Dodicesimo giorno

DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE

I. Dove arriva un piccione viaggiatore

Aurelio finì di leggere con grande interesse il messaggio dell’agente di Antiochia, giunto sulle ali di un piccione viaggiatore. A parere del responsabile dei suoi banchi in Siria, la ricchezza ostentata da Macario aveva piedi di argilla, così come la sua nobile discendenza: l’affarista, di origini alquanto oscure, era comparso anni prima ad Apamea, dove aveva rastrellato fior di sesterzi in offerte riportando in auge l’oracolo di Zeus Belo, una delle personificazioni dell’antico Dio fenicio Baal. Le donazioni di terreni e immobili dei creduloni che si fidavano delle sue criptiche profezie gli avevano quindi permesso di intervenire con pesanti speculazioni nel mercato immobiliare della città ed estendere i suoi interessi fino al capoluogo, finché un repentino crollo dei prezzi non aveva inferto un colpo durissimo a coloro che avevano comprato alla cieca fidandosi di lui. Nel frattempo però Macario aveva stretto legami molto solidi con i maggiorenti romani più indebitati, in particolare con il legato Muzio Astropeo e il procuratore Veturio Prisco, unendosi a loro in quel consorzio di comuni interessi che lo proponeva ora come esattore delle imposte, carica che gli avrebbe fornito fondi quasi illimitati per sanare la situazione.

Eccolo quindi nella capitale a esibire un lusso che era ben lungi dal potersi permettersi, concluse Aurelio mettendo da parte il messaggio. Ma se i soldi fossero finiti? A chi si sarebbe rivolto Macario in questo caso? Non certo a un banco argentario autorizzato, col rischio di rivelare la sua incerta situazione e di perdere il lucrosissimo appalto, bensì a un usuraio clandestino, a tassi stratosferici. E se in qualche modo uno dei suoi segretari fosse venuto a conoscenza di questi segreti rapporti? A detta di Viridia, Macario e Meticanio Meticone si conoscevano: poteva essere stato l’affarista a concertare di togliere di mezzo il segretario impiccione chiedendo al suo losco strozzino di assumere un sicario prezzolato? Magari un gallo, che forse aveva già lavorato altre volte per lui, illazionò il patrizio, ben sapendo quanto sollievo gli avrebbe portato la prospettiva di collocare Timandro tra gli onesti e i perseguitati, anziché tra i ladri e i corrotti.

In quella Paride fece la sua comparsa nel tablino.

«Così, su due piedi, non sono riuscito a trovare granché, domine. Ci vorrebbe il cavalier Servilio!» disse l’intendente e Aurelio annuì, deplorando che il marito della matrona Pomponia, gran trafficone con le mani in pasta in molti affari della capitale, non si trovasse a Roma in quel momento.

Anche con poco tempo a disposizione, Paride aveva fatto del suo meglio, stilando la lista degli immobili appartenenti al senatore Crispino Balbo, alcuni dei quali pesantemente ipotecati, senza contare che, entro il mese corrente, i padri coscritti sarebbero stati chiamati a pagare la pesantissima imposta fondiaria per conservarsi il diritto di sedere in Curia. Ma non tutti, al di là della apparente magnificenza, erano solvibili. C’era dunque da presumere che dietro alla presenza del suo collega nel bugigattolo della Suburra ci fosse la richiesta di un prestito segreto a saggio di usura: ma come spiegare allora l’intervento in Senato durante il quale lo stesso Crispino aveva chiesto il pugno di ferro contro le bande di giovinastri stranieri che imperversavano nei quartieri popolari? Comunque, ligio al principio che più informazioni si hanno sull’avversario, meglio è possibile sfruttarle, avrebbe subito mobilitato Pomponia, espertissima in genealogie, per conoscere vita morte e miracoli di Crispino e di tutta la sua stirpe. Anzi, gli sembrava che ci fosse un altro dettaglio importante in ciò che gli aveva già rivelato la matrona, un particolare di cui però in quel momento non riusciva proprio a ricordarsi.

Forse avrebbe potuto chiedere a Castore, si disse, cominciando a cercare il segretario per tutta la casa. Lo trovò in cucina, mentre attingeva dal tegame in cui Ortensio stava stufando le lenticchie al porro e coriandolo verde che, secondo il famoso Apicio, si accompagnavano a puntino ai frutti di mare. Sul tavolo era aperta una grande borsa di paglia piena di pani fragranti alle spezie, insalatine appena colte, mele, poponi e frutta secca in abbondanza, oltre a parecchie delle insuperabili offelle di maiale che avevano reso l’archimagirus di Aurelio il cuoco più celebre di Roma.

