DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
I. Dove si scoprono non uno, bensì due nuovi cadaveri
«Strangolato anche Decimo. Con il cingulum della sua stesse veste, che presentava sulla stoffa un motivo a forma di gammadion. Chandra può dire ciò che vuole, domine, ma secondo me quel simbolo con la croce uncinata porta male» sospirò Castore, abbeverandosi abbondantemente dall’anfora di Falerno del padrone.
Il patrizio tacque e aggiunse l’ultima annotazione alla sua mappa.
«Vabbé, il colle Oppio pare il punto centrale, come avevi già illazionato: ma se i giocolieri sono due, quel disegno ci sarà di ben poco aiuto» affermò il segretario, e siccome Aurelio continuava a star zitto proseguì imperterrito, ben consapevole che tra i suoi compiti c’era anche quello di stimolare la conversazione, magari conducendola da solo se il padrone non aveva voglia di parlare. «Aggiungiamo alcune tracce importanti: Decimo Surillo portava al mignolo l’anello di oro e onice che Ascanio sostiene gli sia stato rubato, ma tuttavia non faceva parte della refurtiva del furtarello compiuto dalla banda Gallica a casa di Iullo Batraco.»
«E tu come lo sai, Castore?» si incuriosì il patrizio.
«Ero io il ricettatore, domine» tossicchiò il segretario a occhi bassi, mentre il padrone, per nulla sorpreso, gli faceva segno di continuare.
«Poco lontano, in mezzo ai cespugli degli Horti, sono stati rinvenuti un vecchio sacco di iuta, alcuni frammenti quasi decomposti di origine umana o animale, una palla di stoffa con uno scarabocchio, un fischietto in ottime condizioni, un elegante pettine di osso e un velo di bisso grigio. Mi sono premurato di raccogliere tutto, era l’unica cosa che potessi fare, visto che mi è stato impedito di avvicinarmi al cadavere, che il fratello era andato a riconoscere: togliti dunque dalla testa di far intervenire Ipparco, la famiglia non lo consentirà. Inoltre, ed è forse l’indizio più importante, tra le mani della vittima è stata trovata una statuetta di legno dipinto, a forma di gallo. Avendo gallus due significati, stavolta l’indizio è inequivocabile: può indicare il volatile, ma anche gli abitanti del vasto paese conquistato da Cesare. E noi di Galli ne abbiamo a iosa, addirittura un’intera squadra: poiché Decimo Surillo è scomparso prima della retata, forse qualche membro della banda avrebbe avuto il tempo di ucciderlo in attesa di affrontare le forze dell’ordine.»
Finalmente Aurelio aprì bocca, con grande sollievo del segretario, che ormai stava esaurendo gli argomenti.
«Non si tratta di un crimine isolato, Castore. Ce li vedi Nonno, Comago, Geronimo o Cintullo sostituirsi all’inventore del gioco per sterminare nascostamente due adolescenti senza trarne alcun corrispettivo? Sempre poi che il gallo di legno non sia un falso indizio, messo lì al preciso scopo di depistarci.»
«Eh, già, perché adesso, sapendo che è stato Rufino a concepire il gioco, dobbiamo scartare tutte le prime mosse e concentrarci soltanto sulle ultime tre» esclamò Castore. «Non credevo alle mie orecchie quando mi hai detto che quel goffo bambinone troppo cresciuto era riuscito a mettere in piedi la caccia e a coinvolgervi mezza Roma!»
«L’acume e l’ingegnosità non gli mancano, e quella trovata gli permetteva finalmente di essere lui a dirigere la commedia, una soddisfazione non da poco per chi si è visto sempre tenuto ai margini.»
«Di sicuro però non si aspettava il clamoroso successo della sua iniziativa: il rinvenimento della mano deve averlo messo sottosopra.»
«Sì, al punto da spingerlo a tentare di aiutarci, indicandoci la caserma dei gladiatori con quello che era il ragionamento sofisticato di un vero creatore e solutore di enigmi. L’assassino purtroppo non condivideva certe sottigliezze e si era inserito nella gara per giocare un altro gioco, molto più rozzo e crudele: infatti ha scelto una semplice edicola, che nulla aveva di misterioso, salvo il fatto che nessuno sarebbe stato in grado di individuarla. Adesso dunque è venuto il momento di chiederci se l’assassino uccida a caso o dietro ai delitti non ci sia qualche forma di profitto che abbiamo trascurato di prendere in considerazione» spiegò il patrizio.
