciatura qualche ora dopo.
«Ho fatto del mio meglio, domani potrai levare la benda, ma purtroppo ti resterà una piccola cicatrice» aveva annunciato.
«Non fa nulla: a certe matrone le cicatrici piacciono, le considerano un segno di virilità» aveva sorriso il senatore, pensando che ben altri erano i segni indelebili lasciatigli da quel duello, nel quale aveva ucciso un uomo per salvare uno sconosciuto che lo evitava come la peste, incapace forse di accettare una realtà ostica a entrambi. Ma dov’era finito Timandro? Come riusciva a nascondersi? Perché era fuggito? E soprattutto, in che modo, pur essendo appena arrivato da Antiochia, si era rivelato tanto pericoloso da spingere qualcuno – con tutta probabilità un assassino di mestiere – a cercare di eliminarlo? Di quel giovane non sapeva assolutamente nulla, né era riuscito ad averne notizia attraverso un secondo piccione viaggiatore spedito in Siria, si disse contemplando la placca d’oro raccolta sul lastricato la sera prima.
Si trattava di un soggetto bizzarro, raramente rappresentato sui gioielli: l’orribile dragonessa Campe, dalla testa di donna e la coda di scorfano che Crono aveva posto a guardia del Tartaro, uccisa poi da Zeus nel corso della sua battaglia con i Titani. Secondo Macario era stata rubata, ma quanto c’era da fidarsi di quella subdola dichiarazione? A tutti gli effetti pareva piuttosto una storia montata ad arte: perché mai infatti un ladro in fuga si sarebbe appropriato di un gioiello così singolare e riconoscibile, anziché di una manciata di anonimi anelli e pendenti, facili da rivendere a qualche ricettatore?
Era immerso in questi pensieri quando bussarono alla porta.
«Un messaggio per te, padrone» gli annunciò Castore entrando. «L’ha portato un bambinetto della Suburra che quello sciocco del portiere Fabello si è ben guardato dal trattenere» disse il segretario porgendo ad Aurelio un pezzo di papiro utilizzato più volte, sul cui retro, malamente raschiato, erano vergate poche parole incerte. «È di mano femminile, ma non si tratta della strega.»
Aurelio lo guardò perplesso.
«Intendo dire la bisbetica, l’irascibile, la lunatica, Surilla insomma. Quella donna odora di guai lontano un miglio, domine, e il tuo interesse per lei non manca di preoccuparmi.»
«Interesse?» replicò il patrizio, fingendosi stupito.
«Ben conoscendoti, so quanto tu sia attratto dalle sfide: Surilla appare come una rocca inespugnabile irta di triboli, spuntoni aguzzi e pali appuntiti, atta quindi a stuzzicare enormemente il tuo appetito di totale scriteriato.»
«Le donne docili e remissive sono per i mollaccioni, Castore.»
«E quelle feroci per gli incoscienti, domine» replicò il segretario. «Comunque qui ne hai una altrettanto rognosa e chiede di incontrarti in segreto per farti rivelazioni sensazionali!»
Aurelio lesse velocemente il breve scritto:
«Viridia ad Aurelio. Conosco molte cose di Meticanio, domani vieni al tempio di Tellus al tramonto» lesse velocemente Aurelio e subito decise: «Ci andrò: a mio parere il messaggio è autentico».
«Ho visto anch’io gli errori nel testo che ci si aspetta da una donna che scrive il latino in maniera approssimativa, ma chiunque avrebbe potuto inserirli apposta per ingannarti.»
«Chi semina svarioni con l’intenzione di farsi credere più ignorante di quello che è, spesso esagera. Ma qui le inesattezze rispondono piuttosto precisamente alla lingua parlata dal popolo: nota Meticanio senza il de che indica argomento, il termine aedem privo di dittongo e mancante della “m” finale che ormai non viene quasi più pronunciata; telluris con una sola “l” e occaso, tramonto, con una sola “c”, trattato quasi come se si trattasse di due parole separate. Poi c’è la calligrafia molto elementare, con le lettere che variano in dimensione, rimpicciolendo a poco a poco: chi non è avvezzo a scrivere raramente sa prendere la misura giusta dello spazio a disposizione. E soprattutto considera il fatto che, anziché essere vergata su una riga dritta, la frase pende verso il basso: è un segno inequivocabile che i contraffattori spesso trascurano.»
