Quattordicesimo giorno

SUBURRA

I. Dove si assiste alla fine della banda Gallica

Era stata una lunga notte, quella del repulisti della Suburra: dappertutto si vedevano carretti rovesciati, insegne date alle fiamme, serrande divelte, segni della battaglia con cui incauti adolescenti collerici – Epiroti, Iberici, Galli, Mauritani e tanti altri, tra cui anche non pochi Italici e persino qualche romano – armati di pietre e di coltellucci spuntati, si erano sentiti eroi impavidi pronti a opporsi all’ordine dell’Urbe, senza mai chiedersi perché, se Roma piaceva loro così poco, non se ne andavano altrove, visto che schiavi non erano e nessuno li tratteneva.

Aurelio si era precipitato sul posto al seguito di Dannico e non aveva esitato ad avvalersi del suo sigillo curiale per raccomandare ai pretoriani di non ammazzare nessuno, perché quelli a cui erano di fronte erano semplicemente bambinetti arroganti, non feroci barbari ai confini.

«Eh, dici bene, senatore, ma li senti?» avevano risposto alcuni soldati, fatti segno di ingiurie e cori di scherno. «Quelli si permettono di tutto e la nostra pazienza ha un limite!»

Alla prima gragnuola di pietre da parte dei teppisti, era partita la carica e in breve, senza che i militi avessero nemmeno bisogno di tirar fuori i gladi, le bande erano state sgominate, i ragazzotti picchiati a dovere e trascinati via in catene, mentre il viceprefetto, spaccata un’arca, mostrava trionfante il deposito di pugnali e sbarre di ferro che costituiva l’armamentario della squadra Gallica, a cui i rivoltosi, del tutto impreparati, non erano nemmeno riusciti ad accedere.

«Era ora che si facesse un po’ di pulizia!» esclamavano i popolani, entusiasti.

Dannico vide stupito che tra loro c’erano anche molti Celti, gli stessi a cui la squadra aveva spesso fornito “protezione”: applaudivano i pretoriani, si complimentavano coi vigiles, acclamavano i Romani, accoglievano i soldati come liberatori. Allora abbassò gli occhi: sfrondata dei significati retorici e ridicolmente patriottardi con cui Meticanio Meticone aveva sempre giustificato ogni sopruso e ogni illegalità, la banda gli apparve all’improvviso per quello che era ed era sempre stata: una masnada di vili delinquentelli dediti al furto e al taglieggio. Ma era pur sempre la sua gente.

«Avrei dovuto essere alla loro testa, invece ero qui con te» mormorò Dannico, chiedendosi quanto quella sua nuova e saggia prudenza fosse dovuta al sorriso di Milla, che gli aveva fatto intravedere la possibilità di una vita diversa.

«Perché hai un minimo di buon senso: chi vuole stare a Roma è tenuto a adeguarsi alla legge romana» commentò Aurelio.

«Li ho traditi!» insistette l’altro, scorato.

«Un traditore a dire il vero c’è stato, ma non sei tu: i soldati sono andati dritti al nascondiglio nel quale tenevate le armi, come se avessero le idee molto chiare su dove trovarlo.»

«Non può essere stato Sagitta, anche se non l’ho visto da nessuna parte: il luogo dove erano nascoste lo sapevamo soltanto io, Comago e...»

«Comago si è battuto fino all’ultimo, rimediando una bastonata in testa, un taglio sulla fronte e un braccio rotto» puntualizzò il senatore.

Dannico scolorò incredulo, cominciando a capire: «La rinuncia a capeggiare la squadra, il passaggio delle consegne, la mia promozione, il ritiro a vita privata, quel toccante discorso col cuore in mano... ecco che cosa significavano! Ma se la vedrà con me!».

«Lascia perdere, non è pane per i tuoi denti. Dimmi, piuttosto: hai visto qualcuno nei pressi del tempio di Quirino, poco prima che Pomponia e Carnifex rinvenissero il corpo del piccolo Criso?»

«Alcuni passanti nel vicus Longus, prima dell’incrocio con l’Alta Semita, fra cui un personaggio che ho subito riconosciuto, per averlo notato più volte alle partite di Iullo Batraco: il suo segnapunti, Ascanio.»

«Nessun altro, magari più vicino all’edicola?» chiese il patrizio col cuore in gola.

«Sì, a dire il vero. Il nome non lo conoscevo, me l’ha detto Macario, ma era giovane, con i capelli neri e delle strane scarpe con la punta all’insù. Non saprei come descrivertelo, però per qualche verso mi ricordava te» affermò, mentre Aurelio sentiva il sangue defluirgli dalla testa.