«Siamo da capo, domine! La morte di Decimo giova essenzialmente al fratellastro: resta l’unico maschio a cui il nonno ora possa commettere il patrimonio familiare, che probabilmente per testamento aveva destinato al nipote minore, il suo preferito.»
E il senatore Crispino, che se Decimo Surillo fosse sopravvissuto sarebbe stato nominato tutore in quanto zio di un minorenne, anziché guadagnare qualcosa da quella morte, pareva addirittura rimetterci, rifletté Aurelio, pensando al suo subdolo collega. A proposito... quanto avrebbe ancora tardato Viridia a portargli le prove dei maneggi di Macario e Meticanio? Erano trascorsi ormai quattro giorni dal loro fuggevole incontro e ancora la ragazza non si era fatta viva.
«Per ciò che riguarda Criso, chi mai poteva avere interesse a uccidere un monello di strada?» considerò il segretario.
«Non possiamo trascurare nemmeno questa pista, Castore. Intendo recarmi alla fullonica di Romizio nel clivus Suburanus, dove aveva lavorato per un breve lasso di tempo assieme a quell’Oreste a cui è stata tagliata la mano. Forse il lavandaio sa qualcosa senza nemmeno rendersene conto, e se riuscissi a rivolgergli le domande giuste...»
«Esiste un’ulteriore ipotesi, domine. Ambedue i giovinetti frequentavano attivamente la casa di Iullo Batraco, sulla quale circolano molti mormorii, come spesso accade negli ambienti agonistici. E nulla ci garantisce che non vi accedesse anche Oreste.»
«Be’, il campione si è mostrato interessato vivamente a due donne, Viridia e Surilla, quindi per la pista passionale non ci rimane che Ascanio, che peraltro è il proprietario dell’anello trovato al dito di Decimo.»
«Una predisposizione non esclude l’altra: come si suol dire, il fatto di apprezzare le lumache non impedisce di gustare anche le ostriche. Quindi accetta un consiglio, domine. Domani il campione giocherà una partita difficile, sulla quale fioccano da giorni fior di scommesse, e tu dovresti riuscire a interrogarlo subito dopo: in caso di vittoria si mostrerebbe certo molto disponibile, in caso di sconfitta sarebbe abbastanza prostrato da consentirti di smascherare facilmente le sue eventuali menzogne» fece Castore prima di scomparire verso la cucina, senza dubbio alla ricerca di leccornie per i suoi struzzi.
Aurelio dette un’ultima occhiata al disegno: d’accordo, provarci era stato legittimo, ma alla fine era costretto a concordare con il segretario sul fatto che non serviva a niente.
Restavano le tracce materiali, forse irrilevanti, forse decisive, ma di certo in numero eccessivo. La difficoltà più grossa, nel risolvere un problema, non stava infatti tanto nell’usare i dati a disposizione, quanto nell’eliminare quelli ridondanti. Fino a quel momento al centro dell’indagine c’erano state essenzialmente le parole, per via dell’impronta impressa agli inizi al gioco dal suo creatore. Bisognava dunque ripartire non dai vocaboli, e nemmeno dalle fantasiose ricostruzioni sul carattere dell’assassino, ma dai semplici oggetti, tangibili e sicuri, quanto le parole potevano rivelarsi ambigue e sfuggenti.
Avrebbe cominciato dai gioielli, giacché in quella vicenda ne comparivano molti, rifletté il patrizio stilandone l’elenco sulla tavoletta cerata:
I. L’anello con la quadriga al dito della mano mozzata di Oreste, di provenienza ignota.
II. La fascetta d’argento scomparsa dal dito medio di Oreste e riapparsa nell’anulare di Criso, segno di un nesso tra le due vittime.
III. La placca d’oro con la dragonessa Campe, dalla testa di donna e la coda di scorfano, che Macario asseriva rubata da Timandro e scoperta invece tra le vesti di Ambiorige, probabilmente incaricato di nasconderla sul corpo di Timandro dopo averlo ucciso.
IIII. Il pendente a forma di crux tetragammata esibito al collo da Milla, giuntole in dono da Dannico, il quale a sua volta lo aveva rubato a Iullo Batraco.
V. L’anello d’oro e onice da mignolo rubato ad Ascanio, riapparso sul cadavere di Decimo Surillo.
Subito dopo passò agli indumenti:
I. La tunica rubata da Criso alla fullonica, che per via della misura abbondante era da ritenersi la stessa da lui indossata al momento della morte e sulla quale era stato vergato il quadrato magico sul quale spiccava il simbolo che Chandra nella sua lingua chiamava swastika.