«Buono a sapersi» disse il segretario e Aurelio tremò nel chiedersi quali falsificazioni fraudolente stesse meditando. «Tuttavia nulla impedisce che altri abbiano dettato il messaggio a Viridia per tenderti una trappola.»
«Il rischio esiste» ammise il senatore. Quella inquietante bellezza, quella pelle setosa, quegli occhi rassegnati, quella remissività assoluta a cui Viridia pareva a un tratto voler rinunciare. Come perdere l’opportunità di incontrarla?
«Intendi davvero correrlo? Ti è andata bene una volta, anzi diciamo due perché, sebbene non ce l’avesse direttamente con te, il colosso che hai appena sgozzato era pur sempre un gallo dalla pessima fama e la sua morte sarà archiviata senza alcuna indagine. Ma la banda di Meticone potrebbe non aver gradito il tuo baldo intervento.»
«Sono un senatore, non oseranno colpirmi» minimizzò Aurelio.
«Buona questa! Forse un padre coscritto non sanguina quando qualcuno gli pianta un coltello nel costato o gli spicca la testa dal busto? Chiedilo a Crasso, chiedilo a Pompeo, chiedilo al Divo Giulio, chiedilo a Catilina, chiedilo a Cicerone!»
«La vita è pericolosa, Castore. Alla fine muoiono tutti, anche i più prudenti» scherzò Aurelio.
«Come vuoi. Ma non venirmi a dire poi che non ti avevo avvertito... A proposito, domine, non me ne vorrai se, date le circostanze incresciose in cui potresti trovarti tra poco, ho fatto qualche conticino relativo al nostro rapporto quasi ventennale, nel caso, i Numi non vogliano, ti dovesse capitare qualcosa di brutto. Ecco qui, tra ferie non godute e straordinari, mi devi circa 20.000 denari d’argento. Facciamo due talenti e non se ne parli più.»
«Smettila con la solita commedia, Castore! La storia è vecchia: ogni volta che qualcosa non ti va, minacci di chiedermi gli arretrati e ritirarti in Cilicia!»
Il segretario non replicò, ma l’occhiata che rivolse al senatore non fu più benevola di quella con cui i Cartaginesi avevano accolto l’ambasceria di Attilio Regolo durante la prima guerra punica.
Anche se non sarebbe mai arrivato a farlo rotolare dentro una botte irta di chiodi, il padrone aveva larghi mezzi per dargli fastidio, rifletté il segretario. Decise quindi di rinunciare alla consueta recriminazione e annunciò che si sarebbe recato al Gianicolo per nutrire i suoi strutiocameli, due enormi volatili che anni prima aveva salvato dal macello e collocato poi nella villa suburbana di Aurelio, con il pretesto che intenerivano le sue ospiti clandestine, inducendole a mostrarsi più amorevoli e disponibili.
Il patrizio alzò le spalle: Castore ultimamente era così polemico che tutto sommato conveniva se ne stesse con i suoi struzzi. E nulla e nessuno avrebbe impedito a lui di andare all’appuntamento.
RESIDENZA DI POMPONIA SUL QUIRINALE
II. Dove Pomponia fa garbatamente rapire una testimone
Dire che Pomponia fosse giù di tono sarebbe eccessivo: per quanto scoraggiata, per quanto afflitta, per quanto depressa, le sue straripanti energie assommavano sempre al doppio di quelle di qualunque altra matrona di Roma, soprattutto se erano state sostenute nell’arco dell’intera giornata da parecchi spuntini sfiziosi, tra cui primeggiavano polpette di oca nutrita a fichi secchi e seppie stufate con levistico, semi di sedano e cumino, nonché svariate porzioni di frutta, il tutto consumato non sul lettuccio della sala tricliniare, bensì al tavolo di lavoro.
I suoi ripetuti sforzi nella ricerca del tetragammon, tuttavia, si erano rivelati inutili, e a nulla era valso nemmeno umiliarsi a chiedere l’aiuto di Domitilla, giacché quest’ultima era ormai fuori causa per un attacco devastante di mal di schiena causatole dalla postura assunta deambulando su tacchi spropositati, malanno tipico dell’età non più acerba che la subdola minimizzava, fingendo di essere trattenuta da affari urgenti nei suoi fondi in campagna. E non si poteva certo rivolgere a quella malnata di sua cugina Surilla, che ce l’aveva con lei per aver diffuso nei salotti un salace pettegolezzo sui suoi rapporti poco casti con uno schiavo trace di eccezionale prestanza virile, appositamente acquistato al bisogno.