HORTI LAMIANI SULL’ESQUILINO

II. Dove un bravo pompiere ha una brutta sorpresa

Fu uno dei vigiles nocturni della II coorte a ritrovarlo. Ofonio era un siphonarius, ovvero un addetto alla pompa antincendio, molto lieto di non essere stato chiamato a partecipare alla retata della notte precedente, perché la sua specialità era spegnere il fuoco, non dare addosso alle bande di quartiere. Prendeva molto sul serio il suo lavoro, al punto che gli accadeva ormai automaticamente di ispezionare con lo sguardo il terreno circostante alla ricerca di eventuali fiamme libere anche quando si trovava fuori servizio, come in quel momento. Così, attraversando gli Horti Lamiani in direzione della caserma, gli accadde di notare una macchia sospetta sotto un cespuglio, sito ai bordi di una delle terrazzate che Claudio Cesare stava facendo apprestare nei giardini, per unirli agli attigui Horti Maiani in un unico grande complesso destinato a fungere da polmone verde per la città.

La chiazza era giallastra, comunque Ofonio si avvicinò per controllare. Ciò che vide lo meravigliò, ma non gli fece troppa impressione, perché per anni aveva avuto a che fare con cadaveri carbonizzati oppure orrendamente sfigurati – non a caso il motto del corpo era: Ubi dolor, ibi vigiles, “Dov’è il dolore, là ci sono i vigili” – al cui confronto la salma che giaceva riversa sotto l’arbusto pareva quasi in pace. Tuttavia emise una specie di singulto: quel ragazzino, avvolto in una tunica ormai discinta, dato che il cingulum decorato era stato usato per strangolarlo, gli pareva troppo giovane per morire.

TRA LA VELIA E LE CARINAE

III. Dove una donna impara che non sempre l’amore è eterno

Febe osservava dalla strada quella che sarebbe stata la sua nuova casa: una vera domus, non un semplice cenacolo, con un portone imponente, i muri spessi, un paio di tabernae aperte ai lati delle fauces, nessuna finestra sulla strada, ma tutte aperte verso gli spazi privati interni, l’atrio, il peristilio, il cortile sul retro: forse ci sarebbe stato un piccolo orto e di certo schiavi e ancelle a servirla.

Per l’ennesima volta si chiese per quale prodigio i Numi le avessero fatto rincontrare il padre di sua figlia tanti anni dopo la sua scomparsa e per quale miracolo ancora più grande l’uomo che non aveva esitato a lasciarla sola per diciotto anni – sui quali non aveva fatto a Meticanio alcuna domanda, intuendo che sarebbe stata sgradita – adesso la volesse di nuovo con sé, come sua compagna e sposa, come domina della sua casa. E per l’ennesima volta si domandò perché, invece di sentirsi felice, provasse un senso di soffocamento, quasi fosse prigioniera di invisibili catene.

Girò tutto attorno all’edificio, immaginando come doveva presentarsi all’interno – Meticanio non glielo aveva ancora mostrato – prefigurandosi la sua esistenza futura là dentro, al fianco del marito, soddisfatta, riverita, amata. Poco si era parlato della madre e della figlia, che pure era anche figlia sua, liquidate con un breve discorso inteso a rassicurarla che avrebbe pensato lui a ogni cosa, perché lui sapeva sempre che cosa fare, per il bene di tutti.

Fu nello strettissimo vicolo dietro la casa che sentì la sua voce: torva, intimidatoria, sinistra. Parlava con una donna, la stava chiaramente minacciando.

«Mi hai tradita, hai rubato i miei segreti! Ora mi dirai a chi li hai consegnati!» ringhiò, e dal cortile provennero il colpo secco di uno schiaffo e un flebile lamento.

«Dove tu non potrai mai trovarli» disse di rimando una voce femminile. «Sei finito, Meticanio, non dovevi gettarmi via come un vecchio straccio!»

«Hai tentato di farli avere al senatore, eh? Ma non ci sei riuscita: so che non l’hai più incontrato, da quando stupidamente gli hai dato appuntamento al tempio di Tellus, credendo che nessuno ti vedesse. Quindi adesso non mi servi più, Viridia, e sai che cosa significa, vero?»

Febe non attese di ascoltare che cosa sarebbe accaduto. Corse via piangendo a dirotto, chiedendosi sconvolta quale sarebbe stato il destino della sua famiglia, che per correre dietro a una vecchia illusione aveva consegnato a un mostro. Non poteva tenersi tutto dentro, doveva parlarne con qualcuno. Ma c’era soltanto una persona alla quale sarebbe stato possibile rivolgersi ora, sebbene fin da giovanissima l’avesse tenuta sempre fuori dalle sue confidenze, non ritenendola in grado di capirle. All’improvviso la vide con altri occhi: non più la madre calcolatrice e impicciona che, incurante degli slanci del suo cuore, avrebbe voluto vederla sistemata come concubina o mantenuta, bensì la schiava che, non appena manomessa già alle soglie dell’infertilità, aveva trovato l’enorme coraggio di partorire una figlia, di allevarla malgrado l’estrema miseria, di farle trovare cibo ogni giorno a costo di massacrarsi in lavori sfiancanti o di vendersi per strada e poi di ricominciare tutto da capo quando questa figlia, a soli quindici anni, le aveva scodellato una nipote a cui ugualmente provvedere.

Sua madre avrebbe saputo come provvedere. Doveva correre da lei.