II. La veste indossata da Surilla nella sua imprudente esibizione all’Argiletum, caratterizzata dal decoro e dall’alto cinto che la tratteneva, su cui era ricamato lo stesso motivo.
III. La tunica indossata al momento della morte da Decimo Surillo, della medesima stoffa e con il medesimo simbolo, riportato anche sulla cintura con cui era stato ucciso.
IIII. Un abito e una cintura in più, identici agli altri due, appartenenti a Rufino, che giacevano certamente dimenticati in qualche arca della domus dei Suri.
V. Un velo di leggerissimo bisso grigio, forato per tutta la lunghezza da quelli che parevano buchi, troppo grossi per essere di aghi.
Inoltre un gallo di legno, una tela di sacco, un pettine fermacapelli di ottima fattura, un fischietto e alcuni resti organici di dubbia provenienza.
Era ancora intento a redigere i suoi appunti, quando Castore si fiondò dentro con un’altra drammatica notizia: «La donna della squadra Gallica non potrà più consegnarti alcuna prova: è stata trovata nel lucus di fronte al tempio di Tellus, dove ti aveva dato appuntamento giorni fa. Strangolata esattamente come i due ragazzini, ma stavolta a mani nude».
«Non quadra: Viridia era alta e forte e il giocoliere finora ha ammazzato soltanto bambinetti inermi!» esclamò il patrizio di getto.
«Quella poveretta sarebbe di certo felice di sapere che non rientra nel tuo schema, padrone, però è morta ugualmente» disse sarcastico il segretario. «E nella parte destra del lucus si apre una taverna malfamata nota come “La popina di Gallo”, dal nome dell’oste che la gestiva fino a un decennio fa. Perché gallus ha un terzo significato, di cui non abbiamo tenuto conto: oltre a denotare il volatile e l’abitante della Gallia, è anche un cognomen. Come Gaio Cornelio Gallo il poeta, come Lucio Anicio Gallo il vincitore degli Illiri... Ehi, ma mi stai ascoltando?»
«No. Vieni con me. C’è qualcosa che devo fare immediatamente» rispose Aurelio con voce quasi spenta.
VECCHIO CIMITERO SULL’ESQUILINO
II. Dove viene mantenuta una promessa
Il senatore giunse presto in un angolo sperduto del vecchio cimitero dei poveri, ormai quasi totalmente devastato, giacché i potenti di Roma se ne disputavano a colpi di centinaia di migliaia di sesterzi i terreni incolti, sui quali avevano cominciato a sorgere grandi residenze circondate da orti e giardini.
Qualche tomba però c’era ancora, colombari collettivi per le ceneri soprattutto, e fosse comuni, la cui ubicazione era facilmente rilevabile dalla vegetazione più alta e prospera, giacché i resti umani sono un ottimo concime. Ed ecco i due alberi: il funebre tasso e il pino storto, le radici aggrovigliate a formare un viluppo quasi inestricabile. Il bossolo era stato sepolto anni prima, quindi difficilmente il punto in cui era opportuno scavare sarebbe stato ancora riconoscibile, si disse Aurelio apprestandosi al duro compito.
«Perché non incarichi uno schiavo, domine?» chiese Castore quando vide il padrone inginocchiarsi per smuovere un po’ di terra compatta con una paletta appuntita.
«Lei ha detto che avrei dovuto farlo di persona. E io le ho dato la mia parola» rispose Aurelio cominciando a smuovere qua e là, nella speranza di trovare prima o poi un suolo più morbido e smosso: invano, perché ormai le barbe fitte delle graminacee, delle malve e delle lattughe selvatiche avevano riempito qualunque vecchia buca, colmandola fino all’orlo.
Uomo bizzarro il senatore, si disse Castore alzando le spalle. Aveva incassato un duro colpo nell’apprendere che la strana donna della banda Gallica era stata uccisa prima di aver avuto modo di consegnargli un qualunque documento: entro due giorni si sarebbe discusso in Senato della riscossione delle tasse siriane e lui non aveva nulla in mano per opporsi agli intrallazzi di Crispino, che intendeva favorire Macario. Tuttavia, proprio nel bel mezzo di quel disastro, invece di affannarsi a cercare altre possibili prove, era corso subito al cimitero. Per rispettare un giuramento, aveva detto, come se tener fede alla parola data a una schiava fosse per lui prioritario rispetto all’impedire un appalto fraudolento, ritrovare il giovane scomparso che gli assomigliava tanto e smascherare il giocoliere assassino: eccolo dunque sudare e sbuffare come uno sterratore qualunque...