Ma come il naufrago Odisseo, vessato dall’odio del Dio Poseidone, si ritrovò in salvo sulla spiaggia dei Feaci proprio quando stava per credersi perduto, così la buona sorte venne in soccorso della matrona nel momento del suo massimo sconforto.
«Ci siamo, kyria: una delle nostre agenti sul campo ha individuato un gammadion!» le riferì Carnifex con l’unico occhio brillante di entusiasmo. Pomponia esultò: finalmente la sua rete fittissima di spionaggio mondano, formata da ancelle, pocillatori, arcarii, cosmeticae, pettinatrici, sarti e sutori dall’occhio pronto e l’orecchio vigile, portava a qualche risultato tangibile. «Lo indossa come pendente una popolana che in questo momento sta attingendo acqua alle fontane del Macello di Livia.»
«Fermatela, portatela qui, offritele denaro o qualunque altra cosa: devo interrogarla!» ordinò la dama in modo perentorio.
«Ci stanno provando, kyria» affermò la guardia del corpo e poco dopo, affacciandosi al portone, annunciò la lieta novella: «Arrivano, arrivano e la donna è con loro!».
Milla non aveva ben capito che cosa stesse succedendo: un’ancella giovanissima splendidamente abbigliata le aveva offerto un denario d’argento perché la seguisse a casa della padrona e lei aveva abboccato. Ma durante il percorso dai portici di Livia al vicus Longus, alla servente troppo elegante se ne erano aggiunte altre, oltre a domestici e schiavi in quantità, tutti estremamente pressanti e solleciti nel sospingerla verso le pendici del Quirinale, tanto che la ragazza a un certo punto aveva capito di non poter più sottrarsi se avesse cambiato idea, ovvero di essere stata praticamente, in modo cortese e educato ma non meno deciso, rapita e presa prigioniera.
La paura grossa, quella che gela il sangue, la investì tuttavia soltanto quando sulla soglia della domus verso cui stavano guidandola – proprio quella della signora tanto interessata al gioco – vide un omone spaventoso, privo di un occhio, col torace a botte, sfregi profondi sulle guance e metà della testa scuoiata alla pari del manto di quegli scoiattoli rossi cacciati dalla gente di campagna per farsi berretti caldi dopo averne gustato le carni.
Milla fece un passo indietro, terrorizzata, ma proprio in quel momento alle spalle del mostro apparve la padrona di casa avviluppata in una tunica di bisso rosa riccamente ricamata in nero, che, se non fosse stato per la stazza cospicua, l’avrebbe resa simile a uno di quegli scurissimi alberelli usi a coprirsi di fiori sgargianti all’inizio della primavera, prima ancora di rivelare il verde delle foglie. La dama aveva un sorriso benevolo e le faceva larghi cenni di benvenuto.
Milla si guardò attorno: alle sue spalle servi e ancelle formavano un muro impenetrabile che le precludeva la fuga, per cui, non potendo far altro, decise di fidarsi.
Prassilla nel frattempo era scesa dal cenacolo sotto i tetti dell’insula della Gru, affrontando le quattro rampe di scale che alla sua età, e con le sue ginocchia anchilosate, cominciavano a pesarle assai. Non che fosse molto vecchia: sessantotto anni non erano poi tanti, tenendo presente che Livia Drusilla Claudia, ora venerata come Dea Giulia Augusta, era morta a più di ottanta. Ma altro è vivere da imperatrice, altro da schiava, quindi Prassilla era convinta che i suoi anni valessero almeno il doppio di quelli della “Madre della Patria” e sbuffava visibilmente dirigendosi in cerca di Milla al Macello dedicato proprio alla divina nonna dell’attuale Cesare. La sventatella aveva scelto senza dubbio di andare ad attingere a una fonte così lontana nella speranza di incontrare lo stramaledettissimo celta di cui si era invaghita. Doveva trovarla, doveva dirle la verità, per quanto dolorosa potesse essere...