«A chi porti tutta quella roba?» chiese il padrone rannuvolandosi all’idea che mezza città si cibasse con quello che i suoi servi malfidati sottraevano quotidianamente alla sua mensa.

«Ai miei strutiocameli, domine! Che gli struzzi siano di becco buono e digeriscano anche i sassi è un noto pregiudizio: sono invece bestie delicate e schizzinose, di gusti difficili e sofisticati, che vanno nutrite con alimenti di primissima qualità!» spiegò e, afferrati rapidamente i manici della sporta, scomparve prima che il patrizio potesse avere il tempo di protestare.

SUBURRA, COVO DELLA BANDA GALLICA

II. Dove un capo annuncia il suo ritiro

«Fratelli miei, miei conterranei della squadra Gallica, vi ho qui riuniti innanzitutto per ringraziarvi di avermi seguito fedelmente durante questi anni in cui ci siamo adoperati per difendere i nostri connazionali dai soprusi romani, procurare loro un lavoro sicuro e proteggerli dai malintenzionati» esordì Meticanio con voce grave, dipingendo un affresco alquanto eufemistico delle attività delinquenziali a cui la banda si dedicava.

Nonno e Comago ascoltavano con attenzione: dove sarebbe andato a parare quel commosso preambolo? Quale altra impresa si stava organizzando? E ci sarebbe stato posto per loro dopo i risultati poco brillanti di cui avevano dato recentemente prova?

Dannico era sulle spine. Naturalmente non conosceva i piani del capo – Meticanio non si confidava mai con nessuno, ligio al principio che in meno erano a sapere le cose, meno rischi si correvano – ma presentiva in qualche modo che il discorso lo avrebbe riguardato. Perplesso, fece correre lo sguardo su Sagitta, serio al suo solito, e più oltre, sui membri meno accorti della banda, Mascellio, Geronimo, Cintullo, Mosezio, tutti giovanissimi, tutti sbruffoni, tutti sprovveduti.

«Gli anni però passano per tutti e io non ho più l’energia di un tempo per guidarvi e consigliarvi. È giunta l’ora che io mi ritiri.»

«Che dici, capo? Sei sempre in gambissima, che faremmo senza di te?»

«Resta, Meticone, resta!» lo supplicarono i suoi.

«Viene il momento in cui si deve cambiare vita. Dopo tanto lavoro, ho il diritto anch’io a un giusto riposo e a una famiglia» disse senza specificare che praticamente quest’ultima se la trovava già fatta, avendo cominciato a provvedervi diciotto anni prima.

«Ma come vivrai? Sei povero...» obiettarono Nonno e Sagitta, che Meticanio Meticone si era ben guardato dal mettere al corrente delle sue vere attività, quelle sommamente proficue di cui i delinquentelli della squadra Gallica, usata come mero paravento, nulla sapevano.

«Ho qualcosa da parte, sarà sufficiente. Ma non temete, vi lascio in buone mani: la squadra d’ora in poi sarò diretta dal vostro baldo Dannico!» annunciò, mentre i rudi energumeni lo omaggiavano in coro soffocando l’emozione e passavano subito a congratularsi col nuovo capo.

Meticanio guardava soddisfatto: presto lui sarebbe stato un prospero onestuomo con moglie e figli, pronto a occuparsi delle svariate attività legali in cui aveva investito i proventi di attività che legali non erano per nulla, prima tra tutte quella dei prestiti a usura, atta a procurargli il sostegno di tanti potenti e a renderlo praticamente intoccabile. E presto la mano pesante della legge sarebbe calata sulle bande e non ci sarebbe stata più nessuna squadra Gallica e nessun testimone della sua vecchia esistenza, pensò Meticanio mentre si riproponeva di raccogliere i documenti più scottanti per portarli al sicuro.

ARGILETUM, AI CONFINI DELLA SUBURRA

III. Dove Aurelio rivaluta una donna antipatica

Sceso dal Viminale, Aurelio era sul punto di recarsi alla domus dei Suri sull’Oppio a interrogare finalmente, con o senza invito, il giovane Decimo, quando gli parve che la casa verso cui stava dirigendosi fosse stata improvvisamente trasportata proprio lì ai margini della Suburra, o, se non proprio la casa, almeno i suoi abitanti, o meglio ancora una di loro, la più importuna e sfacciata di tutti. Faticava infatti a credere ai suoi occhi vedendo Surilla, sola e senza alcuna scorta – non una guardia del corpo, non un servo, non un’ancella – pavoneggiarsi tra le bancarelle dell’Argiletum impegnatissima nel farsi notare, i seni sfrontati arrogantemente esibiti, quasi la sfida di due stocchi appuntiti davanti ai quali forse qualcuno avrebbe visto se stesso come imperioso conquistatore, ma i più si sarebbero sentiti inetti babbalei, capaci solo di allungare le mani.