«Niente di nuovo?» chiese per partecipare in spirito all’improba fatica.
Aurelio aveva già bucherellato inutilmente lo spazio esiguo tra una grossa radice e l’altra quando la punta della piccola pala toccò sotto terra un ostacolo dalla consistenza più morbida.
«Qui, qui!» gridò il senatore moltiplicando le forze e presto riuscì a far riemergere l’oggetto sepolto.
Non si trattava di un bossolo metallico, però, bensì di un borsello di cuoio. Aurelio sentì i battiti del cuore accelerare quando lo aprì.
Dentro c’erano alcuni fogli di papiro.
«I contratti! L’impegno di Macario a rifondere a Meticanio Meticone il doppio del denaro investito per fargli aver l’appalto e una syngrapha col sigillo di Crispino Balbo, che garantisce di far passare la proposta in cambio del cospicuo prestito per conservare il seggio senatoriale.»
«Magnifico, domine: in Curia ci sarà da divertirsi!»
«Non cantar vittoria troppo presto, non è detto che sia sufficiente. In ogni caso dovrò giustificare come sono venuto in possesso dei contratti e non la vedo facile.»
«Dannico potrebbe testimoniare» osservò il segretario.
«Su che cosa? Era all’oscuro di tutto! E comunque non è un cittadino romano.»
«Sagitta, allora!»
«Nessuno sa dove sia finito.»
«Adesso in ogni caso hai qualcosa con cui tentare. Bene, penso che ora si possa far ritorno» fece Castore sbrigativo.
«Non ancora. Se Viridia ha sepolto qui quei documenti è perché era convinta che io avrei mantenuto la promessa. Si è fidata di me: se fossi stato di parola, li avrei trovati. E io non la deluderò. Hai portato la legna di faggio, vero?»
«Sì, domine. Ma mi suona strano vedere un epicureo come te, tanto fiducioso nella ragione, impegnato ad avallare vecchi riti superstiziosi quali lamine di bronzo con sopra incise fatture, dediche alle divinità infere, pupazzi di cera, bamboline inserite nei cilindri da affondare nell’acqua di sorgente o roba simile. Manca soltanto che cominci a recitare “Bescu, berebescu, arurara, bazagra”!» sbottò Castore salmodiando le parole di una nota maledizione mauritana. «Siamo seri: che si possa imprigionare lo spirito di qualcuno, prima o dopo la morte, attribuendone le fattezze a una effigie impastata nella farina e arricchita con qualche capello, è roba da citrulli. E altrettanto che si possa liberare la vittima ardendone il simulacro nelle fiamme di un certo legno. Sono i tipici metodi con cui, attraverso pretese magie, si tengono a bada ragazze ingenue e ignoranti, evitando che si ribellino anziché rubare o prostituirsi. Non mi dirai che tu ci credi!»
«Io no di certo. Ma ci credeva Viridia, ed è questo che conta: la sua volontà sarà rispettata» dichiarò il senatore e prese a scavare più a fondo, esattamente nello stesso punto in cui aveva trovato il borsello.
Molte sono le qualità richieste ai padri coscritti, tuttavia fare buche in mezzo alle vecchie radici degli alberi non è parte delle loro abitudini, né le loro mani vi sono avvezze. Fu così che quando, dopo più di un’ora, la pala urtò finalmente il metallo, i palmi del patrizio erano sanguinanti e gonfi di vesciche scarlatte.
«Ecco l’oggetto del sortilegio, accendi il fuoco, Castore» ordinò e forzò il barattolo di piombo. All’interno c’era un secondo cilindro, e dentro quest’ultimo un terzo ancora.
Con le dita ormai martoriate il patrizio ne estrasse il pupazzetto di farina dipinta di color ocra collocato a testa in giù e sentì una stretta al cuore nel vedere i capelli di lana ricciuta e i due pezzi di vetro azzurro malamente incastonati al posto degli occhi che intendevano imitare i tratti della ragazza defunta.
Infine, con un gesto lento e solenne gettò tra le fiamme il simulacro e attese finché non si fu totalmente consumato.