La scorse da sotto la scalinata, circondata da ragazze eleganti, al cui confronto l’abituccio verdastro della nipote pareva ancora più dimesso. Le parlavano vivacemente, le davano una moneta, le rivolgevano ampi sorrisi prendendola per mano e convincendola a seguirle. In quale altro pasticcio si era cacciata? Che volevano dalla povera Milla quelle ancelle che, pur schiave, apparivano tanto ricche e prospere? si chiese Prassilla arrancando per pedinare il gruppo senza farsi vedere.
Aveva il fiatone quando, dopo aver incrociato il vicus Patricius e il vicus Collis Viminalis, giunse sul Quirinale davanti a una fastosa residenza presidiata da un orribile ceffo sfregiato.
Ed ecco che Milla entrava, veniva inghiottita nei recessi della grande domus e a lei non restava che sedere affranta sul marciapiede, sperando che prima o poi le avessero concesso di uscire.
III. Dove si provano abiti alla moda
«Cara, carissima» la accolse Pomponia con gli occhi che correvano avidi al ciondolo tetragammato che spiccava sul petto della ragazza. «Suvvia, portate i rinfreschi per questa amica che mi onora con la sua visita... Ma forse prima di mangiare vorrai cambiarti, com’è uso, mia cara, hai sudato per arrivare fin qui. Non preoccuparti, troveremo subito qualche cosetta della tua misura.»
Milla scosse la testa, frastornata, ma già Pomponia batteva le mani, comandando di aprire le arcae e sottoporre alla scelta dell’ospite decine e decine di abiti inverosimilmente raffinati. Aveva sbagliato a farsi convincere a entrare, dubitava intanto la ragazza, nessuno dà niente per niente, ma intanto lo sguardo le scivolava rapito da una tunica di lino blu con il bordo d’argento a una palla azzurra ricamata a fiori rossi, da una sopravveste viola listata di porpora a un amitto con inserti di lamine dorate, da uno scialle a losanghe gialle arricchito da frange turchine a un velo impalpabile di bisso cilestrino.
«Su, scegli il vestito che vuoi, e magari anche un altro da portarti a casa, poi vai a indossarlo. Però sarebbe meglio se ti levassi prima quello scomodo pendente...» azzardò astutamente la matrona, ma Milla di liberarsi del ciondolo non ne volle sapere.
Devo andarci con più delicatezza, si ripromise Pomponia quando la giovane riapparve completamente trasformata, avvolta nel lino blu e con i capelli raccolti sotto il velo chiaro color del cielo.
«Per tornare al tuo gioiello... non vale molto, è solo di rame smaltato, tuttavia ha una forma molto particolare e mi piace assai. Che ne dici di cedermelo in cambio di una catena a maglie d’oro o di una collana di diaspro?» tornò alla carica poco dopo, mentre faceva servire alla giovane i celebri pasticcini al pepe del cuoco Anatolio e un nappo di vino dolce all’assenzio.
«È un pegno d’amore» confessò Milla un po’ imbarazzata.
«Capisco che tu non voglia separartene... Il tuo promesso deve esserti molto affezionato se ha per te certi pensieri. Certo, non gli sarebbe facile trovare un’altra ragazza tanto bella!»
«Oh, no! Lui è bello, bellissimo, molto più di me, alto e biondo, con un codazzo di donne che gli sospirano dietro» si lasciò scappare l’orgogliosissima Milla, ma di nomi non ci fu verso di fargliene fare.
Pomponia sospirò: la ragazza non avrebbe parlato, sarebbe stato necessario metterle qualcuno alle costole e nel frattempo avvertire Aurelio della sua scoperta.
IIII. Dove si spegne un sospetto e ne nasce un altro
«Milla, finalmente!» la chiamò nonna Prassilla vedendola uscire dalla ricca domus. «Dove hai trovato quel magnifico vestito? Quasi non ti riconoscevo...»
«Me l’ha dato la kyria! Voleva regalarmi anche una collana d’oro, se le avessi ceduto in cambio il mio ciondolo, ma naturalmente non potevo farlo: Dannico sarebbe rimasto male» disse raccontandole l’intero colloquio.