Tuttavia non era la pelle esposta a preoccuparlo di più, bensì ciò che la avvolgeva: un tessuto economico e banale, di un colore giallo spento, senza dubbio indegno di una matrona elegante. Unica decorazione, visibilissima, la greca del bordo, ripresa nell’alto cingulum di stoffa, dove campeggiava, nera su fondo grigio, una lunga sequela di croci tetragammate, richiamo irresistibile per l’assassino.

Si trattava indubbiamente del taglio di cui gli aveva parlato Rufino, ricordò il patrizio, acquistato dal nonno tirchio per risparmiare a beneficio di tutta la famiglia. Disgraziata incosciente! biascicò tra i denti, rammentando che per un semplice ciondolo a forma di gammadion Milla era stata quasi assalita dalla folla, e si apprestò a sloggiare di là Surilla, magari anche con la forza.

Ma non fece in tempo. Una massa di fanatici del gioco, in possesso di informazioni più o meno confuse malgrado tutti i tentativi di segretezza, circondò all’istante la donna, pressandola da tutte le parti per impadronirsi di quello che ritenevano il nuovo indizio. La stola partì per prima, strappata da due ragazzine svelte, poi le maniche, infine la gonna della tunica, brancata da decine di mani avide mentre lei gridava a più non posso; a salvarsi fu soltanto la fascia arrotolata in testa per contenere la massa di capelli nerissimi, trattenuta da alcuni spilloni di notevole pregio, che resistette all’assalto delle ingorde popolane.

Facendosi largo con qualche energica gomitata, il senatore riuscì a raggiungere l’incauta, e, stesi con un paio di colpi ben assestati i giovinastri che gli precludevano la fuga, la afferrò per il polso trascinandola con sé nell’unica direzione possibile, dentro la Suburra, sebbene le viuzze strette, su cui incombevano balconate e passerelle di legno, non fossero certo il luogo più adatto per sfuggire a un inseguimento.

Ma i popolani dell’Urbe non intendevano mollare l’osso.

«Quella donna è la chiave di tutto: prendiamola!» esclamò un omone, chiamando rinforzi.

«Ci porterà al tesoro!» gli dette man forte una pollaiola, non esitando ad abbandonare uova e tranci di gallina a eventuali saccheggiatori pur di seguire il miraggio: correva ormai voce che il premio per chi avesse risolto tutti gli enigmi della caccia sarebbe stato enorme.

Aurelio intanto continuava a correre per i vicoli, tirandosi dietro una Surilla alquanto malridotta, zoppicante a causa della perdita di un sandalo e piuttosto discinta per via dell’abito strappato che le lasciava le gambe parzialmente scoperte.

Avevano appena messo un minimo di distanza tra loro e la folla che li tallonava, quando nella piazzetta in fondo al vicolo si formò un nuovo assembramento, chiudendoli tra due fuochi.

«Psss... di qua!» disse una voce. Dietro la porta socchiusa di un edificio malandato, apparve la lupa Eufrosine, che, zittendoli col dito sulla bocca, li tirò rapidamente dentro.

«È il mio turno di ricambiare l’ospitalità, senatore. Presto, salite di sopra, nel soppalco che uso per lavorare!» esclamò additando la scala di legno. «Ci penso io a levarveli di torno.»

Aurelio sospinse sui pioli la riluttante compagna, mentre Eufrosine si affacciava alla finestra sulla strada, nella quale veniva assiepandosi una fiumana di gente.

«Dove sono? Erano qui poco fa, non possono essere scomparsi!» esclamò la pollaiola.

«Da noi non sono passati!» spergiurarono i popolani che provenivano dallo slargo alla fine del vicolo.

«Li ho visti imboccare il sottoportico» affermò Eufrosine indicando un ridotto passaggio che si apriva poco lontano, quasi invisibile sotto l’intrico degli sporti e dei balconi che in alto formavano una precaria ragnatela di legno. «Venite, vi guido io» si offrì poi, serrando bene la porta prima di mettersi alla testa del gruppone, per condurlo completamente fuori strada nel labirinto dei vicoli angusti.