«Riposa in pace, Viridia: sei libera adesso» disse guardando un punto indistinto tra il tasso e il pino storto, come se lei potesse davvero sentirlo.
DOMUS DEGLI AURELI SUL VIMINALE
III. Dove si assaggiano ghiottonerie parlando di delitti
Le mani ben cosparse di un portentoso unguento fornitogli da Ipparco e avvolte nelle bende, Publio Aurelio attendeva a cena l’amica Pomponia, che si era preannunciata con un messaggio.
«Che ci servirai di buono, Ortensio?» chiese.
«Una tradizionale mensa leggera di sole sette portate, domine, oltre ovviamente alla gustatio, alle insalate, ai dolci, alla frutta e al pane del Piceno: crema di fave e porro al coriandolo e semi di finocchio, ghiri al miele con polvere di papavero, fagottini di pasta ripieni di carne di cinghiale, tentacoli di polipo al silfio e garum, polpette di manzo ai pinoli cotte nel vino, capretto alle prugne di Damasco e dentice arrosto» annunciò il cuoco.
«Ottimo, però prestami una delle forchette con cui rimesti le tue preparazioni nel tegame: non posso certo portarmi i pezzi di carne alla bocca con le dita in queste condizioni!» rispose il patrizio mentre la signora faceva il suo ingresso nel triclinio, splendidamente avvolta in una sobria veste grigioazzurra ricamata in argento, oro e fili colorati con motivi di vari volatili, tra cui spiccavano cinque o sei ibis sacri, due pappagalli africani, parecchi fenicotteri, uno stormo di gru in volo, tre coppie di cicogne nidificanti, un’upupa e un gran numero di bianche garzette.
«Che idea geniale quella di mangiare senza toccare il cibo, potrei lanciare la moda!» esclamò, mentre Ortensio porgeva la forchetta al patrizio con aria preoccupata.
«Padrone, non so come dirtelo, ma il capretto è scomparso! Era già pronto nella sua casseruola, ma quando ho alzato il coperchio per rigirare le prugne, i tocchetti di carne non c’erano più!»
«Dalla cucina è passato per caso il segretario?» chiese Aurelio sospettoso.
«In effetti sì» ammise Ortensio abbassando gli occhi, e il senatore sperò che agli struzzi di Castore il capretto andasse di traverso.
«Non fa niente, ho fatto uno spuntino due ore fa, giusto un piccolo vassoio di dolci allo zenzero per non arrivare con lo stomaco troppo vuoto» lo rassicurò Pomponia sdraiandosi disinvoltamente sul lettuccio tricliniare di fronte all’amico: gli omicidi avevano di certo scombussolato la brava matrona, ma non al punto di farle perdere il robusto appetito o di intaccarne la smodata curiosità. «Altri due cadaveri: l’intreccio si infittisce!» disse infatti, con un tono soddisfatto in cui i maligni avrebbero potuto fraintendere quasi un larvato compiacimento.
Publio Aurelio scosse la testa: «Non credo che la donna c’entri con la caccia al tesoro: il modo di operare dell’assassino non è lo stesso».
«Ma è stata strangolata anche lei» obiettò l’amica.
«A mani nude, e per farlo occorre parecchia forza nelle braccia, mentre con l’ausilio di un laccio, un cappio o una cintura è molto più facile» spiegò il patrizio, rivedendosi davanti Meticanio, le gambe corte ma i bicipiti fortemente muscolosi.
Non avendo mai strangolato nessuno – sebbene più volte avesse avuto la tentazione di ricorrere a una simile soluzione per spegnere il sorrisetto supponente sulle labbra della rivale Domitilla – la signora prese per buona l’affermazione dell’amico, ma non rinunciò a ribattere: «Tuttavia la popina di Gallo risponde all’indizio, senza contare che lei era la donna della squadra Gallica!».
«L’esistenza di una taverna con un nome simile nei pressi del lucus potrebbe essere meramente accidentale: la collocazione del corpo nel boschetto di Tellus sembra più prefigurare una vendetta. Il caso esiste, esistono le coincidenze. La mente umana ricorda e sottolinea soltanto quelle che la colpiscono, trascurando tutte le altre. È così che funzionano le premonizioni: ci si rammenta soltanto di quelle che sembrano realizzarsi, dimenticandosi di tutte le altre. Ma perché volevi vedermi, hai forse qualche novità?»
«Sì, e grosse: la nonna è tornata!»
«Quale nonna?» domandò Aurelio.