Il pendente. Ecco spiegata la sollecitudine con cui la matrona, interessatissima alla caccia, aveva fatto quasi sequestrare sua nipote, rifletté la nonna raggelando. A Roma le chiacchiere giravano in fretta e correva ormai voce che l’ultimo indizio lasciato dal giocoliere fosse una croce uncinata della stessa forma bizzarra del gioiello offerto a Milla dal suo sciagurato spasimante.
«Milla, nascondi quel ciondolo sotto la veste, che nessuno lo veda!» le raccomandò concitata. Che poteva fare una povera vecchia tarda e artritica per difendere un’imprudente che non intendeva essere difesa? si domandava avvilita.
«Va bene, nonna» obbedì la ragazza con aria annoiata.
«Giurami anche che chiederai a Dannico dov’era diciotto anni or sono» supplicò Prassilla, ma non riuscì a trovare le parole giuste per confidarle i suoi sospetti: un uomo di origine gallica, tanto fascinoso da incantare facilmente una ragazzina ingenua, con le mani in pasta in un mucchio di affari sporchi, che, accusato di vari reati, sparisce all’improvviso da Roma – forse arrestato, forse condannato – e vi ricompare diciotto anni dopo pronto a far girare la testa a un’altra giovane sprovveduta. Quella sbagliata, quella proibita, quella vietata dagli uomini e dagli Dei.
«Ma lo so già, nonna! È nato a Vesontio, come i suoi amici Nonno e Comago. Una decina di anni or sono venuti tutti e tre a cercare fortuna nella capitale.»
«Dannico è a Roma soltanto da dieci anni?» strabiliò Prassilla.
Tramandano che quando gli sciocchi compagni di Odisseo, convinti che contenesse chissà quale tesoro, aprirono l’otre di pelle in cui erano racchiusi i venti cattivi che l’eroe aveva ricevuto in dono da Eolo, dal sacco ormai vuoto tracimassero tempeste e procelle di inaudita violenza, pronte a scatenarsi contro i fragili vascelli per affondarli miseramente. Simile a quell’otre svuotato si sentiva Prassilla, mentre chiedeva con voce flebile, priva ormai dei suoi sospetti più infami: «Ne sei sicura?».
«Li ho sentiti raccontare spesso le loro avventure: già allora gli altri prendevano ordini dal mio Dannico, che era di gran lunga il più anziano e il più abile dei tre» rise Milla e corse via, intenzionata a farsi ammirare al più presto dal suo bello col nuovo, finissimo abito.
Prassilla restò a lungo muta e frastornata. Si era tormentata per nulla, l’infame incesto era stato soltanto un parto della sua immaginazione: Dannico non era lo stesso uomo che, anni prima, aveva generato Milla. Tutte le sue congetture, le sue paure, i suoi dilemmi non erano che illazioni infondate di una vecchia stupida e diffidente, che credeva di conoscere la vita più di chi, giovane e spavaldo, stava vivendola in prima persona con slancio ed energia.
E dire che sarebbe stato sufficiente trovare il coraggio di chiedere a Febe di rivelarle finalmente il nome del suo vecchio amante! Sarebbe bastata un po’ di confidenza in più con quella figlia tanto desiderata e tanto amata che tuttavia non aveva saputo capire né proteggere, scosse la testa Prassilla. Stava per compiangere la propria stoltezza, quando un nuovo dubbio, persino peggiore e più devastante del primo, la attanagliò all’improvviso.
Che significava quel ciondolo, dalla forma identica all’ultimo indizio del gioco, che le voci correnti volevano dipinto sulla tunica di un ragazzino ammazzato? E se dietro a tutto ci fosse stato proprio Dannico? si chiese con un brivido. Non l’aveva temuto nella veste di assassino finché era stata persuasa che si trattasse del padre di Milla: per quanto sciagurato, nemmeno un gallo stramaledetto avrebbe attentato alla vita del sangue del suo sangue. Ma ora, chi le garantiva che proprio la sua diletta nipote non fosse stata scelta come prossima vittima?
Adesso era ancor più urgente liberarsi di quel pesante fardello. Magari a costo di parlare con quell’orribile bruto di guardia. Magari a costo di fare la spia. Magari a costo di tradire.
«Che vuoi, vecchia ciabatta?» chiese Carnifex quando se la trovò davanti.
Mezza parola e Prassilla entrava. I dadi erano gettati, ora sarebbe stata la sorte a decidere.