«Si può sapere che ti ha preso a esibirti in modo tanto dissennato?» domandò a Surilla il patrizio furibondo.

«Pensavo di smuovere le acque indossando questo vestito, invece guarda dove mi tocca nascondermi!» disse lei lasciando vagare lo sguardo sul ristretto soppalco, dove troneggiava in bella vista il letto sul quale la balda Eufrosine esercitava la sua antica professione. «Intendevo far uscire allo scoperto l’assassino e forse ce l’avrei fatta, se tu non avessi rovinato tutto!»

«Salvandoti da una folla inferocita, intendi dire? Ringrazia i Numi di cavartela solo con qualche contusione, sciaguratissima caparbia! Ma stai tranquilla, la prossima volta ti lascerò nelle mani dei tuoi estimatori!»

«Insolente come al solito! Di tutti i maschi arroganti, pieni di sé, boriosi, prepotenti e buzzurri che ho incontrato, tu sei il peggiore» disse, avanzando verso di lui con atteggiamento palesemente bellicoso.

«Sei petulante come una vecchia megera, volgare come una meretrice da bordello e rancorosa come una vecchia zitella che non perdona alle altre di aver trovato marito» rilanciò senza risparmio il senatore.

«Sono stata sposata con un mentecatto che in grazie ai Numi si è tolto presto di torno e non intendo ripetere l’esperienza! Tu piuttosto: ti rendi conto di quanto sia ridicola la tua protervia, quanto penosa la tua perenne aria di superiorità e a che punto suonino farseschi i toni che credi di rendere ironici?» esclamò lei facendo un altro passo nella sua direzione.

«Arcigna. Acida. Aspra come un limone secco» replicò Aurelio.

«Sfacciato, tracotante, screanzato peggio di un energumeno dell’infima canaglia.»

«Villana, astiosa, più gonfia di veleno dell’aspide di Cleopatra» ribatté il patrizio.

«Furfante, farabutto, mascalzone come un delinquentello di mezza tacca.»

«Linguacciuta, pestifera, scostante come una gatta selvatica.»

«Sfacciato, dispotico, prevaricatore e anche attaccabrighe» ribadì Surilla, additandogli il taglio al sopracciglio.

«Subdola, infida, sleale e per di più sciocca e ingrata» fece di rimando il senatore, guardandola in cagnesco.

I due erano ormai vicinissimi e si guatavano l’un l’altro come tori da combattimento che soffiano, sbuffano e pestano la terra con gli zoccoli, accingendosi a incornare il rivale.

«Suppongo che ti aspetti i miei ringraziamenti per avermi condotto in questa specie di lupanare» brontolò Surilla.

«Basterebbero il tuo abbigliamento e la tua posa a ricordarmi dove siamo» fece Aurelio guardando significativamente le gambe nude – dritte e ben tornite, a dire il vero – e il seno abbondantemente esposto.

«Ah, vigliacco, codardo, pusillanime, oltraggioso diffamatore di femmine indifese!» esclamò lei assalendolo violentemente con i pugni chiusi.

Ad Aurelio bastò poco per bloccarle i polsi e immobilizzarla, mentre si dibatteva furiosa, agitando forsennatamente quella chioma fittissima, esagerata, nera come la notte, che faceva venir voglia di afferrarla e tirarla a sé, col suo seguito di occhi ardenti, bocca sprezzante e viso insopportabilmente altero. Dopo aver parato con agilità un paio di calci diretti all’inguine, il patrizio attese che la donna avesse esaurito ogni energia per rivolgerle pacatamente una domanda.

«Surilla, ti sei domandata come mai ci troviamo reciprocamente così antipatici? Per quale motivo ci diamo tanto sui nervi? Ti sembra normale che ci detestiamo, non riuscendo a essere indifferenti l’uno all’altra?»

Svuotata all’improvviso di ogni aggressività, lei annuì, aggrottando le sopracciglia. «Sì, ci ho pensato, ma temo che la risposta non mi piaccia» sussurrò e gli cercò le labbra con le sue. «Però sappi che ti odio!» mise bene in chiaro.

«Anch’io! Ma pare sia come officiare un rito, quasi una preghiera: così almeno dicono in India» replicò il senatore, e la bizzarra spiegazione di Chandra parve soddisfare appieno la ragazza.

Il giocoliere poteva aspettare un altro po’, si disse Aurelio mentre ripartiva dal momento in cui sulla portantina lei gli aveva sottratto la tunica, non senza controllare prima di soppiatto di non aver nulla addosso che potesse far gola all’infingarda.