«Ma sì, la vecchia, quella che aveva rivelato a Carnifex che il ciondolo con la crux tetragammata della nipote risaliva a Dannico. Stavolta sono venute in due, entrambe terrorizzate: la figlia non lo vuole più, ha scoperto che è un uomo rude e violento, ma c’è di mezzo anche la povera Milla e non sanno come sfuggirgli: lui è un uomo pericoloso!»
«Lui chi?» chiese il senatore, sempre più confuso.
«Meticanio Meticone, naturalmente, e chi altri sennò? Perché non mi ascolti mai quando parlo?»
Senza replicare, il patrizio fece segno al pocillatore che riempisse il nappo della matrona con un vino caldo e speziato, così a poco a poco, complici i ghiri al miele e i polipetti al sugo di garum, riuscì a farsi raccontare per intero tutta la storia, comprendendo infine che quelle udite da Febe dovevano essere le ultime parole di Viridia, prima di venire uccisa. E c’erano ben pochi dubbi su chi avesse tolto di mezzo una schiava che non soltanto aveva tradito, ma restava l’ultima custode di certi segreti. A meno che... Viridia era appartenuta a Iullo Batraco: ammesso e non concesso che Ascanio avesse detto il vero, era plausibile pensare che una matrona di alto lignaggio concepisse una gelosia tanto divorante nei confronti di un’umile serva da sfociare nel delitto? No, non lo era, nemmeno se tale matrona fosse stata una donna autoritaria e piena di sé quale Surilla, incapace di digerire un qualunque affronto.
«Per il momento ho dato io rifugio a quelle poverette: Carnifex fa buona guardia, ma se magari mi prestassi anche Sansone...» continuava intanto la matrona, e al patrizio toccò confessare che ignorava dove si trovasse la sua guardia del corpo.
Poco dopo riferiva alla matrona, sempre a caccia di nuovi pettegolezzi piccanti, la maligna insinuazione del segnapunti su Iullo Batraco e Surilla.
«Ma sarà poi vero? Possibile che una tresca simile mi sia sfuggita? Il campione di trigono oltretutto è un bell’uomo, anche se pare abbia ormai scialacquato tutti i guadagni incassati con le scommesse... Però quella gatta morta! Ho sempre sospettato che si permettesse di tutto ma fosse anche abbastanza astuta da non farsi mai scoprire, al punto che, se non mi stesse così antipatica, mi diventerebbe quasi simpatica» affermò la brava signora seguendo la sua solita logica ferrea. «Figurati che cosa combinerà ora che vedrà la sua rendita salire alle stelle con la morte del fratellastro!»
«Come sarebbe a dire?» si stupì non poco l’amico.
«Il vecchio Surio, che è tutto salvo un campione di prodigalità, trovava ingiusto che una vedova rifiutasse di rimettersi sul mercato del matrimonio come sarebbe stato suo dovere, quindi la teneva a stecchetto; tuttavia si era premurato di assegnarle un appannaggio cospicuo nel caso uno o entrambi i nipoti maschi non fossero sopravvissuti. Certo, se fosse circolata la voce della tresca con Batraco, addio lascito! Ma adesso ormai, con un paterfamilias in fin di vita, Surilla è in una botte di ferro: avrà agio di godersi liberamente un bel po’ di sesterzi in gladiatori o servi aitanti... D’altronde quale uomo decente potrebbe mai avvicinarla di sua spontanea volontà, anziché costretto con la forza o tentato dal denaro?» considerò Pomponia, mentre con una mano aggrediva le polpette ai pinoli e con l’altra dava l’assalto al dentice.
Punto sul vivo, Aurelio si schiarì la gola e tossicchiò un paio di volte: per un attimo fu tentato di chiederle del marito anziano e violento, ma si trattenne in tempo, per non trasformarsi nel centro della morbosa curiosità della matrona, fin troppo desiderosa di cacciare il naso nelle sue avventure galanti.
Gli bastava sapere che Surilla aveva un ottimo movente per l’omicidio del fratello: molte delle tessere del mosaico, ribaltate all’improvviso, stavano mostrando facce ignote e imprevedibili, meditò turbato. Surilla in attesa di una eredità resa possibile solo dalla morte di Decimo, Surilla amante di Batraco, rifletté, chiedendosi se i due non fossero uniti da altre complicità, oltre a quelle erotiche. Ma siccome questa ipotesi lo disturbava assai, preferì per il momento accantonarla.